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Caccia alla tigre

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di Riccardo Ielmini

In memoria di Simone Cattaneo

Quando il mio amico Walter Primi tornò a casa, nella tarda primavera di quell’anno, non era più lo stopper che faceva coppia di centrali con me nei tornei estivi, quando ci chiamavano gli spietati. E nemmeno il chierichetto senza fronzoli, con la cotta troppo corta che gli scopre le caviglie, il chierichetto di cui si fida ciecamente don Toni. Il giorno che tornò, in licenza o congedo o vattelapesca, era qualcos’altro. Come se mi avessero spedito un fantoccio con il suo nome scolpito nel dna, o una specie di risvolto sbiadito della manica. Un Walter al contrario, un maglione visto di dentro, con tutte le cuciture, l’etichetta e i fili disordinati. Non assomigliava neppure lontanamente al gigante diabolico che mi faceva un cenno con gli occhi brillanti per dirmi che avrebbe preso lui l’attaccante – e fossi stato io, il centravanti, avrei dato tutto l’oro del mondo per non trovarmi, novanta minuti, a meno di un metro di distanza da lui. Come in tutte le coppie che funzionano, io facevo il partner. Io ero la spalla, il buono, il mite. Negli anni d’oro mi mettevo al centro della difesa; cercavo di non pensare a tutta l’angoscia che mi rammolliva le gambe; provavo a chiudere fuori i rumori del mondo; mi segnavo con la croce: e poi, occhi su Walter. Lui era fermo, le mani sui fianchi, il respiro regolare, le gambe piantate a terra, divaricate come i soldatini di piombo della sua collezione, la faccia quadrata e larga, i capelli corti e brillanti d’acqua, e tutto il suo metro e 95 che sembrava non finire mai, prolungato a dismisura nell’ombra sotto i fari del campo. Come una fortezza. Come il vecchio blockhaus austro-ungarico sporgente sul lago, vicino al campo, sferzato dai venti di tramontana. Ecco cosa mi sembrava, ecco perché a quel punto mettevo da parte coscienza, tentennamenti, paure, e pensavo solo alla battaglia che stava per cominciare.
Andò avanti così per due o tre estati, all’inizio degli anni Novanta. Chi metteva su una squadra per un torneo, pensava a qualcuno che non avesse pietà per nessuno. Walter Primi: presente. Poi lui chiamava me e mi diceva il posto, e l’ora. E la paga. Mai giocare solo per il piacere della partita – una questione di principio per lui: altrimenti non ti rispettano più, diceva rimproverandomi le sciocchezze alla De Coubertin imparate da mio padre. Ma a quel tempo ero nella stagione dei grandi rivolgimenti, di mio padre caduto giù dal piedistallo di capitano dell’industria per la storia del fallimento, e Walter mi pareva abbastanza degno di prendere il suo posto. Aveva un suo codice. Una lista di paroloni che lui chiudeva sempre così: e Soldi. Mi aveva riempito la testa con il suo decalogo di comportamento in campo, come dovessi caricarmi sulle spalle il male del mondo. E tutto per una partita di calcio. Ma per lui le cose andavano così.
Era stato l’unico dal quale avessi accettato la lavata di testa per aver lasciato l’università – anche questa «una questione di principio» come sosteneva mentre bevevamo una birra giù, al bar Vela, una domenica di fine agosto del ’94 che non dimenticherò mai. Sì, c’era stata la morte di mia madre, e la brutta storia di mio padre. Ma non era sufficiente, diceva lui, perché mi sgonfiassi come una camera d’aria. Io lo ascoltavo, ma che credibilità aveva lui, per mettermi davanti questioni di principio? Non aveva smesso di dar retta ai principi ai quali lo avevano educato i suoi deliziosi genitori? Non aveva tirato per il collo il destino pensato per lui da suo padre – mettersi in sella alla piccola azienda di antifurti che sponsorizzava almeno la metà dei tornei estivi ai quali partecipavamo? Non aveva deciso da solo cosa fare della sua vita, sprezzando il buon senso, subito dopo la visita militare? Finito il liceo, era partito per la naia. Poi la ferma volontaria. Poi le missioni di pace, e tutto il resto. Forse era la sua dirittura, era questo a tenermi sulla corda, a renderlo inimitabile? Uno che sapeva cosa fare, dove andare. Ed eccomi servito, io con i miei tentennamenti.
Allora, al tempo di quelle memorabili estati del ’95, ’96 e giù di lì, quando tornava a casa per la licenza lunga, allora avreste dovuto vederlo, Walter Primi, lo spietato, arrivare in scivolata, da dietro, sull’ala leggera lanciata in porta, e far schizzare il pallone oltre la rete di recinzione, con l’ala che vola via e da quel momento gironzola spaurita a dieci metri dall’area, poveraccio. O vederlo svettare con i gomiti altissimi in cima ad una mischia di sudore e sangue. Avreste dovuto vederlo, all’apice della sua fama, quando eravamo tutti e due al culmine della nostra parabola di centrali di difesa. Gente cresciuta quando i calciatori non erano fighetti con il codino e gli orecchini e i tatuaggi, come diceva lui per chiarire qual è la gerarchia dei valori. E chiudere i giochi, beato lui.
Chi l’avrebbe detto che le cose sarebbero andate così. Fossero passati i canonici vent’anni da quei momenti, avremmo tirato le somme di qualcosa – io e lui: ehi, ti ricordi com’era vent’anni fa? Qui c’era poco da tirare le somme. Dieci anni nemmeno dopo le nostre stagioni d’oro ci eravamo ritrovati, in un pomeriggio di maggio, ad ammirare le nostre inconcludenze. Solo che Walter era davvero irriconoscibile, con il suo metro e 95 di durezza appallottolato su se stesso. Io, invece, lo stesso incompiuto di dieci anni prima: il mio lavoro di magazziniere con l’incubo della cassa integrazione, le migliaia di libri letti, e i tre romanzi iniziati e piantati a metà della seconda stesura.

Comunque, era tornato a casa. All’improvviso.
Non aveva avvisato nessuno perché non voleva passare per uno di quegli eroi che il vecchio circolo di destra, a Verbate, aspettava di celebrare. Così mi disse. I vecchi rompicoglioni con le loro foto color seppia sulla decima mas, diceva lui. E non voleva nemmeno incrociare quelli della sezione degli alpini. O qualche ragazzino pacifista che gli appioppasse sulle spalle una di quelle assurde bandiere multicolori, gridando frasi incomprensibili e vuote sui destini dell’universo. Quelle puttanelle con vestiti da figli dei fiori comprati a centocinquanta euro, diceva. Alla larga, por favor.
Ci si vedeva giù, al bar Vela, come se il tempo non fosse passato, e fossimo sempre stati lì, per dieci anni e più. Magari fosse stato così. Mi precedeva sempre al primo tavolo a sinistra, nella veranda appoggiata sul lago, di traverso. Arrivandogli di sbieco, lo osservavo: i gomiti appoggiati al tavolo e le mani giunte, i suoi 195 centimetri accartocciati su qualcosa. Questo era quello che pensavo: ma forse erano le mie fantasie di scrittore introspettivo. O il bisogno di vedere che era diverso, come se avesse una vita da farsi perdonare. Guardava lontano, da qualche parte, nel chiarore del lago, dove non c’è niente da guardare se non le sagome fantasiose che pullulano all’occhio, in quel bianco di lattigine e nebbiolina.
«Non chiedermi niente» mi aveva detto il primo giorno che ci si era visti.
«Ok» avevo detto io. Ancora oggi mi chiedo se fu la scelta giusta, far finta che non fosse successo niente – e cosa mai doveva essere successo mentre lo scarrozzavano su e giù per le montagne fredde e spoglie dell’Afghanistan, nei giorni in cui io vivacchiavo aspettando che succedesse qualcosa per me, senza crederci davvero, che sarebbe successo qualcosa?
«È così chiaro» aveva aggiunto indicando il cuore invisibile del lago. «Come il posto in cui morire. A sceglierlo. Così». Gli venivano fuori queste frasi. Altro che stopper senza pietà, altro che fortezza. Altro che giganti di pietra. Un singhiozzo senza pianto. Un lamento senza vestiti strappati e urla di dolore. Straziante, per me.
«Troppo bianco» avevo detto io.
«No, bianco giusto. Come latte, come nascere ancora».
Quando attaccava così, non sapevo più cosa dire. C’era qualcosa di fuori posto nei suoi discorsi. Non che la cosa mi pesasse – il mio amico Walter aveva qualcosa di lirico, di sopra le righe, qualcosa che nemmeno lui aveva sospettato di avere. Solo che ogni sua parola sembrava saltar fuori da qualcosa di pazzesco, di abnorme. Come le cose che dici sotto anestesia.
«Una volta ho visto una donna. Una vecchia. L’ho vista in faccia e nel corpo. Un sobborgo di Kabul. Senti, ascoltami. Era senza bende, veli, e tutto quel nero che copre le donne in quel buco del mondo. Una vecchia bellissima, giuro. In una casa, durante un pattugliamento. Lei mi ha visto. Aveva appena preparato il bagno, o qualcosa del genere, in una tinozza. Potevo sentire il suo odore. Non aveva paura. Aveva i capelli lunghissimi, bianchi. La luce che veniva da fuori – una luce accecante che sbatteva sulle pareti terrose del tugurio – le faceva brillare i capelli. Li stava pettinando, o tirando, lentamente. Ha smesso di pettinarsi, e mi ha guardato – aveva visto che ero lì, ma aveva continuato per un po’ a fare come se non ci fossi. Poi mi ha fatto un segno, con la mano. Così – mi fece vedere – come passarsi un coltello sulla gola. Non ho capito cosa volesse dirmi, se voleva dirmi qualcosa: non c’erano minacce lì intorno. Zona bonificata, come dicevo ai miei uomini. È venuta verso di me, e poi – eravamo a due metri, e aveva un odore fortissimo, di incenso – ha chiuso la porta della sua stanza. Mi sono avvicinato, e ho ascoltato. Cantava. Un canto come stesse piangendo. Sentivo l’acqua intanto, muoversi. Ho guardato su, nel cielo, e verso le montagne. Era un cielo pieno di sole, accecante, bianco. E ho pensato che c’era così tanto bianco che avrei potuto perdermi, dimenticare tutto – la donna, i miei uomini, la guerra, tutto. Poi non ho sentito più la sua voce. Allora ho aperto la porta. La donna era sdraiata nella tinozza. Aveva i polsi tagliati. È morta dieci minuti dopo. No, non fare quella faccia – evidentemente dovevo sembrare il ragazzino che ero sempre, di fronte alla vita –. Era bellissimo. La luce accecante che veniva dalle finestre e dal tetto, e la donna che rantolava, e il sangue. Non sono riuscito a fare altro che stare lì a guardare».
«Come adesso» dissi io.
«No. Quello è un altro mondo. Non è per noi».
«Anche qui si muore».
«Sto parlando di un’altra cosa».
«E di cosa parli, accidenti, Walter?».
«Luce, silenzio, vuoto. Un altro mondo. Io dovevo passare di là. E adesso so le cose».
«Quali cose, per Dio?» Mi faceva spazientire. Tutto: vederlo così, sentirlo blaterare frasi sconnesse. Ridatemi il mio amico Walter, lo stopper senza pietà, il soldato duro e inflessibile. Ridatemelo, costi quel che costi.
«Le cose che ci aspettano in quel biancore. Non ne hai idea. Liberazione. Non libertà. Liberazione».
Avevo mollato il colpo. Mi sembrava tutto campato in aria, e mi sentivo venir su dallo stomaco il senso di pietà e commiserazione, proprio quello che non volevo avere parlando con il mio amico Walter. Mi raccontava storie così tutti i giorni. Un’altra volta disse che si era chinato sul corpo di un morto per sentire l’odore di mirra nella sua mano. O di quando si era vestito come un afgano, e aveva girovagato nei dintorni di Kabul per vedere sgozzare le capre, e ascoltare il riso dei bambini. Eppure era lui a dirmi di non chiedergli niente. Col passare del tempo ho cominciato a dubitare che fossero storie vere. Se non avessi saputo da sua madre e dai giornali delle sue note di merito, a Kabul, le sue parole sconclusionate e i suoi racconti mi sarebbero parsi del tutto folli. Cercavo di seguire il filo flebile della sua logica. Quando mi pareva di afferrarlo, quel filo, lui scantonava e non ti lasciava andare giù, all’inizio del groppo dal quale srotolava tutte quelle visioni. Ti guardava, sorrideva, ordinava un’altra birra, e amen.

