di Giacomo Sartori
In passato ho voluto scrivere un romanzo sulle ultime fasi della malattia di mio padre, sulla sua agonia. Mi sono quindi messo all’opera. Prima ancora che me ne rendessi conto il testo mi ha però preso per mano, conducendomi molto indietro, in plaghe dove non avevo pianificato di avventurarmi. Incurante della mia costernazione me ne ha mostrate i recessi meno presentabili, ha preteso che prendessi nota di quello che vedevo. Non c’era niente da fare, non mollava la mia mano: dovevo stare lì, dovevo liberarmi dei filtri abituali con i quali interpretavo il mio mondo. Per capire qualcosa del paesaggio inospitale dove mi trovavo, costellato di canzoni patriottiche e motti ideologici e camice nere, mi sono dovuto documentare sul fascismo, del quale sapevo molto poco. Un vero lavorone, che mi ha permesso però di penetrare nel tempio segreto del mio genitore: molte di quelle che pensavo essere particolarità del suo carattere, scoprivo, erano in realtà riverberi più o meno diretti e più o meno vividi della sua epoca. Del resto quel suo universo nero, constatavo, mi aveva in realtà irrimediabilmente contagiato, beninteso senza che me ne rendessi conto: le reazioni erano germinate in me come malattie non ancora diagnosticate, vere e proprie bombe a effetto ritardato.









