La più grande nevicata dal 1956
di Giuseppe Zucco
Perciò l’acqua preferisce la delicata neve, che
l’aiuta ad avverare la sua speranza piú segreta:
quella di fissare la forma di tutto ciò che non è
acqua, le case, i prati, le montagne, gli alberi.
Julio Cortazar
Ci vogliano le apocalissi per riempire le scalette dei programmi televisivi – così dopo avere battuto le molteplici piste della crisi economica e del naufragio della nave da crociera, vengo urgentemente spedito nelle estreme ramificazioni montane della regione Lazio, questa volta oltre Frosinone, per intervistare gli abitanti di Ripi, un pugno di case e capannoni sommerso dalla neve.
Con i ragazzi della troupe, un operatore, un fonico, siamo partiti in fretta e furia da Roma.
Abbiamo infilato l’autostrada, ci siamo persi ripetutamente dentro Frosinone – un posto lievitato rispettando le ferree regole del cemento, del disordine, dell’arroccamento – abbiamo imboccato la Casilina verso Napoli, l’abbiamo persa credendo di averla smarrita per sempre, per poi riprenderla senza consapevolezza dopo qualche chilometro, consegnando i nostri destini nelle mani della provvidenza, cioè don Sergio, un prete dei paesini a sud-est di Frosinone, la nostra guida in queste terre sconosciute.
Don Sergio ha i capelli a scodella, il pizzetto da maresciallo, lo sguardo opaco ma vivo, l’aria stazzonata da curato di campagna – l’avevo già visto in una versione spenta e bidimensionale seguire e dialogare in studio lungo il lento monotono fluire di una diretta, ma qui i suoi globuli rossi sussultano di un’energia che non sospettavo, tutt’altro che il classico vaso di coccio in mezzo ai più classici vasi di ferro. Insieme alle pecorelle smarrite, ha spalato la neve dalle strade per giorni. Mi mostra il palmo delle mani, e i segni sono tutti evidenti. Come sono evidenti i segni dell’isolamento sulla pelle della prima coppia che mi presenta, due vecchi contadini con i figli lontani e una quasi centenaria a carico – una signora ischeletrita, gli occhi due biglie lucide, le narici infilate dai tubicini di plastica trasparente attaccati a una bombola di ossigeno, che appena ci vede entrare con la telecamera a tracolla rintocca il suono acuto di due parole, ammutolendo subito, non fiatando più per tutto il tempo, come se si fosse esposta oltre misura davanti a dei perfetti sconosciuti, Aiutatemi aiutatemi, o Salvatemi salvatemi, non ricordo se l’una o l’altra, non vorrei aggiungere ulteriore dramma.
Piazziamo le luci e la telecamera – e Silvana, una signora con le ciocche più nere dell’attaccatura dei capelli, due maglioni uno sull’altro, la divisa ufficiale di chi calpesta lo sfrigolio di queste terre congelate, dietro l’incalzare del punto interrogativo dei miei quesiti televisivi, mi racconta che per cinque giorni la cosa più terribile di tutte non è stato il traboccare della neve per strada e la campagna, né la più immacolata prigionia tra le mura sterminate della neve cresciuta intorno di sessanta centimetri, quanto la mancanza di corrente, senza corrente elettrica in un attimo si è avverato il grado zero della civiltà umana, si è lavata con la neve bollita, ha cucinato con la neve disciolta, ha acceso un fuoco di carta per sghiacciare l’acqua dal serbatoio, ha impastato pane e pizza per sé e i vicini con la farina rimasta, ha percorso tre chilometri con la neve al ginocchio per andare a comprare le medicine in paese per la madre quasi centenaria che ora ci fissa come se non capisse niente e allo stesso modo comprendesse l’origine remota di questo dolore, stretta stretta nelle coperte come un involtino: è così che finiscono i vecchi, involtini nell’involuzione del tempo precipitato nei corsi e ricorsi della storia, senza luce acqua gas. Alla fine dell’intervista, Silvana ci offre il caffè e la crostata alla marmellata, ed è buona, e io la bacio ringraziandola prima di uscire, così come stringo la mano del marito di Silvana che si è appena tagliato la sommità del naso con un pezzo di ghiaccio staccatosi da un cornicione, mani grandi calde enormi, mani dalla pelle ruvida e screpolata – un tessuto che ricopre le mani di altra gente che poi incontrerò per strada, il rivestimento consumato dei contadini del basso Lazio.
Usciamo fuori, completamente esposti alle spirali del gelo e del disastro, e il marito di Silvana indica una casa: guardate, quelle finestre, dice, anche loro sono andati avanti con le candele accese. Da qui cerchiamo di riprendere quel lumicino e custodirlo nello scrigno di un beta, ma ci riusciamo a stento, poi desistiamo.
Don Sergio dice che ci stanno aspettando. E noi seguiamo la sua macchina con la nostra, infiliamo le strade perforando con i fanali il nero delle strade deserte e il bianco di cumuli di neve spettrale, fino ad arrivare su uno spiazzo davanti ad una casa dove si sono dati appuntamento un paio di famiglie al completo, uomini donne ragazzi vecchi, una trentina di persone in tutto. Prima di intervistarli, don Sergio, senza alcuna precauzione, mi passa il telefonino. La voce di un uomo padre di famiglia di un bambino piccolo e di uno piccolissimo mi precipita dentro le ansie di questi giorni nevosi, e prima di qualsiasi cosa si scusa di non poter essere tra le altre persone, per poi rivelare anche dal suo particolare punto di vista la condizione di un essere umano assalito dalla natura e abbandonato dalla protezione civile. Cerco di essere più gentile e comprensivo che posso, dicendogli che proveremo a raccontare tutto, anche se ho a disposizione un servizio di appena due minuti.
