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Pre-postumi: intervista a Matteo Galiazzo

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a cura di Francesco Forlani
per il libro di Matteo vd qui.

effeffe Come ti dicevo al telefono, è da qualche anno che vorrei curare un’antologia degli scrittori pre-postumi. Il fatto è che ogni volta che sono sul punto di partire con l’invito à paraître alla fortunatissima compagine che ho in mente, lascio stare. Perché sarebbe come decidere di curare un libro sull’Ozio, un’apologia dell’ être oisif. Troppa fatica, troppo negozio per l’ozio e così non se ne fa nulla. Fatta questa premessa sono da sempre affascinato dalla condizione fisica e psicologica degli scrittori pre-postumi. Nella mia fenomenologia ne ho individuati tre tipi. Il pre-postumo malgrè soi, ovvero colui che da vivo e con grande vitalità partecipa alla kermesse letteraria senza però superare il muro del “Sono”, senza accedere al lettore con una grande Elle insomma quello che i francesi chiamano Grand Public. Questo accade indipendentemente dal fatto che abbia avuto accesso o meno a buoni dispositivi editoriali – una buona, grande casa editrice- e nonostante la totale adesione della critica. Del secondo tipo invece è l’autore, autrice che al grande pubblico ci è arrivato, con le proprie o altrui forze ma la cui opera non appare degna di considerazione da parte della critica critica. Tu invece sei il tipo pre-postumo più pericoloso di tutti. Sei tra i rarissimi autori che io conosca, che farebbe la felicità degli uni, dei lettori, e degli altri, dei critici, e hai deciso di non pubblicare più nulla. Saranno sicuramente cazzi tuoi sul perché, però magari una pista ce la puoi indicare.

emmegi Dunque, ho imparato che è buona norma cominciare sempre le risposte con un mah… così si riproporziona tutto.
Mah. Qualche giorno fa mi è tornato in mente un racconto che avevo scritto e di cui mi ero totalmente scordato, si initolava Seduta spiritica e c’era Rimbaud che raccontava robe di sè. Il concetto centrale era una cosa tipo ho vissuto l’infanzia circondato dai borghesi e per disprezzo verso di loro ho scritto poesie, poi ho vissuto la giovinezza circondato dai poeti e per disprezzo verso di loro ho venduto armi.
Questo ovviamente non c’entra niente con me. Quando ho smesso di scrivere non è stata una decisione, è stata più una constatazione. Tò, non sto più scrivendo. Chissenefrega. Come una di quelle abitudini che durano una fase della tua vita e che poi non riesci più a mantenere. Come quando invecchiando ti cresce la pancia. I motivi ci sono stati, più di uno. Fondamentalmente ho trovato un lavoro che mi piaceva molto, era una cosa nuova, e mi prendeva tempo. Quando tornavo a casa la sera non avevo voglia di mettermi a fare una cosa che ormai mi interessava meno di quello che facevo durante il giorno per vivere. Siccome sono sempre stato un edonista la mia natura edonista ha scelto il lavoro.
Per essere precisi non ho nemmeno deciso di non pubblicare più, ho solo smesso di sforzarmi di continuare a scrivere. Pubblicare lo farei ancora: non ho niente contro il pubblicare, perché è una cosa piacevole: la gente ti fa dei complimenti, oppure comunque parla di quello che hai scritto, ed è sempre una cosa gratificante (non scordiamoci che io sono un edonista). Tanto è vero che è uscito Sinapsi. Matteo B Bianchi mi ha chiamato e mi ha detto: ci stai per una cosa? Io: non dovrò mica scrivere qualcosa, vero? Lui: No. Io: Allora ok.

Sulla pericolosità della mia condizione prepostuma: quello che è certo è che non ho eroicamente rinunciato a una fonte di reddito che mi avrebbe consentito di scrivere e basta per il resto dei miei giorni. Fosse stato così ci sarebbe forse di che vantarsi.
Ma io ho solo rinunciato coraggiosamente a non avere i soldi per l’affitto, a non avere tempo libero,
ho rinunciato a sbattermi per collaborare gratis con questo e con quello, ho evitato di costruire una rete di relazioni utili (trad. leccare il culo) che mi consentisse di poter collaborare sempre gratis con quello e quell’altro ancora, ho audacemente svicolato l’invito a collaborare gratis con varie riviste e associazioni, ho piantato di leggere solo narrativa contemporanea per sapere che succedeva nel giro e avere qualcosa di cui parlare per entrare in contatto con quegli altri che mi avrebbero permesso di scrivere sempre gratis qua e là, e poi l’ho smessa di andare a Milano, di andare a Torino, di essere socievole con quelli mi avrebbero potuto procurare altre collaborazioni precarie per fare un lavoro che siccome non è un lavoro è arbitrariamente soggetto all’andamento delle relazioni umane. Le relazioni umane per me sono più faticose che lavorare. E io, mi spiace, sono un edonista. E’ come il kite surf, impari, fai fatica, è una figata, ti sollevi da terra, voli per duecento metri. Ma se l’intenzione è quella di arrivare in Sardegna è più realistico prendere un traghetto.

effeffe Nella tua scrittura accade però qualcosa di simile all’invenzione di un concetto in filosofia, sinapsi come critica, cogito, rizoma, oltreuomo. Ho come l’impressione che tutta la tua scrittura finora sia permeata da questa ricerca della verità, sia che passi per delle ossessioni, dei tic, dei balbettamenti sia attraverso una vera e propria visione del mondo. E ti avventuri nel mondo delle relazioni con la stessa attenzione al minimo, di un un entomologo, ora una formichina, ora un coleottero rarissimo, uno scarafone. Come se non te ne fregasse un cazzo della “normalizzazione” dello sguardo, della “mise à feu”. Anzi, direi che la tua scrittura (e la lingua che l’anima) rifugge lo standard, lo stravolge, lo fa balbettare, ed è per questo che ti considero tra i migliori scrittori che ci siano in giro. Per la tua matrice edonista lasciami però ripeterti quello che mi disse Louis Sclavis, grande jazzista francese, qualche tempo fa: ” Non capisco chi deve farsi pregare per salire sul palco per suonare. La gioia, il piacere la felicità che ti da il suonare dovrebbe bastarti a farti andare, ad accettare. “Ecco a me sembra che la scrittura sia per te come la musica per Louis, insomma qualcosa di giubilatorio.

emmegi Um, mah, nel mio manuale di statistica dell’università c’era scritto: lo stile non è altro che uno scarto dalla media, qualcosa del genere. Secondo me uno scrive in un certo modo perché è capace a scrivere così e non come invece vorrebbe essere capace. D’altra parte se tutti sapessimo scrivere come vorremmo scrivere mi sa che tutta la narrativa sarebbe illeggibile.
Io non credo di essere mai stato granché come scrittore. Sono partito da una fase in cui ero decisamente incapace però mi venivano delle idee divertenti. Poi ho raggiunto una fase in cui avevo più o meno capito come scrivere alcune cose a un livello accettabile, però non avevo più idee.
Nel modo in cui scrivevo c’era di sicuro la cosa che ho fatto sempre studi che non avevano niente a che fare con la letteratura: ragioneria e poi economia e commercio. E che ho sempre evitato di studiare letteratura, anche da autodidatta. Non era una cosa che mi interessasse molto, cioè, non mi interessava imparare un ordine, o uno schema, o una mappa che guidasse quello che dovevo leggere.
Economia e commercio è una facoltà molto varia: si studiano matematica, economia, diritto, psicologia, sociologia, marketing, storia. Si imparano un sacco di gerghi tecnici. Un sacco di punti di vista e un sacco di sistemi di pensiero, un sacco di idee. A ragioneria ad esempio ai miei tempi si imparava dattilografia, e allora quando poi ti ritrovavi La ragazza Carla la leggevi in tutt’altro modo.
L’entomologo, certo, una volta ho scritto un coso in cui un bambino viene allevato dalle formiche, e loro lo usano come una specie di trattore immenso per spostare la roba pesante. E lui pensa di essere una formica. Poi è uscita la gabbianella e il gatto e non sembrava più così originale.
Quando ho cominciato a scrivere tra i modelli avevo soprattuto Vonnegut, e quindi l’idea centrale era sempre una cosa, come dire, spiegare gli umani agli alieni, o viceversa. Il relativismo cosmico, insomma. Lo spostamento dell’umano dal centro della scena (noi provinciali dell’orsa minore). Una volta ho scritto un racconto con un titolo orrendo: Disantropocentrismo. Non ricordo di che parlava (forse Marco Drago se lo ricorda), ma il concetto era quello non empatizzare mai con il genere umano, soprattutto con le sovrastrutture di cui l’umanità andava più orgogliosa: le patrie, le religioni, le squadre di calcio, le letterature. Molte cose che ho scritto all’inizio erano così: ignora gli umani. Credo che la cosa sia stata potenziata notevolmente anche dalla mia mancanza di senso ideologico, dall’alienazione a qualunque sistema di impegno, dall’orticaria per robe tipo il messaggio, o la morale della favola.

Il piacere della scrittura, ovvio che è un piacere, siamo tutti qua perché ci piace scrivere, e nessuno di solito ci deve chiedere di scrivere per farci scrivere. Ho scritto per anni, un sacco di roba. Ho cominciato a scrivere senza nemmeno pensare di poter essere pubblicato, mi piaceva scrivere e far leggere le cose così, porta a porta, consegnandole a mano. Voglio dire, lo so che è bello, io sono un edonista.
Poi mi hanno pubblicato pressoché subito e quindi ho avuto anche la fortuna di non dover maturare nessuna sindrome paranoica da incomprensione. Anzi, a quanto pare sono stato capito anche al di là di quanto non ci avessi capito io.
Però non ho mai pensato che la scrittura sarebbe bastata a rendere la mia vita sufficiente, tutto lì. La vita è un’altra cosa, sta su un piano diverso, per me la vita comincia a essere sufficiente quando riesci a pagare l’affitto di un bilocale, quando vai a vivere con la tua ragazza, quando si va ad amsterdam.
Forse il problema è stato questo: che non sono mai riuscito ad restringere il tempo della scrittura nel tempo che mi rimaneva. E’ un po’ come quando devi pisciare, non è che puoi dire vabè, piscio per dieci secondi e il resto lo faccio la prossima volta. Quando inizi a pisciare è doloroso smettere. Insomma, non sono uno che ha dieci minuti liberi e si mette a scrivere. Se avessi dieci minuti liberi e pensassi di usarli per scrivere qualcosa , ecco, dopo dieci minuti sarei lì davanti al monitor senza aver scritto ancora niente, in compenso per tutto il resto della giornata continuerei a pensare a cosa potrei scrivere e a come dovrei scriverlo, facendo tutte le prove mentali con i pupazzetti mentali e le loro vocette. Poi arriverei alla sera senza aver scritto ancora niente ma troppo stanco per scriverlo davvero. La mattina dopo mi sarei scordato tutto.

effeffe Ti ho conosciuto qualche anno fa a Genova come fotografo con Fabrizio Venerandi e Donald Datti. Quando ci siamo rivisti, sempre a Genova ero insieme ad Enrico Remmert ed è stato lui a dirmi: è il migliore scrittore della nostra generazione. Solo in un secondo momento ho realizzato che l’autore del testo più bello dell’antologia dei Cannibali avesse la tua faccia. Mi interessava allora capire, e far capire, spiegare ai marziani. il tuo rapporto con la fotografia. Ho come l’impressione che la tua camera oscura tu l’abbia allestita nel tuo vecchio atelier di scrittore. Le tue immagini sembrano il prodotto della stessa matrice narrativa dei tuoi racconti. Sembri una zingara, di quelle che ti prendono la mano e ti dicono cos’è stato, della vita. I tuoi ritratti dicono sempre qualcosa di nuovo ai fortunati soggetti. Come fai a “prenderci” sempre?