Per un paio di settimane l’appuntamento quotidiano fu dopo le cinque e mezza del pomeriggio giù al bar Vela. Non sapevo cosa facesse tutto il giorno, mentre io ero al lavoro. Non sapevo nemmeno cosa facesse di notte. Avevo l’impressione che quell’ora che passava con me, davanti a due birre chiare, con la temperatura dell’aria che preannunciava l’estate, ogni giorno di più, fosse come una specie di ora d’aria, o una seduta gratis dallo strizzacervelli. Solo che io non ero una guida spirituale o cose del genere. Mai stato. Non che non mi sarebbe piaciuto: quando ero un ragazzino avevo un debole per le cause perse, per le storie di missionari ai quali mandavamo il riso raccolto nell’atrio della scuola elementare, per i gentiluomini mossi da un’ispirazione divina, o giù di lì, che mollano tutto e infilano le mani nelle piaghe della lebbra o nelle ferite dell’anima. Ma nel 2004 ero solo un uomo di poco più di trent’anni senza arte né parte. Uno specchio generazionale? No. Solo uno dei tanti. E davanti a me il mio amico Walter con i suoi racconti campati in aria, lo sguardo alla ricerca di qualcosa, e il suo metro e 95 traballante.

Poi, un giorno, all’improvviso, è saltato fuori con quella storia.
«Sai cosa vorrei fare, vecchio Sam?» mi chiamava così da quando eravamo seduti allo stesso banco, in terza elementare. Io avevo mandato giù un goccio di birra, e a sentirmi chiamare così mi ero ricordato del compito di latino che gli avevo passato in seconda liceo, quando io promettevo una mirabile carriera e per mia madre rappresentavo la quintessenza del bravo ragazzo, il figliolo-immaginetta da mettere sul comodino prima di dormire. Bei tempi.
«Cosa?»
«Ho visto i leoni, allo zoo di Kabul. Un posto di merda. Merda. E dentro quei leoni mezzi morti di fame. E quei dannati animalisti intorno a fare casino. Nel bel mezzo della guerra, gli animalisti con i fotografi e i giornalisti. E i leoni mezzi morti».
Da quando aveva cominciato a parlare aveva già lasciato almeno tre frasi a metà, ed io ero rimasto interdetto sul da farsi. C’era un balbettio infantile nelle sue parole, nel suo modo di muoversi. Un che di rompete le righe e si salvi chi può. Se l’avessi messo in un campo di calcio si sarebbe ripreso? O avrebbe vagato sulla linea della trequarti chiedendosi cosa fare? Pensai una cosa che non avrei creduto: povero Walter, pensai. Ecco cosa feci.
«Ero sulla camionetta che ci portava da una parte all’altra dell’Afghanistan, e pensavo a quei leoni. Al caos che c’era intorno. Al fatto che loro non se ne accorgevano davvero, perché erano stremati e spaventati, con la bava che gli veniva giù dalla bocca. Uno schifo. I leoni. Avevano occhi affamati. Di liberazione, qualunque cosa fosse. Avrei dovuto abbracciarli. O farmi sbranare, se ne avevano le forze. O sparargli un colpo. O portarli giù, al vecchio zoo safari».
Di nuovo si era fermato. Provai ad immaginarmi la scena. Il gigante Walter su una camionetta del corpo degli alpini che scende in mezzo al deserto e alle montagne vicino a Kabul, con il vento che gli morde via la pelle dalla faccia. Walter lo spietato va a prendersi i leoni – per pietà, per pura pietà – e li trascina via e li carica su un cargo, vigilandoli fino a che non sono in salvo, giù, allo zoo safari. Pazzesco.
«Vogliono chiuderlo» dissi.
«Cosa?»
«Il vecchio zoo safari».
Era vero. Una campagna animalista ferocissima e una serie di incidenti, in pochi mesi, avevano sputtanato una delle più solide istituzioni di Verbate. Tutti noi c’eravamo stati almeno un paio di volte, nella nostra vita, con i nostri genitori. Ah, le allegre scampagnate nella foresta, come Orzowei alle prese con i Masai. E le visite guidate con la scuola, quando capitava di trovarsi a giocare con scolaresche provenienti da posti mai sentiti. Mi era capitato di incontrare il vecchio Attilio. Il vecchio aveva messo su la baracca alla metà degli anni Settanta, dopo un illuminante viaggio in Africa. Era invecchiato con le sue bestie. «Sabotaggi, Sam, non incidenti» mi aveva confidato appoggiandosi al mio braccio. Mio padre era un suo vecchio amico, e con me aveva il modo di fare di uno zio d’America, con i suoi stivaloni e il cappellaccio di pelle.
«Ci sono stati degli incidenti. Fuoco giù ai vecchi padiglioni. E foto di animali in condizioni pessime. Lo chiuderanno presto» dissi a Walter.
«E il vecchio ‘Tilio?» mi chiese. Era a casa da una settimana ed era la prima volta che lo vedevo interessarsi a qualcosa. Come se all’improvviso il velo di latte che gli si era calato addosso si squarciasse, e tornasse a brillargli lo sguardo fiero da gioventù hitleriana. Anche Walter conosceva bene il vecchio, perché un’estate – non una qualsiasi: era l’estate della maturità – ci aveva preso a lavorare per un mese allo zoo. Sveglia prestissimo per la distribuzione di cibo agli animali, per la pulizia delle gabbie, per il deposito di rifiuti. Ci aveva pagato bene, a sufficienza per la prima vacanza da soli: sacco a pelo, ostelli, ragazze abbordate sulla spiaggia e via dicendo.
«Il vecchio ‘Tilio dice che sono sabotaggi, non incidenti».
«Bastardi». Aveva già fatto i suoi conti. Aveva già deciso da parte stare. Lo guardai mentre beveva la sua birra. La mano che restava appoggiata al tavolo tremava. Me ne accorgevo solo in quel momento.
«Andiamo dal vecchio?» mi chiese.
«Adesso?». Ero stanco morto. Domani ho il turno sei-due, avrei voluto dirgli. Non siamo tutti a casa in licenza, avrei dovuto aggiungere. Noi abbiamo da fare, siamo gente che lavora, accidenti, altro che fantasmagorie afgane e malinconie da disadattato. Ma non dissi niente, o dissi di sì: quella mano che tremava sul tavolo mi faceva più paura di quando lo vedevo avventarsi senza pietà sugli attaccanti.

Dopo la visita allo zoo safari non si fece più vedere, né sentire, per almeno un mese. Io non lo cercai, è vero. Non sono il tipo che va a stanare le volpi. Mai stato. Pensai che forse cercava di mettere ordine in quella sua testa piena di luci, e chiarori e magie. La sua testa piena di liberazione, come aveva detto lui quella volta, calcando la pronuncia e facendo un gesto nell’aria con la mano, come se fosse Lawrence D’Arabia. D’altra parte non eravamo più ragazzini: eravamo uomini, ognuno con una vita da far quadrare, tutto sommato. E anch’io, in quei giorni di maggio in cui la natura diventa troppo verde e blu per sopportare il fatto di stare qui e vivere, anch’io avevo le mie preoccupazioni, i miei progetti velleitari, i miei libri da leggere, i miei racconti da buttar giù nel silenzio della camera. Allora sentivo mio padre strascicare i piedi, al piano di sotto, come un’anima in pena alle prese con tutti i ricordi ingombranti di una vita – speranze, rimpianti, rimorsi, e mia madre. Io, di sopra, mi sforzavo di scrivere cose che sarebbero piaciute a La Capria – è questo che pensavo, povero illuso. La Capria, nientemeno: l’unico grande scrittore italiano del Novecento. Un uomo che insegue i suoi flebili sogni, ecco cos’ero. Eppure: chi poteva darmi torto? Chi poteva additarmi come un ingrato, se non chiamavo Walter e non gli chiedevo di uscire dal suo guscio di riservatezza, o oblio, o paura, e venire giù, al Vela, a farsi una birra? Magari incontriamo il figlio del sindaco D., e dai, Walter, ci mettiamo a raccontare tutta la stagione allievi del 1988-89, quando eravamo imbattibili e il figlio del sindaco D. faceva il centravanti, e tu lo pestavi forte negli allenamenti, per farlo diventare più duro, che ne dici Walter? – credete che a questo, a questa retorica il mio amico avrebbe dato corda? Magari arriva anche il Malerba, e ci offre da bere, con quella sua faccia da filosofo perdente, ma ci offre da bere e si mette cavalcioni sulla balaustra del lungolago, e ti chiede di raccontargli com’è il deserto, allora Walter ci stai? – pensate che lui avrebbe accettato, allora? Io non lo cercai, è vero. Per quanto ne sapevo, Walter poteva anche essere ripartito – mai capito io la questione della licenza, e del congedo, e vattelapesca. Poteva essere andata così, se mi mettevo a rigirare la frittata. Un vecchio amico torna confuso e disorientato dalla guerra. Dice cose insensate o quasi. Non è più lo stesso gladiatore di dieci anni prima. Non è più il valoroso soldato che ci avevano detto. Ma poi recupera le forze, come i personaggi di quei romanzi sui sanatori. Lava via tutte le scempiaggini nel sole di casa sua. E torna sul fronte, dove è nato per stare. Senza salutare – e questo è davvero Walter Primi. Non poteva essere così? E poi, non era stato lui, qualche anno prima, a chiudere i ponti con me, a dedicarsi anima e corpo alla sua carriera militare così gonfia di promesse? Ero stato forse io a convincerlo ad entrare nell’esercito? Perciò non mi sentivo in debito, né in dovere di tirarlo fuori dal buco in cui si era cacciato – anche se in fondo avevo capito, sapevo che era davvero un buco. Un fondo di caffè che non si poteva interpretare. Altro che luce, altro che chiarori e rivelazioni. Povero Walter.

Aveva ragione lui, invece. Quel blaterare di liberazione, che arriverà, oh se arriverà. In quei furenti giorni di maggio tutto quel chiarore sarebbe diventato rivelazione di qualcosa, almeno per lui, o per quello che restava del mio vecchio amico roccioso.
Era notte. Dolce, e chiara, e tutto il resto.
«È scappata le tigre» lo sentii dire, con la voce da Caronte che aveva una volta. Mi aveva telefonato lui.
Guardai la sveglia digitale sul comò.
«Walter, sono le due, cosa..?»
«La tigre, giù allo zoo, è scappata. Le puttanelle hanno aperto le gabbie. Mi ha chiamato il vecchio ‘Tilio, mentre ero in giro per il bosco». Dopotutto, aveva finalmente la voce di uno vivo, accidenti – fatti, tempi, personaggi: non quel suo blabla campato in aria.
«Dov’eri? Dove sei?» chiesi io.
«Su, al bosco. Il vecchio mi ha chiamato. Mi ha detto che la tigre non c’è più. Gabbia aperta. E tracce verso il bosco. Ti chiamo da qui. La tigre, la tigre!» e sentivo che avrebbe voluto gridare, ma tratteneva la voce. Vecchio vademecum militare, pensai. Muoversi nella foresta senza che il nemico possa sentirti.
«E cosa ci fai nel bosco? Vieni via, sono le due»: stentavo io stesso a credere a quello che stavo dicendo. Ma era tutto vero. Vera la telefonata, inaspettatamente vera la sua voce, vera la sua presenza nel bosco alto di Verbate, ad est dello zoo safari.
Dunque era così. Forse passava il giorno a dormire e di notte girovagava per i boschi. Era un’anima in pena baciata dalla luna che filtra fra i rami. Cos’era diventato? Uno sciamano, un fauno, un satiro malinconico e invecchiato? O forse il tragicomico rabdomante di se stesso, un poveraccio sconclusionato alla ricerca del suo spirito?
«E cosa vuoi?» chiesi. Cominciavo a vederci più chiaro, e la cosa mi sembrava sempre più pazzesca.
«Raggiungimi. Vieni all’incrocio del sentiero con la pista da cross, sopra la torbiera. Partiamo da lì».
Conoscevo bene il posto. Per tutti gli anni Ottanta era stato uno dei crocevia di tossici di eroina a Verbate. Uno snodo dal quale ci mettevano in guardia le nostre madri, quando partivamo, con le nostre vecchie bici saltafoss. Era l’angolo di confluenza di tre sentieri, nel punto di accesso al rettilineo di partenza della vecchia pista da motocross abbandonata. A un tiro di schioppo dallo zoo. Avevano chiuso la pista – dopo due campionati italiani e un mondiale di sidecar – quando erano partiti i lavori per la costruzione del safari, a fine anni Settanta.
«Ma sono le due di notte» gli ripetei. Dovevo sembrare un disco rotto.
«Vieni. Porta la torcia» e chiuse la chiamata.
Restai a guardare i led rossi della sveglia che bucavano il buio della mia stanza. Da bambino passavo un sacco di tempo rannicchiato sotto le coperte, con la torcia accesa in mano. Il nascondiglio segreto, dicevo a mia madre quando entrava e mi chiedeva cosa stessi combinando, con quell’aria da profugo o terremotato – coperta aggrovigliata, capelli arruffati e briciole di biscotti sparsi sul pavimento. Bei tempi. Mi alzai dal letto, infilai la tuta da lavoro, le mie scarpacce antinfortunio, e scesi giù.