Don Sergio taglia la telefonata, e io assumo il ruolo del regista. Scruto la corteccia del viso dei vecchi, l’operatore mette in spalla la telecamera, il fonico direziona l’asta del microfono. Dico a trenta persone mai viste prima di disporsi a semicerchio sotto la luce del neon – da dieci minuti è tornata la corrente – e loro annuendo e sfidando il freddo e rendendo silenzioso tributo non all’autorità del ruolo che incarno, ma alla telecamera accesa, si allineano muti, senza fare rumore, come se decina centinaia migliaia di programmi televisivi subiti dalla più tenera età avessero tracciato da qualche parte all’interno delle loro calotte craniche le istruzioni per disporsi perfettamente preparati e utili davanti al mio preparato e utile cospetto.
Con il microfono acceso, tutto si fa pulito. Prendono parte uno a uno, sgrammaticano l’italiano senza complessi, parlano accordando i toni e i semitoni dell’amarezza – della rassegnazione nessuna traccia, dietro il canneto fitto delle loro parole non tramonta mai l’ambizione, a tratti gioiosa e spensierata, di un’esistenza governata dalla giustizia. Più che la loro storia – i raccolti distrutti, i capannoni sventrati, la carne sghiacciata e persa, il bagno di neve sciolta bollita davanti al camino, il sonno condiviso nell’unica stanza riscaldata, l’agonia dei malati di ulcera e diabete, la carenza del sale per sciogliere la neve, i lunghi percorsi con la neve abbondantemente oltre le caviglie – mi sorprende la forma degli esseri umani qui riuniti, tutti robusti e rotondetti, la pelle rossa non per il freddo ma per furibonda irrorazione sanguigna, contadini e figli di contadini che non credo sappiano quanto incidano lo spread e le agenzie di rating sulle loro risorse, né quanta parte del loro immaginario sia formulato da gente che ruota la propria età intorno ai capisaldi del brunch e del briefing, uomini donne ragazzi che trascinano la vita oltre l’asticella di questi tempi disastrosi, riscoprendo il senso primo della comunità, la condivisione materiale dei beni e la condivisione immateriale del calore, un calore buono giusto umano, il calore fisico tutto terreno della parola amore, almeno fino a quando la neve non finirà di crollare dal cielo e il sangue non si stabilizzerà su temperature quotidiane.
Fino allo scorso Natale, quando giocavano a tombola, i vecchi pescando dal mucchio tiravano fuori il 56, la neve a Roma, riferendosi all’anno del millenovecento più prolifico in fatto di neve e ghiaccio e fratture scomposte. Forse non realizzano ancora, quel numero si è convertito nel 12 degli anni duemila, ma questa ultima cifra fatica a cristallizzarsi tra i ricordi – nelle prossime ore è annunciata un’altra nevicata, e il cielo non è altro che la superficie bianca minerale su cui ognuno può distinguere le previsioni del proprio oroscopo.
nengue…
“Tutto per lui era così piccolo, così vicino, così bagnato;
avrebbe voluto mettere la terra accanto a una stufa.”
Georg Büchner LENZ 1835
ed. Adelphi trad G. Dolfini
François Couperin “Deuxième Leçon de Ténèbre”
Estrapolata da uno dei molti telegiornali del blizzard, l’apparizione, per uno strano caso sobriamente commentata, fra le nevi dei Monti Sibillini, l’epifania di questo signore molto anziano, diritto, elegante come un alpinista degli anni ’20, astratto, ironico e per nulla spaventato, che riprende orgoglioso il suo pellegrinaggio verso la meta del paesino di Corbara, dove ci tiene a precisare non c’è nessuno ad aspettarlo, è testimonianza di un perduto senso della vita, della misura del sopravvivere con pochi mezzi e pochi drammi che ha caratterizzato intere generazioni nella lotta contro gli elementi naturali e le avversità.
Ha ragione Anna, dall’Aquila, che, assistendo al decadere di ciò che ancora per miracolo stava in piedi della sua città, in certi nostri bollettini della neve, alla mia mail:
From: Orsola Puecher
To: anna tellini
Sent: Saturday, February 11, 2012 7:40 AM
Subject: sibillino
anna un’altra metrata di neve per l’inverno del nostro scontento
ho estrapolato da un tg questo personaggio incredibile che ne è il protagonista assoluto
mi piacerebbe riuscire a scriverne
risponde
Re: sibillino
DA: anna tellini
A: Orsola Puecher
Messaggio contrassegnato
Sabato 11 Febbraio 2012 9:16
L’aristocratica eccentricità vestimentaria, nonchè l’irenica serenità del tratto, me lo porrebbero come vessillo del distacco, della voluttà di perdersi: in breve, un “Into the wild” in salsa sibillina…
E allora lo metto qui con antica funzione apotropaica, che stasera spaventi un po’ e allontani la tormenta che ci assedia come non mai, levigando ogni cosa in creste di neve a dune di deserto, e che ci fa sentire al centro di un grande ghiacciaio di nevi perenni. Che ci rassicuri, in questa che sarà davvero un lunga notte bianca, che non è niente di trascendentale questa neve, come vuole farci credere ogni inviato che si rispetti di tutte le televisioni del regno della retorica giornalistica che ha i suoi innevati da raccontare e va per i paesini sepolti a caccia di casi umani e immancabilmente il suo sarà un viaggio nel nulla, o nella morsa del gelo. Se manca la luce per qualche black out, non si trattiene dallo sventolarci che siamo al grado zero della civiltà e altre amenità. L’intervistato di solito dignitosamente dice poche parole, offre malvolentieri all’invadenza della telecamere interni modesti, con stufe a bombola. Dove si sta accampati con gli anziani, imbacuccati. Panni appesi ai raggi del tubo della stufa economica a legna. Piastrelle di cucine modeste, non di design. Abbigliamento non tecnico e sovrapposizioni di scialli e scialletti e berretti. Ma lui insiste ma come avete fatto a stare senza luce e riscaldamento? E se, dignitoso, il padre di una bimba di dieci giorni gli risponde che si sono chiusi in cucina e hanno acceso tutti i fornelli della stufa a gas e si son stretti l’un all’altro ad aspettare, pare non accontentarsi e riprende la caccia al dramma da esibire e violare.
