Les veilleuses
di
Francesco Forlani
Erano verdi, rosse, e c’erano già da prima della tua venuta. Esistevano da molto tempo prima, nel mondo. Le cercavi con la coda dell’occhio non badando alla luce ma alzandoti facendo leva sui gomiti, oppure lasciandoti quasi cadere dal letto a castelletto, da sopra, perché quando dormivi sotto ce l’avevi dritta davanti a te. Una luce tenue capace di illuminare ogni più recondito angolo, piccola e diffusa per tutta la cameretta. C’era un gesto di madre dietro – non erano certo i padri a chinarsi sulla presa per il lumicino- e insieme al respiro di chi ti dormiva nel letto accanto o in quello di sopra, sotto, c’era una luce appena appena colorata, a farti compagnia.
Piove. Piove e fa freddo. Dicono che nevicherà durante la notte, ma per la notte non ci dovremmo già essere più. Si consegna la merce in albergo e poi si viene via, si scende a valle. Così stasera pioverà, farà fresco ma di certo non nevicherà. Abbiamo cominciato a salire da nemmeno un’ora e già soffriamo le curve, ci guardiamo ogni volta che si supera un tornante con la stessa segreta soddisfazione di chi l’ha fatta franca. Ogni volta che il mezzo si ripiega al tornante, si apre un paesaggio diverso da quello appena lasciato sulla destra. Ora una piccola casa tra gli alberi, poche mura di cinta che emergono dalla vegetazione, i ruderi di un vecchio castello, un fitto bosco, nero, e sull’altra le macchie di neve sulle rocce grigie e bianche, un rifugio isolato sulla cima. Non ci vengono macchine incontro, saranno tutti impegnati i turisti a quest’ora del pomeriggio e così per quanto faccia freddo – però abbiamo acceso il riscaldamento – l’attenzione non morde le mani al volante, attanagliate dalla paura di vedersi sbucare davanti qualcuno, all’improvviso.















