Schwarze Katz (il gatto nero)
di Francesco Forlani
a Raul di Isabella
Un nome così a Berlino, a Parigi, non suscita mica ilarità, mica si presta ai doppi sensi, con quella sua pronuncia che sulla seconda parola accentua le zeta con indomita soddisfazione, come succede da noi, mica da voi. Da noi se chiami un Pub Schwarze Katz, minimo minimo ti arrestano per oltraggio al comune senso del pudore, oppure, non se ne fa nulla perché da noi tutto è oltraggio. La città moderna è oltraggio alla Reggia che si gira sull’altro fianco della pianura, e a quella antica che si limita a darle un’occhiata dalla Torre impizzata nella collina. E la guarda fare, la sua vita che è oltraggio alla vita. Alessandra Schwarze Katz era la vita. Avevamo pochi anni, ma nell’epica di quei pochi anni diciamo che lei era l’eroina mentre io non contavo un cazzo per nessuno. Per nessuno tranne che per lei, che mi dedicava sempre grandi sorrisi ogni volta che ci vedevamo in comitiva, giganteschi mostri di motorini e braccia che si muovevano lungo un perimetro assai ristretto e che si sviluppava intorno al centro della città lungo un asse che andava dalla sala giochi del Jolly Joker, con il muretto poco distante di una piccola piazza, fino alla fine della centralissima Via Mazzini. In una delle stradine sulla destra c’era appunto lo Schwarze Katz, il gatto nero. Il mio gatto invece era grigio, pelo lungo, persiano, una gatta in verità dal nome imprestato dagli Aristogatti, Minou come qualche anno prima avevamo depredato per il nostro dalmata, il nome Pongo alla carica dei centouno. Avevamo in famiglia di vero borghese soltanto gli animali domestici e dio.




Corrado Benigni dialoga con Davide Ferrario