Nessun grado zero di civiltà. Fino a non molti anni fa si viveva così, come in questi giorni la neve ci sta facendo ricordare.
Lo so che è ridicolo. Ho il negozio sotto casa. Ma quando arriva il tempo, devo accumulare lo stesso. Salame, vino, legna. La paura che l’inverno porti miseria mi abita dentro. Ne ho passati troppi a tribolare: guerra, lager, fame nera, amici portati via dal gelo. Se faccio provvista affronto al meglio la stagione del riposo, della lettura, del raccoglimento. Anni fa la neve mi isolò per giorni, rimasi senza luce e telefono. Fu magnifico. Ero felice, tranquillo, non c’era tv. I fiocchi cadevano senza rumore. Avevo legna, farina bianca, lardo, formaggio, e una storia da scrivere. La finii al lume a petrolio. Era la Storia di Tonle. La neve, l’istinto del lupo, la voglia di perdersi nei boschi di casa, sull’Altopiano di Asiago, mettere ancora gli sci di fondo , lasciare che il fiato ti geli la barba. II tempo, anche, del narrare.
⇨ Mario Rigoni Stern
intervista di Paolo Rumiz
La Repubblica
24/9/2006 Corvara [Bolzano]


John Cage A Valentine Out of Season

Nengue… nevica…. dicono qui nel dolce dialetto centro italico: traccia del latino ningere/ninguere [nevicare] che restava nell’antico accusativo di nix, ninguem poi diventato nivem, perdendo con quell’enne questo suo sonoro, ninnnante, scorrere ininterrotto di fiocchi. Fa la neve… si dice. Ma chi la faccia tutta questa neve quest’anno è davvero un mistero. Da una settimana, da quando sono nati i tre gattini bianchi come nengue della gatta Mizzi, non fa altro che nevicare. Ci si muove, ci si ferma. I pettirossi si posano vicinissimi a caccia di briciole e bacche d’alloro. La volpe si avvicina alle case, di notte. Si mettono le catene, si tolgono le catene. Si è a volta a volta bloccati, come si chiudessero i ghiacci dello stretto di Bering. Si sta chiusi a spiare dalla fessure di porte e finestre fino al disgelo. Non una macchina che passa, bianco e silenzio. Poi si scappa a far provviste esagerate nelle pause. Salutando chi incontri come si provenisse da luoghi remoti, da solitudini di mesi, infagottati in ridicoli abbigliamenti in cui si stenta a riconoscersi.
Aspettando che ‘rnengui e poi snengui.
L’uomo di neve
di Wallace Stevens
Si deve avere una mente d’inverno
Per ammirare la brina e i ramoscelli
Dei pini incrostati di neve;
E aver patito il freddo per lungo tempo
Per accorgersi dei ginepri arruffati di ghiaccio,
Degli abeti ruvidi nel distante scintillio
Del sole di Gennaio; e non immaginare
Alcun lamento nel suono del vento,
Nel suono di poche foglie,
Che è il suono della terra
Spazzata dallo stesso vento
Che sta soffiando nello stesso luogo vuoto
Per chi ascolta, chi ascolta nella neve,
E, un nulla lui stesso, guarda
Il nulla che lì non c’è e il nulla che c’è.
[trad. Orsola Puecher]
ΣΕΙΣΑΧΘΕΙΑ
Grecia, 593/2 a.C.
Solone fr. 36 West
Ἐγὼ δὲ τῶν μὲν οὕνεκα ξυνήγαγον
δῆμον, τί τούτων πρὶν τυχεῖν ἐπαυσάμην;
συμμαρτυροίη ταῦτ᾽ ἂν ἐν δίκῃ χρόνου
μήτηρ μεγίστη δαιμόνων Ὀλυμπίων
ἄριστα, γῆ μέλαινα, τῆς ἐγώ ποτε
ὅρους ἀνεῖλον πολλαχῇ πεπηγότας,
πρόσθεν δὲ δουλεύουσα, νῦν ἐλευθέρα.
πολλοὺς δ᾽ Ἀθήνας πατρίδ᾽ εἰς θεόκτιτον
ἀνήγαγον πραθέντας, ἄλλον ἐκδίκως,
ἄλλον δικαίως, τοὺς δ᾽ ἀναγκαίης ὕπο
χρειοῦς φυγόντας, γλῶσσαν οὐκέτ᾽ Ἀττικὴν
ἱέντας ὡς ἂν πολλαχῇ πλανωμένους,
τοὺς δ᾽ ἐνθάδ᾽ αὐτοῦ δουλίην ἀεικέα
ἔχοντας, ἤδη δεσποτῶν τρομευμένους,
ἐλευθέρους ἔθηκα. ταῦτα μὲν κράτει
νομοῦ βίαν τε καὶ δίκην συναρμόσας
ἔρεξα, καὶ διῆλθον ὡς ὑπεσχόμην.