emmegi Eh sì mo’ pure con foto… No, i fotografi sono cose serie, davvero. Io sono solo uno dei tanti che ora può fare moltissime foto a costo zero grazie al digitale. I fotografi le foto le sanno fare, in qualche modo la foto esiste già nella loro testa prima ancora di esistere sulla pellicola. E’ gente che sa far uscire dalla macchina e dalla scena e dal soggetto una certa immagine.
Io di fotografia non so niente. So solo che schiacciando il tasto dentro la macchina rimane una roba che figurativamente non riesco bene a prevedere (parte del piacere è proprio la sorpresa). Schiacciando il tasto milioni di volte statisticamente qualche foto bella viene a tutti. E io faccio così: schiaccio il tasto milioni di volte. E’ un approccio autistico che in informatica si chiama di forza bruta. Anche nell’era della pellicola facevo foto, ma ovviamente molte meno, che ne so, due rullini da 36 in dieci giorni? Ora in dieci giorni faccio 5000 foto. Ne faccio talmente tante che se le si guarda una dietro l’altra velocemente spesso viene fuori una specie di filmato a scatti.
Non ci vedo grossi legami con la scrittura. Fare foto è meno faticoso di scrivere. Scrivere è una roba che comunque implica l’esistenza di un altro essere umano che è il lettore. E’ come avere in casa qualcuno che devi ospitare e intrattenere, fargli vedere la città, portarlo a mangiare. Le foto invece io le faccio sostanzialmente per me. Non vuol dire che siano immagini ermetiche e incomprensibili, alla fine sono foto banali, ma non sono concepite come comunicazione. Forse sono un ausilio alla memoria, o forse boh. Sono una cosa che mi piace fare e riguardare. Poi certo, le metto su flickr, mi fa piacere che anche qualcunaltro le guardi (e a me fa piacere guardare le foto degli altri) ma, ecco, mentre non avrebbe senso per me scrivere una cosa se sapessi che non la leggerà mai nessuno, mi sta benissimo fare foto che guarderò solo io.
Se vai su flickr vedi che il 96% delle foto che faccio non contiene esseri umani. Io tendo a escluderli dall’immagine perché è raro che io li trovi in armonia con lo sfondo. Li ho sempre considerati una specie di inquinamento visivo. Ecco, se uno vede la maggior parte delle mie foto si potrebbe dire che sono sfondi senza soggetto. Sono per lo più scorci urbani senza persone. Posti che mi rilassano, piazzette. Zone pedonali vuote soprattutto. Scalinate. Zone che fanno venire voglia di camminarci dentro. Prati. Cose così. Non fotografo felicemente esseri umani, anche se ultimamente mi sto lentamente avvicinando ai viventi. Ma ancora mi frenano le implicazioni del fotografare una persona, in qualche modo mi sento sempre colpevole. Dovrei fotografare di nascosto. Allora la cosa migliore sono le presentazioni e le letture: lì fotografo quelli che parlano e il pubblico di sbieco. Però sono foto difficili: di solito si è sempre in ambienti bui, e poi gli scrittori si agitano parlando, e io non voglio mai usare il flash e così vengono sempre mosse.

Studenti, avanti!

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Un avvenire per le umanità
Intervista a Yves Citton

di
Isabella Mattazzi
pubblicata sul n°20-Giugno- Alfabeta2

Figura di spicco nel panorama culturale europeo, Yves Citton è il teorico della letteratura che più oggi in Francia si è interessato a una radicale revisione del concetto di “sapere” e delle sue diverse articolazioni. Filosofo politico oltre che Professore di Letteratura francese del XVIII secolo e ricercatore del CNRS, Citton sembra porsi nei suoi ultimi libri il problema di un sistema di studi letterari che possa in qualche modo fare da modello a una “società ermeneutica” in cui autonomia critica del soggetto e necessità di un tessuto relazionale, dialogico possano trovare nuovi spazi di mediazione. In occasione dell’uscita del suo Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (:duepunti, pp.220, 20 euro), ho chiesto a Yves Citton di parlarci di alcuni tra gli snodi più significativi del suo discorso.

I.M. Vorrei iniziare sottolineando come il titolo originale del tuo libro sia L’Avenir des Humanités. Nella traduzione italiana, purtroppo, non è stato possibile mantenere il valore polisemico della parola “Humanités” – che in francese può riferirsi tanto alle “Discipline umanistiche” quanto a un’ipotetica declinazione plurale del termine “Umanità” – su cui mi sembra ruotare, di fatto, la costruzione di tutto il testo.

Y.C. In effetti la tesi principale del mio libro non consiste altro che nella coniugazione di due realtà estremamente lontane tra loro, rappresentate linguisticamente da un unico termine. Da una parte l’Umanità, ovvero l’insieme degli individui che si riconoscono come appartenenti alla specie umana. Dall’altra un campo di discipline – gli Studi umanistici – dall’estensione e dalla definizione abbastanza problematica. Ovviamente in francese, come in italiano credo, l’umanità si declina sempre al singolare. Per la vulgata comune l’umanità è una, è sempre stata una, e in futuro non ce ne sarà che una e una sola. Utilizzare il termine Umanità (Humanités) al plurale ha quindi per me un preciso valore programmatico.
Nei suoi scritti Édouard Glissant parla di due grandi direttrici che coesistono e si oppongono all’interno della nostra società contemporanea: la tendenza alla standardizzazione (usiamo tutti lo stesso tipo di telefono, lo stesso tipo di macchina in tutto il mondo) e la sua spinta contraria, ovvero quella che lui chiama la “creolizzazione”, quel contatto tra le culture che si nutre delle loro differenze, preservandole, esacerbandole addirittura per far sì che nasca, da questo scontro, l’imprevedibile. Ogni dinamica di creolizzazione, secondo Glissant, riposa sul concetto di una necessaria pluralità delle culture umane, sul fatto che l’umanità appunto non sia una, ma che si presenti come un’umanità complessa, “molteplice”. Interrogarsi sull’avvenire delle Humanités, significa quindi istituire un elemento di comunanza tra un insieme di “umanità” articolate nella pluralità composita dei loro mondi e un insieme di discipline caratterizzate da una particolare attività intellettiva che potremmo definire interpretazione. Ogni uomo, a ben guardare, è un interprete. Tutti gli esseri umani “interpretano” nel momento in cui cercano di dare un senso agli avvenimenti che accadono intorno a loro. Chi si dedica agli studi umanistici non fa altro quindi che riflettere su un’attività comune all’intera specie umana. Attraverso l’interpretazione di un testo letterario o di una serie di dati storici, le discipline umanistiche ripetono e affinano gesti fondativi e caratteristici di quella che risulta come la componente più radicale della nostra identità.

Tu ti occupi nei tuoi studi di teoria della letteratura e in Università insegni Letteratura francese del XVIII secolo; il tuo modello di discorso, all’interno della costellazione denominata “Studi umanistici”, sembrerebbe quindi essere orientato verso l’esperienza letteraria come mezzo privilegiato di approccio critico. Nel tuo libro, però, più che di letteratura in quanto tale, tu parli di pratiche discorsive “indisciplinari”, che a tuo avviso sarebbero da porre alla base del lavoro interpretativo.

La teorizzazione del concetto di “indisciplina” deriva da una mia forte insoddisfazione verso la rigida suddivisione settoriale delle pratiche di insegnamento, e nello stesso tempo da un’insoddisfazione altrettanto forte verso il tentativo di superare questa suddivisione attraverso l’interdisciplinarietà, pratica tanto amata dalle nostre istituzioni accademiche. Da una parte, io non credo affatto alla necessità di barriere rigide tra le discipline; i cineasti che amo di più in assoluto sono tutti imbevuti, intrisi di cultura letteraria. Personalmente, ho scoperto Pavese attraverso i film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Dall’altra, però, trovo che l’interdisciplinarità da sola sia del tutto insufficiente per superare il pericolo di una incomunicabilità istituzionale tra i diversi ambiti del sapere. L’interdisciplinarità funziona in modo del tutto orizzontale: un esperto di cinema, un esperto di letteratura guardano un oggetto comune e la cosa finisce lì. Il concetto di indisciplina richiede invece un’interazione essenzialmente verticale. Mi spiego meglio. Nel mio approccio a un testo, io non parlo solo in quanto “esperto di materie letterarie”, ma in quanto “essere umano” che cerca di far valere la propria conoscenza tecnica della teoria letteraria nella sua articolazione con tutte le altre dimensioni della vita sociale. Naturalmente io sono un professore di letteratura, ma nello stesso tempo sono anche un elettore, un contribuente, un vicino di casa, un padre, un figlio… La caratteristica principale degli Studi umanistici è la loro strutturale spinta a far interagire i nostri saperi specialistici con la complessità della vita. Un romanzo non ci chiede solo di interrogarci su come è organizzata la sua forma o su che cosa fa o non fa il suo valore letterario, ma anche e soprattutto su che cosa significa vivere una vita “propriamente umana”, su che cosa è l’amore, su che cosa sono la colpa, la Storia… L’indisciplina consiste appunto nell’essere coscienti di tutto questo, nel far sì che non ci si accontenti di proporre ai nostri studenti un metodo di studio o di ricerca, ma che si cerchi di porre loro domande sull’utilizzo di questo stesso metodo nell’integrazione dei differenti aspetti della nostra vita.

Ma è possibile inquadrare l’indisciplina di cui tu parli in un modello istituzionale che sia capace di rendere pienamente l’articolazione complessa di questi scambi?

A livello di insegnamento universitario, direi che la sfida, oggi come oggi, è quella di riuscire a dare agli studenti un “gusto” per le discipline. Ogni disciplina, ogni ambito del sapere utilizza diverse “cassette per gli attrezzi”, metodi che sono stati formalizzati al suo esterno; questi metodi devono venire acquisiti dagli studenti semplicemente attraverso la pratica, nello stesso modo in cui possiamo comprare una cassetta per gli attrezzi, ma questa diventa davvero “nostra” soltanto quando iniziamo a utilizzarla. Nell’Università contemporanea perdiamo una grande quantità di tempo a fornire conoscenze piuttosto che a praticare o esercitare competenze. Oggi l’accesso alle informazioni è molto più libero rispetto a venti o a trent’anni fa. Il ruolo di un professore universitario non è più quello di fornire conoscenze (per questo bastano i libri o Internet), quanto piuttosto quello di mostrare agli studenti la propria ricerca nell’atto del suo stesso farsi. Guardare un ricercatore al lavoro, ci fa arrivare direttamente al cuore della sua disciplina. Nella mia Università ideale tutti gli allievi dovrebbero stare a stretto contatto con chi fa ricerca e discutere con i ricercatori dei problemi molto specifici, molto concreti della loro attività. Gli studenti, più che imparare qualcosa di “già dato”, dovrebbero guardare, appropriarsi dei gesti, delle posture di chi pratica il sapere, dovrebbero frugare nella sua cassetta per gli attrezzi per poi a loro volta iniziare a lavorare con la propria.


A quanto mi sembra di capire, l’interpretazione è una pratica che di fatto pone tutti gli interpreti su uno stesso piano – presupponendo quindi una certa forma di “uguaglianza” – ma nello stesso tempo è una pratica che deve essere insegnata e che ha quindi bisogno di un certo “disequilibrio” all’interno della coppia pedagogica professore-studente.

Sulla questione dell’uguaglianza la prima cosa da dire è che un’interpretazione è interessante nella misura in cui ci permette di sviluppare intuizioni riguardo a un testo, un film, ma soprattutto riguardo alla vita stessa. A priori, le intuizioni di uno studente di sedici anni valgono tanto quanto le mie; anzi, le sue valgono forse anche di più perché la dinamica del presente in cui è immerso risulta con ogni evidenza più “viva” della mia (i suoi neuroni vanno più velocemente dei miei, si confronta con argomenti e problematiche distanti almeno trent’anni dalle mie…). Il futuro sta chiaramente dalla sua parte, in lui il testo è più “vivo”, ovvero ha più possibilità di vivere, letteralmente, perché l’aspettativa di vita di uno studente di sedici anni è circa di sessant’anni, mentre la mia di trenta. Detto questo, perché allora sento il dovere di tenere dei corsi? Perché insegno in università? Perché io posso aiutare questo studente a raffinare, a esprimere, ad approfondire le sue intuizioni (forse più ricche delle mie), mostrandogli come funziona la mia personale cassetta per gli attrezzi. Ed è qui allora che sta la diseguaglianza tra noi, nel disavanzo di abilità tecnica che intercorre tra me e un qualsiasi studente di sedici anni. Esattamente come un artigiano che ha passato quarant’anni anni della sua vita a fare cappelli, io nel tempo ho sviluppato delle competenze che mi permettono di fare del mio cappello, del mio testo, una cosa interessante. Il “sapere artigiano”, la gestualità che io ho imparato tanti anni fa, per imitazione, da Michel Butor e da Michel Jeanneret a Ginevra, è la stessa gestualità che io adesso metto in atto di fronte ai miei studenti, affinché loro domani siano in grado realizzare da soli i propri cappelli.

