di Mauro Baldrati
L’altra sera al gruppo di psicodramma ho fatto un interessante collegamento tra una problematica per così dire oggettiva (politica, nella fattispecie) e un dato esistenziale con epicentro individuale.
Era tornato Riccardo, dopo una assenza piuttosto lunga dovuta a una malattia seguita alle vacanze natalizie. Subito le ragazze, che di solito all’interno del gruppo sono le più ricettive riguardo agli stati d’animo dei presenti, hanno notato la sua faccia immobile, triste. Allora il conduttore gli ha chiesto se andava tutto bene, se voleva parlare del periodo appena trascorso. Riccardo, che gestisce un piccolo negozio di cartoleria, ha detto che per lui è un momento difficile. La crisi lo sta riducendo sul lastrico, le vendite sono ridotte praticamente a zero, inoltre ha ricevuto una visita della Guardia di Finanza che l’ha scaraventato in uno stato di confusione mentale. Sono entrati in due, maresciallo e agente, l’hanno sottoposto a estenuanti verifiche, soprattutto riguardanti il contratto d’affitto. Si è sentito schiacciato, vessato, perseguitato. Lui, piccolo negoziante quasi rovinato dalla crisi economica e dall’accanimento del fisco, forse dovrà chiudere il negozio. Avrebbe voluto farli a pezzi, ha detto, falciarli con un mitra, cancellarli, disintegrarli. Ma non ha fatto nulla, ha dovuto subire, come sempre, come tutti.
Il conduttore l’ha subito fatto salire sul palco, chiedendogli di scegliere i due finanzieri. Io sono diventato il maresciallo, mentre un altro ragazzo del gruppo ha assunto il ruolo dell’agente. È seguito uno psicodramma teso, ma anche comico, con me che recitavo la parte del sottufficiale spietato, persecutorio, il ragazzo che mi spalleggiava rivolgendosi a lui con punte di violenza verbale e anche qualche epiteto (nello psicodramma tutto viene enfatizzato, spogliato di ogni mediazione perché bisogna arrivare al nocciolo incandescente). Riccardo oscillava dalla risposta passiva alla rabbia, colpendomi col cuscino (lo strumento usato per scaricare l’aggressività), poi tornando passivo e fatalista, che era il suo atteggiamento dominante. Il senso era chiaro: io rappresentavo l’autorità, o meglio l’autoritarismo, quel Potere primordiale col quale tutti abbiamo fatto i conti e che ha lasciato segni in noi, ricordi, ma anche ferite, risposte di varia intensità, rabbia, paura, tristezza, ribellione, quando le nostre forze non erano ancora sviluppate e noi eravamo indifesi, e soli, e impreparati, e inesperti.
Terminato il lavoro siamo passati alla fase della verbalizzazione e delle condivisioni. Il conduttore ha fatto un’associazione tra il suo atteggiamento passivo, in alcuni momenti assente, straniato, e la sua infanzia, quando lui, ultimogenito di quattro fratelli, viveva protetto e isolato tra le braccia della madre mentre intorno a lui i fratelli e la sorella litigavano, si ribellavano, i genitori sgridavano, urlavano, ordinavano. Quel lasciare scorrere le cose, quel chiamarsi fuori dall’aggressività che imperava nel suo ambiente ha continuato a seguirlo e a condizionare le sue scelte. Fate quello che volete, diceva quando il maresciallo lo incalzava e lo minacciava per il timbro mancante, che significava anche fate di me quello che volete.
Le condivisioni hanno subito preso una direzione oggettiva, che per un po’ il conduttore ha tollerato: il fastidio per i controlli, il disprezzo per i finanzieri “che sono tutti corrotti”, il tormento di un fisco iniquo e ottuso, regole grottesche, insensate, per cui è comprensibile se non condivisibile che si evada e così via. Io sono intervenuto esprimendo disagio per questo atteggiamento che ho definito “all’italiana”: molte regole sono sbagliate, lo sappiamo, ma con questo scarso rispetto per la cosa pubblica e la propensione a fregare nulla potrà mai cambiare nel paese. Nulla potrà mai crescere.