θεσμοὺς δ᾽ ὁμοίως τῷ κακῷ τε κἀγαθῷ
εὐθεῖαν εἰς ἕκαστον ἁρμόσας δίκην
ἔγραψα. κέντρον δ᾽ ἄλλος ὡς ἐγὼ λαβών,
κακοφραδής τε καὶ φιλοκτήμων ἀνήρ,
οὐκ ἂν κατέσχε δῆμον, εἰ γὰρ ἤθελον
ἃ τοῖς ἐναντίοισιν ἥνδανεν τότε,
αὖθις δ᾽ ἃ τοῖσιν οὕτεροι φρασαίατο,
πολλῶν ἂν ἀνδρῶν ἥδ᾽ ἐχηρώθη πόλις.
τῶν οὕνεκ᾽ ἀλκὴν πάντοθεν κυκεύμενος
ὡς ἐν κυσὶν πολλῇσιν ἐστράφην λύκος.
Killing an Arab
Conosco Michele Giorgio dagli anni ottanta, ovvero da quando lui e Silvia Tessitore animavano, insieme ad altri, una delle più belle redazioni giornalistiche della Campania, Caserta, di allora, Radio Città Futura. Corrispondente per il Manifesto ha messo su, poco tempo fa, un progetto, La Near East News Agency (Nena-News) che vale la pena seguire. effeffe
La Near East News Agency (Nena-News) nasce dal progetto di un collettivo di giornalisti, che vivono e lavorano nel Vicino Oriente e in Italia, con l’obiettivo di diffondere un’informazione indipendente ed accurata su un’area del mondo che è terreno di conflitti che condizionano l’intero pianeta. Il Vicino Oriente e’ da sempre oggetto di particolare attenzione da parte dei maggiori mezzi d’informazione internazionali; un’attenzione non sempre approfondita e spesso appiattita su rappresentazioni schematiche della realta’ dei singoli paesi della regione che, al contrario, e’ complessa e articolata. Gran parte delle notizie diffuse quotidianamente offre punti di vista parziali o distorti e trascura l’analisi dei contesti politici, sociali ed economici entro i quali maturano ed esplodono conflitti e contraddizioni.
La Nena si propone di fornire aggiornamenti quotidiani sui conflitti in corso, sui processi politici di cambiamento, le dinamiche sociali, le lotte dei lavoratori, il protagonismo emergente delle donne, le condizioni dei giovani, le produzioni culturali. Lo fara’ sia attraverso la diffusione di news quotidiane, sia attraverso articoli, reportages, analisi e materiale multimediale. L’auspicio e’ quello di riuscire ad offrire gli strumenti per la comprensione di questa parte di mondo che è il Vicino Oriente, in alternativa all’esistente lavoro di copertura mediatica, intenso ma troppo spesso standardizzato.
sette opere di misericordia
di Nicola Ingenito
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. (…) In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»
Vangelo secondo Matteo
Bisogna che inizi questa recensione con un’esortazione, mascherata da invito neanche troppo gentile: “Andate a vedere Sette opere di misericordia di Gianluca e Massimiliano De Serio. È un film straordinario!”
Nel “Vangelo secondo Matteo”, Cristo elenca le sette opere di misericordia corporale che ha ricevuto. Queste procurano il perdono necessario per raggiungere il Regno dei cieli. E, quindi è lo stesso Cristo a invitare tutti gli uomini a compiere le stesse opere con questi suoi piccoli fratelli di grazia. Ora, nella Torino dei nostri giorni, fra periferie degradate e ospedali di funebre pallore, Antonio, interpretato da uno straordinario Roberto Herlizka, e Luminita, una commovente Olimpia Melinte, sono gli ultimi fratelli del corpo affamato, assetato, nudo, straniero, malato, carcerato, morto. Essi sono lì, davanti ai nostri occhi, per soccorrerlo e, quindi per soccorrersi.
Comprendere la sorveglianza
Comprendere la sorveglianza – La nuova privacy policy di Google è una buona lettura per capire cos’è il tracciamento, la correlazione dei dati e la profilazione in rete. – Jan Reister
Costruire il bello
di Marco Belpoliti
Pasolini e Ninetto sono a fianco della macchina da presa che inquadra la città di Orte. Il poeta spiega che ha una forma perfetta, ma se si allarga l’obiettivo, e s’include nella visione le case moderne, che sorgono lì accanto, ci si accorge che “la massa architettonica è deturpata, rovinata”. È il 1974 e il regista sta girando un documentario televisivo sulla forma della città, e si pone in modo diretto il problema della bellezza. È una visione che lo strazia, e di cui ha dato conto in alcuni degli articoli sul “Corriere”.
Sono trascorsi quasi quarant’anni e il problema della bellezza esplode di nuovo, e in modo radicale, davanti ai nostri occhi. Un tempo era ritenuto un argomento di “destra”, come se l’estetica non potesse coniugarsi con l’etica; oggi gli italiani interrogati dal Censis, dentro questa crisi economica, scoprono che le loro città sono brutte, o rischiano di imbruttirsi ulteriormente, e capiscono in modo lampante che costruire un edificio bello non costa di più che costruirne uno brutto. Una città brutta fa vivere male, pensare male e anche sognare male. Pasolini aveva ragione: stiamo dilapidando la nostra ricchezza che consiste nella bellezza, nel vivere in città che possiedono il genius loci. E non è solo questione di architetture del passato. A Parigi, decenni fa, il Beaubourg, architettura high-tech, progettata da Piano e Rogers, ha creato uno spazio urbano vivibile e caratteristico, e persino bello. L’architettura non ha solo un valore estetico, ma, come spiega l’inchiesta del Censis, può avere anche un valore economico. Possono i sindaci delle grandi città italiane, come quelle di provincia, e i loro assessori all’urbanistica, pensare alla bellezza oltre che alle carte bollate e alla burocrazia?
