Home Blog Pagina 308

Author (not) here

4

ovvero “Una cosa noiosa che non ho mai fatto”

di Stefano Durì

[dopo la pubblicazione di questa recensione su The Pale King, nella casella postale di NI è nata una discussione fra l’autrice e un nostro lettore, il quale ha condensato in questo pezzo le sue considerazioni, che qui volentieri pubblico. G.B.]

Ho letto “Il re pallido” e alcune recensioni. In almeno tre di quelle italiane si afferma che ad un certo punto DFW parla della propria esperienza all’Agenzia delle Entrate, dando al romanzo anche “un valore testimoniale e autobiografico” (cit. dall’articolo di Sandro Veronesi, Repubblica, 31/10/2011). In quelle straniere (v. ad esempio qui o qui ) e anche in Wikipedia si dà invece per scontato che il DFW presente nel romanzo (e che si presenta come “il vero autore”) sia un personaggio di finzione (lo chiameremo “DFW”).

In effetti, nel periodo del presunto apprendistato all’IRS il vero DFW si laureava ad Amherst. Wikipedia a parte, troviamo una descrizione degli anni di Amherst in questo articolo (peraltro segnalato da Wikipedia): . Per documentarsi sulle questioni fiscali DFW ha invece seguito corsi di contabilità, stabilendo anche contatti con veri esperti della materia. Cito da qui:
In 1997 [..] Wallace enrolled in accounting classes at Illinois State University and began plowing through shelves of technical literature, transcribing notes on tax scams, criteria for audit and the problem of “agent terrorism” into a series of notebooks.
He also carried on lively correspondence with tax lawyers and C.P.A.’s [..] Their replies, now held in the Wallace archive at the Harry Ransom Center at the University of Texas, evoke some of the big themes of the novel, and suggest that the philosophical Jesuit accounting professor who “converts” a character to a career in “the Service” may not be a wild invention.

Un recensore della LA Review of Books afferma anche, sulla base della propria esperienza all’IRS, che la stessa Iniziativa Spackman è pura finzione (dal retrogusto curiosamente pynchoniano, tra l’altro) e così pure il cambiamento del Social Security Number, che si rivela piuttosto un utile espediente narrativo.

Se il tutto si riducesse all’invenzione di un qualche particolare autobiografico non ci sarebbe granché da dire. Ma la storia mi pare più interessante: dal 1997 DFW si è costruito una competenza specifica e l’ha proiettata all’indietro nel tempo nell’esperienza di un proprio alter ego fittizio (“DFW”), creando la memoria di un “universo fiscale anni ’80” tecnicamente plausibile ma non aderente alla realtà storica. Parliamo cioé della nascita “in vitro” di un interesse per le questioni fiscali le cui radici non affondano nelle vicende personali: la materia della narrazione è stata scelta in base ad un’elaborazione autonoma e poi è stata modellata nel corso della narrazione stessa. Siamo di fronte ad un progetto il cui senso e le cui motivazioni sono da cercare nella storia precedente di DFW in quanto autore, nella sua autobiografia intellettuale. Questa affermazione sarebbe valida anche se ci trovassimo di fronte ad un’opera portata davvero a termine da DFW in persona, con la differenza che in quel caso ci confronteremmo con un oggetto a tutto tondo, finito. Ci muoveremmo sulla terraferma (per quanto accidentata) e non in una palude.

Mi sono chiesto se, come lettore, posso sorvolare su tutto questo in nome della famosa “sospensione dell’incredulità” e lasciarmi prendere dal testo, indifferente alla realtà fattuale. La domanda può anche essere posta in questo modo: in che cosa il me-stesso-lettore che conosce i fatti differisce dal me-stesso-lettore che si beve tutte le affermazioni di “DFW”?

Tempo fa, al cinema, mi vedevo un film di James Bond. Se non ricordo male JB si stava lanciando da un aereo su una pista innevata a bordo di una specie di gommone. A quel punto un tale nella fila dietro se ne uscì con un commento del tipo “Questa è proprio incredibile!”. Fu un errore non sequestrarlo e torturarlo fino a scoprire perché avesse avuto un sussulto di “realismo” proprio di fronte a quella particolare scena di un film così strutturalmente e prevedibilmente basato su eventi iperbolici. La quantità si era trasformata in qualità: qualcosa, per quel tizio, aveva superato di colpo il limite accettabile della famosa “sospensione dell’incredulità”. Nei film di 007 questa sospensione è in realtà il motivo per cui paghiamo il biglietto, quindi sussultare in sala è pateticamente autolesionista. In “Il re pallido” il discorso è un po’ più complicato.

Nel capitolo 9 (“Author Here”) “DFW”, oltre a parlare della propria esperienza all’IRS (non di DFW-in-carne-ed-ossa, ora sappiamo), fa alcune affermazioni relative ad altre parti del testo. In particolare ci esorta a credere che contenga stralci di interviste, annotazioni e citazioni più o meno rimaneggiate, anche per motivi legali. Se cominciamo a “sospendere l’incredulità” nel capitolo 9 dovremo ritenere che i brani di cui “DFW” parla siano in qualche modo “documenti”, dovremo riconsiderare il ruolo dell’autore stesso e ridimensionarne il contributo creativo. Il tutto sforzandoci di ignorare le nostre impressioni più immediate che invece ci sussurrano “Simula!”, come il terribile dottore tedesco che subodora la truffa di Lemmon e Matthau in “Non per soldi ma per denaro”.

Il fatto è che nel cap.9 entra in gioco un dispositivo paradossale: se si crede alla voce narrante sparisce la finzione (e il romanziere), se non ci si crede, rinunciando alla famosa “sospensione”, sparisce anche il lettore, o almeno il fiducioso lettore ideale di romanzi. Ex post, il paradosso è ulteriormente e tetramente complicato per il fatto che la voce narrante parla all’interno di un’inesistente versione definitiva e pubblicata del romanzo e ad essa si riferisce.

Ma oltre a questa impasse logica c’è un motivo più di fondo per interrogarsi sul ruolo di questa parte del testo, ed è appunto la dimensione “progettuale” di cui parlavo prima. E’ in questa dimensione, penso, che va collocata l’opera e anche il modo della sua ricezione. Per quanto lo conosco, DFW non si diletta di giochetti metaletterari a buon mercato: lo afferma (uberparadossalmente) lo stesso “DFW”, che si dichiara pienamente cosciente della natura paradossale delle proprie affermazioni.
Insomma, se DFW mi mette di fronte questo dispositivo narrativo, sospetto che lo faccia con una motivazione strategica rilevante per me-stesso-lettore, non per mandare in estasi l’accademia. Quindi non mi sembra una buona contromossa aggirare il problema per non compromettere un presunto “gusto del racconto”. Forse il me-stesso-lettore che “sospende l’incredulità” si sta allontanando in un universo tanto parallelo quanto insipido: una lettura che dipende in modo cruciale dalla piatta accettazione delle affermazioni di “DFW” cade fuori dal regno delle letture e delle interpretazioni lecite e sensate (per collocarsi non so dove).

Non mi azzardo a proporre un’interpretazione originale. Non ne ho le capacità e, in questo caso più che mai, sarebbe incerta, difficilmente verificabile. Mi limito a segnalare uno spunto di riflessione offerto da Franzen in un testo bello e toccante apparso sul New Yorker, un racconto che si snoda su tre piani: varie riflessioni su “Robinson Crusoe”, la descrizione di un periodo trascorso in solitudine sull’isola in cui visse il “vero” Robinson e (centrale) una meditazione lucida, commossa e anche molto amara sulla morte dell’amico DFW. Franzen cita un paradosso messo in luce da un critico: nel XVIII secolo gli scrittori di narrativa rinunciano a sostenere che non stanno utilizzando materiale di finzione, ma allo stesso tempo si sforzano di rendere questo materiale il più possibile “not fictional”, cioé verosimile. Questo crea sia un genere letterario sia un modello di relazione tra lettore e testo. Forse è proprio di un nuovo “atteggiamento del lettore” che ci parla “DFW”/DFW.

Overbooking: Fabio Sebastiani

2

Aforismi: solo forme, only for me
di
Gigi Spina

Bello poter scrivere la recensione di un autore che non si conosce personalmente. Primo vantaggio. E poi, il volume ha già una sorta di pre-recensione (di Raul Mordenti, “Il sacrificio della parola banale. A mo’ di introduzione” pp. 7-12). Secondo vantaggio. Terzo: anche l’autore, Fabio Sebastiani – stiamo parlando e parleremo di “Concerto per aforisma (quasi) solo”, Zonacontemporanea 2011 – premette una ‘”Nota” (pp. 13-16), in cui fornisce a lettori e lettrici utili istruzioni per l’uso, accanto a una personale poetica dell’aforisma. La nota contiene, già all’inizio, un bell’aforisma: “L’epoca della ‘riproducibilità tecnica’ si è di fatto trasformata nel suo opposto, ovvero nella ‘tecnica della riproducibilità’”. Lo so, un po’ troppo ‘spiegato’ per essere un vero aforisma, ma tale da prepararci alle pagine che leggeremo con grande curiosità e, alla fine, con gran piacere della mente.