L’interpretazione, però, da quanto tu scrivi, non è affatto una pratica da chiudere all’interno di un’aula o di una biblioteca, ma è una pratica sociale e civile, in una parola “politica”.

Certamente, la cultura dell’interpretazione di fatto porta con sé un modello alternativo di organizzazione economica. Prendiamo ad esempio il concetto di “sfruttamento”. Per il marxismo classico il termine “sfruttamento” è sempre rivolto al lavoro produttivo. Oggi come oggi lo sfruttamento invece sembra vivere sulla circolazione degli “affetti sociali” almeno quanto sull’estorsione del plusvalore imposta ai produttori: i commercianti di macchine, di film, di cioccolato, di viaggi organizzati, sfruttano la mia capacità di desiderare per ricavare profitto dai miei comportamenti di consumatore, almeno tanto quanto ricavano profitto dal mio lavoro di produttore.
Questa nuova forma di sfruttamento non poggia direttamente sul lavoro produttivo, ma in senso più largo sulla nostra capacità di attenzione. L’esempio emblematico della nostra società non è più l’operaio, ma il telespettatore; la cosa che viene sfruttata oggi non è la mia forza lavoro, ma la mia attenzione, che a sua volta va a orientare la mia capacità di desiderare.
Nei casi più frequenti, il nostro sfruttamento in quanto telespettatori avviene sempre con il nostro consenso; io sono quasi sempre complice del mio sfruttamento culturale. Ed è proprio su questo punto, allora, che la riflessione sulle culture dell’interpretazione può rivelarsi preziosa. Ciò che sperimentiamo e affiniamo quando interpretiamo un testo o un film, è l’“autonomia” della nostra capacità di attenzione (ognuno di noi è sensibile a elementi differenti di un testo) e nello stesso tempo la necessità di un’appropriazione di questa stessa capacità da parte dei diversi dispositivi di captazione che ci circondano (la forza di un testo si definisce dall’ascendente che questo esercita su chi lo legge).
Il principale merito delle culture dell’interpretazione è allora quello di “rendere autonoma” l’attenzione di coloro che vi prendono parte, e questa credo sia una delle risorse più importanti, forse l’unica veramente valida, che abbiamo oggi per lottare contro qualsiasi forma di sfruttamento.

De mortuis nihil nisi bene

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di Franco Arminio

Una buona politica comincia da una buona lingua, una lingua semplice, dolce, incantata. Non si sente questa lingua nella politica italiana. Si sentono frasi opache, generiche, senza carne, le frasi di una politica tesa a conservare un potere che non ha o a prendere un potere che non c’è.
Le prossime elezioni rischiano di diventare un gigantesco processo alla casta, un processo che porterà molte facce nuove in parlamento ma poche novità nei meccanismi profondi che muovono la società.

Due letture del decennio sicuritario (Fassin e Matelly Mouhanna)

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Di Andrea Inglese e Simone Morgagni

L’ossessione per la sicurezza in Francia non data certo della presidenza Sarkozy e nemmeno della sua zelante attività di ministro degli Interni all’epoca della presidenza Chirac, ma è senz’altro durante il decennio appena trascorso che il paese è diventato un vero e proprio laboratorio “sicuritario”. Sul piano della propaganda politica, l’enfasi sul tema della sicurezza ha permesso a Sarkozy non solo di strappare voti all’elettorato di estrema destra, ma anche di accentuare il proprio vantaggio sui socialisti.

TU, SE SAI DIRE, DILLO (incontri allo Spazio Ostrakon Milano)

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a cura di Biagio Cepollaro

Tre incontri nel dire

tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno. Giuliano Mesa

A quasi un anno dalla scomparsa del poeta Giuliano Mesa (Salvaterra, 1957-Pozzuoli, 2011), lo Spazio Ostrakon di Milano intitola la sua prima edizione di Tu, se sai dire, dillo con un verso dell’autore del Tiresia. Tu, se sai dire, dillo: la poesia è sia un talento coltivato, come qualsiasi altra arte, sia una necessità. Nel tempo della povertà, come direbbe Hölderlin, talento e necessità reali scarseggiano a fronte della facilità con cui spuntano i facitori di versi. Ostrakon prova ad offrire uno spazio adeguato all’arte della parola poetica avvicinando in tre incontri autori molto diversi tra loro per generazione e formazione ma accomunati dalla sicurezza e dalla forza dello stile.

FIGLI DEI BAUSTELLE

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The Van Houtens
The Van Houtens

guida supercompressa al pop indipendente italiano a cura di Enrico Veronese

 

Tagliare subito la testa al topic è uno sporco lavoro ma lo devo pur fare, un indizio “severo ma giusto” di ciò che aspetta nelle prossime righe. Checché possa apparire cool per simpatia o malcompresa sovraesposizione, la musica indipendente italiana è uno stagno profondissimo verso il basso e piuttosto chiuso verso l’alto, poco comunicato e meno ancora cittadino dell’immaginario collettivo, rispetto ai Paesi anglofoni dove il rock e i suoi derivati hanno una tradizione consolidata oppure hanno goduto -Belgio, Islanda, Svezia- di sostegni pubblici e privati. Eppure, senza cercare manco troppo fra le pieghe, in tale esiguo contesto continua ad annoverarsi la speranza verso l’innovazione e la rigenerazione di un patrimonio che sta a cuore a chiunque canti sotto la doccia, in auto, nelle dediche sentimentali o negli inni social-popolari gridati assieme agli Zen Circus. Nelle ultime settimane, 15mila persone in due giorni hanno scaricato “Con due deca”, compilation di tributo agli 883, inopinata fonte (o ascendenza proibita) per non pochi degli attuali sbarbi sugli specchi, portati alla ribalta generale oltre il confine del proprio subgenere: ripartiamo da qui, per un’esposizione che da subito non vuol essere esaustiva delle forze sul campo. Anche se è palese come il 2007, anno di flesso verso un mezzo Eldorado collettivo allora considerato possibile, sia ormai lontano cinque anni. Luce.

È in edicola e in libreria il nuovo numero di “alfabeta2”

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Il territorio, spiega il dizionario, è «una estensione definita di terreno»: descrizione tanto ampia che risulta difficile (appunto) perimetrarla, soprattutto in questa fase della nostra storia, così sdrucciolevole dopo anni di – molto apparente – stabilità. Ci prova il numero 20 di «alfabeta2», in arrivo domani nelle edicole e nelle librerie,  con una serie di «nodi» tematici che prendono in esame alcuni esempi concreti (come la No Tav o l’Aquila del dopo terremoto),  gli spazi urbani analizzati nel loro complesso (ne scrivono Marc Augé, Vittorio Gregotti, David Harvey) e infine il confronto teorico fra dimensione locale e dimensione globale, su cui riflettono, in due interventi assai diversi fra loro, Franco Piperno e Aldo Bonomi. Tra gli altri temi affrontati dalla rivista, che include anche un corposo speciale dedicato alla tredicesima edizione di «dOCUMENTA», la Francia all’indomani del voto e le nuove declinazioni dell’idea di cura.

 

Bolaño e i suoi prosecutori

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di Giuseppe Zucco

Se negli ultimi tempi, al culmine del più classico percorso di pellegrinaggio, non solo avete consumato le ginocchia sul marmo delle cattedrali di 2666 (Adelphi, 2009) e Detective selvaggi (Sellerio, 2003), e avete inclinato il capo penitente dentro il santuario di Stella distante (Sellerio, 1999) e La letteratura nazista in America (Sellerio, 1998), e avete sgranato il respiro davanti al tempio incompiuto e auto-saccheggiato de Il terzo Reich (Adelphi, 2010) e I dispiaceri del vero poliziotto (Adelphi, 2012), ma con il più struggente atto di fede vi siete spinti in punta di piedi dentro la sagrestia delle collezioni di saggi, interviste e testi di conferenze di Tra parentesi (Adelphi, 2009) e L’ultima conversazione (Sur, 2012), molto probabilmente il nome di Rodrigo Rey Rosa vi suonerà parecchio familiare.

Roberto Bolaño, soprattutto nelle interviste, con l’abituale candore degli scrittori sudamericani, davanti al fucile spianato della più insidiosa tra le domande, quale scrittore vivente ammiri e leggi di frequente?, non ha mai smesso di articolare il nome di questo scrittore guatemalteco, perlopiù sconosciuto in Italia, se non – apprendo da una veloce ricerca sulla rete – per la fulminea apparizione sul mercato editoriale di Giungla di pietra (Cargo, 2006).

È anche per questo che il suo nome, impilato bene in vista sullo scaffale delle novità di una libreria, mi salta immediatamente agli occhi. Severina (Feltrinelli, 2012), il nuovissimo libro di Rodrigo Rey Rosa, posizionato lì da manine molto consapevoli, non è il coronamento di una perfetta strategia di marketing, ma la casualità che governa la direzione fatale di due innamorati. Perfino la bandella che fascia il libro, e che sullo sfondo di un cartoncino giallo riporta il blurb delle seguenti perentorie dichiarazioni di Bolaño, Il miglior tessitore di storie, la stella più luminosa della mia generazione, appare la conferma di un destino.

Rodrigo Rey Rosa, in realtà, sarebbe un nome da pugile esemplare. Non sfigurerebbe in un racconto di Hemingway, tantomeno in uno di Garcia Marquez. Con questo fantasma in calzoncini e guantoni, una volta a casa, respinto il fastidio per il modo in cui è stato licenziato il libro – il corpo del carattere per i più politicamente corretti ipovedenti, la pagina poco sfruttata, il testo stiracchiato sulla carta per conquistare la cima delle cento pagine, come se dovesse a tutti i costi elevarsi alla misura di un romanzo breve, piuttosto che a quella di un racconto lungo – affondo nel territorio aperto della finzione.

Il romanzo breve o il racconto lungo, perlomeno in principio, dispiega l’inesauribile fervore con cui una ragazza – non più giovanissima, i capelli neri, l’aria giudiziosa – infila una libreria e sottrae senza ritegno un numero considerevole di libri. Se non fosse che un libraio presunto scrittore parecchio solitario ma con l’occhio lungo se ne accorge, la inchioda alle proprie responsabilità, e ancora prima di metterle le mani addosso e perquisirla, se ne innamora. La corrente elettrica che solca queste pagine è proprio quella di una storia d’amore – delle più classiche, in verità: con il suo indispensabile corredo di romanticismo, tragedia, delirio.

Il libro lo si legge facile, le frasi rapide o distese girano bene – come direbbe lo scrittore fantasma di Philip Roth – la relazione amorosa arroventa fino a illuminare il destino a cui si consacreranno i due innamorati, l’idea che la letteratura possa diventare carne viva e motore del mondo è stilizzata ricorrendo a soluzioni immediatamente efficaci, a cominciare dai personaggi, una ladra di libri, un librario presunto scrittore innamorato di una ladra di libri, la loro decisione di rubare e leggere libri per la vita intera, come se i libri subissero il completo dominio dei lettori, e l’editoria e la distribuzione fossero appena l’inevitabile incidente in cui incorre tanto la scrittura quanto la lettura. Ma una volta esaurito il libro, qualcosa non torna, soprattutto la fiducia illimitata che Roberto Bolaño, di cui si accetterebbe a prescindere qualsiasi considerazione, ha riposto in questo scrittore.