Faccio un caso recentissimo ed esemplare. A Milano, proprio di fronte al Cimitero Monumentale, uno dei punti simbolici della città, ricco di sculture funebri, e con il celebre Famedio dei cittadini illustri, un infausto piano urbanistico, confezionato dalla giunta Moratti e proseguito e perfezionato dalla giunta Pisapia, prevede la costruzione di un albergo di nove piani dentro l’area di rispetto, un edificio in stile postmodernista in ritardo di vent’anni. Lì accanto un vecchio palazzo dell’Enel degli anni Trenta dovrà essere demolito per far posto a un ecomostro di nove piani in un quartiere di case che al massimo ne hanno quattro. Parte di questi edifici è di edilizia convenzionata, ovvero per le classi meno abbienti. Un’iniziativa opportuna, dare una casa a prezzi calmierati, ma per farlo si costruisce un bruttissimo palazzo fuori scala a venti minuti a piedi dal Duomo.
In un libro provocatorio ed efficace, Maledetti architetti, Tom Wolfe racconta la storia delle case popolari di Pruitt-Igoe a Saint Louis, progettate e costruite nel 1965 dallo sfortunato architetto Minoru Yamasaki, quello del World Trade Center di NY. Meno di vent’anni dopo in un’affollata assemblea plenaria gli inquilini suggerirono di abbatterle. Era la prima volta in cinquant’anni che si chiedeva un parere a chi abitava gli edifici operai. La vox populi intonò in coro: “Blow it…up! Blow it… up!”, Buttatelo giù! Nel 1972 i tre caseggiati centrali vennero demoliti con la dinamite. Erano un esempio di perfetta architettura modernista. Possibile che non si possano costruire case belle? Abbiamo in Italia più architetti che in tutti gli altri paesi d’Europa. Non è forse venuto il momento che si faccia una riflessione pubblica per questo? La bellezza non è né di destra né di sinistra. Dostoevskij pensava che potesse salvare il mondo. Possono il sindaco di Milano e il suo assessore all’urbanistica riflettere su questo senza ricorrere alla lingua dei regolamenti e dei piani edilizi? E con loro tutti i primi cittadini dell’ex-Bel Paese?
[pubblicato su La Stampa, ieri]
La crisi economica e lo spazio comune della rappresentanza
[pubblico questa presentazione/invito al convegno “Spaziocomune. Costruire partecipazione nel tempo della vulnerabilità” che si terrà il 24/25 febbraio a Lucca. Il progetto Spaziocomune, all’interno del quale si inserisce il convegno, individua una perdita poco visibile alle statistiche di stampo economicista: la perdita di fiducia e il vuoto nella gestione collettiva e politica del sistema. A partire da questa consapevolezza si avviano nuovi percorsi di partecipazione.]
di Riccardo Guidi
Il progetto Spazio Comune prende le mosse da due variabili che si intrecciano: la crescita esponenziale di nuove vulnerabilità in ceti che non avevano mai conosciuto il rischio della povertà; una possente deriva oligarchica a fronte della quale l’attuale articolazione delle forme della democrazia non sembra in grado di proporre risposte efficaci. Si concentra su queste due tendenze che spesso vengono trascurate dal dibattito pubblico. Il progetto è un sistema di laboratori, promossi dalla Fondazione Volontariato e Partecipazione e dalla rivista Animazione Sociale ed è composto da oltre 300 persone di 8 regioni italiane: amministratori pubblici, dirigenti e operatori di cooperative sociali, rappresentanti di organizzazioni del terzo settore, docenti e ricercatori universitari. Si sono riuniti negli ultimi mesi e si stanno dando appuntamento a Lucca per il 24 e 25 febbraio per discutere su come poter costruire nuovi spazi di partecipazione partendo proprio dalle nuove vulnerabilità.
Ian Bogost on gaming
Ian Bogost sui videogame – Intervista collettiva effettuata da Slashdot a Ian Bogost, progettista di giochi e docente di letteratura, comunicazione e cultura presso l’università statunitense di Georgia Tech – via Lucio Bragagnolo – jan reister
Per Roberto Roversi
di Franco Buffoni
Il 12 dicembre del 1969, terminata la lezione (ero al terzo anno di università a Milano) presi il tram per tornare a casa. In tram leggevo Dopo Campoformio di Roberto Roversi, uscito da Einaudi nel 1962 e preso in prestito alla biblioteca. Senza alcuna guida stavo colmando i vuoti, scovavo i libri come un rabdomante. Ad un tratto il tram si bloccò, si bloccarono tutti i tram di Milano e gli autobus e le macchine. Correvano solo le ambulanze. La gente dovette scendere e continuare a piedi, senza sapere perché. Si diceva di una fuga di gas, che fosse scoppiata una banca.
Da babbione a guru in 8 ebook
L’editore Apogeo (gruppo Feltrinelli) ha pubblicato una collana pensata per chi lavora nell’editoria ed è alle prese, volente o nolente, con gli ebook. Scritti intorno ad ottobre 2011, questi libricini cercano di rivolgersi a tutte le figure del mondo editoriale (agenti, proprietà, marketing, produzione…) presentando con uno stile molto informale i concetti base dell’editoria digitale nei rispettivi campi e proponendo varie letture in rete.