A questo punto il conduttore ha raddrizzato la barra, riportando la discussione verso i temi che ci interessano, cioè i nostri atteggiamenti, le nostre risposte alla vita. Crescere: i genitori non possono pretendere che i figli crescano, e migliorino, senza una guida. Un genitore non può intimare a suo figlio: ora devi risolvere i tuoi problemi, ora devi eliminare le tue contraddizioni, devi diventare perfetto. È l’esempio che conta; è il comportamento del genitore che favorisce la crescita, perché lui è la guida, e non può esistere sviluppo senza una guida etica, rispettosa e rispettabile.
D’un tratto ho avuto un flash intenso. Una luce abbagliante. Crescita. Non si parla d’altro in questo periodo. È la parola d’ordine del governo dei banchieri che sta mettendo a ferro e fuoco il paese. Un governo – una guida – che si presenta al popolo con l’indice puntato e intima: ora voi dovete pagare. Pagare tutto e per tutti. La crisi è molto grave, c’è il rischio del fallimento, ma noi non paghiamo niente. Noi non c’entriamo con voi. Noi siamo altro. Noi siamo gli intoccabili.
Si dice che una classe dirigente, un governo – una guida – è l’espressione di una cultura popolare. Ma un popolo non cresce solo con se stesso, senza una guida credibile. Il nostro paese ha un passato di terra divisa, spartita tra signori, papi, re e reucci, una dittatura fascista che l’ha portato alla rovina e alla tragedia, cinquant’anni di dominio democristiano all’insegna del bizantinismo e della falsità, dove per comunicare una cosa si affermava il suo contrario, quindici anni di un grottesco sultanato nel quale è stata esaltata la disonestà, la condotta mafiosa, il vilipendio della Costituzione nata da una dura guerra di liberazione.
Oggi un popolo storicamente educato da secoli di esempi negativi, che non ha avuto la possibilità di creare un’idea di stato e di comunità, assiste per l’ennesima volta alle performance di una casta di potere blindata nel suo privilegio che si permette di decidere sulla lunghezza della vita lavorativa altrui. Si obietta che riducendo lo stipendio, il rimborso spese, il vitalizio dei parlamentari (realmente, non il gossip mediatico su 1.300 euro lordi) non si coprirebbe certo il mostruoso buco in bilancio. E quindi si continua così, con una casta che mentre favorisce se stessa e la propria intoccabilità impone sacrifici pesanti agli altri in nome della crescita. Di fatto col suo esempio dice, con parole apparentemente contrarie che evocano “rigore” ed “equità”: invidiateci, imitateci, imparate a fare i furbi, a disprezzare il vostro prossimo, a calpestare i deboli e a nutrire i ricchi. Noi siamo eterni, il nostro avvenire è fuori discussione, ma abbiamo l’idea fissa di favorire i licenziamenti facili, perché i diritti altrui sono merce di scambio, sono polvere. I nostri invece sono sacri. Il capo di un governo composto da superbaroni universitari inamovibili, che viaggiano da un incarico all’altro, si presenta per l’ennesima volta in televisione dove, con stile salottiero, definisce “monotono” il lavoro fisso, annuncia che i giovani devono abituarsi a cambiare, perché il posto fisso possono scordarselo. Come se parlasse ai rampolli privilegiati della sua personale élite, mentre sta umiliando chi il lavoro non solo non può cambiarlo, ma neanche trovarlo, anche a costo di appellarsi alla Madonna di San Luca per tutta la vita.
Questo è l’esempio per il paese, l’esempio per la crescita.
Questa è la guida.Una guida indegna di questo nome, guida al nichilismo e all’egoismo.
Guida di uomini di paglia, di uomini di niente.
(Immagine: J.M. Nattier, “Jean-Baptiste Colbert”, 108×113 cm, olio su tela)