Fabio Sebastiani entra, col suo volumetto, in una tradizione nobile. Secondo Gino Ruozzi, uno dei massimi studiosi delle forme brevi, “in Italia l’attenzione per il genere dell’aforisma è notevolmente cresciuta nell’ultimo decennio, così da avere almeno in parte colmato un vuoto che ci separava dagli altri paesi europei, in particolare Francia e Germania” (introduzione a AA.VV., “Teoria e storia dell’aforisma”, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. IX). Per capirne di più, un altro bel volume è “La brevità felice. Contributi alla teoria e alla storia dell’aforisma”, a cura di Mario Andrea Rigoni, Marsilio, Padova 2006. Ma soprattutto, per leggerne di più (di aforismi), fondamentali sono i due volumi dei Meridiani (Milano 1994,1996), curati da Gino Ruozzi, “Scrittori italiani di aforismi”.

Ora, pensare e scrivere aforismi è un’arte raffinata e particolare. Frutto di una ‘contrainte’, di un’autocostrizione. Voler ascoltare le sirene, ma farsi legare all’albero della nave per impedirsi di raggiungerle. Voler comunque usare le parole, ma legarsi alla forma breve per evitare il compiacimento dell’argomentazione. Cosicché la ciurma dei marinai, insomma lettori e lettrici, ti vedano contorcerti nel tormento della concisione e ne traggano spettacolo edificante.

Seneca, che di aforismi ne capiva, tant’è che ne regalava spesso, in forma di sententia, all’amico Lucilio, a suggello di molte lettere, faceva riferimento a un’esperienza musicale (epistola 108). La musica, del resto, come dirò meglio fra poco, organizza e modula gli aforismi di Sebastiani, fin dal titolo del volumetto.
Seneca parlava della costrizione del verso rispetto alla prosa e della sua efficacia quando un filosofo inframmezza versi a precetti salutari, per farli penetrare più a fondo nelle menti degli ignoranti. E citava una riflessione di Cleante di Asso, filosofo stoico: quando soffiamo dentro una tromba, il nostro soffio, incanalato dentro quel tubo lungo e stretto, attraverso l’apertura più ampia produce un suono più squillante. Così, la rigida costrizione del verso rende i nostri sentimenti più limpidi.
Il concerto di Sebastiani per aforisma (quasi) solo si organizza, come ogni concerto che si rispetti, per movimenti musicali (tecnicamente ‘indicazioni agogiche’), che istruiscono gli strumenti (la voce, il pensiero, l’occhio del lettore/lettrice?) ad eseguire alla perfezione. 18 movimenti, dall’Adagio misterioso all’A piacere. Raul Mordenti fa già il punto nell’Introduzione; starà poi a ogni lettore/lettrice, come a un direttore d’orchestra, adattare alla sua sensibilità quelle istruzioni di esecuzione.

Ma c’è un’altra struttura che organizza gli aforismi e li divide in blocchi – caratteristica, del resto, che è d’obbligo per ogni libro di aforismi: di una ripartizione c’è bisogno, che sia tematica, cronologica, stilistica o di altro tipo. Ogni blocco, corrispondente a un movimento, si apre con un paio di righe in corsivo: aforisma esso stesso, il corsivo tematizza in qualche modo la sezione. A me sembra anche di individuare quasi sempre un legame fra l’ultimo aforisma della sezione e l’aforisma-corsivo della sezione successiva, quasi un riprendere il pensiero da un’angolazione diversa o, per meglio dire, con un diverso movimento. Anche in questo caso, sarà il lettore/lettrice ad aguzzare l’ingegno.
Non conoscendo Sebastiani, ed essendo l’aforisma un punto di vista assolutamente e costitutivamente autobiografico, diciamo ‘il proprio modo di guardare il mondo’, lo immagino (certo, ho letto la sua ‘nota’ introduttiva) come uno scrittore intransigente, che al consumo usa-e-getta preferisce senza alcun dubbio il dono generoso della condivisione profonda, la sfida dell’interpretazione che genera altre interpretazioni, rinnovando continuamente un testo.

Ho deciso, mentre scrivevo questa recensione, di non citare nessuno degli aforismi di Sebastiani, per evitare quella sorta di ‘quale ti è piaciuto di più?’ o ‘cos’hai provato?’ che costringe – costrizione, questa sì, fastidiosa – i nostri sentimenti e i nostri pensieri in caselle strette di questionari d’incomunicabilità.
Dico solo che ‘eseguire’ le sue pagine è stata un’esperienza importante, un passare in rassegna, attraverso lo sguardo di un altro, fasi e momenti della propria vita, allegri e tristi, spensierati e profondi, (ri)conquistare idee e perderne altre, consentire e dissentire, sbilanciarsi fra pessimismo e ottimismo (che poi, intelligenza e volontà non hanno accoppiamento fisso!); e, soprattutto, desiderare di saper pensare per aforismi, che sono il contrario delle verità assolute, dogmatiche e definitive. Proprio no: sono l’istantanea fedele della complessità, contro la semplicità della superficie.

Gli studiosi dell’aforisma fanno riferimento, tradizionalmente, all’etimologia greca della parola: definire, segnare un confine, distinguere (il verbo ‘horízo’), a partire da (la preposizione ‘apó’). Da grecista, mi piacerebbe invece – anche se so che non è possibile – che nel composto si sentisse il verbo ‘horáo’, il verbo dello sguardo, del vedere, quello stesso dell’ ‘idea’. Perché, cos’altro è un aforisma se non esercitare gli occhi della mente a guardare le sirene e descriverle al meglio, con poche e essenziali parole, senza farsene vittima?

Stato e Chiesa: qualcosa si muove

17

di Paolo Bonetti

Le pressioni esercitante sul governo Monti da tanta parte dell’opinione pubblica, a proposito delle esenzioni fiscali di cui, in base all’attuale normativa, gode la Chiesa cattolica in Italia, pare non siano state inutili. Il nostro presidente del Consiglio ha comunicato ufficialmente al vicepresidente della Commissione europea, Joaquin Almunia, la volontà del governo italiano di presentare in Parlamento un emendamento alla legge attualmente in vigore che consente alla Chiesa di non pagare l’Ici (diventata Imu) sulle sue proprietà adibite a usi “non esclusivamente commerciali”.

Tuareg

3
Immagine trovata qui http://www.no-miedo.com/2012/01/tuareg-los-ultimos-hombres.html

No alla balcanizzazione del Sahara
di
Barbara Fiore

Si calcola che a partire dal 2 febbraio più di diecimila tuareg del Mali, e appartenenti alla cosiddetta popolazione bianca, ossia mauri e arabi, abbiano precipitosamente abbandonato accampamenti e abitazioni nel Nord e altrove nel paese, compresa la capitale Bamako, per cercare asilo negli stati vicini, Mauritania, Algeria, Niger, Burkina Faso e Senegal in conseguenza agli scontri iniziati il 17 gennaio tra esercito regolare e ribelli tuareg del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad. Se nel Nord la fuga è determinata dalla impossibilità di rimanere nelle zone del conflitto, a Sud si fugge quella che si configura come una nuova persecuzione: come avvenuto in passato infatti, cittadini maliani attaccano altri cittadini maliani che agli scontri sono del tutto esterni sulla base della loro appartenenza etnica, assimilandoli ai ribelli e rendendoli corresponsabili di quanto accade. E come in passato sta avendo luogo un drammatico esodo di massa.

Le violenze, nel Sud del paese, hanno avuto inizio mercoledì 2 e giovedì 3 febbraio a Bamako con la lunga marcia delle mogli e delle famiglie dei militari maliani uccisi a Aguel hoc dai ribelli di un gruppo separatista tuareg, il MNLA, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, le quali chiedevano di incontrare il Presidente della Repubblica del Mali, Amadou Toumani Touré, perché facesse chiarezza su una situazione, quella della guerra in atto nel Nord, sulla quale il governo ha scelto di tenere un profilo basso e, fin quando è stato possibile, di tacere. L’intervento della polizia ha avuto come risultato una esplosione di violenza che ha portato alla completa distruzione di abitazioni di tuareg sulla collina di Kati. Secondo testimonianze, solo l’intervento dei militari ha evitato episodi di linciaggio ai loro danni. La situazione si è rapidamente così aggravata che il Presidente ha dovuto prendere la parola dichiarando alla televisione di seguire attentamente l’evoluzione dei fatti e invitando “maliani e maliane a prendersi per mano” e non confondere i ribelli con pacifici cittadini “nostri compatrioti”. L’appello non ha avuto alcun risultato e gli episodi di violenza si sono moltiplicati. Di fatto il governo non ha adottato nessuna misura di protezione neppure verso i suoi ministri e funzionari tuareg, arabi e mauri: una delle abitazioni completamente distrutte e incendiate sulla collina di Kati (e non è stato l’unico caso) è quella di Zakiyatou oualett Halatine, ex ministro dell’Artigianato e del Turismo, della quale si darà qui di seguito il testo della violenta lettera di protesta che, dopo quanto accaduto, ha indirizzato al Presidente del Mali.