Di tutto, a lettura ultimata, perdura il granito di due impressioni: che sia un libro comune, con una scrittura per nulla trascendente, e che l’universo tascabile a cui Rodrigo Rey Rosa dà nitore e compiutezza brulichi di luoghi comuni in tutto e per tutto bolañeschi. Se non bastasse lo sfruttamento intensivo della letteratura e dei libri come materiale narrativo, della location di una pensione inospitale, di una protagonista perennemente in fuga da pedinare con il sesto senso di un detective, di una figura perturbante – qualcosa tipo il Bruciato de Il terzo Reich, qui reso con il più ordinario cadavere trattenuto in casa – di una relazione amorosa dolcissima e straziante e costantemente sull’orlo della catastrofe, di una prima persona maschile che si ripromette di congedarsi dal mondo e mettersi seriamente a scrivere, la biografia parziale di Severina, la ladra di libri, sembra esattamente riprodurre una piccola ma decisiva parte dell’educazione letteraria di Bolaño. È proprio lo scrittore cileno, che più e più volte, lungo il corso di alcune conversazioni, dà conto di come è iniziata una delle più venerate avventure letterarie: rubando i romanzi e le raccolte di racconti e poesie nelle librerie di Città del Messico, leggendo avidamente tutto ciò che l’antichissima arte predatoria consentiva di nascondere sotto le magliette e i pantaloni.

Lo sfruttamento intensivo di luoghi comuni bolañeschi, però, non implica affatto una maggiore tenuta. Quello che davvero manca in Rey Rosa, e che invece ha reso i libri di Bolaño prima una prova d’iniziazione per l’accesso a una setta segreta e poi un eccezionale oggetto di culto interplanetario, è quel continuo alternarsi nel perimetro di una pagina o di una singola frase di un concretissimo senso di disgrazia, illuminazione, noia, minaccia, tenerezza, esaltazione, sconforto, orrore, struggimento, empatia, aggressione – un’espansione cognitiva e sentimentale: una diramazione cosmica capace di ricongiungerti con tutti i tempi ed ogni creatura.

Di certo, conoscendo appena un romanzo breve o un racconto lungo, su Rodrigo Rey Rosa tocca sospendere il giudizio, magari la traduzione di un prossimo libro produrrà un’intensa folgorazione – la possibilità, delle volte, è l’unica divinità a cui votarsi. Resta però da capire come mai Bolaño abbia fatto del nome di questo scrittore un ritornello. Al di là di una pura questione di gusto, una chiave di volta potrebbe essere un minuto celeberrimo saggio di Jorge Luis Borges – scrittore tanto amato da Bolaño quanto impiegato da Rey Rosa come mezzo per accelerare lo scioglimento degli eventi scatenati dal vorticare di una ladra di libri: del resto, in un libro che racconta di libri, Borges non poteva che esserne il nume tutelare. In Kafka e i suoi precursori, Borges sostiene che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro. Ecco, se è vero ciò che si è sempre detto, cioè che la grandezza di Bolaño risieda soprattutto nell’avere battezzato e diffuso tutta una nuova serie di possibilità espressive nell’arte del racconto e del romanzo – 2666 è uno degli ultimi spartiacque letterari, così come lo sono stati Underworld, Pastorale Americana, Infinite Jest – non è del tutto azzardato immaginare Bolaño come uno scrittore rivolto soprattutto al futuro, a ciò che sarebbe potuto accadere, ai possibili prosecutori più che ai precursori della sua opera. Forse, data l’abilità nello sfruttare un immaginario comune, Roberto Bolaño in Rodrigo Rey Rosa avrebbe intravisto soprattutto questo: un amico, un fratello spirituale, un continuatore, qualcuno capace di vanificare e oltrepassare il limite ultimo che l’insufficienza epatica gli stava per imporre.

La Punta della Lingua 2012

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Ancona e Parco del Conero, 13-26 giugno 2012

 

Mercoledì 13

 

ore 18.45

Portonovo, Chiesa di S. Maria

Billy Collins legge se stesso

Reading di Billy Collins

Franco Nasi: lettura a fronte

Definito “il poeta più popolare d’America” dal New York Times, Billy Collins (New York, 1941) è autore di otto raccolte ed è stato poeta laureato della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti dal 2001 al 2003.

In forza di una lingua piana e ironicamente ragionativa è uno dei pochi poeti al mondo in grado di riempire teatri in occasione dei suoi reading e di fare dei propri libri degli autentici best seller di poesia. Lo affiancherà Franco Nasi, suo traduttore italiano.

Esclusiva italiana

 

ore 20.30

Portonovo, Hotel La Fonte

Cena a buffet

 

ore 22.00

Portonovo, Auditorium Hotel La Fonte

Billy Collins Action Poet

Proiezione delle poesie animate di Billy Collins. Le video-poesie più viste di tutti i tempi, con più di 200.000 visualizzazioni in rete.

 

Martedì19

 

ore 18.30

Ancona, Mole Vanvitelliana

Arrivi e Partenze

Letture di Khaled Soliman Al-Nassiry e Jacopo Galimberti

Due giovani poeti del Mediterraneo, un palestinese residente in Italia e un italiano residente a Parigi, incrociano le loro voci alla ricerca di una nuova socialità della poesia.

 

ore 21.30

Camerano, Giardini Mancinforte

Corsia degli incurabili di Patrizia Valduga

Uno spettacolo di Valter Malosti

con Federica Fracassi

Suono e programmazione luci: G.u.p. Alcaro

Federica Fracassi (premio Ubu 2011 come migliore attrice) si cimenta con la materia magmatica del monologo scritto da Patrizia Valduga, portandone a compimento l’aspirazione alla fusione alchemica tra poesia e teatro e tra linguaggio alto e bassissimo. Accompagnata dalla partitura sonora di Malosti, fatta di voci, dissonanze e arie celebri, l’interpretazione della Fracassi restituisce i discordanti umori, dal delirio alla malinconia senza trascurare i toni aspri dell’invettiva civile, di una delle protagoniste della poesia italiana contemporanea.

 

Mercoledì 20

 

ore 15.00–19.00

Camerano, Biblioteca Baden Powell

Animazzia

Laboratorio di costruzione e animazione di burattini e pupazzi

a cura di Pellidò Vincenzo Di Maio

Durante il laboratorio ogni bambino potrà creare il suo burattino (o pupazzo) e dargli una voce, dei tic, delle caratteristiche da sperimentare all’interno del teatrino (Bruter Teatret), interagendo con gli altri.

Se possibile, portare vecchi calzini e pezzi di stoffa. Per bambini dai 4 agli 11 anni.

 

ore 18.30

Ancona, Palafitta La luna al Passetto

Le Marche della poesia

Alessandra Cava “rsvp” (Polìmata, 2011)

Anna Elisa De Gregorio “Dopo tanto esilio” (Raffaelli, 2012)

Presenta Danilo Mandolini

 

ore 20.00

Ancona, Palafitta La luna al Passetto

Cena a buffet

 

ore 21.30

Ancona, Ridotto del Teatro delle Muse

Omaggio a Tonino Guerra (1920–2012)

Letture di Annalisa Teodorani e Giovanni Nadiani

Presenta Manuel Cohen

Ricordo di un indimenticabile protagonista della poesia italiana dello scorso secolo, scomparso nel marzo di quest’anno. Gli rendono omaggio due nuove leve della poesia romagnola recente.

 

ore 22.30

Ancona, Ridotto del Teatro delle Muse

La poesia che si vede

Documentari sulla vita e l’opera di Tonino Guerra

L’Ulisse di campagna di Nevio Casadio

Viaggio luminoso di una vita di Adrio Testaguzza

Interviene Carlo Sancisi

presidente dell’Associazione Tonino Guerra di Pennabilli

 

Giovedì 21

 

ore 18.30

Ancona, Palafitta La luna al Passetto

Le Marche della poesia

Marco Ferri “Discorsi in cucina” (Aragno, 2007)

Maria Grazia Maiorino “I giardini del mare” (PeQuod, 2011)

Presenta Franca Mancinelli

 

ore 20.00

Ancona, Palafitta La luna al Passetto

Cena a buffet

 

ore 21.30

Ancona, Casa delle Culture

Sparajurij presenta la rivista Atti impuri n° 4

Con un’intervista ad Aldo Nove e poesie inedite di John Giorno

 

ore 22.30

Ancona, Casa delle Culture

La poesia che si vede

In ricordo di Elio Pagliarani (1927–2012)

La Punta della Lingua rende omaggio a una delle esperienze poetiche più appassionanti del secondo Novecento italiano. Con testimonianze, ricordi e aneddoti di amici, allievi, fan e compagni di strada.

Proiezione del mediometraggio “Inventario Privato. In dialogo con Elio Pagliarani”

Intervista a cura di Luca Paci

Regia di Fabio Orecchini

 

Venerdì 22

 

ore 16.30 e 18.00

Camerano, grotta Ricotti

Il gigante Morgante e il cavaliere Orlando

Spettacolo di burattini tratto dai più grandi poemi epici italiani (Morgante, Orlando innamorato e Orlando furioso) a cura di Pellidò Vincenzo Di Maio. In anteprima per La Punta della Lingua.

 

ore 21.00

Ancona, Lazzabaretto

Worldwide Reading for Liu Xiaobo

La Punta della Lingua aderisce al reading internazionale in onore di Liu Xiaobo, poeta e dissidente cinese premio Nobel per la pace 2010, incarcerato dal 2009 dal governo di Pechino con l’accusa di “incitamento alla sovversione del potere dello stato” per essere stato ispiratore e primo firmatario del documento Charta 08 in favore del rispetto dei diritti civili e per un autentico processo di democratizzazione del suo paese.

In collaborazione con Amnesty International Ancona e Internationales Literaturfestival Berlin

 

ore 22.00

Ancona, Lazzabaretto

Elettro-Poetry Lab

Con Alessio Bertallot e Aldo Nove

Laboratorio di scrittura creativa e poesia “partecipata” ispirata alle suggestioni musicali di Alessio Bertallot e a quelle verbali di Aldo Nove. Il pubblico potrà inviare i propri sms poetici prodotti per l’occasione e vederli apparire nelle elaborazioni verbo-visive che accompagneranno la festa a seguire. Grazie all’innovativo sistema del Live internet radio show del social network Spreaker (media-partner per la serata) l’ascolto e la partecipazione attiva al laboratorio verranno resi potenzialmente accessibili dovunque e a chiunque.

In collaborazione con Acusmatiq e Arrivi e partenze

 

ore 24.00

Ancona, Lazzabaretto

Elettro-Poetry Party

La Punta della Lingua e Arrivi e Partenze in festa

Dj set Alessio Bertallot

Vj ed elaborazioni video-poetiche Matteo Giacchella

 

Sabato 23

 

ore 18.30

Ancona, Ridotto del Teatro delle Muse

La poesia che si vede

Proiezione del documentario “La vita, a volte, è sopportabile. Ritratto ironico di Wisława Szymborska”

Letture di Mariangela Gualtieri

Presenta Adriana Stecconi

In collaborazione con Associazione Italo-Polacca Marche e Istituto Polacco di Roma

 

ore 23.00

Monte Conero (Partenza Badìa di S. Pietro)

Bestia di Gioia

Escursione poetica con Mariangela Gualtieri

Una passeggiata notturna sui sentieri del Monte Conero, tra osservazione della natura e incisioni rupestri, in compagnia della poetessa, drammaturga e attrice Mariangela Gualtieri.