Ci vollero dieci minuti di macchina.
Walter mi aspettava, seduto su un ceppo di castagno. Sembrava davvero uno sgusciato fuori dal sogno di una notte di mezz’estate. Quando mi vide arrivare fece un cenno con le braccia, alzandosi, perché spegnessi il motore e i fari della mia Ford. Accostai e scesi. Dal bosco arrivava fortissimo l’odore di pollini e muschi. Come quando mi portavano, le sere di maggio, a recitare il rosario nelle piccole cappelle votive diroccate, che inaspettatamente tempestavano i sentieri del bosco dai giorni della Controriforma. Allora era davvero tutto incredibile – mia madre come una ninfa che vola nei boschi, mio padre come la quintessenza dell’energia, e io al centro dell’universo. Era successo secoli prima.
«Ciao» dissi dirigendomi verso di lui.
«Stai chino. L’aria diffonde il tuo odore» fu la sua risposta. E chi dovrebbe sentirlo, il mio odore? – volevo dirgli.
«Ora. Seguiamo il sentiero fino alla prima morena, poi facciamo la vecchia pista» mi intimò. Aveva la faccia sporca di terra, come i marines che vedevo nelle fiction dopo il lavoro. Faceva sul serio.
«Hai la torcia? Da’ qui, vado avanti io» aggiunse. Si alzò e cominciò a camminare: da dietro sembrava il gigante di una fiaba, o un cavaliere errante sui sentieri della sua intuizione folle, o il vecchio stopper che imprecava gelido al limite dell’area, portandoci, su tutti! verso la linea del fuorigioco. La luce della torcia toccava le morene di fili d’erba e arbusti, sfiorate dalla brezza che disperdeva i pollini. Camminando potevo sentire le punte delle felci che mi toccavano le gambe, come il solletico di mille invisibili dita.
E ci inoltrammo nel bosco.

C’era un silenzio naturale. Camminavamo senza nemmeno sentire i nostri passi, senza avvertire le nostre traslazioni a pelo d’erba, come se fluttuassimo sulle punte della vegetazione. Ci guardavamo intorno. Dall’altro lato della montagnola, dove c’era il serpente di terra e sassi della vecchia pista, sulle morene di robinie, altre luci bucavano il buio. Un fascio, attraverso le trame degli alberi, sparato in alto, verso il cielo, la luna e Dio – se c’è. Altri ricercatori. Ci arrivava il loro bisbiglio bambinesco. Noi eravamo in silenzio, invece. E al buio. Noi eravamo a caccia. Acquattati fra le felci, ci saliva il sentore della terra nera, e di tutto quello che era lì in macerazione, da secoli, sotto le nostre pance. Walter mi faceva dei cenni, con indice e medio allineati e vicini, come fossimo due controfigure in un film di guerra.
Oltre alla sua faccia di terra, quel suo parlare con le dita era l’unica parvenza del soldato che era stato, e che inspiegabilmente non era più. Come se la scia luminosa sulla quale aveva cavalcato in quegli anni, su su verso il successo che tutti gli pronosticavano, come se quella scia fosse stata tutto un abbaglio, un clamoroso bluff al quale lui stesso aveva creduto, da quando era venuto da me, freddo e luminoso, a dirmi che aveva «messo la firma», nel ’94 o giù di lì. Che gli fosse capitato qualcosa di tremendo mentre era di stanza nei dintorni di Kabul, non l’avevo nemmeno pensato. Non era tipo da facili sentimentalismi. Non uno che si faccia abbindolare da suffragette pacifiste o da vecchi medici di organizzazioni non governative. E nemmeno uno interessato a scoprire i drammi di un popolo, di una terra. Non era mai stato un cuore tenero da redimere. Ma quel gesto, quelle due dita unite ad indicarmi i movimenti da fare – perché la tigre non ci vedesse, non ci sentisse, non sapesse niente di noi – era l’unica traccia di ciò che era stato: il resto era soltanto un fantoccio molle preda di fantasmi e fantasie.
Ed io? Perché l’avevo seguito? Perché mi ero fatto trascinare – letteralmente – in quell’assurda e pericolosissima scampagnata notturne per i boschi? Cosa pensavo di fare, smettere di fare il mezzo fallito e buttarmi in ritardo di quindici anni nel gorgo della vita, come Hemingway, che da ragazzo aveva rappresentato per me la quintessenza stessa dello scrittore che avrei voluto diventare e non sarei mai stato? O volevo fare il profeta disarmato che ammansisce le belve – oh miracolo! – io, minuscolo San Francesco, piccolo Orfeo del millennio? O mettermi a giocare a Sandokan e finalmente, con trent’anni di ritardo, stavolta, diventare l’eroe dei romanzi di Salgari che avevo amato? No. Balle. Era per Walter. E per il brillio sinistro che ghignava nei suoi occhi – quello era. E anche per il formicolio che aveva ripreso a scuotermi come prima di scendere in campo per la finale. Stava succedendo, ecco tutto – e quando succede il resto sono particolari. Illuminazione. O Liberazione. O qualsiasi altra cosa uno voglia dire. Sentivo distintamente i nostri respiri. Percepivo gli odori del mondo. Avevo cominciato a vedere l’impercettibile spostamento della luna, in cielo. E delle costellazioni, dove le frasche diradavano e piccole parentesi di cielo si aprivano sopra di noi. Di là, sulla montagnola opposta, ancora luci alla rinfusa, disordinate, scendevano. Gli uomini delle ricerche stavano pattugliando il bosco. Cercavano la Tigre. Noi no: noi eravamo a caccia, disarmati. La faccenda era diversa, completamente. Walter mi fece il segnale – avanzavamo sugli avambracci, respirando il profumo di milioni di esseri esalanti sotto di noi. Lui sembrava un lunghissimo serpente uscito da una storia diabolica: ma non importava. Importava essere lì. Walter, io, e la Tigre. Noi sulle sue tracce, e lei sulle nostre.

Vidi la Tigre quando ormai la Tigre aveva visto noi.
Dall’altra parte, sul pendio, non c’erano più luci. Gli uomini alla ricerca erano scomparsi in fondo al valloncello, ai piedi del bosco dove eravamo noi. Non ci arrivava nemmeno l’eco delle loro parole di richiamo. Erano come lucciole spente sotto una cappa.
Walter era immobile, gli occhi fermi, puntati in avanti, e il suo ghigno. Chi non lo aveva conosciuto nei suoi giorni di grandezza, avrebbe pensato che fosse cinico, e scettico. O che fosse un povero fallito, se lo avesse visto in quei giorni: un ragazzaccio fatto a pezzi dalle sue debolezze e da fantasmi che avevano piantato il loro vessillo nel suo cervello fragile. Io lo guardavo davvero, e sapevo cosa stavo guardando: vita immobile, un grumo di nervi pronto ad esplodere. Mi fece un cenno rapidissimo, con le due dita unite. Io ero troppo impaurito per decodificare subito quello che voleva dirmi. Non sarei sopravvissuto più di un’ora, senza Walter. Mi fece ancora il segnale. Aveva la faccia di uno che ha già fatto i suoi conti. Di uno che sa già come andrà a finire, perché finirà esattamente come lui vuole che finisca.
Guardai avanti. La Tigre era sdraiata su un fianco. Sembrava di terracotta smaltata, una di quelle cose kitsch che ci sono sopra i camini. Il suo pelo si accartocciava flaccido sui rametti e sulle foglie sparsi attorno. Bellissima. Guardava verso di noi, e cadenzava il respiro. Anche lei sapeva cosa sarebbe successo, e sembrava aspettare. Solo io non avevo chiaro un bel niente, o avevo frainteso tutto, come sempre. Avevo solo paura, una dannata paura.
Walter mi guardò, allora. Ghignò, il corpo puntellato sui gomiti, la testa ripiegata, le gambe lunghissime, come una coda. Altro che fantasie lattiginose, e pause lunghissime nei discorsi, e tutta quella pappa molle che mi aveva gettato addosso, come stesse delirando, nelle serate al bar Vela. Signore e signori, ecco a voi Walter Primi, lo spietato.
Chissà come dovevo sembrargli. Chissà cosa pensava del suo vecchio compagno di difesa, del mio sorriso di circostanza, ora che capivo di essermi cacciato davvero nei guai. Durò un attimo: incrociammo i nostri occhi, e insieme tutta la parentesi terrena che fino ad allora avevamo misteriosamente condiviso. Poi feci quello che dovevo fare.
Mi alzai, senza guardare niente – il bosco, il sentiero, la Tigre, Walter. Niente. Mi alzai e cominciai a correre, io un’ombra duplicata dalla mia stessa ombra notturna, sotto la luce della luna.
Anche Walter si alzò.
Anche la Tigre, allargando le fauci ed emettendo un suono rauco e primitivo.
Io correvo, inciampando ovunque.
La Tigre balzò verso di noi, verso di me.
Mi voltai, scivolando ed annaspando.
In piedi, fermo, c’era Walter. Si tirò su le maniche. Non so perché lo fece. Fu un gesto stupido. Un gesto grandioso.
La tigre emerse biancoarancione dalla lunga serie delle felci. La vidi caracollare, prima, e poi prendere una lunga rincorsa. Walter rimase fermo. Si piegò sulle ginocchia. Prese posizione. Non lo vidi in faccia. Non si voltò. La tigre emise il suo grido di guerra. La vidi ancora balzare in avanti, come pescando le forze dall’accumulo della sua prigione dorata, giù allo zoo. Balzò ancora, e ancora. Poi, fu in campo aperto, fuori dalle felci. Una magia, vederla dove anni prima avevamo lasciato le nostre biciclette e ci eravamo inoltrati nel bosco. Dove ero passato con mio padre e mia madre, vent’anni prima. La Tigre. Era immensa. Era bellissima.
Di fronte a lei, verticale e freddo, Walter. Come la statua di Stefano davanti ai lapidatori, quella che avevamo davanti quando servivamo messa.
Anche lui era balzato fuori – fuori dalle felci, fuori dalla terra, fuori da tutto quello che lo aveva imprigionato. Balzò fuori, all’aperto, sotto la luna e le stelle, sotto Dio.
Lo vidi correre, luminoso, verso dove sapeva di dover andare. Correva verso la Tigre. Poi più nulla, come una liberazione.

Riccardo Ielmini è nato a Varese nel ’73. Ha vinto il Premio Chiara Inediti 2011 con la raccolta di racconti Belle speranze (Macchione 2011).

hanksy

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di Sabina de Gregori

Il mondo si sa, gira e rigira su se stesso, ma ogni tanto improvvisa e sorprende con qualche variazione. In questo caso, il re della street art Banksy – ancora oggi anonimo (e milionario) – è stato sorpreso dalla variazione dei suoi stessi lavori. Per mano di chi? Hanksy. Sì, avete capito bene, il nuovo fenomeno che viene dalle strade newyorkesi si chiama proprio così. Tra la beffa e l’omaggio, i personaggi più famosi dell’artista britannico hanno ripreso vita sui muri della grande mela, con il particolare però che i volti sono stati sostituiti con quello dell’attore Tom Hanks. Ecco quindi che negli ultimi mesi, tra i grattacieli, sono apparsi cameriere mascoline accompagnate dalla scritta “La street art è un pozzo di soldi” o bambine che guardavano volare via un palloncino con il volto dell’attore che, sarcastico, recitava: “Prendimi se ci riesci”. L’attenzione del pubblico e dei media è stata talmente alta da spingere la Krause Gallery, nel Lower East Side di Manhattan, quartiere dove è cresciuto lo stesso Hanksy, a organizzare la sua prima personale lo scorso gennaio.