La popolazione (non solo tuareg ma anche mauri, arabi, songhay, peul) dei villaggi del Nord conquistati e occupati dai ribelli è stata costretta ad abbandonare tutto e affrontare il deserto nel terrore che i luoghi diventassero teatro di battaglia con l’esercito regolare ma anche perché i villaggi costituiscono i luoghi di rifornimento per i ribelli che portano via tutto il necessario. Risulta che molti civili sono già rimasti uccisi negli scontri, si parla di fosse comuni con decine di morti e circolano video inviati via cellulare che testimoniano di fatti di una violenza raccapricciante.
In migliaia hanno raggiunto le frontiere con ogni mezzo a disposizione, vetture, motociclette, asini, ma anche a piedi., per lo più senza scegliere la destinazione, essendo unico scopo quello di uscire dal paese. La Croce Rossa Internazionale parla oggi di oltre tredicimila profughi in Mauritania e oltre cinquemila in Niger, mentre non c’è ancora una stima esatta su quanti si sono spostati in Burkina Faso. Chi è fuggito ha abbandonato tutto portando con sé solo lo strettissimo necessario, dal momento che, sebbene ci si attendessero gravi conseguenze agli scontri, la situazione è precipitata con velocità imprevedibile.

Il futuro è rappresentato per la maggior parte degli esuli dai campi profughi che, a quanto risulta ad esempio per quelli della Mauritania dove manca perfino l’acqua, non offrono per il momento nessun aiuto anche se l’HCR, l’Haut Commisariat pour les Réfugiés, assicura di poter organizzare in breve tempo una accoglienza adeguata. Grande angoscia suscita il futuro dei bambini e dei giovani che hanno dovuto interrompere gli studi, né si prevedono scuole nei campi.
L’informazione, praticamente inesistente sulla stampa ufficiale, è estremamente difficile da ottenere: le notizie arrivano via cellulari, unico modo per sapere cosa realmente stia accadendo.
Fin dal 1963, con la rivolta delle popolazioni nomadi tuareg dell’Adagh, il nord del Mali è zona di rivendicazioni aventi al centro una non vivibile condizione di marginalizzazione sia economica che politica. La rivolta venne allora repressa con esecuzioni collettive pubbliche alle quali era d’obbligo applaudire, violenze sulle donne, saccheggi, massacri di animali a migliaia al fine di distruggere l’unico mezzo di sostentamento. Molti furono i morti tra la popolazione inerme e migliaia di persone emigrarono quindi verso la Libia, l’Algeria, il Niger. Il conflitto, sempre latente, riprese nel 1990 e proseguì fino al 1996, investendo anche i tuareg del Niger e della Mauritania, e portando alla morte, nel Mali, di duemila civili con una migrazione di massa di circa duecentomila persone. Un patto firmato col governo nel 1996 che salvaguardava l’unità dello Stato maliano pur consacrando uno statuto particolare al Nord non ha di fatto posto fine alla ribellione che ha continuato a ripresentarsi periodicamente non essendo mai stati sanati i problemi da cui era nata.

Oggi, dopo una tregua di tre anni dall’ultimo scontro, quello di Abeibara alla fine del 2007, il conflitto si è riacceso e questa volta con grande violenza. Ma ci si trova adesso in una situazione nuova, che è l’attacco di un movimento, il MNLA, che si propone di liberare l’Azawad, ossia tutta la regione del Nord, “dalla presenza dello stato maliano”.
Uno dei motivi del risveglio della ribellione è il ritorno dei tuareg spostatisi in Libia nelle passate migrazioni, che avevano sostenuto Gheddafi ma che, in parte anche, avevano combattuto nelle fila del CNT, il Consiglio Nazionale di Transizione libico e che al crollo del regime libico sono rientrati nei luoghi di origine, Mali, Niger, ma portando con sé di una massa impressionante di armi, comprese armi pesanti, mezzi anticarro e antiaereo. Mentre il Niger ha posto come condizione al rientro la consegna delle armi, il Mali non lo ha fatto. La costituzione nel mese di ottobre 2011 del MNLA, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, nato dall’unione di più gruppi tuareg, ma al quale sembra appartengano anche altre popolazioni dell’Azawad, songhay e mauri, movimento reso quindi più forte dai mezzi bellici ora a disposizione e, a quanto dichiara il governo del Mali, dall’appoggio di al Aqmi (la frangia di al Qaeda che rivendica un Maghreb islamico) e dei salafisti algerini, ha portato alla rivendicazione dell’indipendenza o almeno di una grande autonomia del Nord.
Sebbene le ritorsioni e le violenze abbiano come conseguenza una forte coesione identitaria e il rafforzarsi del senso di appartenenza ad un unico popolo, non tutti i tuareg condividono la ribellione in atto e il conflitto iniziato dal MNLA e di fatto militari tuareg rimasti fedeli allo Stato sono stati uccisi, pur essendosi arresi, nell’attacco di Aguel hoc.
In un incontro tra eminenti intellettuali e uomini politici maliani il 13 febbraio a Bamako, si è parlato di una volontà esterna di “balcanizzazione di questa zona del Sahara” a proposito della situazione, estremamente complessa da analizzare. Non è possibile avere ora tutti gli elementi necessari per farlo, né d’altronde è al nostro fine importante farlo in questo momento. Quel che invece ci appare assolutamente indispensabile, nel più completo silenzio della informazione, è denunciare e far circolare la notizia di quanto sta accadendo.

* * *

Lettera dell’ex Ministro
dell’Artigianato e del Turismo, Zakiyatou Oualett Halatine

Lettera dell’ex Ministro dell’Artigianato e del Turismo,
Zakiyatou Oualett Halatine

A Sua Eccellenza il Presidente della Repubblica del Mali.