In collaborazione con Forestalp

 

Domenica 24

 

ore 17.30

Portonovo, Torre De Bosis

Incontro con Franco Buffoni

Presentazione dell’Oscar Mondadori “Poesie 1975–2012”

Presenta Massimo Gezzi, curatore del volume

 

Ore 19.00

Portonovo, Chiesa di S. Maria

XI Quaderno italiano di poesia contemporanea

a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2012)

Letture di Yari Bernasconi, Azzurra D’Agostino, Fabio Donalisio, Vincenzo Frungillo, Eleonora Pinzuti, Marco Simonelli, Mariagiorgia Ulbar

 

Lunedì 25

 

ore 18.45

Portonovo, Parco Hotel La Fonte

Le Marche della poesia

Natalia Paci “Pronta in bilico” (Sigismundus, 2012)

Enrico Piergallini “Generazioni” (Sigismundus, 2011)

Presenta Davide Nota

 

ore 20.30

Portonovo, Hotel La Fonte

Cena a buffet

 

ore 22.00

Portonovo, Auditorium Hotel La Fonte

Facebook Poetry 4ª edizione

Decine di poeti in collegamento da tutta Italia (e non solo) daranno vita, ancora una volta, alla singolarissima sfida in rete della Facebook Poetry. Le regole sono le solite: dati il primo e l’ultimo verso e una lunghezza massima di dieci, produrre, entro il tempo limite di 40 minuti, un testo per l’occasione e postarlo sulla bacheca della Punta della Lingua. Il pubblico in sala (e a casa) potrà sia partecipare che votare il testo più riuscito. La punta della Lingua è già su Facebook e cerca amici.

 

Martedì 26

 

ore 10.00 e 16.00

Ancona, Parco di Villa Beer

Muse col muso?

Piccolo scherzo poetico di e con Alessandra Berardi

Musa autoispiratrice, specialista in buffonerie poetiche e paroliera del programma di Rai 2 L’albero azzurro, Alessandra Berardi introduce i piccoli partecipanti a questa sua lezione-laboratorio ai trucchi e alle invenzioni dei poeti. Un po’ di storia e un po’ di gioco per scoprire i segreti dell’ispirazione e per scrivere in pieno divertimento e, specialmente, senza fare il muso.

Per bambini dagli 8 agli 11 anni.

 

ore 21.30

Ancona, Mole Vanvitelliana

Toni Servillo legge Napoli

Diretto e interpretato da Toni Servillo

Testi di Salvatore Di Giacomo, Eduardo De Filippo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Mimmo Borrelli, Enzo Moscato

Produzione Teatri Uniti

Toni Servillo legge, canta e interpreta l’anima più vera di Napoli, la città dai mille volti e dalle mille contraddizioni nella quale, da sempre, convivono vitalità e disperazione. Con il carisma e la popolarità che gli garantiscono successi sia in ambito teatrale che cinematografico, Servillo si avventura in un viaggio nelle parole della sua città, da Salvatore Di Giacomo a Raffaele Viviani, passando per Eduardo fino alle voci contemporanee di Mimmo Borrelli ed Enzo Moscato. Un percorso tra passato e presente, lontano dagli stereotipi più obsoleti della napoletanità, che testimonia l’universalità della letteratura partenopea e insieme il bisogno di non rinunciare ad una identità sedimentata da quattro secoli di tradizione.

Lo spettacolo, reduce da una serie di tutto esaurito nei maggiori teatri italiani, ci presenta un Servillo solo in piedi davanti al leggio, che riesce a far rivivere con assoluta maestria, personaggi, situazioni, luoghi, solo con qualche cenno del corpo, delle mani, della testa e soprattutto con una interpretazione ricchissima dei testi, cambiando intonazioni, colori e inflessioni della voce, ora sussurrando, ora amplificando, ora correndo in scioglilingua impossibili, ora con un’intensità che si traduce in comunicazione di un sentimento.

In collaborazione con Arci

 

***

 

LA PUNTA DELLA LINGUA – POESIA FESTIVAL (VII EDIZIONE)

Ancona e Parco del Conero, 13-26 giugno

 

organizzazione Nie Wiem

responsabile Valerio Cuccaroni

direttore artistico Luigi Socci

 

con il contributo di: Comune di Ancona | Provincia di Ancona | Parco del Conero | Amo la Mole | Fondo Mole | Arci | Pro Loco Camerano | AMAT

 

con il patrocinio di: Ministero dei Beni e delle Attività culturali – Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici delle Marche – Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici delle Marche | Regione Marche | Comune di Camerano

 

grazie a: Amnesty International Ancona | Ass. Casa delle Culture | Ass. Italo Polacca Marche | Fondazione Teatro delle Muse | Forestalp | Hotel Fortino | Hotel La Fonte | Internationales Literaturfestival Berlin | Istituto Polacco di Roma | Italia Nostra | Legambiente | Ristorante La luna al Passetto

 

media partner: Argo | Corriere Proposte | Spreaker | Urlo | Why Marche

 

www.lapuntadellalingua.it

lapuntadellalingua@niewiem.org

telefono 335 1099665

 

***

 

Tutti gli eventi sono a ingresso libero tranne

Corsia degli incurabili € 5

Toni Servillo legge Napoli € 15

 

Bestia di gioia, Muse col muso, Il gigante Morgante e il paladino Orlando sono a posti limitati su prenotazione.

 

prenotazioni Il gigante Morgante e il paladino Orlando e prevendite Corsia degli incurabili:

Ufficio Turismo Comune di Camerano 071 7304018

 

prenotazioni Bestia di gioia: 071 9330066 www.forestalp.com

 

prenotazioni Muse col muso: 335 1099665 lapuntadellalingua@niewiem.org

 

prevendite Toni Servillo legge Napoli: 071 203045 www.lazzarettoestate.org

 

In caso di maltempo, gli eventi all’aperto si svolgeranno al chiuso.

Consultare il sito www.lapuntadellalingua.it

 

***

 

cene a buffet € 15

prenotazioni La luna al passetto 071 34136 – 338 8535005

prenotazioni Hotel La Fonte e Fortino 071 801470

soggiorni convenzionati a Portonovo: Hotel Excelsior La Fonte www.excelsiorlafonte.it

Hotel Fortino Napoleonico www.hotelfortino.it prenotazioni 071 801470

Nell’acquario di Facebook

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Ippolita
Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo
56.478 parole, 391.364 battute sul web ed in formato ebook.

Negli ultimi dieci anni Internet ed il web 2.0 hanno ridefinito le relazioni sociali, almeno per quella parte dell’umanità al di qua del divario digitale. La possibilità di comunicare annullando tempi e distanze si è realizzata attraverso software di facile uso e con una diffusione di massa (google, wordpress.com, facebook etc.). Sono questi software di massa, incarnati nei principali prodotti di social network, che danno forma alle nostre esperienza sociali in rete e che imprimono ai nostri comportamenti forme dettate dalle scelte progettuali e dalle visioni culturali delle aziende che li hanno creati.

L’idea che la rappresentazione ideale di noi stessi in rete sia una pagina con una foto ed una scheda personale è un’evoluzione logica della rubrica telefonica o del rolodex, ma non è per nulla naturale o assoluta. E’ il frutto di una serie di scelte libere da parte dei progettisti dei vari servizi web, e di scelte più coatte di noi utilizzatori di questi servizi. Noi viviamo in una rete plasmata dal liberalismo economico, dal pragmatismo tecnologico e da ideali di trasparenza e meritocrazia, e queste idee influenzano le nostre azioni ed il nostro modo di pensare la presenza in rete.

In queste riflessioni si inserisce il pamphlet del gruppo Ippolita Nell’acquario di Facebook – La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo. Il testo prende le mosse dalla critica della socialità in rete quando essa si svolge all’interno di silos applicativi autoreferenziali, siano essi aziendali come Google, Facebook o Amazon, o noprofit e aperti come nel caso di Wikipedia. Oltre gli argomenti classici della net-critique, la posizione di Ippolita è fortemente politica, anticapitalistica e critica nei confronti del libertarismo di destra diffuso in USA (libertarianismo). La via di uscita è utopica, non c’è salvezza nelle tecnologie, occorre costruire con le proprie mani piccole comunità e gruppi capaci di incontrarsi di persona, sapendo che nella rete non possiamo fare a meno di stare se vogliamo essere noi stessi.

Nella prima parte del libro viene proposta una critica dei social network e di Facebook in particolare. Vengono analizzati i limiti esistenziale, psicologici ed individuali della socialità facebookiana, una realtà semplificata, impoverita e illusoria in cui la persona è merce.

Web 2.0 e social network sono concentratori di servizi di massa in una rete di per sé destrutturata, attraverso cui viene esercitato un enorme potere di omologazione. Dato che la rete pone minime barriere di accesso all’informazione, che non è quindi monetizzabile direttamente, l’unico modo per mettere a valore i propri servizi è stimolare l’accesso continuo all’informazione e la produzione continua di contenuti che ci definiscano. Questo genererà degli schemi di comportamento, dei profili personali monetizzabili in massa in vario modo. E’ il passaggio da Google motore di ricerca in una rete illuministica di documenti che riportano a persone, a Facebook concentratore turbocapitalista di una rete di persone diventate merci e come tali scambiate e rivendute.

Alla base dello stimolo affinché noi produciamo contenuti ed interazioni continue è l’idea che la trasparenza, l’apertura e condivisione siano sempre positivi, desiderabili, socialmente vantaggiosi. Condividere continuamente informazioni su di sé, ovviamente in chiave favorevole come accade in Facebook, porta però all’appiattimento delle differenze, al depauperamento dei saperi ed alla distruzione della complessità multiforme dell’individuo. Il conflitto viene semplicemente nascosto, scivola nel privato dove ciascuno può sorvegliare la figura in rete degli altri ed indulgere nel pettegolezzo.

Mentre Ippolita analizza bene la psicologia dell’essere in rete, mi pare che insista in modo forse un po’ cattolico sulla psicologia personale del rapporto coi social network: siamo narcisisti, quindi ci esibiamo e spiamo morbosamente le esibizioni altrui, in un ambiente software costruito appositamente per facilitare questo continuo pornoshow. Credo però che si debba considerare anche quanto l’ambiente software sia parte attiva nell’indirizzare il nostro comportamento, in particolare con l’uso plateale di tecniche di psicologia behaviorista (skinneriana). Ad ogni azione gradita a Facebook riceviamo un rinforzo, ad ogni dato personale che regaliamo riceviamo un premio, l’ammirazione dei pari, il sostegno degli amici; nei tempi morti c’è sempre un giochino per tenere desta l’attenzione ed assicurare che non abbandoniamo il recinto dentro cui siamo pienamente osservabili.

Farei anche una distinzione tra la critica dei problemi ontologici dei social network e quella del disegno del software. Se si critica la relazione di amicizia in Facebook perché è univoca, inadeguata a distinguere tipi diversi di relazione e di ambito sociale, si rischia di venire spiazzati da nuove funzionalità o nuovi prodotti: esiste infatti da tempo il concetto di “circoli” (come li chiama Google+) o di “liste” (in Facebook) che permettono di disegnare ambiti di persone “amiche” separati però tra loro. E’ meglio secondo me concentrarsi sul problema fondamentale di Facebook e simili: le relazioni sociali su Facebook sono piatte e superficiali perché il loro scopo è gratificare, servire, garantire la stimolazione. Avere una presenza personale sul web con la quale interagire socialmente ci spinge a semplificazioni che nella socialità quotidiana gestiamo in modo molto più sfumato e complesso. Sarà interessante vedere come viene affrontato questo problema in Diaspora, un social network distribuito e open source che non ha i problemi di privacy di Facebook, anche se a quanto ho visto finora l’impostazione progettuale è la medesima (io, la mia foto, i miei amici, i miei interessi).

La seconda parte del libro è una critica politica e filosofica al pensiero right libertarian (libertariano) che in USA gode di grande popolarità negli ambienti finanziari e imprenditoriali delle aziende ad alta tecnologia. Le idee di Murray N. Rothbard, Robert Nozick, Ayn Rand sono forse poco note in Italia e sono per certi versi difficilmente classificabili con gli schemi tradizionali destra/sinistra: vi sono uniti il concetto di libertà individuale come bene supremo da perseguire, il rifiuto dei vincoli sociali e statali visti come un freno distorcente per l’individuo, l’adozione della razionalità utilitarista come motore degli scambi sociali, l’idea che il mercato capitalista sia il luogo in cui la società possa veramente prendere libera forma.