Intervista a Valerio Evangelisti

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 a cura di Tiziano Colombi

One Big Union è l’ultimo romanzo dello scrittore bolognese padre di Eymerich l’inquisitore catalano la cui saga ha raggiunto i lettori di tutto il mondo. Qui però si racconta altro. L’epopea è quella degli Industrial Worker of the World, il sindacato rivoluzionario che, tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, provò a organizzare precari, bracciati, manovali, immigrati e disoccupati. Storia di una sconfitta.

Au revoir, Gir

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Jean Giraud (8 maggio 1938 – 10 marzo 2012)

pop muzik (everybody talk about) #15

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No fun / The Stooges. 1969

se c’è una cosa che non ti fa stare zitta, è un segreto

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di Chiara Valerio

Ha i suoi vantaggi essere nel posto più brutto, perché non ti preoccupi di perderti qualcosa. Nella stazione termale, stanno, insieme ad altri ospiti ma un po’ discoste, quattro donne. Emma, morbida perfino nei polpacci, la nipote Lucy che forse sarebbe stata più felice se quei bei ragazzi russi, intravisti all’arrivo, fossero rimasti, Giuseppina, con una stampella che tiene salda lei e la sua bellezza passata e presente, smagliante e pugnace e Lucia, sottile e appena curva come un arco teso, con una faccia dolce o severa, a volte infantile. Nella stazione termale, dove la noia è complicata, le quattro donne si notano, si seguono, soprattutto s’incrociano, e poi qui è previsto di godersela. Ne La stazione termale (Sellerio, 2012) di Ginevra Bompiani le quattro donne, ognuna a un’età diversa, ognuna con un differente obiettivo, o nessuno, passano il tempo nuotando, fuggendo dalla sala del pranzo e della cena per rifugiarsi in un ristorante a mangiare una tartara con salse e cognac, giocano a dama, si sogguardano, passeggiano nuotano. Soprattutto, s’incrociano. Hanno una certa età, vuol dire che hanno un’età che nessuno vuole indovinare, e magari neanche avere.

Ciao, Elio. Grazie

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CIAO ELIO, GRAZIE

“La ragazza Carla”

di Elio Pagliarani

Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti
c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.

Dal 6 marzo in edicola e in libreria il n° 17 di “alfabeta2”

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«Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice No.

Donne, tabacchi e psicoanalisi

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di Helena Janeczek

Discendiamo a ritroso il fiume di un’epopea di famiglia imperniata su tre generazioni di figure femminili. Celeste, sposata con il mezzadro Filippo, scende dai declivi del Monte Nero per trasferirsi nella città in pianura, dove non li attende la libertà agognata, ma la grande manifattura di tabacchi.

Femminicidio

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[Oggi, 8 marzo, la voce delle donne deve farsi sentire. Ma non solo quella. Ciò che mi inquieta è il nostro silenzio, Il silenzio degli uomini, così come ci viene raccontato dal bel libro di Iaia Caputo. L’autrice ci regala qui di seguito un capitolo del suo saggio, sul quale riflettere. Per farci dire finalmente qualcosa, che non sia pelosamente d’occasione. G.B.]

di Iaia Caputo

Esiste un luogo nel mondo, al confine tra Messico e Stati Uniti, che vanta un macabro primato: il più alto numero di donne uccise del pianeta. È un territorio di polvere e pietre, dove vive un milione e mezzo di abitanti (di cui ottantamila sono cocainomani), in 188 chilometri quadrati, crocevia del traffico di droga tra i due Stati. A Ciudad Juárez, sono morte in vent’anni cinquecento donne (ma c’è chi stima che siano almeno il doppio), tra i quattordici e i quarant’anni; violentate e torturate, sono tutte uscite di casa un giorno qualunque e mai più tornate. Solo trentasei tra loro sono nel cimitero di San Rafael, appena fuori dalla città-mattatoio; tutte le altre risultano scomparse, e molte hanno trovato sepoltura in una fossa comune a trenta chilometri da Ciudad Juárez, insieme a tutti i morti che nessuno osa riconoscere nel timore di rappresaglie. Chi sa non parla. E chi prova a parlare, come la madre di una studentessa sedicenne uccisa un paio di anni fa da un sicario degli Zetas, una delle bande più feroci dei signori della droga, viene messo a tacere per sempre. Lei è stata abbattuta a raffiche di mitra mentre andava a denunciare i presunti assassini della figlia.
È stata coniata qui, in questo deserto senza pietà né legge, la definizione di femminicidio, e il mistero delle migliaia di donne vittime di omicidi sessuali, che spesso niente hanno a che fare con il narcotraffico, seppure narcotrafficanti si presume siano i loro carnefici, è stato oggetto di denunce e reportage, ha ispirato grandissimi scrittori come Roberto Bolaño ed è stato raccontato dal cinema con Bordertown, una pellicola del 2009 con Antonio Banderas e Jennifer Lopez.
All’origine della mattanza si pensava a un’unica mano, quella di un serial-killer, poiché le vittime avevano caratteristiche comuni: erano donne appariscenti, brune, e di poverissima estrazione sociale. Ma questa ipotesi è durata poco. Dopo centinaia di femminicidi (ma solo negli ultimi cinque anni sono morti anche un migliaio di minorenni), si è propensi a credere che se il genocidio è iniziato con uno o più maniaci sessuali seriali, sia in seguito scattata un’emulazione perversa che ha coinvolto decine di assassini, legati alla produzione di snuff movies o alla tratta delle bianche. Persino la polizia si ritiene implicata in numerose morti, e se le autorità hanno cominciato a uscire dal letargo è solo grazie alle campagne di opinione portate avanti da associazioni di donne.
Oggi, il parere unanime è che in questa terra di confine sia esplosa una misoginia criminale, dove gli uomini uccidono per un gioco crudele, per puro e sadico divertimento, come se si fossero scelti un luogo, e che si tratti di una terra al limite, «sul bordo», è una metafora potente, dove regnano le pulsioni più feroci e l’impunità più assoluta. Insomma, uno spazio di libertà in cui gli uomini odiano, indisturbati, fino alle estreme conseguenze, le donne. E se sull’orlo di questo baratro si stia consumando l’ultimo, macabro massacro di una misoginia morente, e per questo tanto più spietata, o si stia verificando la terribile riconferma di un’avversione inestirpabile ce lo dirà la storia.
Tuttavia, che dall’origine della civiltà la violenza rappresenti un nodo irrisolto del rapporto uomo-donna si può affermare ancora oggi, forse, oggi più di ieri. Perché non solo le donne continuano a morire, vittime della violenza maschile, ma la prima causa di morte e invalidità permanente per le donne dai sedici ai quarantacinque anni è legata all’ambiente domestico a ai rapporti familiari. Ed è così tutto il mondo, compreso il civilissimo vecchio continente, come ha rivelato un’indagine del Consiglio d’Europa del 2005. Dunque, colui che dà la morte è marito, amante o padre. Come se la violenza fosse, nonostante tutto, la faccia nascosta dell’amore, una possibile conseguenza, un rischio sempre in agguato. E nel nostro Paese i femminicidi sono in aumento, più del 70 per cento avvenuti in famiglia. Tra i delitti che si consumano tra le mura domestiche, le donne sono vittime in un caso su quattro. Lo testimoniano i dati dell’ultimo rapporto Eures-Ansa, la più esaustiva ricerca su «L’omicidio volontario in Italia»: le donne uccise sono passate dal 15,3 per cento del totale, nel biennio 1992-1994, al 23,8 del 2007-2008. E l’incremento si registra proprio nel ricco e sviluppato nord: dove, nel 2008, ultimo anno disponibile, le vittime di sesso femminile sono state il 47,6 per cento, contro il 29,9 per cento del sud e il 22,4 del centro.
L’elenco delle vittime è impressionante, praticamente ogni tre giorni una donna nel nostro Paese muore di morte violenta. E se almeno ogni sei mesi una vittima massacrata dai parenti o ritrovata morta dopo settimane, soprattutto giovanissima, circondata dal mistero e da dettagli inquietanti, diventa un «caso di cronaca», un feuilleton a puntate seguito da milioni di telespettatori ormai trasformati in pornografi della morte e in appassionati necrofili, tutte le altre finiscono in un trafiletto sulle pagine locali e vengono presto dimenticate.
Chi ricorda più Jennifer, una ventenne di Olmo di Martellago, picchiata e uccisa dall’amante per l’unica ragione di essere incinta e di aver deciso di tenere il bambino, anche senza di lui? Una decisione ferma, senza volontà di ricatto né di rivalsa, eppure l’uomo ha creduto che l’eliminazione fisica della ragazza fosse l’unico modo per non correre rischi: stava per sposarsi lui, non voleva guai con la sua fidanzata. E Ahmad Khan Butt un pachistano che a Novi ha ucciso la moglie, Begm Shnez, a colpi di mattone perché aveva difeso la figlia Nosheen che rifiutava un matrimonio combinato, mentre il figlio della coppia, Umair, diciannovenne, prendeva a sprangate sua sorella riducendola in coma? Chi li ricorda? Solo un mese dopo, siamo nel novembre del 2010, in provincia di Pordenone, è Sanaa, una giovane marocchina a essere uccisa dal padre che non accetta la sua relazione con un italiano. Sono insieme in macchina, Sanaa e Massimo, appartati ai margini di un bosco quando il padre con un’arma da taglio l’ha aggredita. La ragazza tenta di scappare, ma viene raggiunta e finita a coltellate. El Ketawi Da ha compiuto la sua vendetta. La lascia a terra sanguinante e scappa.
«Ho perso il controllo, l’ho colpita e non riuscivo a fermarmi. Poi l’ho guardata mentre moriva» sono queste le parole con le quali un grafico ventottenne della provincia di Milano confessa l’omicidio della sua ex compagna. Erano stati insieme qualche mese, poi la relazione era finita, ma continuavano a vedersi ogni tanto, per riprendersi e lasciarsi ancora. Il corpo martoriato di Monica Savio, madre di un bambino, verrà trovato con il volto sfigurato per i pugni ricevuti, abbandonato in un parco dell’hinterland milanese.
A Milano, due fratelli, Ilaria e Gianluca Palummieri, vengono selvaggiamente uccisi dall’ex fidanzato di lei, Riccardo Bianchi. Un ragazzo come tanti, figlio unico, tranquillo, è un ventenne che vive ancora in famiglia. Non è un bullo e neppure un violento. Almeno fino alla notte in cui, nell’estate del 2011, ammazza Gianluca e poi si presenta a casa di Ilaria: la picchia, la tortura, la violenta più volte e la ammazza strangolandola lentamente, vuole vederla agonizzare. Arrestato, Riccardo dà varie e controverse versioni di un delitto che viene pianto da decine di amici comuni increduli, atterriti, che non riescono ad accettare quelle due morti atroci. Lui, l’assassino, può solo balbettare l’assurdo: amava ancora Ilaria, e non riusciva a rassegnarsi che tra loro fosse finita. Ed era pure grande amico di Gianluca, aveva cercato la sua complicità per riconquistarla. Il rifiuto dell’una e dell’altro lo trasforma in un aguzzino.
Nel 2010, in soli due mesi, sono morte dodici donne per mano di stalker.
A Salerno, Antonio Farina, che da anni tormenta la sua ex convivente Elettra Rosso, e con lei ha in corso una battaglia legale per l’affidamento della figlia di dodici anni, si introduce nello studio legale dove la donna lavora, estrae una calibro 38 e le spara quattro volte, uccidendola. Poi si toglie la vita. Elettra il giorno prima era andata in Questura per denunciare l’uomo per stalking, ma la polizia le aveva consigliato di rivolgersi a un legale per stilare la querela, sarebbe dovuta tornare il giorno dopo. Che non è mai arrivato.
A Cesena, si consuma il triste copione del fidanzato abbandonato che non ne vuol sapere di accettare la fine di un rapporto: lei, Stefania Garattoni, è una studentessa di vent’anni, va ancora a scuola, lui, Luca Lorenzini, di anni ne ha 28. Alle tre del pomeriggio del 9 marzo 2011, Stefania sta per entrare in classe, chiacchiera con un’amica quando si trova ancora una volta davanti quel ragazzo che da mesi alterna suppliche e minacce. Più che impaurita, sembra seccata, e non fa niente per nascondere il fastidio che le provoca la presenza di Luca. I testimoni dicono di aver fatto caso alla coppia perché discuteva ad alta voce, ma niente di più. Pochi minuti dopo, il ragazzo tira fuori un coltello dal giubbotto e colpisce la ragazza alla gola e al volto. Stefania muore qualche ora dopo in ospedale. Lorenzini viene arrestato il giorno stesso, mentre vaga in bicicletta nella periferia di Cesena.
A pochi giorni di distanza, questa volta alla periferia di Mestre, tocca a Eleonora, che ha solo 16 anni, anche lei colpevole di aver detto basta a una relazione che non la convinceva più. Lui, Fabio Riccato, un trentenne neo-laureato in Biologia, l’aspetta seduto sulla sua Vespa: sa che Eleonora a quell’ora passa da lì per andare a trovare la nonna. Sembra la favola di Cappuccetto Rosso, e Fabio è proprio il lupo cattivo che vuole interpretare quella mattina. Lei lo vede, si ferma, e un uomo che sta leggendo il giornale nel suo giardino, a pochi metri di distanza, dirà che ha fatto caso distrattamente alla coppia per pochi istanti: sente che parlano e si rimmerge nella lettura. Passa solo qualche minuto, e quando alza gli occhi si trova davanti a una scena irreale, troppo rapida perché possa reagire: Fabio ha estratto una Magnum dal bauletto della Vespa e spara tre colpi a bruciapelo. Il primo colpisce Eleonora alla tempia, il secondo al torace e l’ultimo le trapassa il braccio con il quale la ragazza ha tentato di proteggersi. L’assassino guarda negli occhi quell’unico testimone terrorizzato, punta l’arma nella sua direzione, poi si spara alla testa.
Infine, a Collegno, in provincia di Torino, una coppia si incontra in un ufficio dei servizi sociali. Non un accenno di litigio, nessuno scontro. Cristina e Gianpiero, trentenni, lui impiegato della Fiat, lei professoressa di matematica, separati da due anni, stanno parlando con assoluta calma delle visite delle due figlie. Sempre conversando serenamente, Gianpiero prende la sua ventiquattrore e la apre, un gesto a cui nessuno fa caso. Solo che dalla valigetta estrae un coltello da cucina, si alza in piedi e si getta su Cristina. Riesce a infierire con cinquanta coltellate senza che nessuno arrivi a fermarlo né a salvare la donna.