Mi permetta, Signor Presidente, di esprimerLe la mia collera e la mia indignazione per i gravi incidenti di cui siamo stati vittime io stessa e i miei familiari.
Sono semplicemente allibita che i servizi di sicurezza e i militari e forse Lei stesso, dal momento che non posso pensare neppure per un istante che Lei non fosse al corrente di quanto stava per succedere, non abbiate preso nessuna disposizione per evitalo.
Ho diritto di chiedermi se per far tacere le vostre sorelle e spose dei militari, Lei non abbia preferito esporci alla vendetta popolare. Pur avendomi sempre chiamato Sorella, e mio marito Signore.
Lei ha scelto la stessa via scelta dai miei vicini e amici del quartiere di Kati ai quali, nel corso di dieci anni di buon vicinato, ho sempre testimoniato rispetto e amicizia. Questo almeno ha il merito di essere chiaro e coinciso. Tra parenti e amici ci si guarda in faccia e si dice la verità. Ma questo non è stato il caso dei miei vicini e Suo, Lei che è l’autorità suprema da cui non pensavo di dovermi aspettare una tale connivenza. Ho sbagliato dunque nel credere alla vostra fraternità e alla vostra amicizia. Ho sbagliato nel farLe sopportare la mia presenza perché non è buona educazione sedere alla tavola alla quale non si è stati invitati. Diversamente da ciò che si pensa e si fa credere, e cioè che noi siamo dei viziati della Repubblica, non è la prima volta che succede quanto accaduto. Nel 1991, nella piena connivenza della guarnigione di Diabaly e delle autorità di quella città, tutta la mia famiglia ha dovuto rifugiarsi in Mauritania dopo il brutale assassinio di mio zio a Sokolo e il saccheggio delle nostre case e dei nostri beni, che mai ci sono stati restituiti. E morirono allora mia sorella e i suoi tre (tre) bambini nel tentativo di sfuggire alle atrocità.
Vede, Sua Eccellenza Signor Presidente: noi abbiamo sofferto e continuiamo a soffrire come allora, se non di più. Perché Signor Presidente, noi non siamo ricevuti a Kolouba per le nostre lamentele e non ci si degna neppure di chiederci cosa ci stia accadendo. Quando si saccheggia, si ruba, si usa violenza a noi Tuareg, è normale, si tratta di vendetta. Mi dica, signor Presidente, se siamo Suoi cittadini malgrado Lei, e capiremo. Sarebbe più semplice ed eviterebbe migliaia di morti e di inutili sofferenze. In questa faccenda noi soffriamo e questo non è cominciato oggi. Sì, in effetti Sua Eccellenza Signor Presidente, sono rimasta stupefatta nel vedere che nessuna autorità preposta si sia preoccupata di sapere cosa ci è accaduto dopo il saccheggio della nostra casa e i tentativi di violare la nostra integrità fisica.
Contrariamente a quanto si tenta di far sapere ai Maliani, i nostri padri e le nostre madri hanno combattuto e hanno dato il loro sangue perché il Mali esistesse. Anche noi, le nuove generazioni, abbiamo fatto del nostro meglio per conquistarci la stima dei nostri amici e concittadini, e della Repubblica.
Non posso evitare in questi momenti difficili per me e i miei figli, di pensare al mio fratello maggiore che ha subito la stessa nostra sorte e che ha lasciato il Mali nel 1991 in condizioni analoghe, dopo che la sua casa è stata saccheggiata, preda dei vandali, e che è stato minacciato di morte assieme a tutta la sua famiglia, e di pensare a mia suocera (morta in esilio) che in esilio ha vissuto quasi vent’anni.
Penso anche a mio cugino, il defunto Mohemedoun Ag Hamani, fratello maggiore del “Suo amico”, brutalmente assassinato a Tombouctou. A mia sorella Zeinabo, il cui domicilio, la clinica e la farmacia sono state oggetto di vandalismo e di saccheggio nello stesso giorno. Zeinabo è la perfezione. Perché si è lasciato che la gente le facesse vivere questo incubo? Nessuno a Kati può dire di aver mai ricevuto un torto da lei, perché lei ne è semplicemente incapace. Sua ricompensa è stata questo atto selvaggio e disumano, quattro ore passate con suo figlio in un incubo.
Questi momenti mi fanno pensare anche alla gente di mio marito, i Kel Essouk di Gao, ai quali la Repubblica non ha mai reso giustizia. Mentre lui, mio marito, si batteva per la pace.
Perché questo Lei non l’ha detto e spiegato alle sorelle di Kati quando le ha ricevute? Forse questo avrebbe attenuato la loro pena, dal momento che disgraziatamente la disperazione non è appannaggio di nessuno. Tra cittadini di una repubblica ci si guarda in faccia e ci si dice cosa non va.
Ho pensato che la Repubblica fosse una e indivisibile, ma scopro con grande dolore che questo dipende dalla vostra origine e dal vostro colore. Sfortunatamente, Signor Presidente, è il colore della pelle che determina lo sguardo al quale si ha diritto. E’ un “noi” e “loro” che dura ormai da cinquant’anni.
Signor Presidente, tra Repubblicani ci si deve dire la verità, non si può mentire al proprio paese e agli amici, altrimenti quale è il senso che si può dare a queste due parole così importanti? Sono sicura, Sua Eccellenza Signor Presidente, che un giorno i Maliani, figli degni e rispettosi dei valori africani, faranno venir fuori questa verità, non se ne dispiaccia nessuno.
Colgo questa occasione per ringraziare tutti coloro, tra i miei amici, che nelle forme più diverse hanno voluto darci il loro sostegno e la loro amicizia.
La prego, di voler accettare, Sua Eccellenza Signor Presidente della Repubblica, i miei più rispettosi saluti.