Negli anni ’90 questa corrente di pensiero vede nelle tecnologie informatiche lo strumento con cui realizzare le promesse di una nuova società basata sui liberi individui, sul libero ed efficiente scambio di informazioni, sulla nuova economia razionale e frictionless. Esempio di questa mentalità anarco-capitalista è Peter Thiel, fondatore di Paypal e iniziale finanziatore di Facebook, nella cui visione si fondono feroce darwinismo sociale, illuminata meritocrazia, fiducia in un capitalismo senza regole, individualismo libertario. L’individuo libero in un mercato senza attriti per realizzare se stesso ed i suoi desideri è al centro delle aziende che Thiel contribuisce a creare per estrarre valore dai dati aggregati di milioni di individui, attraverso la tecnologia informatica.

Quel che trovo interessante non è tanto la critica della filosofia libertariana, un pensiero per certi versi ingenuo, astorico e semplicista, quanto la proposta di cercare analogie, influenze e contatti in campi adiacenti. Per esempio la cultura hacker, fatta di pragmatismo, informalità ma anche di forte meritocrazia (esattamente come nelle migliori università statunitensi) ha molti elementi in comune con la filosofia californiana, non ultimo il fatto che è vissuta da giovani maschi bianchi (la cosa mi da fastidio e mi affascina, dato che sono un rappresentante di questa specie). Una altro campo di analisi sono i nuovi movimenti politici dei Partiti Pirata in Svezia e Germania, centrati sul libero scambio delle informazioni, sulla centralità delle libertà individuali e sorprendentemente privi di idee sul ruolo dello Stato e della società organizzata, al di fuori di un apparente populismo (maschile, ancora una volta). Non poteva mancare infine un’analisi di Wikileaks, che sotto questa luce unisce etica hacker, ideologia del libero scambio informativo e gestione manageriale dell’informazione nella figura controversa di Julian Assange, apertamente libertariano.

Durante una presentazione del libro a Milano è stato interessante vedere il dibattito tra gli autori di Ippolita ed un lettore apertamente anarco-capitalista, che dal pubblico ha ingaggiato una ricerca di punti di contatto tra il pensiero anarchico  libertario degli autori e la filosofia libertariana di Rothbard: molti punti di accordo, ma una differenza radicale nel concepire la libertà della persona, individuale e privata per Rothbard, collettiva e condivisa per Ippolita.

Che fare? La terza parte del libro affronta le teorie del cambiamento sociale reso possibile dalla rete, per confutare la “rivoluzione di Twitter” in Iran o il ruolo di Facebook nei movimenti sociali. La rivoluzione non verrà twittata e non va confusa con il comodo attivismo da poltrona, il clic facile e poco impegnativo che ci sgrava la coscienza tra una giocata e l’altra a Farmville. Viviamo in un mondo che unisce le distopie di Orwell e di Huxley, una rete di controllo capillare per potere essere liberamente noi stessi, esprimere il nostro potenziale, produrre e consumare dentro recinti invisibili e feroci.

Ippolita non ha soluzioni, non propone progetti “buoni” da opporre a Facebook, come Wikipedia o social network open source come Diaspora o Crabgrass. C’è una sfiducia radicale nella dimensione umana in rete, nella deformazione che il disegno del software, qualsiasi software, imprime sulle nostre vite. “Resistance is futile”, non possiamo adottare contromisure (anonimato, crittografia) né fare a meno della rete. Forse solo la socialità conviviale, fuori rete e in piccola scala potrà farci uscire dall’acquario ed aiutarci a costruire un mondo di relazioni veramente libere tra persone vere.

E’ la parte più sentita del libro, e quella che mostra anche i limiti della critica alla rete su basi principalmente ideologiche e politiche. Come nei capitoli precedenti anche qui si perdono occasioni di analisi su base tecnicnologica e informatica, la parte sulla crittografia è debolissima e non considera gli studi condotti su anonimato e anonymity set fatti per esempio intorno a The Tor Project, ma questo non è un pamphlet per imparare a usare Facebook in sicurezza, un how-to tecnico. E’ una chiamata alla riflessione, un’apertura di discorso contraddittoria ed appassionata, con una buona bibliografia nelle succinte note al testo ed una rara trasparenza di metodo.

Il libro verrà pubblicato in Francia per Payot & Rivages ed in Spagna per Enclave de libros, una piccola editrice di Madrid. In Italia è disponibile gratuitamente per la lettura sul sito Ippolita e come ebook  a 7€, in formato epub e pdf. E’ sotto licenza aperta Creative Commons BY-NC-SA 3.0. Per ogni informazione www.ippolita.net

Recensioni:
Una recensione di Carlo Formenti su alfabeta2: Nell’acquario di Facebook
Ancora Carlo Formenti su MicroMega, con un diverso taglio: Nell’acquario di Facebook. Per una critica delle cyber utopie.
Daniele Salvini su MilanoX: Un’altra rete sociale è possibile

Violazione

3

 di Gianni Biondillo

Alessandra Sarchi, Violazione, 271 pagine, 2012, Einaudi

Violazione è sostanzialmente un libro che parla di famiglie. Alessandra Sarchi, qui al suo primo romanzo, scrive in modo anafettivo, quasi fosse una scienziata sociale attenta ad analizzare nel suo laboratorio le cellule minime della società, per restituircene la tassonomia.

Varie sono le tipologie e le combinazioni: c’è Primo Draghi, figlio di un meridione contadino che odia il passato di fatica e stenti, e che cerca nella cementificazione, e nell’abuso, il riscatto sociale e il facile guadagno. Famiglia patriarcale, la sua, con una moglie sottomessa e priva di contatti con la realtà e due figlie che per eccesso di autonomia o di autismo si negano al padre padrone. Poi c’è la famiglia piccolo borghese, impiegatizia e progressista, in teoria solidale, di Alberto e Linda Donelli, alla ricerca di uno sfogo dalle frustrazioni urbane bolognesi tradotto nel sogno bucolico di una casa in campagna, a pochi chilometri dal centro. Infine la famiglia fragile e senza diritti di Jon – ospite della madre Natasha, serva di famiglia Draghi – giovane clandestino che vive nascosto dal mondo, ridotto per ciò ad una umiliante servitù psicologica.

L’Italia, così come ci viene descritta da Sarchi sembra una nazione senza riscatto. Nessuno degli attori, per davvero, è capace di scatti d’orgoglio. Solo meschinità esplicite – quelle di Primo, calco di una arroganza fin troppo nazional-popolare – o implicite, camuffate dalla cultura, anche ecologista, di Alberto e Linda.

Ma questo è anche un libro dove lo scenario, il paesaggio, diventa protagonista. Violentato e idealizzato, sprecato e banalizzato, sfruttato e imbellettato, aspetta, mai davvero immobile, con i suoi tempi sovrastorici, il momento di una vendetta definitiva sull’umanità che non ha rispetto delle sue leggi. In attesa, durante la lettura, di una frana definitiva che sommerga tutti, Violazione termina con un’altra rappresentazione della sconfitta: quella di un sacrificio sterile che non saprà placare alcuna divinità ctonia.

 
[pubblicato su Cooperazione, n. 12 del 20 marzo 2012]

96 words on the future of the internet

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Instead of further going down the corporate lane of Microsoft, Apple, Amazon, Google and Facebook, I propose to go back to the original architecture of Internet as public infrastructure with decentralized nodes. It may be romantic to insist on the distributed nature of networks but it is a necessary political demand. Net criticism is a toothless project without a utopian dimension. Even if internet itself had a military origin in the Cold War, and is now dominated by equally destructive force of greedy venture capitalists, backed up by libertarian gurus. Let’s rethink the public sphere: another internet is possible! – Geert Lovink

RAFFAELLA FERRÉ inutili fuochi

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[La voce di Raffaella Ferré viene da Sud, ma non ci affligge con alcuna nonna mitica, archetipica&prefica, trascura madri sciamane dedite ai rituali ctoni del Sud magico di De Martino, con annessa pizzica&taranta, evita il folklore sugli uomini d’onore, ci esime anche da morti che parlano, emigranti oleografici, infanzie sgarrupate fra i vicoli, non lamenta nostalgica un passato idealizzato di civiltà contadine virate seppia, non si compiace in epiche amicali di province ulteriori depresse, bensì ci racconta dei vivi e del presente: il present continuous, il participio presente del divenire di un’unica giornata, della sua scansione oraria, di personaggi legati da un ventaglio di complessi rapporti. Colori elettrici e sapori acidi. Il romanzo si svolge in un luogo, che si potrebbe definire con l’abusato termine di non luogo, un residence di vacanze, dove i rituali dovrebbero essere quelli del divertimento, del disimpegno a tempo determinato dei giorni di ferie, ma invece racconta del consumo di mare e rapporti, dell’accendersi, inutile, di fuochi e di illusioni di fuga da se stessi. Ogni personaggio, dalla scrittura e nella scrittura, è svelato in un flusso densissimo di parole, coscienza e autocoscienza, che mette a nudo motivazioni profonde, traumi, incertezze, desideri inconfessabili, visioni scomposte di uno stesso evento, che, visto da prospettive soggettive e opposte, compone una grande differenza, un grande, inconsapevole, straniamento reciproco. La scrittura ricca nel lessico, nelle similitudini ironiche, nell’introspezione dei caratteri, con oggettività chirurgica impedisce un’immedesimazione empatica nei singoli personaggi, estendendola a tutto l’intersecarsi delle loro vicende. Le singole voci, a tratti in prima persona, a tratti in terza, a tratti nella descrizione delle altre voci, raggiungono una spietata e disperata visione dell’insieme corale. Ogni fotogramma, visto da angolature diverse, non lascia scampo a facili assoluzioni. (o.p.)]

 
Raffaella Ferré
da inutili fuochi
66THAND2ND [2012]