Si potrebbe continuare ancora a lungo, per pagine e pagine, solo ripercorrendo un paio d’anni di ordinaria violenza sulle donne. Invece bisogna fermarsi, perché come la pornografia, anche l’orrore nell’accumulo rende indifferenti, diventa banale. E tuttavia di ovvio non c’è niente: se il genere femminile cominciasse a uccidere con la stessa frequenza è probabile che il mondo si fermerebbe, non parlerebbe d’altro, si evocherebbe un’emergenza umanitaria, una catastrofe a cui porre rimedio nel più breve tempo possibile, e con ogni mezzo. Se fossero le donne ad ammazzare.
Quando le guerre di mafia o di camorra raggiunsero l’acme del terrore, arrivando a fare duecento vittime in un solo anno, si parlò di fenomeno criminale, lo Stato intervenne con misure estreme; e si sparsero fiumi di inchiostro, si scrissero libri, inchieste, reportage, ci furono interrogazioni parlamentari e fiaccolate di intere comunità, ancora oggi all’argomento si dedicano dibattiti e trasmissioni televisive. E allora perché la violenza omicida degli uomini verso le proprie compagne o figlie o amanti non riesce a diventare allo stesso modo una questione urgente, pressante, angosciosa? A interrogare le coscienze? A trasformarsi in un’emergenza?
Nel 2006, sempre stando ai dati del rapporto Eures-Ansa, le donne uccise furono addirittura 181; nel 2008 ne sono state ammazzate 147, e di queste ben 104, il 70,7 per cento del totale, all’interno di contesti familiari. Così che non basta chiedersi perché gli uomini uccidono le donne. La domanda è: perché gli uomini uccidono le donne che amano?
È certo che ci troviamo di fronte a delle costanti che circoscrivono e determinano il fenomeno. Sempre più spesso, quasi immancabilmente, la causa scatenante l’omicidio è un abbandono o una separazione, una messa in crisi del rapporto, un’affermazione di autonomia e di libertà delle vittime. E dunque, quel che muove al crimine è l’incapacità di questi uomini di sopportare la frustrazione del rifiuto, di governare la rabbia e metabolizzare la perdita, addirittura, di vivere l’esperienza stessa del dolore. Ma nessuno, o quasi, si è ancora azzardato ad affermare che ci troviamo davanti a un’inedita questione maschile, tutta da decifrare e comprendere. Vero, le violenze sulle donne ci sono sempre state, delitto passionale e delitto d’onore sino a poche decine di anni fa erano all’ordine del giorno, e proprio per garantire al genere maschile se non impunità assoluta, almeno attenuanti e clemenza, erano una volta reati verso i quali il Codice penale prevedeva indulgenza e comprensione. Ma oggi, più che l’affermazione di una forza e di un dominio, più che frutto di un’idea delle donne come esseri inferiori, più che retaggio di incultura e degrado, questa violenza pare nascere dalla disperata opposizione a un cambiamento femminile, dall’incapacità di accettarlo e comprenderlo; dal panico provocato dalla nuova libertà e autonomia delle donne. Dunque, una violenza che colpisce non chi si ritiene inferiore e subalterna, ma al contrario una donna che sceglie, che decide, che pone problemi e crea conflitti. E che spaventa, perché quanto più cresce la capacità di affermazione femminile tanto più vengono denudate la fragilità o la dipendenza o l’inadeguatezza maschile.
Di fronte a un inarrestabile cambiamento, il gesto violento diviene l’estremo atto di un potere morente, la resa tirannica dinanzi all’impossibilità di sottomettere, lo sfregio di un’altrimenti incancellabile alterità. La negazione e, insieme, la massima affermazione, della propria vulnerabilità e parzialità. Così che oggi la violenza sulle donne appare il sintomo più drammaticamente eloquente del declino di un genere; l’unico mezzo a disposizione per quegli uomini che credono così di sventare il rischio della perdita.
Ma cosa c’entra la violenza di pochi con il resto degli uomini? Perché dovrebbe interrogare anche gli altri? E portarli a riconoscere che la violenza è parte di una storia comune? Che per quanti si abbandonano al gesto estremo di un crimine, tutti gli altri condividono una cultura delle relazioni e dell’amore dove ancora quel germe è annidato?
Adriano Sofri, in un lungo articolo intitolato «Quando gli uomini uccidono le donne», pare essere tra i pochi ad aver compreso l’esistenza di una «questione maschile» che chiama in causa tutti. «Gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall’ammazzare e violentare e picchiare le donne» scrive l’intellettuale pisano su La Repubblica, «se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l’impulso che spinge i loro simili a quell’orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come “raptus” e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all’antisemitismo».
Una voce isolata, messa immediatamente a tacere come quella di uno scomodo grillo parlante. Meglio, molto meglio appassionarsi alla prossima vittima, entrare a far parte del set a cielo aperto del futuro delitto, e fingere di indignarsi, e scandalizzarsi, di temere l’orco e compiangere un’innocente che promette di rendere più interessanti le nostre serate televisive, così generose di dettagli intimi e di segreti inquietanti. Perché tanto più riusciremo a credere che i mostri sono altrove, lontani ed estranei, tanto più possiamo stargli vicino, a un passo dai loro cuori di tenebra, a un soffio dal sangue, dalla paura e dal dolore, e continuare a illuderci che noi, comunque, siamo salvi.

«Continue chiamate di emergenza»

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di Antonio Sparzani

Qui nella via sono o latinos o cinesi o africani. Tra loro non si piacciono, questo è un problema. Non che succeda alcunché di drammatico, qualche urla di scherno, o di insulto, non capisco mai cosa urlino, ma poi si vede che ridono tra loro, che è sempre una conclusione accettabile.

Il progetto

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di Andrea Inglese

Enzo sapeva benissimo di non avere le carte in regola, insomma non tutte, ma quel desiderio così forte sì, una spinta che sembrava non cessare mai, neppure durante le ore dedicate al sonno, insinuandosi persino nei sogni, e spingendo oltre pure loro, dall’interno, ampliando le situazioni, rendendole più terse, trasparenti, con panorami ampi, discese, grandi specchi d’acqua dalle forme regolari.

è tutto compresso in un istante

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di Chiara Valerio

La sera festeggiammo. Stappammo una bottiglia di vino rosso, lo stesso del nostro primo incontro, il Chianti, e io al terzo bicchiere dissi che volevo cambiare macchina. Il tipo di dettagli insignificanti che si ricordano con precisione anche dopo anni. Carlo e Isabel si sono incontrati perché Valentina, un’amica di lei, ha fissato loro un appuntamento al buio. Dice che sono fatti una per l’altro, anzi che lei è tagliata per lui. Un appuntamento al buio in una vecchia osteria di Treviso con tovaglie ricamate a mano e un pavimento di vetro sotto al quale l’acqua scorre. Carlo e Isabel si incontrano, si piacciono, e dopo poco vanno a vivere insieme. A Padova, a casa di lui, con i mobili di lei. Un tatami con un materasso in pura lana vergine, tende di lino, incensi, cuscini marocchini per il salotto, cd di musica etnica. Si sposano in fretta perché la felicità e gli incontri non hanno bisogno di carte, e nemmeno di cerimonie. Isabel è svizzera, è vegana, è bionda, ha gli occhi azzurri, lavora in un’erboristeria, la mattina fa gli esercizi di yoga e il pomeriggio quelli di reiki, Carlo ha trentasei anni, è socio di una piccola azienda, ha una casa con un terrazzo dal quale si vedono le colline. Lui beve una birra, lei una tisana, guardano il tramonto. Sono innamorati. Così quando Isabel esce dal bagno con il test di gravidanza listato d’azzurro, indaco per la precisione, Carlo l’abbraccia, poi prende il telefono e chiama Livia, sua madre. Eccolo il mondo delle cose definitive. Ecco che siamo diventati come loro, come mia madre, com’era mio padre, ecco che siamo passati dall’altra parte, dalla parte degli adulti, dei genitori, dalla parte delle cose più preziose e definitive.

SpotPolitik di Giovanna Cosenza

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di ⇨ Giovanna Cosenza

Che cos’è la SpotPolitik? È la politica che pensa che per comunicare basti scegliere uno slogan generico, due colori e qualche foto. Quella che riduce la comunicazione a uno spot televisivo. Di SpotPolitik hanno peccato tutti i partiti italiani con pochissime eccezioni. Gli anni dal 2007 al 2011 sono stati i peggiori in questo senso, ma non illudiamoci che sia finita: la cattiva comunicazione potrebbe sommergerci ancora. Riflettere gli errori del passato può essere utile ai politici, per non caderci ancora; e a tutti noi per scoprire come sia stato possibile accettare (e votare) quella roba.
 
 
da SPOTPOLITIK
Editori Laterza [2012]
   
   