Si rivolgono a due tipi di lettore: chi si occupa già di ebook e cerca stimoli anche al di fuori della sua area specifica di interesse, ed il neofita che voglia costruirsi un suo bagaglio professionale. Queste che seguono sono le mie annotazioni, a complemento del materiale sul sito di Apogeo.
Sono in vendita a 3,99 euro l’uno, in formato epub con social DRM. Io li ho comprati con la promozione di quando sono usciti, da Ultimabooks a 1,99 euro l’uno.
Letizia Sechi, Oltre la carta. Idee per l’editoria che cambia. Apogeo, 2011. 23.355 parole, 150.949 battute compresi paratesti e promo della collana.
Intelligente, ben scritto. Letizia Sechi dopo Editoria digitale (Apogeo 2010, gratis CC-BY-NC-SA, consigliato) prosegue ad esaminare come con l’ebook cambino concetti semplici some libro, impresa editoriale, rete e e comunicazione, e cosa si possa cercare di fare per non restare indietro, senza snaturare il proprio lavoro. Nulla di rivoluzionario, ma molto ben fatto.
Federica Dardi, Editore nei social media. Incontrare i lettori in Rete. Apogeo, 2011. 22.750 parole, 148.327 battute.
Un manuale di marketing editoriale in rete, scritto a partire dalla ridefinizione dell’idea di libro. Il lettore è al centro delle riflessioni sull’uso di blog, Twitter, Facebook, Youtube e Flickr per instaurare un rapporto che non sia da piazzista eppure abbia un senso d’impresa. Consigliabile.
Nicola Cavalli, Editoria universitaria digitale. Come la rete trasforma l’accademia. Apogeo, 2011. 11.816 parole, 79.748 battute .
Brevissimo saggio sulle caratteristiche singolari dell’editoria accademica e di come l’editoria digitale offra opportunità in campo bibliotecario, manualistico e nelle pubblicazioni scientifiche. Scritto più dalla parte dell’università che delle case editrici accademiche, e per questo molto interessante.
Francesco Rigoli,Il libraio digitale. L’arte di vendere libri online. Apogeo, 2011. 15.530 parole, 99.067 battute.
Come funziona la distribuzione libraria digitale, le piattaforme distributive, quali sono gli standard sui metadati, l’attività di gestione del negozio online, la promozione e la cura del cliente. Un testo denso di informazioni operative, pratico e pure spiritoso. Chiunque venda qualcosa online dovrebbe leggerlo. Ho avuto a che fare con l’autore durante l’acquisto del libro ed è davvero così, non fa finta.
Ivan Rachieli, La pratica dell’epub. Quando il libro diventa software. Apogeo, 2011. 26.547 parole, 173.050 battute .
L’ebook è un software e questo ribalta completamente il modo di fare un libro, la sua vita nel tempo, i suoi incontri coi lettori, la sua vendita. Rachieli è un informatico che cerca appassionatamente di spiegare concetti sofisticati in modo accessibile a tutti, e secondo me ci riesce. E’ un testo che chiunque scriva con un word processor dovrebbe leggere ed assimilare. Dico a te, zuccone!
Ginevra Villa, Ebook nel contratto. Come cambiano i diritti nell’editoria digitale, Apogeo, 2011. 14.686 parole, 104.186 battute .
Una prudente panoramica contrattuale che non entra mai nel vivo dei problemi (come i contratti standard che cedono all’editore i diritti stampa+ebook a scatola chiusa; le condizioni realmente in uso con i distributori attivi in Italia ecc.). Niente di tutto ciò, in compenso la parte sulle licenze open è la più interessate (protocolli CC+ e CC0).
Fabio Brivio, Il mestiere dell’editor ai tempi dell’ebook. Apogeo, 2011. 13.789 parole, 88.806 battute.
È il mestiere di un umanista informatico, che ragiona in termini di processi e sa vivere in una struttura organizzata. Brivio è un buon divulgatore, capace di spiegare un epub senza pedanteria.
Sergio Maistrello, Io editore, tu rete. Grammatica essenziale per chi produce contenuti. Apogeo, 2011. 12.214 parole,80.024 battute .
Fallo leggere al tuo capo, alla direttrice della casa editrice, all’anziano azionista di maggioranza dell’azienda. È scritto per loro e ti risparmierà tante spiegazioni faticose. Chi segue Maistrello in rete non troverà cose nuove
Nota bene: il titolo dell’articolo è volutamente forzato, naturalmente nessuno è un babbione in una materia in così veloce evoluzione, e per lo stesso motivo è bene diffidare di sedicenti guru.
Considerazione finale: questa è un’opera di alfabetizzazione, ed il suo naturale limite è la ristrettezza dell’orizzonte editoriale. Sono guide per fare ebook con la stessa mentalità e lo la medesima idea di prodotto che si ha producendo un libro a stampa, tralasciando per il momento ogni riflessione sul radicale mutamento di forma del prodotto editoriale e di come i libri digitali potrebbero essere. Leggi a questo proposito:
Chi pensa che l’ebook ucciderà il libro di carta, si tranquillizzi: il libro di carta è un concetto talmente introitato che il mercato produrrà ancora a lungo libri di carta. Solo, li farà in digitale.
Fabrizio Venerandi, Il futuro anteriore dell’ebook.
Update: le introduzioni ai libri sono leggibili sul sito di Apogeo.
carta st[r]amp[al]ata n.45. Febbraio, piovono libri. A milioni.
di Fabrizio Tonello
E’ domenica, la settimana è stata faticosa, uno ha voglia di poltrire a letto e tutto andrebbe bene se, improvvisamente la mia compagna, che è uscita sfidando il freddo, non scodellasse sul comodino il supplemento culturale del “Corriere della sera” di domenica 29 gennaio dove compare in grande evidenza un articolo di Richard Nash intitolato Il libro perfetto per il lettore perfetto. “Leggilo –mi dice- è pieno di dati interessanti”.