Zakiyatou Oualett Halatine
Ex Ministro

Autre Presse del 9 Febbraio 2012

Nuovi autismi 15 – La mia prima fidanzata ufficiale

11

di Giacomo Sartori

La mia prima fidanzata ufficiale aveva un buonissimo odore. Un odore lieve ma pieno, altalenante tra due apici sempre in agguato di gomma per matita e pavimento di falegnameria, che poi nel solleone estivo si condensava in fragranza di pane appena uscito dal forno, e con gli sfregamenti della pelle si faceva bruciaticcio di motorino elettrico surriscaldato, o di trenino che dir si voglia, per poi virare al salmastro di costa oceanica battuta dal vento e foderata di alghe, quasi di ostrica appena aperta. Questa mia prima fidanzata era una mia compagna di classe, e in quarta ginnasio era seduta proprio davanti a me. Io all’inizio mi limitavo a attaccarle con lo scotch le punte dei lunghi capelli al mio banco e a fare lo spiritosino. Il professore comunista eterodosso la sgridava con la sua voce cavernosa di marxista fumatore, e lei piangeva, piangeva. Lui la sgridava citando Bertold Brecht e Solone, e lei piangeva ancora di più. Tra i singhiozzi balbettava che le facevano male gli occhi, aveva molto male agli occhi. Il resto della classe ascoltava soggiogato. Poi alla fine delle lezioni la portava in un bar, dove riprendeva a strapazzarla fumando le sue sigarette senza filtro e bevendo vino bianco di qualità, tirando in campo Giordano Bruno o Antonio Gramsci, e lei continuava a singhiozzare sorseggiando un bicchiere di acqua minerale. Adesso un professore così che rapisce le belle allievine all’ora di pranzo lo schiafferebbero subito in prigione, ma all’epoca si andava meno per il sottile, e l’erudito satiro era anzi molto rispettato. D’altra parte la sua attrazione e le filippiche che ne scaturivano avevano qualcosa di indifeso, di timido, erano in fondo molto caste. L’anno dopo lei s’era tagliata i capelli, e eravamo già una coppia a tutti gli effetti, con sedimentate connivenze di gusti e sessuali. I nostri compagni di classe erano rampolli dell’impalata borghesia cittadina, avevano brufoli e merendine confezionate, e noi con i nostri trent’anni complessivi eravamo una coppia materialista storica aperta alle brezze della rive gauche. Lei non piangeva più in classe, ma il professore comunista eterodosso la portava pur sempre qualche volta al bar dopo la lezione di greco, dove lei piangeva ancora, però con una disperazione più trattenuta, quasi dialettica. A me il professore mi soppesava con l’angolo degli occhi, diffidente, ma per certi versi anche ammirato, e sotto sotto connivente: ero pur sempre un appassionato lettore dei testi che lo elettrizzavano. Del resto presto sarebbe cominciato il liceo ultraconservatore e mortifero, si girava pagina. Si entrava nel vivo dell’abiezione provinciale. Proprio nei momenti peggiori la mia prima fidanzata ufficiale mi amava però con slanci indifesi e esplosioni cristalline di bimba, intramezzando dubbi autodistruttivi o silenzi remissivi, nessuno mi ha più amato a quel modo. Io a dir la verità non sapevo che si potesse essere amati: non ne avevo mai fatto l’esperienza, nessuno me ne aveva mai parlato. In casa mia non si usava. Era molto rassicurante, ma certe volte anche opprimente, per certi aspetti insopportabile. Era chiaro che avrei dovuto fornire qualcosa in cambio, ma non sapevo bene cosa. O forse è evidente solo adesso che ci ripenso, lì per lì non avevo questa visuale. Spesso lei piangeva. Dei pianti impenetrabili e struggentissimi, che qualche volta contagiavano anche me. Piangevamo abbracciati, disperati e ebbri di desiderio, infelicissimi, e insomma felici. Piangevamo per la necessità ineluttabile di lasciarci e per i dolori che ancora non subivamo: era una sorta di preveggenza. In ogni modo lei era bellissima, davvero bellissima, e gli uomini quando la vedevano smettevano di respirare e la fissavano senza più muovere un muscolo. Dovunque arrivassimo i giovanotti e i signori di tutte le classi sociali le agganciavano gli occhi addosso come ancore ben tese, come ventose. In quei loro sguardi paralizzati si leggeva una sete inestinguibile, qualcosa di terribilmente tragico, di dolorosissimo. Era evidente che quegli uomini soffrivano molto. A me non dava noia, la consideravo una brezza persistente della quale non capivo bene l’origine, ma non pericolosa. Neanche quando la situazione degenerava, e uno di quei signori tanto per fare un esempio si armava di pistola e rubava una lussuosa macchina per rapirla, e finiva in prigione. Ogni tanto succedevano cose così. Nemmeno lei se ne curava, e certo non ne traeva fierezza: sospetto che per lei gli uomini maturi assomigliassero tutti a suo padre, il nostro grande nemico. Lei amava me, le mie sicurezze adolescenziali e la mia inadattabilità di biondino. Io amavo le sue gonne leggerissime a fiorellini e i suoi piedi quasi nudi nei sandali, i suoi magnifici piedi espressivi e elastici, e i suoi dilatati maglioni a losanghe, che devo confessare hanno formattato per sempre il mio ideale di femminilità. Del resto la sua stessa bellezza risulterebbe oggi forse un po’ datata, evocherebbe la Maria Schneider di Antonioni. Con la mia prima fidanzata ufficiale imparavo tante cose. Io non sapevo che esistessero individui che si arrogano la signoria sull’esistenza di altre persone più giovani, e che questi strani despoti si chiamassero genitori. A casa mia ognuno faceva e aveva sempre fatto quello che voleva, e non c’era una vera distinzione di ruoli e di generazioni. Se c’erano delle direttive erano introiettate e scaturivano dall’intimo, non potevano certo essere imposte con le parole, o peggio ancora con le minacce e i castighi. A casa mia ognuno cercava di sfangarla come meglio poteva, come succede su tutte le navi che affondano. Forse ai tempi di mia sorella e di mio fratello era stato diverso, ma adesso restavano solo ruderi con travi annerite dal fuoco, talvolta indicanti il cielo, e resti di quotidianità devastate, cumuli di macerie presso i quali i passanti preferivano non attardarsi. A casa delle mia prima fidanzata ufficiale invece tutto era ordinato e regolamentato, lo si capiva dalla piastrelle specchianti del pavimento e dal bouquet sfaccettato di prodotti per le pulizie. Tutti gli oggetti erano nel contempo pretenziosi e pedissequi, scarni e paludati, rivelavano una schizofrenica coerenza d’insieme. A vegliare su questo museo della normalità c’era sua madre, che pur non essendo affatto anziana aveva delle pantofole e un’andatura un po’ curva: era una CASALINGA. Io non sospettavo che esistesse un’attività del genere, e che lasciasse quelle stigmate di detenzione a perpetuità. Questo individuo grassottello e sconfitto a priori dalla vita metteva pur sempre il becco dappertutto. Ma il vero despota rientrava il pomeriggio, sotto forma di un signoretto tutto nervi e muscoli, scavato e diritto, un inquieto Pasolini in versione impiegatizia, che si faceva chiamare babbo. Questi genitori sessuofobi mi hanno accolto come un pugno nell’occhio, come un cucchiaino di sale nel caffè, un ciuffo di capelli nella minestra: un castigo divino. La guerra che mi approntarono era totale e sporca, si avvaleva di appoggi e informatori, anche proprio nel concentrazionario ambiente scolastico. Ma nel frattempo la vita continuava, e anzi spesso era proprio in battaglia che imparavo nuove cose. Imparavo le rifrattometrie dei rapporti intimi, i misteri dei sentimenti. La mia fidanzata aveva alcune amiche, con le quali feci i primi passi sul viale ombroso dei tradimenti. Prima di me aveva avuto un pretendente più grande, un bellimbusto che la scorrazzava con una Lancia Fulvia Coupé. A me intrigava questo spasimante sconfitto e ormai sepolto nel ludibrio, questo amante cinese che invece di essere comunista rivoluzionario si pavoneggiava in Lancia Fulvia Coupé. Io avevo un proletario Guzzi Dingo ereditato da mio fratello, una pedissequa motoretta che scimmiottava senza complessi una moto grande. Sul sellino del Guzzi Dingo si schiacciava naturalmente anche lei, alla maniera delle famiglie dei paesi poveri. Come tutte le grandi potenze colonialiste i genitori della mia prima fidanzata ufficiale accusavano gravissime perdite da parte di noi guerriglieri, e più si accanivano più la resistenza si rafforzava: prima o poi  sarebbero stati costretti a capitolare. Cosa che poi è puntualmente successa. Il nuovo stato autonomo, seppure giovanissimo, e impreparato a autogovernarsi, aveva trionfato. Imparavo altre cose ancora, altre le disimparavo. Forse la cosa più difficile era quella, disimparare. A meno che non anticipi un po’ troppo: tutto ciò in effetti è venuto dopo. E naturalmente anche lei imparava, su un percorso che solo in apparenza correva parallelo al mio, come si sarebbe capito poi. Studiavamo in città distanti una dall’altra, e appunto sperimentando da soli, ma eravamo pur sempre molto uniti. Durante un lunghissimo anno da sola nella Cina comunista smise di piangere. Eravamo ancora assieme, e lei non piangeva più: io accettavo senza fare domande quel mistero cinese della radicale scomparsa dei pianti. Forse gli occhi le facevano ancora male, ma non scendevano più lacrime. Del resto il professore comunista dissenziente era ormai solo un aneddoto della preistoria, veniva citato come caso limite, come emblema del nodo irrisolto della paternità. Il mondo cambiava, si insolentiva, e io non ero soddisfatto, non mi ci vedevo nella stoffa dell’adulto, men che meno in quella del fondatore di qualcosa. In realtà senza rendermene conto sprofondavo. Ma a far bene attenzione anche i suoi vestiti mutavano, si facevano più spessi, più marroni: mi piacevano meno. Non parlava del suo desiderio di un figlio, ma la sua inquietudine era quella di una gatta che cerca un posticino appartato per partorire. Poi però, o forse proprio per questo, perché i suoi vestiti mutavano, e si facevano più spessi e più marroni, e lei desiderava un figlio, anche quel nostro fiero staterello saltò in aria. Subito dopo un viaggio molto intenso in un Marocco innevato e silenzioso: il funerale del nostro amore. O forse invece quella costruzione di fuscelli e vento è crollata solo perché prima o poi nella vita tutto si corrompe, tutto finisce.

(l’immagine: L. Soutter, “Seuls”, 1937-1942, 30×39 cm)

Il sig. Stiglitz non è al corrente

2

[Questo post è apparso il 15 febbraio sul blog di Paul Jorion]

di Paul Jorion

Traduzione in italiano di Alessio Moretti

È forse per via del fatto che il Prodotto Interno Lordo della Grecia si sarà abbassato del 7% in un anno e del 16% dall’inizio della crisi nel 2007 ? Oppure perché con le defezioni di parlamentari greci durante il voto di domenica, seguite dall’esclusione dai loro partiti e completate da sondaggi d’opinione favorevoli alla sinistra e alla sinistra radicale, il governo greco da ora l’impressione di non rappresentare più l’opinione pubblica del paese e che, di conseguenza, ogni accordo al piano votato domenica non significa più nulla ? È ormai questo, in ogni caso, il dubbio dei dirigenti della zona euro.

Note per una comunità letteraria

5

Quella volta che sono andato in gita a casa di Andrea Zanzotto
di
Mauro Gasparini

Ho incontrato Andrea Zanzotto due volte. La seconda, nel ’98, era un’occasione istituzionale, ma la prima… la prima, un decina di anni avanti, è stata per tutti gli anni che la separano da oggi uno dei quegli episodi che non smettono di lavorarti dentro perché agiscono in due sensi: da una parte umanizzano coloro che potresti idealizzare e dall’altra ti fanno sentire che non ce la puoi fare neanche ad arrivare al primo gradino di quella scala che porta a essere totalmente dentro alle cose della propria arte. Altro che “son qua sul primo scalin” del Barba Zucon.
Quel giorno di aprile, grazie a una persona a cui devo molto, ho avuto la possibilità di accompagnare in giro per il Veneto un altro poeta: Tonino Guerra (Gianni! Eh quello, anche se spero che questo e il prossimo secolo lo ricorderanno per le sceneggiature di Antonioni e Anghelopulos, oltre che per la sua produzione poetica). Con Guerra siamo prima andati a Ponte di Piave, a salutare dalla macchina Goffredo Parise, lì nel giardino di casa sua dove riposa sotto la stele di Brancusi; poi a Pieve di Soligo, ospiti non annunciati di Andrea Zanzotto.

Il viaggio d’inverno di Roberto Roversi

4

di Davide Nota

I “Calpestare l’oblio” e le Trenta miserie d’Italia.
Nella foresta semantica dell’opera di Roberto Roversi sono molti i termini ricorrenti, come il fruscio di alberi e piante o il ritorno fugace di animali di passaggio, a costituire flora e fauna di un paesaggio boschivo nel quale lettore e scrittore si incontrano e guardano negli occhi, come il pittore ortodosso e la ragazza pagana nell’Andrej Rubliev di Tarkovskij.
Utilizzo questo evocativo immaginario silvestre, il bosco, sia perché è un immaginario evidentemente caro all’autore e fondante l’iconografia della Storia d’Italia antica e moderna – con le sue leggende, le sue battaglie e guerre – ma anche perché credo che possa valere per Roversi, molto più che per altri autori protagonisti degli ultimi sessant’anni di storia della poesia italiana, il brano di Giorgio Agamben dedicato a Caproni dal titolo “La fine del pensiero” e tratto dal libro Phonè, la voce e la traccia, del 1985.