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PARLA COME MANGI

 
Cambia il vento ma noi no

 
   Dal 1994 Berlusconi ha cambiato il linguaggio della politica italiana in modo radicale, facendo un po’ alla volta sparire il politichese tipico della prima Repubblica, fatto di frasi lunghe e contorte, parole astratte e tecnicismi.
   Berlusconi parla da sempre in modo semplice e diretto: usa espressioni e metafore del linguaggio comune, esemplifica ciò che dice raccontando aneddoti e storie tratte dalla vita quotidiana (incluse le barzellette) e, quando si allontana dal linguaggio ordinario, lo fa per introdurre espressioni tipiche dell’impresa, giusto per ricordare che è da quel mondo che viene, non certo dalla «politica dei politicanti» contro cui si è sempre scagliato. Inoltre, facendo tesoro di alcune tecniche pubblicitarie, trasforma i concetti chiave in slogan semplici, che ripete ossessivamente, ben sapendo che la ripetizione è fondamentale in politica come in pubblicità.
   Gli studi sul linguaggio e sulle tecniche persuasive di Berlusconi sono ormai numerosi e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Perciò non mi soffermo sull’argomento, anche perché la lingua di Berlusconi è sempre stata interessante più perché adeguata ai media e alla politica mediatizzata, che perché sbagliata. Anche dopo gli scandali sessuali, infatti, gli errori di Berlusconi sono stati soprattutto di impianto narrativo, come abbiamo visto nel Cap. 1: storie interrotte, a cui manca un pezzo o addirittura il finale, più che parole e frasi sbagliate. Nonostante le apparenze, insomma, dal 2009 Berlusconi sbaglia le storie, ma continua a sbagliare poco le parole. Anche le barzellette più sconce e le espressioni più colorite – che gli avversari considerano sbagliate – hanno infatti una funzione precisa: metterlo al centro dell’attenzione, imporre la sua immagine anticonformista, sottolineare che è sempre lui a dettare le regole.
   Per quel che riguarda il suo linguaggio, dunque, mi limito a fare un paio di esempi, giusto per mostrare fino a che punto il modo in cui un politico parla può incidere sull’opinione pubblica e sul clima di un periodo. Prendo due casi tratti dalla stessa area semantica: le tasse. Ricordiamo ancora lo slogan che Berlusconi usò nella campagna per le politiche del 2001 «Meno tasse per tutti»: talmente efficace che dura da allora. E ricordiamo la metafora del mettere le mani nelle tasche degli italiani, qualcosa che da sempre Berlusconi dice di non voler fare. Lo slogan era efficace perché usava una parola comune (tasse) invece di espressioni più astratte come prelievo, pressione fiscale, e la estendeva a tutti, senza le complicate distinzioni di reddito e professione che siamo sempre costretti a fare. La metafora delle tasche, dal canto suo, è vivida perché ci fa immaginare qualcosa di concreto, che può vedere chiunque cammini per strada o si trovi su un mezzo pubblico: un mariuolo che infila di soppiatto la mano nella tasca di qualcuno per sfilargli il portafoglio.
   La metafora, fra l’altro, porta con sé un disvalore importante, perché dire che lo stato mette le mani nelle tasche degli italiani implica equiparare lo stato a un ladro, e l’azione di pagare le tasse a quella di subire un furto. Di qui a ritenere l’evasione fiscale un valore positivo il passo è breve. La metafora insomma si è innestata nella tradizionale scarsa propensione degli italiani a pagare le tasse, contribuendo a consolidarla: per questo è così potente e longeva. Ma allora non dobbiamo stupirci se un po’ alla volta l’Italia si è trovata a fare i conti con un grossissimo problema di evasione fiscale, che nessun governo, né di centrodestra né di centrosinistra, è ancora riuscito a risolvere (e vedremo cosa riuscirà a fare il governo tecnico). Tutta colpa del linguaggio? Non solo, ovviamente, ma le parole ribadiscono sistemi di valori ogni volta che qualcuno le pronuncia o scrive, e lo fanno anche senza che le persone se ne rendano conto. Attorno alla metafora, poi, c’è tutto un lessico di rinforzo: le parole carico, pressione, imposizione fiscale trasformano le tasse in un peso opprimente; la parola evasione, al contrario, sa di fuga, libertà e divertimento. Perciò il linguaggio conta, eccome, anche se certo non è tutta colpa sua.
   Ma vediamo che fine fanno le tasche nel 2011. Quando, fra luglio e settembre, l’Unione Europea impone a Berlusconi di ridurre drasticamente e rapidamente il debito pubblico, lo costringe di fatto a mettere le mani nelle nostre tasche. L’immagine, allora, proprio perché così forte, gli torna indietro come un boomerang. E a nulla vale il suo tentativo di parare il colpo – nel discorso di agosto in cui annuncia la manovra economica – mettendoci anche la metafora del cuore che gronda sangue: «Il mio cuore gronda sangue, – dice. – Il vanto del mio governo era che non avrei messo le mani nelle tasche degli italiani. Ma siamo di fronte a una crisi planetaria, andiamo nella direzione chiesta dalla Bce» (Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2011).
   Ora, l’intenzione è anche buona, perché il cuore che gronda è un’immagine non solo facile e ordinaria come le mani nelle tasche, ma ha in più il vantaggio di evocare un simbolo religioso (il cuore ferito di Cristo) e di riferirsi a un’emozione del leader (il dolore). E però, per quanto l’immagine del cuore che sanguina sia potente, non ce la fa da sola ad azzerare la forza di una metafora così radicata nella cultura italiana come quella per cui le tasse sono un furto. Men che meno può farlo nel contesto in cui Berlusconi la dice: gli scandali sessuali in cui è coinvolto non lo mostrano affatto addolorato per le nuove tasse, ma beato fra festini e donne. Altro che cuore grondante. Morale della favola: la potenza di una metafora può essere tale da ritorcersi contro chi la usa.
   Oltre a evidenziare l’importanza delle parole, il caso esemplifica la vicinanza sempre più stretta fra il linguaggio dei politici e quello della vita di tutti i giorni. Assieme a Berlusconi, anche Antonio Di Pietro e Umberto Bossi hanno spinto molto in questa direzione, fin dagli albori della seconda Repubblica.
   Il dipietrese, come lo stesso Di Pietro si compiace di chiamare il suo linguaggio, è fatto di parole non solo ordinarie, ma spesso pasticciate, scorrette e mescolate a espressioni dialettali, che lui alterna a qualche termine giuridico solo per confermare l’immagine di tutore della legge conquistata con Mani pulite. Inoltre Di Pietro ha una sintassi incerta, in cui il congiuntivo latita e gli anacoluti abbondano.
   Dal canto loro, Umberto Bossi e molti leader del Carroccio in dosi diverse (più Calderoli e meno Maroni, per esempio) usano due stili linguistici (e comportamentali) in parte diversi a seconda delle circostanze: nei comizi di piazza parlano come la parte meno colta del loro elettorato, indulgendo al turpiloquio e alle invettive, e condendo tutto con gesti volgari: dal dito medio alzato alla mano nella piega del braccio; nei salotti televisivi invece si addomesticano, anche se conservano una lingua colorita e brusca, per essere comunque riconoscibili e coerenti.
   Va notato fra l’altro che, negli anni, il turpiloquio e il gesto volgare, un tempo appannaggio quasi esclusivo dei leghisti, hanno contagiato anche altri leader del centrodestra: da Daniela Santanchè che, dopo aver alzato il dito medio per rispondere alle proteste degli studenti nel 2005, non ha più smesso di farlo, a Gianfranco Fini che, parlando a un gruppo di ragazzini immigrati a Roma nel novembre 2009, ha definito «stronzo» chi dice parole razziste. Per poi beccarsi lo stesso epiteto dal ministro Calderoli che, da buon leghista, non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione.
   Il turpiloquio comunque non è rilevante in sé, ma va visto come uno dei tanti effetti dell’avvicinamento della politica al linguaggio ordinario: poiché le parolacce fanno parte della vita di tutti i giorni, i leader le usano per marcare la loro vicinanza alla «gente». O per apparire trasgressivi e «contro»: non a caso i leghisti, i leader dei movimenti e quelli dell’antipolitica fanno del turpiloquio una cifra stilistica.
   Fra l’altro il progressivo avvicinamento del linguaggio politico a quello ordinario va visto nel quadro di un cambiamento più ampio di tutta la lingua italiana. È all’incirca dalla metà degli anni Novanta, infatti, che le aziende e le amministrazioni pubbliche hanno cominciato a semplificare l’italiano che i loro addetti parlano e scrivono, cercando di ripulire il cosiddetto aziendalese e burocratese dalle oscurità e pesantezze, sia lessicali sia sintattiche, che li hanno sempre contraddistinti. A questo scopo lo sforzo congiunto di linguisti come Tullio De Mauro, Raffaele Simone e dei loro gruppi di ricerca, di pubblicitari come Annamaria Testa, e di molti dirigenti pubblici e privati, hanno portato a risultati importanti e sempre più diffusi. Penso al Codice di stile per la pubblica amministrazione, introdotto nel 1993 da ministro Cassese e ripreso nel 1997 dal ministro Bassanini; penso alla riforma della bolletta Enel nel 1998 e a quella della dichiarazione dei redditi nel 2000; penso infine alla progressiva riscrittura, anno dopo anno, di interi siti web e documenti da parte di comuni, province, regioni, aziende sanitarie, ministeri.
   I risultati di questo lavorio ormai ventennale non sono uniformi: alcuni settori professionali sono arrivati prima, altri dopo. E anche all’interno della stessa realtà – impresa privata, comune, ministero – la capacità di scrivere e parlare per tutti, non solo per addetti ai lavori, si manifesta spesso a macchia di leopardo: alcuni lo sanno e vogliono fare, altri per niente; alcuni testi hanno indici di leggibilità altissimi, altri sembrano appena usciti dalla macchina da scrivere del brigadiere che Calvino parodiava nel 1965, nel celebre saggio sull’antilingua. Insomma, c’è ancora molto da fare. Ma che in Italia ci siano sempre più professionisti e manager che parlano come mangiano è ormai un fatto assodato. E anche un valore: ha più successo chi riesce a esprimersi in modo chiaro e diretto. Chi parla a tutti e non si parla addosso. Persino in politica.
   In questa lunga trasformazione dei costumi linguistici, i partiti di centrodestra sono riusciti ad assorbire abbastanza in fretta gli scossoni di Berlusconi, Bossi e Di Pietro; i partiti di centrosinistra, invece, hanno fatto e fanno più fatica. È così che ancora oggi molti dirigenti di centrosinistra, a tutti i livelli e in tutti gli ambienti, parlano un linguaggio più involuto e difficile dei loro colleghi di centrodestra. Un linguaggio che forse può essere ancora efficace per l’elettorato tradizionale di sinistra, ma difficilmente attrae gli indecisi, i delusi del centrodestra e quelli inclini all’astensione. Il che è un bel problema, visto che le competizioni elettorali si giocano sempre più spesso sulle scelte di elettori fino all’ultimo indecisi.
[…]
[pag. 141-147]
   

Giovanna Cosenza è professore associato di Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Università di Bologna. Autrice di articoli e contributi per riviste e volumi collettivi, ha pubblicato tra l’altro La pragmatica di Paul Grice (Bompiani 2002) e ha curato il volume Semiotica della comunicazione politica (Carocci 2007) e Semiotica dei nuovi media (Editori Laterza). Dal 2008 scrive il blog ⇨ Dis.amb.iguando.

   

Così fan tutti

3

di

Gigi Spina

Un giorno questo dolore ti sarà utile: così mi sono detto ieri sera (4 marzo) dopo aver sentito e visto Massimo Gramellini a Che tempo che fa, intervistato da Fabio Fazio; e ho deciso di rileggere il libro di Peter Cameron (e magari vedere anche il film), ma di non comprare quello di Gramellini, di cui leggo quasi sempre il Buongiorno, come ho letto il bel libro “La patria, bene o male”, scritto a quattro mani con Carlo Fruttero e, ma sì, anche “L’ultima riga delle favole”.
Ma questo libro no, perché non voglio sapere la verità sulla morte di una madre, un dolore che a 9 anni deve essere tremendo.
Parlare della genesi di un libro (del proprio libro) è sempre pericoloso : si rischia di spiegare troppo, o troppo poco, di essere narcisi, nel senso di affezionati ossessivamente a se stessi o alla propria creatura, o magari di fare i finti modesti. Il repertorio è vasto e quasi sempre sopportabile, ma a certe condizioni. Il contenuto del libro è una variabile di cui tenere conto : fiction, romanzo storico, ucronia, noir ecc., fino all’autobiografia. Qui, però, si parla di se stessi a buon diritto e, come dire, due volte: come scrittore e come personaggio. E quando c’è di mezzo il dolore per la perdita precoce della madre, si pensa, ingenuamente, ad alcuni scenari possibili : la commozione, l’autocoscienza, la sublimazione, magari anche il cinismo. Tutto, o molto, ma mai ti aspetteresti che non solo chi presenta il libro, ma anche l’autore stesso, ammicchino a una verità, su questa drammatica morte, che si potrà scoprire solo leggendo il libro; e che, dunque, un’esperienza personale sicuramente dolorosa e straziante (ricordo il bellissimo ‘Una storia di amore e di tenebra’ di Amos Oz) si risolva in uno ‘scopri il mistero nelle ultime pagine’, come in un qualsiasi giallo.
Non esprimo giudizi morali, né do il mio personale buongiorno a questa performance di scrittore. Lucidamente la registro, per evitare, in futuro, altre ricadute in ingenuità da anima candida, ma anche per amare ancora di più altri tipi di scrittori e di autopromozioni.