Il testo, alle pagine 12-13, inizia così: “Nel 1990 l’editoria statunitense ha pubblicato 25.000 titoli. Nel 2010 ne ha pubblicati 2.800.000. Mentre la popolazione è cresciuta del 25%, i libri sono aumentati del 2.120%. Questo enorme aumento non comprende gli ebook, riguarda solo i libri stampati”.
Minetti, o dell’impossibilità di essere attori / Commento al Minetti di Thomas Bernhard
di Nevio Gàmbula
Il commento, come suggerisce Walter Benjamin, si pone al servizio di un testo. Non si preoccupa di svelarne la complessità, distribuendo luci e ombre; trattandosi di un gesto d’amore, prova a mettere in rilievo quanto di un testo ci nutre. Ciò equivale a dire che tra il testo e il commento si instaura un rapporto di reciprocità: mentre il commento porta alla luce, celebrandolo, il brusio di fondo dell’oggetto che fronteggia, il testo illumina qualcosa di non ancora pensato.
Lettera ai torinesi e al mio sindaco Piero Fassino
diposo la testa sopra i tuoi ginocchi
di Chiara Valerio
Ventitrè anni, e una vita intera,/che ti perdo, Giovanni, e che ti trovo/Tutti questi anni, ci ho messo, Giovanni,/per non mancarti ogni volta di nuovo. La poesia somiglia spesso, e forse anche per una mera abitudine grafica, a una preghiera, a qualcosa che può essere recitato per ottenere qualcos’altro. La poesia, come la preghiera, tiene strette nei versi – anche se sciolti – le richieste, le invocazioni, le bestemmie e le lamentazioni, i desiderata. Quello che voglio, quello che chiedo, quello che odio, quello che amo. La preghiera, come la poesia, richiede esattezza. Signore, compilo intero il miracolo/ oh non lasciare le cose a metà. Così, aprendo Libro delle Laudi (Einaudi, 2012) di Patrizia Valduga, non ci si meraviglia affatto che le laudi del titolo siano tutto questo, solo che, in mezzo al generale astratto dei comportamenti di ognuno, Valduga inserisce – ritornello, mantra e punteggiatura – il nome Giovanni.
La censura, la sofferenza, lo scandalo
Appunti su Una separazione e Sul concetto di Volto nel figlio di Dio
Lei non ce la fa più. Vorrebbe andar via, costruire un futuro migliore, soprattutto per sua figlia. Lui ha un padre demente che non vuole abbandonare. Lei, per disperazione e per ricatto, torna a casa dei suoi genitori. Lui resta con la bambina undicenne e il padre che non può essere lasciato solo un attimo. Trova una badante giovane, molto devota e legata alla tradizione. Quando il vecchio si piscia addosso, la donna che è andata a servizio a insaputa del marito, fa ciò che occorre, ma vorrebbe già mollare l’incarico. Lui quasi la costringe a rimanere sino a quando non trova un ricambio. Da qui si dipana un dramma che segue il disgregarsi di due famiglie.
Psicodramma del potere
di Mauro Baldrati
L’altra sera al gruppo di psicodramma ho fatto un interessante collegamento tra una problematica per così dire oggettiva (politica, nella fattispecie) e un dato esistenziale con epicentro individuale.
Era tornato Riccardo, dopo una assenza piuttosto lunga dovuta a una malattia seguita alle vacanze natalizie. Subito le ragazze, che di solito all’interno del gruppo sono le più ricettive riguardo agli stati d’animo dei presenti, hanno notato la sua faccia immobile, triste. Allora il conduttore gli ha chiesto se andava tutto bene, se voleva parlare del periodo appena trascorso. Riccardo, che gestisce un piccolo negozio di cartoleria, ha detto che per lui è un momento difficile. La crisi lo sta riducendo sul lastrico, le vendite sono ridotte praticamente a zero, inoltre ha ricevuto una visita della Guardia di Finanza che l’ha scaraventato in uno stato di confusione mentale. Sono entrati in due, maresciallo e agente, l’hanno sottoposto a estenuanti verifiche, soprattutto riguardanti il contratto d’affitto. Si è sentito schiacciato, vessato, perseguitato. Lui, piccolo negoziante quasi rovinato dalla crisi economica e dall’accanimento del fisco, forse dovrà chiudere il negozio. Avrebbe voluto farli a pezzi, ha detto, falciarli con un mitra, cancellarli, disintegrarli. Ma non ha fatto nulla, ha dovuto subire, come sempre, come tutti.
Il conduttore l’ha subito fatto salire sul palco, chiedendogli di scegliere i due finanzieri. Io sono diventato il maresciallo, mentre un altro ragazzo del gruppo ha assunto il ruolo dell’agente. È seguito uno psicodramma teso, ma anche comico, con me che recitavo la parte del sottufficiale spietato, persecutorio, il ragazzo che mi spalleggiava rivolgendosi a lui con punte di violenza verbale e anche qualche epiteto (nello psicodramma tutto viene enfatizzato, spogliato di ogni mediazione perché bisogna arrivare al nocciolo incandescente). Riccardo oscillava dalla risposta passiva alla rabbia, colpendomi col cuscino (lo strumento usato per scaricare l’aggressività), poi tornando passivo e fatalista, che era il suo atteggiamento dominante. Il senso era chiaro: io rappresentavo l’autorità, o meglio l’autoritarismo, quel Potere primordiale col quale tutti abbiamo fatto i conti e che ha lasciato segni in noi, ricordi, ma anche ferite, risposte di varia intensità, rabbia, paura, tristezza, ribellione, quando le nostre forze non erano ancora sviluppate e noi eravamo indifesi, e soli, e impreparati, e inesperti.