_________________________________________________________DAVID HOCKNEY Swimming Pool [Polaroid collage]
ORE 15.00
LIA
Mettiamola così: il sentiero taglia la pineta in due perfette metà di verde incenerito e in questo niente la immagino camminare. Mentalmente le disegno le cuffiette alle orecchie, i piedi scalzi e sudici di chi non è abituato ad avere paura di cartacce siringhe cicche di sigaretta. Non è abituata ad avere paura di qualcosa in generale, la ragazzina. Da qualche parte nella testa leggera, negli angoli di una terra non ancora raggiunta dalla consapevolezza, c’è una regione antartica mai toccata dal sole che sa. Potrei pensare a pinguini che si muovono lenti tra verità ghiacciate come cadaveri, il pack si crepa sotto i loro passetti ravvicinati, alle sue orecchie sussurrano che ci sarà il tempo per il terrore cieco, ma lei non li sente, lei è in piena estate. Veloci e cattivi i pinguini tornano sulla terraferma, gelata e buia: lei continua a camminare, l’aria è spessa di sabbia sporca e mare facile e se le punte tenere dei capelli castani le toccano il trapezio piccolo e teso disegnato dalle spalle bionde e ossute è felice: Per quando tornerò a scuola, a settembre, Gesù, falli arrivare alle tette e coprile per favore, ché gli sguardi degli altri che non conosco non vadano dritti là.
Che cosa scema chiamarle così, aveva detto a Giorgia il giorno che si erano cambiate assieme dopo palestra e sudate erano rimaste schiena contro schiena come nella pubblicità, al caldo vapore degli spogliatoi comuni a indicarsi le femmine grandi, il bianco panna della pelle e lo scuro livido e liscio in mezzo alle cosce, uscire ed entrare sotto le docce placide e senza vergogna, certe di chissà quale verità che le faceva uguali tutte, grasse e magre, alte e piccole, bionde e more. Tette sta bene a quelle che ce le hanno grosse, aveva continuato schiacciando il mento sullo sterno per guardare sotto il body fucsia, dà proprio l’idea di una cosa che boh, esplode!
E come possiamo chiamarle, allora?
Non lo so.
Fammele vedere, così mi viene un’idea. Allora si era alzata e con un solo colpo aveva fatto scattare la chiusura a clip e a sentire il ferro schioppettare tra le gambe si era toccata come a dire: Che male!, ma già rideva. Rideva anche Giorgia seduta sulle panche di stecche sottili, rideva come se avesse riconosciuto quel dolore minuscolo sulla carne viva, ce n’erano mai stati altri? Mentre fuori iniziava la lezione di step (ragazze questa coreografia è semplice) e la musica cominciava a spandersi e coprire il rumore delle docce (sette passi base che vanno ripetuti prima con il piede destro e poi con il sinistro) aveva tirato Lia verso di sé e l’aveva abbracciata stretta (cominciamo subito prima lentamente) e lentamente aveva alzato la testa e guardandola aveva baciato prima il seno destro e poi il sinistro, aveva baciato cose che non esistevano ancora in realtà, perché lì, sulla tavola liscia e tenera del petto candido e ansimante, c’erano solo due capezzoli grossi e grinzosi quanto una noce, rosa vivo, infiammati per il gran caldo. Minnucci. Chiamiamoli così (le nuove arrivate si mettano avanti).
Sono cresciuta assieme a loro, il reggiseno mi sta stretto e Giorgia dov’è? Come li chiamerebbe adesso? La immagino chiedersi. Lia quattordici anni domani alza la testa dal petto e pensa appena. Ricardo. Chissà se è già tornato a ballare, chissà se sono già le quattro. Nella mano sinistra dondola un paio di sandaletti di gomma arancio, addosso un pantaloncino di acetato sul costume bagnato; quando la stoffa arricciata e umida le dà fastidio tra le gambe che strusciano l’una contro l’altra sudate, allora si ferma. Attenta si avvicina a un albero, controlla che non ci siano formiche ragni resina appiccicosa cimici puzzone e si appoggia di schiena, sfila il pezzo di sotto e lo butta a terra sporcando la fodera, si guarda tra le gambe per verificare i repentini sviluppi di una situazione che le è stato detto di tenere d’occhio. Il giorno è quello giusto ma niente di nuovo: solo acqua. Sbu∂a e rimette veloce la seconda pelle azzurra senza curarsi di quello che si vede e di quello che no. Poca roba comunque, le ha detto ridendo sua madre guardando dietro l’orlo di un asciugamano. Poca roba che so solo io, ha risposto lei, tirandosi addosso il telo con il muso già pronto al broncio. Ma sopra la spugna bagnata l’una e l’altra si sono scambiate uno sguardo ed erano complici e la prima ha riso, pensando a un passato cui tenersi aggrappata come a un corrimano, e l’altra ha arricciato gli occhi come si fa con il sole e si è sentita come una che guarda la cima di una scalinata dal gradino più basso e non sa, ma lo vuole sapere forte, come ci si sente lì in alto. È certa che, se ne avesse l’opportunità, prima di buttare un occhio al panorama, prima di fermarsi sul rosso incendio degli alberi in una stagione prossima e piena di vento, guarderebbe il punto in cui è adesso e si vedrebbe allora, finalmente, per com’è, così lucida e ostinata come un legno giovane. Ma tutti impariamo noi stessi quando ne siamo ormai lontani e al sentirci chiedere la nostra età può capitare di rispondere sbagliando una cifra. È la sagoma di un passato di pomeriggi sul balcone quella che ci preme dietro la pelle, ci racconta di quello che siamo stati ieri, un mese fa, anni addietro, e di ciò che invece siamo oggi. Della strada fatta conosce tutti gli angoli e gli indirizzi sbagliati, la volta che dovevamo andare dritti invece di svoltare a sinistra o a destra, quella in cui non abbiamo ascoltato la voce imperiosa della volontà certi di chissà quale istintivo impulso che ci avrebbe perdonato poi, abbonandoci ogni colpa. È lei e viene a reclamare ciò che le è dovuto, quello che le abbiamo promesso, nient’altro. Ma Lia di queste cose sa molto poco: sulla sua testa stanno sogni tra parentesi come i numeri esponenziali nelle espressioni di scuola, lo sguardo sul libro e la matita a enumerare le probabilità elevate alla massima potenza di realizzazione, e cos’è x e cosa y, cos’è domani e domani l’altro e tutti i giorni dopo che si accendono tremolanti come luci al neon. Suo padre l’ha rimproverata, eccome: ha sgridato tutt’e due, la donna che somiglia sempre meno a quella che ha sposato e la bambina che ne sta prendendo tutte le fattezze e le espressioni, l’ombra cinerea delle ciglia sulle guance, il modo di portarsi i capelli dietro l’orecchio piccolo roseo quando è in difficoltà e quel sorrisetto che mostra appena i denti, le labbra carnose e pesanti, aperte, che ogni parola detta è già un peccato. La gente guarda, la cronaca nera sta scritta sul giornale come l’unico scenario possibile, e lui è un poco come Giorgia: vede le cose prima che ci siano sul serio. Ma non era un rimprovero il suo, no, era una specie di carezza e Lia lo capirà prima o dopo o già adesso che lui ripiega il quotidiano sottobraccio, prende una sigaretta e fa scattare l’accendino, lo rimette a posto infilandolo tra la pelle abbronzata del fianco e i boxer bagnati e la guarda a lungo mentre lei si alza e si allontana. In questo mondo di occhi chiari tranquilli e ottusi, di capelli scuri tagliati dritti, di manovre sicure per piantare l’ombrellone, un paletto per questo campeggio vampiro che succhia tutti i soldi di impiegato statale, passi decisi importanti di ciabatte quarantatré la seguono anche quando lei figlia corre con tutte le sue forze motrici e lungo la strada alberata che porta al mare la raggiungono. Cosa ne sanno gli altri dei trucchi del tempo che quando è passato è passato e se ritorna è solo attraverso uno che non sei tu, a farti vedere di nuovo tutte le meraviglie del possibile senza che tu, stavolta, possa prenderne una parte, usarla, farla tua e sciuparla?
Lia ha lasciato minacce e pasta sul fondo del contenitore Tupperware sporco di sugo ai bordi, ma sente le grida dei suoi come il vento tra i pini secchi anche adesso che cammina spedita verso i bagni alzando terra e sabbia con i piedi dipinti di rosa pesca: non si domanda il perché delle cose proprio come aveva fatto anni prima, pensa solo a passare le latrine, andare oltre l’area campeggio, e poi sarà Ricardo che è bello, è scuro, parla così strano, anche se capisce.
Ma prima che sia tutto, sul bordo della strada ci sono io.

[p 16.20]

 
ORE 17.30
LA BESTIA

Da bambina ero malata: non potevo stare lontano da mia madre che un paio di ore al giorno, il resto del tempo le giravo attorno attaccata alle sue gambe, seguendola tra la cucina e le stanze. Mia figlia è nata senza morbo: ero stata via due giorni e al rientro l’ho trovata con i miei vestiti indosso, cosi piccola che le gonne più corte toccavano il pavimento. Io ridevo, i bagagli ancora da disfare, mi coprivo la bocca con le mani. Che fai?, chiesi avvicinandomi. Mi rispose che faceva le prove, credeva fossi morta, avrebbe voluto prendere il mio posto. Quattordici anni domani Lia, la mia lontananza non le fa effetto, anzi, mi pare stia meglio quando può scappare da me e posare quei suoi occhietti schifati sul resto del mondo. Avrei tanto voluto essere come lei, cosi poco dipendente dagli altri, scontrosa e poco adatta alla compagnia. Non c’e niente di male in questo: essere soli significa, in fondo, essere tutto e non avere limiti. Ma posso riuscirci io? Da quando sono nata sono passata per stati febbrili di fertilità, amori corrisposti o meno mi lasciavano fecondata, la fine di ognuno era un piccolo aborto di possibilità. Devo averle consumate tutte ed elaborato il lutto eccomi prostrata alla sola vita che resta.
Ho quarantadue anni. Penso spesso a come sarò tra dieci, con la pelle che scende, le rughe e tutto il resto. Mi sembra di aver perso tempo per fare qualcosa, mi sento come se avessi lasciato il gas aperto. Non è paura, non è dolore: piuttosto è qualcosa di ingestibile quanto un buco nella canna del gas e cose del genere. Le cose piccole, quello di cui non ti accorgi e che decretano la tua morte a lungo andare, il margine di errore. Certi giorni mentre scrivo mi alzo e faccio le prove, mi tiro la faccia in giu o mi metto un foulard sopra i capelli legandolo con un nodo sotto il mento. Certi altri non mi importa granché. Certi altri ancora penso che non mi importa granché di me da quel giorno di settembre.
Adesso aspetto la fine del mondo, ho letto su ≪Vanity Fair≫ della profezia Maya, cerco di trovarne i segni per strada, negli incidenti al telegiornale o, quando la televisione non prende, nei pesci morti che galleggiano a pelo d’acqua vicino alla foce. Mi calma. Mi rilassa molto il sapere di non avere un futuro.
Ma Lia? Figlia mia bandiera, primo, unico fiore nato da questa fica spampanata e non ci conosciamo, siamo come gatti nati tra frasche e sangue e merda e siamo lontane, devo averle passato chissà quale istinto d’esplorazione, sulla mia bocca quando mi chinavo sul lettino e le baciavo la testa doveva esserci qualcosa che le ha fatto venire voglia di altro cibo, e l’ho svezzata, senza accorgermi, l’ho vista alzarsi tremolante dal giaciglio e andare via. Le gatte hanno l’istinto di conservazione e quando ci sono cucciolate numerose scalciano via i più precoci, prendono con sollievo il loro allontanamento: questo gli evita di esaurire le proprie riserve. Ma io non ho partorito altri gattini, avrei potuto tenerla attaccata alle mammelle anni e anni ancora, fare dei miei seni grosse sacche svuotate e dure, trasformarmi in un animale per davvero, spingere il muso contro la sua mano e portarla, insegnarle senza parole tutto quello che sapevo del mondo e che avevo dimenticato solo per permetterle di nascere. Un figlio e sempre un totale atto di fede cieca e senza fondamento, ottuso credo, padre nostro, cancella il domani e l’anno prossimo e quello dopo ancora, fanne un solo orizzonte d’aria e luce per lei che cammina sulla linea che divide mare e cielo. Non ho altro di mia figlia che la data in cui, per la seconda volta nella vita, dovrebbero venirle le mestruazioni. E lei, lei di me cosa deve conservare se non la presunzione dell’essere madre, questo mio sgridarla e volerla diversa, il proibirle le cose e comprarle miniassorbenti interni? Le ho fatto bucare le orecchie che ancora non stava in piedi e non mi sono sentita in dovere di spiegarle il dolore che le ho provocato supponendo di fare una cosa utile. A chi do la colpa? A quale fenomeno del tempo? C’è, sul giornale, uno psicologo a cui chiedere lumi sotto falso nome? Caro dottore, scriverei, la mia testa funziona ancora, di questo sono certa. Ho perso il ricordo di molte cose, di nomi e orari dei treni, del dolore non ho avuto manco la cognizione per un certo tempo, ma ho ancora memoria di come ci si sente ad avere tutta la vita davanti, a pensare di essere il migliore o il peggiore in una stanza prima di scoprire che siamo tutti il meglio e il peggio a fasi alterne e continue e che il vero dramma e conoscere l’alternanza di questi stati, abituarsi al loro ritmo e il giorno in cui lo sbalzo del cambiamento di frequenza risulti troppo forte per il fegato, amputarsi i pensieri. Il tempo è una tigre in gabbia da stordire con i tranquillanti. Ma cosi ignorante della mia carne bruciata io non posso essere: chiudo gli occhi, individuo e isolo tratti, richiamo a me l’adolescenza, l’orgoglio di essere guardata desiderata, l’ansia tremenda eccitante di sapere quando e sotto quale nome, con quale macchina, verrà l’amore a prendermi.
Penso a linee dritte di sopracciglia appena curvate alle tempie, penso al trapezio delle spalle, penso a cazzi turgidi e rossi, dottore, ed ecco un volto tra la folla, il modo in cui mi ha sorriso per la prima volta un uomo facendomi capire che c’era dell’altro e cos’era. Chi e stato? Un impiegato davanti al Banco di Roma o uno studente dalla camminata molle? E io, come mi sentivo a credere ancora, anzi, a credere punto e basta, a vivere, senza alternative? Riapro gli occhi nel riverbero del sole e guardo mio marito dormirmi di fianco e quello che fino a un momento prima mi era parso riconoscibile, schedato con nome e cognome, è ora sullo sfondo. Poso la penna. La memoria torna a fondersi con il resto delle cose accese al sole: pochi secondi e non sarò più in grado di percepire la forma chiusa di un corpo, il passato e uno scherzo, il passato è un soldato in tuta mimetica basso sul terreno di foglie, si nasconde e veloce scompare.