Aboliamo il termine libertà

8

di Pino Tripodi

                                                     1

Tempo fa, tanto tempo fa, si propose  infruttuosamente di abolire la parola popolo dal dizionario degli antinazionalisti. Con esito certamente identico si proporrà di seguito, per ambienti magari anche più circoscritti, l’abolizione della parola libertà o quantomeno l’essere più guardinghi e diffidenti verso di essa almeno quanto lo fu Spinoza.

La cicala, la formica e San Floriano

6

di Helena Janeczek

Sono passati più di tre anni e le cose sono andate avanti peggiorando. Nulla è cambiato e così si è giunti a un fallimento catastrofico, conclamato, che non è solo quello della Grecia. Per questo ritenevo interessante riproporre questo vecchio articolo. (ps. sulla “nuova” Unità ultrà-renziana non me lo pubblicavano di certo). hj

Domenica bastava guardare i tg prime-time della tv pubblica tedesca per capire che la Grecia è uno scenario venuto a noia, un fronte dato per perso comunque vada, senza tanti rimpianti né rimorsi. Il voto e la guerriglia ancora in corso ad Atene non aprono nessun notiziario, né ricevono una copertura più ampia di due minuti. La cosa fa riflettere su come, attraverso i media, interagiscano interessi politici e opinione pubblica. Lo sfacelo della Grecia, la miseria in cui sono ridotti i suoi cittadini, non vengono taciuti, ma sono presentati come esito ineluttabile di cui gli stessi greci risultano i principali colpevoli.“Un intero popolo scende in strada contro una situazione che deve ascrivere a se stesso”, sintetizza un commento della seconda rete Zdf.

La forza dei romanzi

15

di Andrea Inglese

Quando Anselmo leggeva romanzi, davvero immergendosi in essi, si rendeva conto che la sua vita acquistava slancio. Lui rimaneva fermo un paio d’ore a popolare la mente di ambienti, fatti e personaggi menzogneri, e intanto gli obiettivi remoti del suo vivere si facevano più vicini, come visti attraverso un’aria tersa, quasi ingranditi da una lente. Leggeva con foga storie di gangster, che sparavano a funerali, da finte cornamuse, che erano in realtà potenti mitra. C’erano anche le storie di adolescenti ubriachi, che si rotolavano su materassi a terra, e facevano l’amore con lo stile delle più abusate pornostar.

Live Grecia

7

da ⇨ www.stopcartel.net

Leggendo Bertolucci

2

Arrivò prima il figlio, in quell’ora
lucente dopo il pasto il sole e il vino,
eppure silenziosa, tanto che
si sentiva il pennello sul muro
distendere il celeste. Non guardava
fuori, la sua giovinezza
e salute gli bastava, attento
alla precisione dei bordi turchini
entro cui asciugando già l’azzurro
scoloriva com’era giusto. Allora
venne il padre che recava uno stampo,
il verde il rosso e il rosa,
e la stanchezza degli anni e il pallore.
Doveva su quel cielo preparato
con cura far fiorire le rose,
ma il verde stemperato per le foglie
non gli andava, non era un verde quale
ai suoi occhi deboli brillava all’esterno
con disperata intensità appressandosi
la sera che si porta via i colori.
Le corolle vermiglie ombrate in rosa
fiorirono più tardi la stanza,
una qua una là, accordate
alle ultime dell’orto, e il buio,
fuori e dentro, compì un giorno
non inutile che lascia a chi verrà,
e dormirà e si sveglierà fra questi
muri, la gioia delle rose e del cielo.

Attilio Bertolucci, Gli imbianchini sono pittori, da Viaggio d’inverno (1971, dedicata a Roberto Longhi).

La più grande nevicata dal 1956

3

di Giuseppe Zucco

 

 

Perciò l’acqua preferisce la delicata neve, che
l’aiuta ad avverare la sua speranza piú segreta:
quella di fissare la forma di tutto ciò che non è
acqua, le case, i prati, le montagne, gli alberi.
Julio Cortazar

 

Ci vogliano le apocalissi per riempire le scalette dei programmi televisivi – così dopo avere battuto le molteplici piste della crisi economica e del naufragio della nave da crociera, vengo urgentemente spedito nelle estreme ramificazioni montane della regione Lazio, questa volta oltre Frosinone, per intervistare gli abitanti di Ripi, un pugno di case e capannoni sommerso dalla neve.

Con i ragazzi della troupe, un operatore, un fonico, siamo partiti in fretta e furia da Roma.

Abbiamo infilato l’autostrada, ci siamo persi ripetutamente dentro Frosinone – un posto lievitato rispettando le ferree regole del cemento, del disordine, dell’arroccamento – abbiamo imboccato la Casilina verso Napoli, l’abbiamo persa credendo di averla smarrita per sempre, per poi riprenderla senza consapevolezza dopo qualche chilometro, consegnando i nostri destini nelle mani della provvidenza, cioè don Sergio, un prete dei paesini a sud-est di Frosinone, la nostra guida in queste terre sconosciute.

Don Sergio ha i capelli a scodella, il pizzetto da maresciallo, lo sguardo opaco ma vivo, l’aria stazzonata da curato di campagna – l’avevo già visto in una versione spenta e bidimensionale seguire e dialogare in studio lungo il lento monotono fluire di una diretta, ma qui i suoi globuli rossi sussultano di un’energia che non sospettavo, tutt’altro che il classico vaso di coccio in mezzo ai più classici vasi di ferro. Insieme alle pecorelle smarrite, ha spalato la neve dalle strade per giorni. Mi mostra il palmo delle mani, e i segni sono tutti evidenti. Come sono evidenti i segni dell’isolamento sulla pelle della prima coppia che mi presenta, due vecchi contadini con i figli lontani e una quasi centenaria a carico – una signora ischeletrita, gli occhi due biglie lucide, le narici infilate dai tubicini di plastica trasparente attaccati a una bombola di ossigeno, che appena ci vede entrare con la telecamera a tracolla rintocca il suono acuto di due parole, ammutolendo subito, non fiatando più per tutto il tempo, come se si fosse esposta oltre misura davanti a dei perfetti sconosciuti, Aiutatemi aiutatemi, o Salvatemi salvatemi, non ricordo se l’una o l’altra, non vorrei aggiungere ulteriore dramma.

Piazziamo le luci e la telecamera – e Silvana, una signora con le ciocche più nere dell’attaccatura dei capelli, due maglioni uno sull’altro, la divisa ufficiale di chi calpesta lo sfrigolio di queste terre congelate, dietro l’incalzare del punto interrogativo dei miei quesiti televisivi, mi racconta che per cinque giorni la cosa più terribile di tutte non è stato il traboccare della neve per strada e la campagna, né la più immacolata prigionia tra le mura sterminate della neve cresciuta intorno di sessanta centimetri, quanto la mancanza di corrente, senza corrente elettrica in un attimo si è avverato il grado zero della civiltà umana, si è lavata con la neve bollita, ha cucinato con la neve disciolta, ha acceso un fuoco di carta per sghiacciare l’acqua dal serbatoio, ha impastato pane e pizza per sé e i vicini con la farina rimasta, ha percorso tre chilometri con la neve al ginocchio per andare a comprare le medicine in paese per la madre quasi centenaria che ora ci fissa come se non capisse niente e allo stesso modo comprendesse l’origine remota di questo dolore, stretta stretta nelle coperte come un involtino: è così che finiscono i vecchi, involtini nell’involuzione del tempo precipitato nei corsi e ricorsi della storia, senza luce acqua gas. Alla fine dell’intervista, Silvana ci offre il caffè e la crostata alla marmellata, ed è buona, e io la bacio ringraziandola prima di uscire, così come stringo la mano del marito di Silvana che si è appena tagliato la sommità del naso con un pezzo di ghiaccio staccatosi da un cornicione, mani grandi calde enormi, mani dalla pelle ruvida e screpolata – un tessuto che ricopre le mani di altra gente che poi incontrerò per strada, il rivestimento consumato dei contadini del basso Lazio.

Usciamo fuori, completamente esposti alle spirali del gelo e del disastro, e il marito di Silvana indica una casa: guardate, quelle finestre, dice, anche loro sono andati avanti con le candele accese. Da qui cerchiamo di riprendere quel lumicino e custodirlo nello scrigno di un beta, ma ci riusciamo a stento, poi desistiamo.

Don Sergio dice che ci stanno aspettando. E noi seguiamo la sua macchina con la nostra, infiliamo le strade perforando con i fanali il nero delle strade deserte e il bianco di cumuli di neve spettrale, fino ad arrivare su uno spiazzo davanti ad una casa dove si sono dati appuntamento un paio di famiglie al completo, uomini donne ragazzi vecchi, una trentina di persone in tutto. Prima di intervistarli, don Sergio, senza alcuna precauzione, mi passa il telefonino. La voce di un uomo padre di famiglia di un bambino piccolo e di uno piccolissimo mi precipita dentro le ansie di questi giorni nevosi, e prima di qualsiasi cosa si scusa di non poter essere tra le altre persone, per poi rivelare anche dal suo particolare punto di vista la condizione di un essere umano assalito dalla natura e abbandonato dalla protezione civile. Cerco di essere più gentile e comprensivo che posso, dicendogli che proveremo a raccontare tutto, anche se ho a disposizione un servizio di appena due minuti.