Terminato il lavoro siamo passati alla fase della verbalizzazione e delle condivisioni. Il conduttore ha fatto un’associazione tra il suo atteggiamento passivo, in alcuni momenti assente, straniato, e la sua infanzia, quando lui, ultimogenito di quattro fratelli, viveva protetto e isolato tra le braccia della madre mentre intorno a lui i fratelli e la sorella litigavano, si ribellavano, i genitori sgridavano, urlavano, ordinavano. Quel lasciare scorrere le cose, quel chiamarsi fuori dall’aggressività che imperava nel suo ambiente ha continuato a seguirlo e a condizionare le sue scelte. Fate quello che volete, diceva quando il maresciallo lo incalzava e lo minacciava per il timbro mancante, che significava anche fate di me quello che volete.
Le condivisioni hanno subito preso una direzione oggettiva, che per un po’ il conduttore ha tollerato: il fastidio per i controlli, il disprezzo per i finanzieri “che sono tutti corrotti”, il tormento di un fisco iniquo e ottuso, regole grottesche, insensate, per cui è comprensibile se non condivisibile che si evada e così via. Io sono intervenuto esprimendo disagio per questo atteggiamento che ho definito “all’italiana”: molte regole sono sbagliate, lo sappiamo, ma con questo scarso rispetto per la cosa pubblica e la propensione a fregare nulla potrà mai cambiare nel paese. Nulla potrà mai crescere.
A questo punto il conduttore ha raddrizzato la barra, riportando la discussione verso i temi che ci interessano, cioè i nostri atteggiamenti, le nostre risposte alla vita. Crescere: i genitori non possono pretendere che i figli crescano, e migliorino, senza una guida. Un genitore non può intimare a suo figlio: ora devi risolvere i tuoi problemi, ora devi eliminare le tue contraddizioni, devi diventare perfetto. È l’esempio che conta; è il comportamento del genitore che favorisce la crescita, perché lui è la guida, e non può esistere sviluppo senza una guida etica, rispettosa e rispettabile.
D’un tratto ho avuto un flash intenso. Una luce abbagliante. Crescita. Non si parla d’altro in questo periodo. È la parola d’ordine del governo dei banchieri che sta mettendo a ferro e fuoco il paese. Un governo – una guida – che si presenta al popolo con l’indice puntato e intima: ora voi dovete pagare. Pagare tutto e per tutti. La crisi è molto grave, c’è il rischio del fallimento, ma noi non paghiamo niente. Noi non c’entriamo con voi. Noi siamo altro. Noi siamo gli intoccabili.
Si dice che una classe dirigente, un governo – una guida – è l’espressione di una cultura popolare. Ma un popolo non cresce solo con se stesso, senza una guida credibile. Il nostro paese ha un passato di terra divisa, spartita tra signori, papi, re e reucci, una dittatura fascista che l’ha portato alla rovina e alla tragedia, cinquant’anni di dominio democristiano all’insegna del bizantinismo e della falsità, dove per comunicare una cosa si affermava il suo contrario, quindici anni di un grottesco sultanato nel quale è stata esaltata la disonestà, la condotta mafiosa, il vilipendio della Costituzione nata da una dura guerra di liberazione.
Oggi un popolo storicamente educato da secoli di esempi negativi, che non ha avuto la possibilità di creare un’idea di stato e di comunità, assiste per l’ennesima volta alle performance di una casta di potere blindata nel suo privilegio che si permette di decidere sulla lunghezza della vita lavorativa altrui. Si obietta che riducendo lo stipendio, il rimborso spese, il vitalizio dei parlamentari (realmente, non il gossip mediatico su 1.300 euro lordi) non si coprirebbe certo il mostruoso buco in bilancio. E quindi si continua così, con una casta che mentre favorisce se stessa e la propria intoccabilità impone sacrifici pesanti agli altri in nome della crescita. Di fatto col suo esempio dice, con parole apparentemente contrarie che evocano “rigore” ed “equità”: invidiateci, imitateci, imparate a fare i furbi, a disprezzare il vostro prossimo, a calpestare i deboli e a nutrire i ricchi. Noi siamo eterni, il nostro avvenire è fuori discussione, ma abbiamo l’idea fissa di favorire i licenziamenti facili, perché i diritti altrui sono merce di scambio, sono polvere. I nostri invece sono sacri. Il capo di un governo composto da superbaroni universitari inamovibili, che viaggiano da un incarico all’altro, si presenta per l’ennesima volta in televisione dove, con stile salottiero, definisce “monotono” il lavoro fisso, annuncia che i giovani devono abituarsi a cambiare, perché il posto fisso possono scordarselo. Come se parlasse ai rampolli privilegiati della sua personale élite, mentre sta umiliando chi il lavoro non solo non può cambiarlo, ma neanche trovarlo, anche a costo di appellarsi alla Madonna di San Luca per tutta la vita.
Questo è l’esempio per il paese, l’esempio per la crescita.
Questa è la guida.Una guida indegna di questo nome, guida al nichilismo e all’egoismo.
Guida di uomini di paglia, di uomini di niente.
(Immagine: J.M. Nattier, “Jean-Baptiste Colbert”, 108×113 cm, olio su tela)





di Khaled Khalifa