[p 71.74]

Opere pre-postume: Matteo Galiazzo

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dal racconto Meteorologia delle sinapsi pubblicato in Sinapsi, Opere postume di autore ancora in vita, Indiana editore.

Cara Loretta,
mamma c’ha una nuova mania ora. Registra le previsioni del tempo, poi le guarda il
giorno dopo. Cioè, la cosa veramente si svolgein maniera più o meno scientifica. Le previsioni del tempo che registra lei sono così, la prima parte è descrittiva, mostra semplicemente le ultime immagini del satellite, le ultime ore viste dall’alto. Quindi sono immagini completamente oggettive, sono un filmato, non c’è niente di immaginario. La seconda parte invece è la previsione vera e propria, cioè come si evolverà il tempo nelle prossime ore e nel giorno dopo nella mente dei metereologi. Tieni presente che la grafica è assolutamente la stessa, quindi non c’è discontinuità tra le due immagini. Bene, quindi questa seconda parte mostra attraverso dei calcoli, che sono calcoli che probabilmente misurano l’inerzia del mondo e dell’aria, mostra come proseguirà il cammino che le nuvole stavano percorrendo. È come bloccare un fotogramma all’improvviso e sulla base della dinamica delle cose calcolare come si evolverà la scena. Secondo me l’inerzia è la forza unica e fondamentale per capire l’universo e l’uomo e le menti umane quando agiscono tutte insieme. Comunque, il fatto è che invece non ci si capisce un cazzo e il metodo di mamma sta lì a dimostrarlo. Lei registra le previsioni di oggi attaccate a quelle di ieri. Poi riguarda la cassetta. È un lavoro molto triste. Dopo un po’ ti fai l’idea che quei cacchio di cumuli, che quelle cacchio di macchie bianche sulle cartine d’Europa si muovano assolutamente a caso, senza nessuna possibilità di previsione. C’è continuamente una cacchio di depressione che si avvicina minacciosamente verso di noi, e infatti le previsioni per il giorno dopo la danno sopra l’Italia settentrionale, invece poi si dissolve sempre prima di varcare le Alpi.
Dopo un mese puoi vedere, se ti interessa, tutta questa sequela di fallimenti uno in fila all’altro. Immaginazione immediatamente confutata. Non so. è una cosa molto avvilente. Comunque. Questa occupazione di mamma mi preoccupa un po’. Del resto. Comunque questo quartiere è veramente un posto da bestie. Mamma si trova bene qui, invece. Dovresti sentire come sbadiglia. Non è affatto normale sbadigliare così come fa lei. Cioè, lei sbadiglia in un modo. Cioè, la cosa che mi dà fastidio in realtà non è lo sbadiglio in sé, ma il fatto che lei mentre sbadiglia continua a parlare. Deformando completamente le parole. Non so, magari sta dicendo la frase «La principessa Stefania è di nuovo incinta», lei comincia la frase «La principessa Stefania», poi le viene da sbadigliare, anziché aspettare di finirla quando lo sbadiglio è finito, lei prosegue tranquillamente come se niente fosse «La principessa Stefania èèèèèèiuoooooooooiiiiiiiiiiiiaaaaa». Ecco. Perché lo fa? Certamente anche questo è un fenomeno legato all’inerzia. Ma poi la cosa che mi dà fastidio in realtà è un’altra. Esiste per tutti immagino la possibilità di sbadigliare stando zitti. Penso che tutti siano capaci. E mamma non solo continua a parlare durante lo sbadiglio, ma addirittura aspetta di sbadigliare per cominciare a parlare. Cioè, magari se ne stava lì zitta da due ore e attacca la frase proprio nel bel mezzo dello sbadiglio. Ma che senso ha? Secondo me lo fa apposta. Appena sente che le viene da sbadigliare si mette a parlare. Questi sbadigli sono veramente tremendi. La cosa brutta è che quando la sento mi viene da sbadigliare anche a me. E anch’io faccio dei versi orribili. Il fatto è che qui sbadigliano tutti, in questo quartiere. Anche i nostri vicini sbadigliano in continuazione rumorosamente. Cioè, sono veramente suoni disumani, non so spiegarti. Animaleschi, ecco. Vabbè. Mi sa che ti saluto.

Luca

Anch’io ascolto gli sbadigli. Gli sbadigli della madre di Luca. È che da quella notte aspetto. Sapere che c’è un’altra cosa come me anche dentro la madre di Luca mi fa. È da quella notte che aspetto.
Da quella notte osservo la madre di Luca con occhi diversi. Aspetto che dalle pieghe dei suoi movimenti e dei suoi gesti e delle sue parole, emerga qualcosa di attribuibile alla cosa. Purtroppo in questo sono dipendente da Luca. Non posso guardare in direzioni diverse da quelle che decide lui.
E gli sbadigli sono le cose che ascolto con più attenzione. Sono evidentemente un atto involontario. Quindi più facilmente controllabile da parte dell’entità che abita la madre di Luca. Anche gli starnuti. Anche i movimenti incontrollabili tipo i tic. Questa è una mia teoria. Secondo me nel momento in cui inizia uno sbadiglio è più facile per noi intromettersi e far passare deviazioni muscolari, o nascondere un’influenza sui movimenti. Dico questo nonostante io non sia mai riuscito a influenzare alcunché durante uno sbadiglio, uno starnuto o altro. Però quando la madre sbadiglia concentro la mia attenzione su quei suoni, cercando tracce di vita aliena. Cercando magari un codice, insomma prove della presenza dell’essere mio simile.

Nota pre-postuma
Tra qualche giorno pubblicherò un’intervista all’autore effeffe

Ricordare la Nakba palestinese con uno Yizkor alternativo

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Lunedì 14 maggio 2012, sul piazzale d’entrata dell’Università di Tel-Aviv si è svolta una cerimonia congiunta arabo-ebraica in commemorazione della Nakba palestinese.

di Davide Mano

“Ecco, l’hanno fatta davvero grossa”. Quando ho letto che, nell’università in cui mi sono iscritto per il mio dottorato e nella città più israeliana e più smemorata di Israele, Tel-Aviv, si stava per tenere uno Yizkor alternativo arabo-ebraico in memoria della Nakba palestinese, la prima reazione è stata di sorpresa. Raccolte le prime informazioni, un senso di ammirata curiosità ha avuto presto il sopravvento.

Have you seen my shoes? – Rosaria Capacchione

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Passeggiare. Andare dal punto A, la mia casa, al punto B, la redazione del giornale. Quattromila passi, se seguivo il percorso più breve. Una sorta di tracciato a sette che prevedeva la sosta dal giornalaio, le chiacchiere con la vicina e poi oltre: il bar, il caffè con l’avvocato, lo sguardo alla vetrina del negozio di articoli da regalo. È in quel punto, proprio agli inizi di una strada che i casertani si ostinano a chiamare via Napoli, che decidevo se seguire il corso dei miei pensieri, e così proseguivo a zig-zag nelle stradine del centro, o se tirare dritto fino al lavoro. In genere quando pioveva.

Mi è sempre piaciuto camminare sotto la pioggia, con il cappuccio calcato sulla testa. Sono sempre stata – ero – molto brava a passare da un portone all’altro senza bagnarmi troppo. Anche quella mattina pioveva, ma scelsi ugualmente il percorso più lungo per rubare qualche minuto: alla vita, ma non lo sapevo ancora. Fino a quella mattina – quattro anni e due mesi fa – era in quello spazio mattutino che incontravo il vecchio compagno di scuola, che scoprivo la chiusura di una bottega o il palazzo nuovo senza giardini. Era allora che incrociavo qualcuno che mi diceva: stavo cercando giusto te, devo dirti una cosa. Una notizia. Il mio lavoro.

Non c’è niente, per la verità, nel regolamento che vieti una passeggiata. Ma il fatto è che da quella mattina ho smesso di essere una persona, indossando la divisa di «personalità sottoposta a tutela». Per indossarla bene, quella divisa, bisogna nascerci: con una predisposizione al comando, all’indifferenza per le ragioni degli altri, a conversazioni ipocrite, a surrogati di amicizie a senso unico, a una sostanziale maleducazione. Così, quando incrocio lo sguardo di chi deve proteggermi, sempre alto sulle mie spalle, sempre vigile, qualcuno al quale ho imparato a volere molto bene e che mai vorrei vedere stanco, o triste, o preoccupato; quando lo incrocio, quello sguardo, allora cambio idea. E rinuncio.

Non mi piace essere «una personalità», non ci sono tagliata. E a chi, ogni tanto, me lo ricorda, chiedo: appena torno a essere una persona, mi accompagni dal punto A al punto B? A piedi, senza la necessità di parlare, come vecchi compagni che non hanno bisogno di troppe parole e neppure di inutili ossequi.

(Testo letto da Rosaria alla trasmissione “Quello che non ho” di Fabio Fazio e Roberto Saviano )

E da Radio Furlèn una canzone con dedica a Rosaria qui

Dal bordo degli Anni Zero

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Andrea Cortellessa

È appena uscito presso l’editore Ponte Sisto (http://www.edizionipontesisto.it/) un numero triplo della rivista «L’illuminista» (pp. 704, € 30) contenente un’antologia dei Narratori degli Anni Zero curata da Andrea Cortellessa. Riprendiamo l’inizio e la fine (pp. 17-20 e 51-53) dell’introduzione del curatore, La terra della prosa.

 Ci sono infinitamente più cose nella prosa e nella narrazione “reali”, oggi in Italia, di quante ne prescriva l’odierna filosofia del romanzo. Per «filosofia del romanzo» non intendo quella che i teorici della letteratura ci propongono, oggi assai meno d’un tempo, bensì quella che nei fatti – non dichiarata, e dunque non sottoposta a pubblica discussione – viene applicata nella sede che la narrativa, per ovvi motivi con molto maggiore efficacia che la poesia, da tempo s’è arrogata il diritto di regolamentare: l’editoria. Si parla di quella di scala maggiore, ovviamente, che – in virtù del controllo che pochi gruppi riescono oggi a esercitare su tutta la filiera del libro compresa la promozione: che a tutti gli effetti ha ormai inglobato,  esautorandola, la pubblica discussione – ha non solo il potere di condizionare i consumi del pubblico, il che è desolante ma ovvio, ma anche, e questo dovrebbe essere meno ovvio, quanto la teoria di un tempo definiva l’«orizzonte d’attesa» degli autori. I poteri che condizionavano chi scriveva nelle società d’ancien régime erano almeno istituzioni di diritto (ancorché un diritto autopromulgato): a differenza di quelli della mercatocrazia odierna, che nessuno è chiamato a riconoscere in sede formale ma non per questo (anzi!) sono meno rigidamente vigenti. In ogni caso la libertà espressiva di cui hanno goduto gli artisti in quella che a conti fatti è stata una “finestra” storicamente assai breve – coincidente in sostanza col secolo scarso fuori d’Italia definito “modernismo” – rappresenta, oggi, un ricordo sempre più lontano.

video arte #1 – jean-luc godard

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Jean-Luc Godard, Dans le noir du temps, 2002.

 

Giornalismo culturale: prime indagini sulla scomparsa

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di  Michele Dantini e Tomaso Montanari

Niente o pressoché niente, nell’informazione culturale in Italia, appare oggi al servizio del lettore: eppure il discorso giornalistico appare stabilire standard pubblici di competenza e ragionamento in un paese in cui pochi accedono al saggio o alla monografia. Il processo è in corso da tempo, ma manca un dibattito pubblico su quella che potremmo considerare la scomparsa del giornalismo di cultura o la mutazione in marketing di recensioni, interviste, presentazioni.