Don Sergio taglia la telefonata, e io assumo il ruolo del regista. Scruto la corteccia del viso dei vecchi, l’operatore mette in spalla la telecamera, il fonico direziona l’asta del microfono. Dico a trenta persone mai viste prima di disporsi a semicerchio sotto la luce del neon – da dieci minuti è tornata la corrente – e loro annuendo e sfidando il freddo e rendendo silenzioso tributo non all’autorità del ruolo che incarno, ma alla telecamera accesa, si allineano muti, senza fare rumore, come se decina centinaia migliaia di programmi televisivi subiti dalla più tenera età avessero tracciato da qualche parte all’interno delle loro calotte craniche le istruzioni per disporsi perfettamente preparati e utili davanti al mio preparato e utile cospetto.

Con il microfono acceso, tutto si fa pulito. Prendono parte uno a uno, sgrammaticano l’italiano senza complessi, parlano accordando i toni e i semitoni dell’amarezza – della rassegnazione nessuna traccia, dietro il canneto fitto delle loro parole non tramonta mai l’ambizione, a tratti gioiosa e spensierata, di un’esistenza governata dalla giustizia. Più che la loro storia – i raccolti distrutti, i capannoni sventrati, la carne sghiacciata e persa, il bagno di neve sciolta bollita davanti al camino, il sonno condiviso nell’unica stanza riscaldata, l’agonia dei malati di ulcera e diabete, la carenza del sale per sciogliere la neve, i lunghi percorsi con la neve abbondantemente oltre le caviglie – mi sorprende la forma degli esseri umani qui riuniti, tutti robusti e rotondetti, la pelle rossa non per il freddo ma per furibonda irrorazione sanguigna, contadini e figli di contadini che non credo sappiano quanto incidano lo spread e le agenzie di rating sulle loro risorse, né quanta parte del loro immaginario sia formulato da gente che ruota la propria età intorno ai capisaldi del brunch e del briefing, uomini donne ragazzi che trascinano la vita oltre l’asticella di questi tempi disastrosi, riscoprendo il senso primo della comunità, la condivisione materiale dei beni e la condivisione immateriale del calore, un calore buono giusto umano, il calore fisico tutto terreno della parola amore, almeno fino a quando la neve non finirà di crollare dal cielo e il sangue non si stabilizzerà su temperature quotidiane.

Fino allo scorso Natale, quando giocavano a tombola, i vecchi pescando dal mucchio tiravano fuori il 56, la neve a Roma, riferendosi all’anno del millenovecento più prolifico in fatto di neve e ghiaccio e fratture scomposte. Forse non realizzano ancora, quel numero si è convertito nel 12 degli anni duemila, ma questa ultima cifra fatica a cristallizzarsi tra i ricordi – nelle prossime ore è annunciata un’altra nevicata, e il cielo non è altro che la superficie bianca minerale su cui ognuno può distinguere le previsioni del proprio oroscopo.

 

 

nengue…

16
di Orsola Puecher


 
Tutto per lui era così piccolo, così vicino, così bagnato;
avrebbe voluto mettere la terra accanto a una stufa
.”
Georg Büchner LENZ 1835
ed. Adelphi trad G. Dolfini

 
 

François Couperin “Deuxième Leçon de Ténèbre”


Estrapolata da uno dei molti telegiornali del blizzard, l’apparizione, per uno strano caso sobriamente commentata, fra le nevi dei Monti Sibillini, l’epifania di questo signore molto anziano, diritto, elegante come un alpinista degli anni ’20, astratto, ironico e per nulla spaventato, che riprende orgoglioso il suo pellegrinaggio verso la meta del paesino di Corbara, dove ci tiene a precisare non c’è nessuno ad aspettarlo, è testimonianza di un perduto senso della vita, della misura del sopravvivere con pochi mezzi e pochi drammi che ha caratterizzato intere generazioni nella lotta contro gli elementi naturali e le avversità.
Ha ragione Anna, dall’Aquila, che, assistendo al decadere di ciò che ancora per miracolo stava in piedi della sua città, in certi nostri bollettini della neve, alla mia mail:

From: Orsola Puecher
To: anna tellini
Sent: Saturday, February 11, 2012 7:40 AM
Subject: sibillino
 
anna un’altra metrata di neve per l’inverno del nostro scontento
ho estrapolato da un tg questo personaggio incredibile che ne è il protagonista assoluto
mi piacerebbe riuscire a scriverne

risponde

Re: sibillino
DA: anna tellini
A: Orsola Puecher
Messaggio contrassegnato
Sabato 11 Febbraio 2012 9:16
 
L’aristocratica eccentricità vestimentaria, nonchè l’irenica serenità del tratto, me lo porrebbero come vessillo del distacco, della voluttà di perdersi: in breve, un “Into the wild” in salsa sibillina…

E allora lo metto qui con antica funzione apotropaica, che stasera spaventi un po’ e allontani la tormenta che ci assedia come non mai, levigando ogni cosa in creste di neve a dune di deserto, e che ci fa sentire al centro di un grande ghiacciaio di nevi perenni. Che ci rassicuri, in questa che sarà davvero un lunga notte bianca, che non è niente di trascendentale questa neve, come vuole farci credere ogni inviato che si rispetti di tutte le televisioni del regno della retorica giornalistica che ha i suoi innevati da raccontare e va per i paesini sepolti a caccia di casi umani e immancabilmente il suo sarà un viaggio nel nulla, o nella morsa del gelo. Se manca la luce per qualche black out, non si trattiene dallo sventolarci che siamo al grado zero della civiltà e altre amenità. L’intervistato di solito dignitosamente dice poche parole, offre malvolentieri all’invadenza della telecamere interni modesti, con stufe a bombola. Dove si sta accampati con gli anziani, imbacuccati. Panni appesi ai raggi del tubo della stufa economica a legna. Piastrelle di cucine modeste, non di design. Abbigliamento non tecnico e sovrapposizioni di scialli e scialletti e berretti. Ma lui insiste ma come avete fatto a stare senza luce e riscaldamento? E se, dignitoso, il padre di una bimba di dieci giorni gli risponde che si sono chiusi in cucina e hanno acceso tutti i fornelli della stufa a gas e si son stretti l’un all’altro ad aspettare, pare non accontentarsi e riprende la caccia al dramma da esibire e violare.
Nessun grado zero di civiltà. Fino a non molti anni fa si viveva così, come in questi giorni la neve ci sta facendo ricordare.

Lo so che è ridicolo. Ho il negozio sotto casa. Ma quando arriva il tempo, devo accumulare lo stesso. Salame, vino, legna. La paura che l’inverno porti miseria mi abita dentro. Ne ho passati troppi a tribolare: guerra, lager, fame nera, amici portati via dal gelo. Se faccio provvista affronto al meglio la stagione del riposo, della lettura, del raccoglimento. Anni fa la neve mi isolò per giorni, rimasi senza luce e telefono. Fu magnifico. Ero felice, tranquillo, non c’era tv. I fiocchi cadevano senza rumore. Avevo legna, farina bianca, lardo, formaggio, e una storia da scrivere. La finii al lume a petrolio. Era la Storia di Tonle. La neve, l’istinto del lupo, la voglia di perdersi nei boschi di casa, sull’Altopiano di Asiago, mettere ancora gli sci di fondo , lasciare che il fiato ti geli la barba. II tempo, anche, del narrare.
 
Mario Rigoni Stern
intervista di Paolo Rumiz
La Repubblica
24/9/2006 Corvara [Bolzano]

 

11 44
33 2-2

 

John Cage A Valentine Out of Season


 

Nengue… nevica…. dicono qui nel dolce dialetto centro italico: traccia del latino ningere/ninguere [nevicare] che restava nell’antico accusativo di nix, ninguem poi diventato nivem, perdendo con quell’enne questo suo sonoro, ninnnante, scorrere ininterrotto di fiocchi. Fa la neve… si dice. Ma chi la faccia tutta questa neve quest’anno è davvero un mistero. Da una settimana, da quando sono nati i tre gattini bianchi come nengue della gatta Mizzi, non fa altro che nevicare. Ci si muove, ci si ferma. I pettirossi si posano vicinissimi a caccia di briciole e bacche d’alloro. La volpe si avvicina alle case, di notte. Si mettono le catene, si tolgono le catene. Si è a volta a volta bloccati, come si chiudessero i ghiacci dello stretto di Bering. Si sta chiusi a spiare dalla fessure di porte e finestre fino al disgelo. Non una macchina che passa, bianco e silenzio. Poi si scappa a far provviste esagerate nelle pause. Salutando chi incontri come si provenisse da luoghi remoti, da solitudini di mesi, infagottati in ridicoli abbigliamenti in cui si stenta a riconoscersi.
Aspettando che ‘rnengui e poi snengui.
 