Il periodo blu di Anita Riolo

6

di Marco Mantello

Cara Anita,

Ho provato più volte a scrivere qualcosa di universale e compiutamente privo di emotività a proposito della tua nascita. Magari lo troverai stupido, natalizio, retorico… Te lo ricordi che ti dicevamo tua madre e io da ragazzina? «Hai fatto sempre come volevi tu». E impara a difenderti, in primo luogo da noi, l’autonomia il senso critico non lo so scusa, non volevo iniziare così…
La sera prima, con tua madre, eravamo stati a un concerto all’Akademie der Künste. Verso mezzanotte, quando sono cominciate le contrazioni e ci siamo messi con l’orologio a vedere ogni quanto le venivano, era tutto pronto in due valigie apposite, le lenzuola pulite, i vestiti di ricambio, la cioccolata per me…
Ecco, adesso sicuramente mi dirai: come al solito descrivi le situazioni senza esporti mai in prima persona. Che cosa provavi, tu? Avevi paura? Eri felice? Un senso di attesa, agitazione, cosa?
Non lo so forse all’inizio una totale assenza. Che poi è la sensazione tipica che provo, quando mi capita di vivere. Voglio dire la rottura dei ritmi, le giornate più o meno scandite, la verità è che il tempo presente a me mi stordisce proprio, ti sembra come di non esserci, come assistere a uno show da fuori, appunto, fiction.

Siamo arrivati alla “Casa del sole” alle due di notte. C’era questa stanza dalle pareti gialle, con un letto a due piazze e il soffitto a spioventi dove entravi scalzo, una vasca rosso fosforescente, una spalliera ginnica e una possente corda che pendeva giù dal soffitto, gialla anche lei. Pareva di stare dentro a uno di quei quadri metafisici, tipo ‘Mobili nella Valle’ di De Chirico. Solo che poi, guardandoti intorno, ti accorgevi delle quattro mura dove stavi chiuso, e della presenza di persone.

Nei primi mesi avevamo fatto pure il corso preparativo al parto. Si ragionava un minimo sulle alterazioni degli equilibri, sui rapporti con il tuo partner, su quanto poco si possa scopare durante l’allattamento e come fare per non lasciarsi, sì insomma era un fatto di testa che comanda il corpo ed era ok così, almeno per me, un fallico masochista, come diceva il libro di Lowen che ci avevano dato da leggere a casa. Solo che rappresentarsi un qualche cosa resta una cosa molto diversa dalla sua esperienza diretta. E noi adesso stavamo lì, in quella specie di gabbia per canarini e tua madre gridava, adesso era il suo corpo a comandare la mia mente e gli equilibri che pensavo stabiliti una volta per tutte stavano per rompersi irreparabilmente, assieme alle acque di tua madre. E c’era Karin. Karin, quella cicciona, pareva uscita da quella serie televisiva sugli angeli che vanno in giro per l’America bianca a lenire il dolore dei poveracci, dei ricchi sfondati, dell’intramontabile ceto medio.
Alle lezioni sprofondava su una grossa palla, a gambe larghe, davanti alle coppie di puerpere e partner, e da lì ci leggeva i resoconti di quelle che avevano fatto già, alla “Casa del sole”. Lavorava con questo bambolotto glabro, pelatissimo, con due grandi occhioni blu e le palpebre che si aprivano e si chiudevano.
«E adesso proviamo a girarlo… le mani sempre sotto la testa, ecco state facendo il bagnetto… ».
Dopo le prove pratiche guardavamo vecchi video degli anni ’70, queste trentenni di allora oramai decrepite, rugose, forse morte, con le onde di mare aperto e i cappellini a fiori. Si discuteva appunto di “controllo del dolore”, lasciarsi andare alle contrazioni che vanno e vengono come onde, non lasciarsi mai travolgere e lei, su quella palla, col telecomando in mano e il suo instancabile: «Allora! Ci sono dubbi, domande?», scrutava le silenziose facce delle puerpere. Rispondeva a tutto, anche alle cose più cretine, quelle fatte dai partner giovani per far ridere l’uditorio («Ma il bambino può diventare sordo prima di nascere? Voglio dire, lui ci sente da là dentro, giusto?»).

Entrò nella camera gialla e disse: «Cara… » a Elisa, e per due volte le carezzò le guance. Io vedendola sentii la sensazione solita. Familiare il golf di kashmir e quei larghi pantaloni neri. Familiari quelle dita grosse e tonde, prive di tremori e senza anelli. Familiari le labbra sottili e il respiro greve, bisognoso di pause quando faceva le scale. Non ci avevo fatto proprio caso, a quel leggero cedimento psicologico quando era venuta a casa, la settimana prima, con tutti quei fogli da firmare, e che adesso rivedevo nitido in quel tenue, balbettante: «Ciao, junger Mann. Prendi posto», con il quale mi aveva accolto nel suo piccolo regno delle nascite naturali. Forse era stato il modo in cui mi ero posto io, le prime volte. O il fatto che di solito operasse con caratteri più semplici e penetrabili, o il prolungato silenzio con il quale osservavo muoversi la sua ciccia nella nostra cucina, a renderla goffa, insicura, così poco tedesca, se capisci cosa intendo dire.
Quando seppe che ero giurista le cadde la penna di mano ed era come se quella distrazione insulsa, non lo so, era come se l’avesse sentita accadere con i miei occhi, gli occhi del controllore. Ma io non volevo controllare nulla, le avevo solo chiesto se quella che firmava Elisa fosse o meno una dichiarazione di consenso informato.
Così, adesso che eravamo dentro a quella stanza gialla, e tu dovevi nascere, feci molta attenzione a non fissarla mai dritta negli occhi.
«Secondo te quanto ci metteremo? », le chiesi
«Ah, può durare oltre dieci ore, junger Mann… ».
Faceva su e giù dalla camera gialla a ‘di là’, con un mucchio di scartoffie in mano, e cantava con Elisa e l’altra ostetrica più giovane, tutte di pancia, come nel video delle onde. Elisa stava in ginocchio, pallidissima, su un tappetino ai piedi del letto. Io invece ero seduto ai bordi, e le tenevo la testa in grembo. Certe volte, in quel lucore, la vista sfocava nel dormiveglia e il canto delle vestali si faceva sempre più lontano. Poi sentivo la sua voce greve: «Elisa, ho bisogno che ti stendi un attimo. Devo scrutare dentro». E subito mi risvegliavo, aprivo gli occhi su tutto.

Non uscirono molte acque, quando le mise il pollice e le ruppe lei, o almeno io non me ne resi conto. Le avevano dato le palline omeopatiche e di tanto in tanto la riportavano in bagno per defecare.
«Brava e adesso e adesso espiriamola tutta… schuuuuuuh… schuuuuuuuh…’, disse Karin. Eravamo lì da cinque ore. E lei scrutava, scrutava dentro coi polpastrelli e poi, con discrezione, muoveva gli occhi verso la collega, come in quella vecchia puntata di ‘Touched by an angel’, dove Tess dice a Monica che il Padre Eterno l’ha adibita a una nuova missione ed è tempo di levar le tende…
«Dove senti spingere Elisa? Sul sedere?», le chiese con tono serissimo.
«La pancia», mugugnò Elisa. Era sudata fradicia e cantava, cantava sempre più forte.
«Come prego?»
«Davanti, sente spingere davanti… » disse l’altra. Le avevano dato il Buscopan, e poi di nuovo in bagno.
Fuori dalla finestra, la barra del parcheggio aveva preso ad azionarsi e il buio, dentro i rettangolini accesi dei palazzi in direzione Lichtenberg, era svanito di colpo. Lungo il cielo lattifero e nùvolo, si sentiva la scia delle prime auto, e un trionfale cinguettìo di uccelli.
«Elisa ti devo parlare» disse Karin. Erano le sei del mattino.
«Non riesco a vedere la testa e ho deciso di portarti in clinica. Adesso ti farò un’iniezione. Non interromperà le doglie, stai tranquilla. Junger Mann prende le vostre cose e ci segue in auto, sono solo cinque minuti, allora che ne dici? Sei d’accordo, andiamo?»
L’avevano fatta rivestire, giù al parcheggio, piegata in due dalle fitte e pallida, ripeteva sempre questa cosa di farlo smettere: «Per favore fatelo smettere!». Anche in clinica, quando l’hanno stesa per l’ecografia: «È uno Sternengucker!» ci spiegò la dottoressa, cioè uno che guarda le stelle, con la testa verso l’alto e non come avviene di solito, chino e curvo verso la terra.
«Ehm in questi casi si fa il cesareo… » disse Karin con un tono da missionaria. La dottoressa prese a fissarla con la classica circospezione della ‘laureata’.
«Sì ma il bambino sta bene?» le chiesi io

Karin è andata via dopo mezz’ora, baciandoci tutti in fronte. Quanto a me e a tua madre, ci avevano messo in una sala tutta per noi, a strillare con questa Cordula, l’ostetrica nuova. È arrivato un ragazzino dai grandi occhiali, in càmice verde. Elisa stava a pecora sul letto e lui dietro, stringeva la siringa in mano e con un grosso pennarello aveva disegnato una x, tra le vertebre settima e ottava per l’epidurale.
«E perché ha deciso di partorire in una “Casa del sole”? Perché è più bello?» le chiese ficcando l’ago in vertebra.
«Adesso non mi va di parlarne, se vuole glielo spiego dopo!» sbuffò Elisa gelida.
Il dottorino fissava tutti e nessuno. «È venuta perfetta!» disse, come per dare conferma a se stesso del suo livello di preparazione post-dottoraria. «Adesso deve solo spingere nel verso giusto, e se lo ricordi, la prossima volta in ospedale è meglio!» ripeté prima di uscire. Il male si era fatto innaturale, e dunque tollerabile, biblicamente e laicamente in regola.
«Cinque centimetri… » disse Cordula. E poi, verso di me, stavo di fianco al lettino, a massaggiare il culo aperto di tua madre… «Vuoi vedere? Vieni! Vieni a vedere, avvicinati non essere timido… ».
Era tutto di fuori, una grossa palla violacea, e quel misto di urine emorroidi e feci, adagiato su una tonda bacinella argentea che tutto accoglieva, tra le mani Cordula aveva pure questa lucina e l’agitava e mi diceva: «Ecco, la vedi la testa?». Tesi gli occhi verso il cattivo odore e poi, quando Elisa ha spinto ancora, e ancora, e ancora, gridava proprio… «Elisa ci sei! Manca davvero pochissimo!» ho strillato anch’io. Avevo una voce, letteralmente, ‘rotta’, in quel mare di grumi neri e merda, era la prima volta in vita mia che sentivo sulla pelle di qualcun altro, tutto il peso della parola vita. Sei uscita fuori come una molla. E Cordula a sua volta ha mollato, anche la bacinella. La prima cosa che ho visto è stata la tua fica.
«Elisa, è femmina guarda è femmina!». E lei si è mossa tutta, per vedere dov’eri, con quei due occhi lucidi, stava ancora a pecora, fra il cordone e il suo pulsare vivo, le avevano messo questo coso di plastica, come una specie di mezza coda che pendeva giù dal culo. Poi hanno portato le forbici. Erano d’oro, minute e arrotondate sulle punte. Cordula ha stretto per bene, pareva l’inaugurazione di un transatlantico.
«Qui junger Mann, devi tagliare qui!» mi ha detto.
E io ho tagliato, il suo pulsare vivo.
Non so dire per quanto tempo, dopo che ho tagliato, eri tutta blu. I piedini il naso le gote tutta blu e ti guardavi intorno, come se qualcosa volesse venire fuori. E spingesse forte. E non riuscisse a uscire dalla tua bocca il respiro o il grido, una cosa solo tua il distacco definitivo dal corpo di tua madre…
Elisa ti aveva tirata al petto, aveva un’aria da fine della storia: «Anita tesoro… respira… Ma che c’hai!». Ti sorrideva. Ti sorrideva sempre e tu eri blu.
Cordula invece era bianca. Non solo il camice, e i guanti di lattice, e la targhetta col nome… Ti ha preso senza dire nulla e ti ha portato via di corsa.