L’uomo di neve
 
di Wallace Stevens
 
Si deve avere una mente d’inverno
Per ammirare la brina e i ramoscelli
Dei pini incrostati di neve;
 
E aver patito il freddo per lungo tempo
Per accorgersi dei ginepri arruffati di ghiaccio,
Degli abeti ruvidi nel distante scintillio
 
Del sole di Gennaio; e non immaginare
Alcun lamento nel suono del vento,
Nel suono di poche foglie,
 
Che è il suono della terra
Spazzata dallo stesso vento
Che sta soffiando nello stesso luogo vuoto
 
Per chi ascolta, chi ascolta nella neve,
E, un nulla lui stesso, guarda
Il nulla che lì non c’è e il nulla che c’è.
 
[trad. Orsola Puecher]
 
 

Killing an Arab

0

Conosco Michele Giorgio dagli anni ottanta, ovvero da quando lui e Silvia Tessitore animavano, insieme ad altri, una delle più belle redazioni giornalistiche della Campania, Caserta, di allora, Radio Città Futura. Corrispondente per il Manifesto ha messo su, poco tempo fa, un progetto, La Near East News Agency (Nena-News) che vale la pena seguire. effeffe

La Near East News Agency (Nena-News) nasce dal progetto di un collettivo di giornalisti, che vivono e lavorano nel Vicino Oriente e in Italia, con l’obiettivo di diffondere un’informazione indipendente ed accurata su un’area del mondo che è terreno di conflitti che condizionano l’intero pianeta. Il Vicino Oriente e’ da sempre oggetto di particolare attenzione da parte dei maggiori mezzi d’informazione internazionali; un’attenzione non sempre approfondita e spesso appiattita su rappresentazioni schematiche della realta’ dei singoli paesi della regione che, al contrario, e’ complessa e articolata. Gran parte delle notizie diffuse quotidianamente offre punti di vista parziali o distorti e trascura l’analisi dei contesti politici, sociali ed economici entro i quali maturano ed esplodono conflitti e contraddizioni.

La Nena si propone di fornire aggiornamenti quotidiani sui conflitti in corso, sui processi politici di cambiamento, le dinamiche sociali, le lotte dei lavoratori, il protagonismo emergente delle donne, le condizioni dei giovani, le produzioni culturali. Lo fara’ sia attraverso la diffusione di news quotidiane, sia attraverso articoli, reportages, analisi e materiale multimediale. L’auspicio e’ quello di riuscire ad offrire gli strumenti per la comprensione di questa parte di mondo che è il Vicino Oriente, in alternativa all’esistente lavoro di copertura mediatica, intenso ma troppo spesso standardizzato.

Lettera aperta agli scrittori di tutto il mondo

145

di Khaled Khalifa

[Pubblico questo disperato appello che ci giunge dalla Siria, di Khaled Khalifa. La lettera, datata lunedì 6, è stata tradotta in inglese, francese, spagnolo, cinese, norvegese e albanese. Viene tradotta per la prima volta in italiano grazie all’alacre impegno e passione di Barbara Teresi, che qui ringrazio. G.B.]

Amici, scrittori e giornalisti di ogni parte del mondo, e specialmente voi che vi trovate in Cina e in Russia, vorrei mettervi al corrente del fatto che il mio popolo si trova a fronteggiare un genocidio.
Da una settimana a questa parte le forze del regime siriano hanno intensificato i loro attacchi alle città insorte, e in particolare Homs, Zabadani, Rastan, la provincia di Damasco, Madaya, Wadi Barada, Figeh, Idlib e i paesini del Monte Zawiya. Durante questa settimana, e fino ad ora, mentre vi scrivo queste righe, sono caduti più di mille martiri, tra cui molti bambini, e centinaia di case sono crollate addosso ai loro abitanti.
La cecità di cui soffre il resto del mondo ha incoraggiato il regime a cercare di far piazza pulita della rivoluzione pacifica in Siria con una brutalità senza eguali. L’appoggio di Russia, Cina e Iran, e il silenzio del resto del mondo nei confronti dei crimini perpetrati alla luce del sole, hanno consentito al regime di decimare il mio popolo durante gli ultimi undici mesi, ma in quest’ultima settimana, dal 2 febbraio a oggi, i segni della carneficina si sono fatti più evidenti.
Quella delle centinaia di migliaia di siriani scesi per le strade delle loro città e dei loro paesi la notte del massacro di Khalidiyya, tra venerdì e sabato scorsi, con le mani alzate in preghiera, in lacrime, è una scena che spezza il cuore e richiama l’attenzione del mondo sulla tragedia umanitaria siriana. È altresì un’esternazione chiara, senza veli, del nostro sentirci orfani, abbandonati dal mondo, mentre i politici si limitano a vane parole e sanzioni economiche che non fermano gli assassini né trattengono i carri armati imbrattati di sangue.
Il mio popolo, che ha affrontato la morte a torso nudo, armato di soli canti, in questo preciso momento si trova a fronteggiare una campagna di genocidio: le nostre città ribelli sono soggette a uno stato d’assedio senza precedenti nella storia delle rivoluzioni, un assedio che impedisce al personale medico di prestare soccorso ai feriti, mentre gli ospedali da campo vengono bombardati a sangue freddo e distrutti. Non è consentito l’ingresso alle organizzazioni umanitarie, le comunicazioni telefoniche sono interrotte, cibo e medicine sono bloccati, al punto che il contrabbando di una sacca di sangue o una compressa di paracetamolo nelle zone sotto assedio è considerato un reato punibile con la detenzione nelle carceri per prigionieri politici, teatri di torture i cui dettagli, se mai un giorno doveste venirne a conoscenza, vi impressionerebbero.
Nel corso della sua storia moderna, il mondo non ha mai visto un coraggio e un valore come quelli mostrati dai rivoluzionari siriani nelle nostre città e nei nostri paesi. Così come non ha mai assistito prima d’ora a una connivenza e un silenzio simili, che ormai possono essere considerati alla stregua di complicità nello sterminio della mia gente.
Il mio popolo è un popolo di pace, di caffè e musica che mi auguro un giorno possiate gustare anche voi, e di rose di cui spero possiate sentire il profumo, affinché sappiate che il cuore del mondo è oggi vittima di un genocidio e che il modo intero è complice nello spargimento del nostro sangue.
Non riesco a spiegare nulla di più in questi momenti cruciali, ma spero di avervi esortati a mostrare la vostra solidarietà al mio popolo con i mezzi che riterrete più opportuni. So che la scrittura è impotente e nuda di fronte al frastuono dei cannoni, dei carri armati e dei missili russi che bombardano città e civili inermi, ma non mi va che anche il vostro silenzio sia complice dello sterminio del mio popolo.

Khaled Khalifa è nato ad Aleppo nel 1964. È romanziere, poeta e sceneggiatore per la TV e il cinema. Nel 2008 il suo romanzo Elogio dell’odio, in Italia edito da Bompiani, è entrato a far parte della rosa dei finalisti dell’International Prize for Arabic Fiction, il più importante riconoscimento letterario nel mondo arabo. Il romanzo, censurato in patria, è stato tradotto in molte lingue.

Sostenere il manifesto

6

sette opere di misericordia

3

di Nicola Ingenito

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. (…) In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»

Vangelo secondo Matteo

 

Bisogna che inizi questa recensione con un’esortazione, mascherata da invito neanche troppo gentile: “Andate a vedere Sette opere di misericordia di Gianluca e Massimiliano De Serio. È un film straordinario!”

Nel “Vangelo secondo Matteo”, Cristo elenca le sette opere di misericordia corporale che ha ricevuto. Queste procurano il perdono necessario per raggiungere il Regno dei cieli. E, quindi è lo stesso Cristo a invitare tutti gli uomini a compiere le stesse opere con questi suoi piccoli fratelli di grazia. Ora, nella Torino dei nostri giorni, fra periferie degradate e ospedali di funebre pallore, Antonio, interpretato da uno straordinario Roberto Herlizka, e Luminita, una commovente Olimpia Melinte, sono gli ultimi fratelli del corpo affamato, assetato, nudo, straniero, malato, carcerato, morto. Essi sono lì, davanti ai nostri occhi, per soccorrerlo e, quindi per soccorrersi.