Non sapevo dove andare, in quei momenti, non capivo nemmeno che era successo, o meglio sì, lo capivo, ma sembrava non vero, irreale, fiction, come ti dicevo prima.
Sono uscito a cercarti nel corridoio. Sentivo il rumore dei passi, questi camici senza faccia, che entravano a passi rapidi da una porta a vetri, come sospinti dal lampeggiare di una lucetta. Elisa era rimasta sola, nella stanza vuota. Girava la testa di continuo, agitando come una gatta isterica quella specie di coda mozzata: «Perché me la portate via? Non dovete!» strillava e la porta era aperta e non poteva uscire.
La prima cosa che mi ha riportato alla realtà, è stata vederti in mezzo al circolo di alieni verdi. Ti avevano messo su una lastra di acciaio, con dei tubicini trasparenti ficcati su per il naso e ti osservavano dalle loro maschere. Forse avevi inghiottito del liquido amniotico, c’era il dubbio che potessi averlo respirato, tutto giù nei polmoni, i tuoi occhi erano vispi, curiosi e muovevi le gambe e le braccia come una tarantola… C’era il medico magro e le sue parole Adesso è stabile… Massaggio cardiaco… Non possiamo ancora stabilire se ha subito danni cerebrali… A sua moglie è meglio dire che va tutto bene… mi passavano in testa come grandi e veloci astronavi.
Ecco appunto, mia moglie (che poi non è mia moglie, è Elisa), quando tornai in stanza la stavano trasportando nell’altra sala, quella delle operazioni in anestesia totale, continuava a sanguinare erano rimasti i pezzi di placenta nell’utero, tutta roba da raschiare e da farlo subito, aveva detto la dottoressa, altrimenti c’era il rischio emorragia. Il corridoio era lo stesso tuo. Stessi vetri stesse ombre verdoline in trasparenza, che agitavano negli echi di parole il mio fervente senso della tragedia e quell’incerto, feroce oscillare, fra te e lei…

Forse l’avevano già addormentata. Il fatto è che dopo dieci ore di travaglio, voglio dire sì insomma saranno stati anche una “quindicina di minuti scarsi”, e poteva pure non esserci “nessuna plausibile connessione” con l’epidurale, come dicevano quelli, però, dopo dieci ore di travaglio, voglio dire…. E comunque la connessione la sentivo io, nitida, sul suo viso oscenamente sfigurato dalla tua assenza, quell’insano bisogno di tenerti, Anita, di allattarti, avevano preso le forme di un rossore acquoso e tutto, anche la sua stanchezza, anche il vuoto nulla da cui ti aveva fatto uscire, e quell’intenso, inverosimile colore blu come dicevano loro… “Signor Riolo mi ascolti bene. Oggi è stata una giornata bellissima, ma anche difficile…”.

Così me ne rimasi zitto su una seggiolina, quasi mortificato per come mi sentivo adesso, a fissare lo ‘scorrere’ delle rotelline, a ticchettare con le adidas su quell’odore greve di pavimenti disinfettati, su quell’asettica pulizia che ti entrava in bocca, quasi a disagio per l’insana voglia di prendere un camice a caso e picchiarlo a sangue, fino a che non mi avesse garantito, “signor Riolo”, che era tutto chiaro, ineccepibile certo, e che “stasera tornerete a casa insieme”. Quel luogo così confortevole che corrispondeva agli interni della mia testa, lo vedevo adesso come un’immonda sala di attesa, come un bosco disincantato dove la Morte, assumendo sembianze rigorosamente femminili, mi avrebbe spiegato ogni cosa per ciò che era. Avevo i sensi sviluppatissimi e tutto al tatto, alla vista, si ingigantiva di particolari, che fossero le sedie di ferro occupate cinque minuti prima da esseri più in ossa che in carne, o le lancette dell’orologio a muro, o quel senso di veglia forzata che ristagna nelle sale operatorie, assieme all’alito dei visitatori, al fumo del brodino e ad un olfatto potenziato, quasi animale nella sua esattezza.

Ho aspettato, Anita, ho contato i passi e anche loro passavano. Càmici bianchi, invece che verdolini. Alieni nuovi, affrettati, e col sorriso stampigliato sulle maschere… A tutti chiedevo sempre la stessa cosa, non sapendo nemmeno da dove venissero, o a chi diavolo stessi parlando: «Respira adesso, non è vero?».

Tutto il resto lo sai. Anche la storia di quel video di te a otto ore, quel groviglio di fili e filetti che ti pendevano dal collo, la flebo di zuccheri e la scatolina di plastica, con una piccola escoriazione sul naso e gli occhi blu, l’unica forma di blu che ti era rimasta addosso. Ripresi tutto. Anche l’aria il gonfiarsi leggero del petto, sotto la lana della coperta… Ogni volta che tiravi su col naso, fissavo le linee rosse sullo schermo, regolari, serenamente spezzate… Non l’ho fatto mai vedere a nessuno. Forse l’ho pure cancellato non mi ricordo sono passati un sacco di anni e tu sei diversa, adesso lo siamo tutti… Anche tua madre, quando ne riparliamo e mi fa leggere questi articoli sul clampaggio precoce del cordone. Lei sostiene che «se avessi avuto la prontezza per dire di no, di non tagliare subito, pulsava ancora… Per favore, parlale di questa cosa nella lettera, per favore è importante per me… ».

Non dire assolutamente nulla di questa cosa ai nonni. A loro dicemmo solo di Elisa, non di te, anche dopo quando ti abbiamo portata a casa ed era tutto finito concluso, anche la paura che avevamo i primi tempi che ti andasse qualcosa di traverso in gola, o che uno sguardo severo ti soffocasse, neanche il mio senso di gelosia e frustrazione, quando Elisa stava solo con te, pensava solo a te e io volevo andarmene via da voi, dalla forza annientatrice del vostro amore… e tutte le volte che ti ho addormentata, davanti a quella finestra chiusa e siamo andati insieme al Tierpark a vedere l’elefante e poi hai cominciato a strisciare hai messo i denti hai distrutto i miei dischi hai imparato ad aprire e chiudere cassetti e battevi le mani mi facevi ciao dalle fotografie…
Tua madre mi ha odiato quando le ho fatto leggere la storia della tua nascita. Lei dice di no ma è così, si è sentita come se le avessi tolto qualche cosa dal suo corpo e c’ha ragione, non c’ero mica io là dentro. Chiedo venia se non potrò mai gonfiarmi tutto come una mongolfiera, ospitare niente di simile a un figlio dentro di me! Averlo solo fuori, davanti agli occhi: lo capite che voglio dire? Lo capisce il vostro corpo che significa: diverso?
Quando ho detto a tua madre che volevo mettere il racconto in rete, spedirlo a ilmiolibro.it, beh è stato come se qualcosa si fosse riaperto, mi fissava come un’erinni con quegli occhi tutti di fuori, continuava a ripetermi a strillarmi addosso: «Era il mio parto, così mi fai sentire nuda!». E poi: «No. Non è andata così… Devi scrivere anche… ». «E ora a che pensi? Stai pensando di farci l’editing?».
Ho pensato che era tutto un grandissimo equivoco, che in realtà non era successo proprio, che mi ero inventato tutto e che nemmeno tu esistevi, ho pensato che almeno cambiare i nomi, trovarci un titolo, una cosa snella, veloce, agile, che hai il diritto di interromperla a metà, o finirla una volta per tutte… E comunque non era nemmeno di quella specie di 11 novembre del 1989, ore 11.30 città di Berlino, che ti volevo parlare con la mia lettera. O meglio sì, era quel giorno, ma per come lo vivo adesso, nel tempo presente, sento che se ne sta lì piantato dentro come un muro e che non crolla mai, e che mi giudica, e che è molto severo… Sento che non riesco a metterci il punto, la parola fine e ripetermelo ancora, all’infinito: fine. Come se tutto fosse già successo e non restassero che i colori, le sfumature, quell’attimo in più, bastava davvero un nulla ecco, lo capisci che volevo dirti, Anita?

Ricostruzioni. Nuovi poeti di Berlino

7

di Domenico Pinto

«Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare.»

La canottiera di Bossi

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di Massimiliano Panarari

Con il fortunato Il corpo del Capo, Marco Belpoliti ha inventato e inaugurato un genere. L’analisi fisiognomica e in stile cultural studies di una gallery fotografica delle metamorfosi (fisiche, ma soprattutto, sociopolitiche) di Silvio Berlusconi si è così imposta nel dibattito, diventando un punto di riferimento per chi, a vario titolo di studio, si è occupato del fenomeno rubricato come «berlusconism».
Oggi, il critico letterario e saggista che insegna all’Università di Bergamo ci offre la fenomenologia di colui che dell’ex premier è stato il sodale di ferro, e de facto l’interprete all’italiana (anzi, à la lumbard) di una certa nuova (o forse vecchissima) destra diffusasi in tutta Europa. Si deve, allora, partire proprio da La canottiera di Bossi per decodificare una delle traiettorie di leaderismo politico più impressionanti (e, per lungo tempo, impreviste) dell’Italia contemporanea. In questo libro – naturalmente corredato da un apparato di foto che restituiscono i cambiamenti dell’iconografia bossiana lungo il tempo – Belpoliti disseziona semiologicamente e linguisticamente il creatore di quel partito anfibio, miscela di cesarismo e «carisma padano» e (a dire dei suoi dirigenti) oltre la sinistra e la destra, che in questi anni ha raggiunto percentuali assai elevate nel Nord del Paese.
Non sembri incredibile, quindi – tutt’altro – il fatto che per comprendere a fondo il capo della Lega Nord si debbano prendere le mosse dall’idealtipo (diciamo così) del vitellone. E precisamente nel senso felliniano (seppur in una versione «rivista e aggiornata» agli Anni Settanta e Ottanta), allorquando «il Bossi» irrompe sulla scena politica, inizialmente alla chetichella e senza molti riconoscimenti, e poi, via via, sempre più fragorosamente e con successo. La carriera politica, del resto, rappresenta quasi un ripiego e lo stadio successivo al flop come cantante simil-Celentano e simil-Buscaglione (in arte «Donato»), attività nella quale si era cimentato peregrinando per balere e incidendo pure un 45 giri, tra la fine degli Anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta. Ecco, quindi, perché il futuro detrattore di Roma ladrona, e aedo della virilità della Lega, si configura, per molti versi, come un performer, per il quale il «colore» (stile, abito, gesti, oltre, e ancor più, che le parole), come sottolinea Belpoliti, è tutto. Lo si vede (decisamente) anche nelle variopinte tribù leghiste dei tanti raduni – una costante della storia della formazione nordista – così differenti dalle adunanze democristiane o comuniste, socialiste o missine, e, successivamente, anche dei partiti che rappresentano una continuazione di quelle storie politiche. Laddove il capo leghista, lontanissimo dalle figure dei protagonisti dei comizi della Repubblica dei partiti, si avvicina al microfono, mutatis mutandis, come un cantante, afferrandolo a due mani e intonando la sua omelia politica con una vocalità rauca, ma molto variabile che parte «sottovoce», proprio come avrebbe fatto in gioventù all’interno di qualche dancing. È il Bossi che, nei primi appuntamenti della kermesse nazionalpopolare (o forse, meglio, padanopopulista) di Pontida, scendeva in mezzo al suo «pubblico», e si metteva a firmare autografi; roba da far inorridire schiere di professionisti della politica della Prima Repubblica. Un oratore focoso e aggressivo, per i cui gesti «incitatori» mentre arringa le folle sui pratoni della Lombardia profonda si attaglia perfettamente, come nota Belpoliti, la classe tassonomica dell’etologo inglese Desmond Morris del «colpo d’ascia»: la mano destra che colpisce di taglio, quella di sinistra aperta e indirizzata verso l’alto, per non parlare del pugno chiuso in aria e dell’indice alzato o teso. Un oratore «fisico», che, rivolto agli avversari, sfodererà a ripetizione anche il tristo dito medio.
Questo è il Bossi d’antan, della fase eroica. Ma a Belpoliti, attento anatomopatologo del corpo del Re padano e dell’evoluzione gestual-semiotica della carriera politica del conducator celodurista, non sfugge nulla, fino alla carezza sulla testa fattagli da Berlusconi, nel settembre dell’anno passato, quando la Camera nega l’autorizzazione all’arresto di Marco Milanese: un gesto di ringraziamento politico, ma anche un’autentica manifestazione di intimità.
E così, in qualche modo, il cerchio si chiude, e un ciclo politico finisce sotto il segno dello stesso simbolo con il quale era iniziato, tra squilli di trombe celtiche. Ovvero, dalla famigerata canotta, che dà il titolo al libro: al debutto espressione di un abbigliamento intimo provocatorio e piuttosto «prolet» (do you remember Marlon Brando?) che voleva comunicare vigoria, e, sul viale del declino fisico, quasi candida veste che prefigura una beatificazione dell’icona e della guida carismatica del «popolo padano».

[Pubblicato su La Stampa, il 17-02-2012]

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