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Matrimonio all’italiana

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di Tommaso Giagni

Arrivo alla Nuova Fiera di Roma, dopo aver attraversato chilometri di campi e cantieri sulla Portuense in direzione Fiumicino, pochi minuti prima che vengano aperti i cancelli. Questo enorme Centro fiere da poco inaugurato è un gigante di quattordici padiglioni, scintillante al sole, in mezzo al niente: uno strano punto di riferimento tra la città e il mare, creato secondo lo stesso principio di edilizia selvaggia che ha tirato su il complesso residenziale e commerciale di Parco Leonardo.
Davanti all’ingresso Est, accalcata sul marciapiede intorno a me, c’è effettivamente l’Italia reale che sono venuto a cercare: l’Italia degli stivali di pelo bianco, dei tacchi di vernice, l’Italia dei colpi di sole, delle sessantenni con gli ombretti violacei fino alle sopracciglia, l’Italia delle gomme ciancicate. Una ragazza con narici spanate da cocaina, mettendo e togliendo e rimettendosi gli occhiali da sole, con l’altra mano si trascina dietro un trolley rosa.

Ascoltando “Un sopravvissuto di Varsavia” di Arnold Schoenberg

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Un sopravvissuto di Varsavia

 

oratorio per voce recitante, coro maschile e piccola orchestra
Testo e Musica di Arnold Schoenberg
op. 46 [ 11 – 23 agosto 1947 ]

Spartito in PDF

Video di Saskia Boddeke & Peter Greenaway

 

I cannot remember everything.
I must have been unconscious most of the time.
I remember only the grandiose moment
when they all started to sing, as if prearranged,
the old prayer they had neglected for so many years
the forgotten creed!
But I have no recollection how I got underground
to live in the sewers of Warsaw for so long a time.

Non posso ricordare ogni cosa
Devo essere rimasto privo di conoscenza il più del tempo.
Ricordo soltanto il grandioso momento
quando tutti cominciarono a cantare,
come si fossero messi d’accordo prima,
l’antica preghiera trascurata per così tanti anni
il credo dimenticato!
Ma non ho memoria di come riuscii sotto terra
a vivere nelle fogne di Varsavia, per un tempo così lungo.

Cinema strumento di poesia

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Pubblico a partire da oggi e per altri quattro giovedì, gli interventi di poeti italiani sul cinema, raccolti per la manifestazione SGUARDI A PERDITA D’OCCHIO. I poeti leggono il cinema, svoltasi nella primavera del 2009 a Bergamo e curata da Corrado Benigni, Luciano Passoni e Mauro Zanchi. Gli scritti sono successivamente apparsi sul numero 13 della rivista A+L. Quella che segue è l’introduzione di uno dei curatori.

di Corrado Benigni

La creatura, quali siano gli occhi suoi, vede/ l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son/ come rigirati, posti tutt’intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare la sua libera uscita.
R.M. RILKE, ELEGIE DUINESI

BOCCIA ZAPATERO

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di Franco Buffoni

“Non siamo i primi in Europa a riconoscere dignità legislativa alle unioni omosessuali, ma non saremo gli ultimi”. Con queste parole il premier spagnolo José Luis Zapatero incoraggiò il parlamento del suo paese ad approvare la modifica costituzionale proposta dal governo per adeguare la legislazione spagnola alla modernità nel campo dei diritti civili. O, se si preferisce, per adeguarla a un mutamento di costumi e di mentalità volto a conferire dignità al 10 per cento dei cittadini.
Quelle parole mi sono tornate in mente nelle scorse settimane, quando la segreteria del Partito Democratico volle che si tenessero le elezioni primarie in Puglia per imporre il giovane economista Boccia contro il candidato “naturale” della sinistra e governatore uscente Vendola.
Premetto che ho molta simpatia per Boccia, credo sia onesto e preparato, lo trovo anche di aspetto assai gradevole. Aggiungo di non nutrire alcun trasporto per Vendola, pur ammirandone le doti dialettiche e la determinazione: il suo afflato cristiano-poetico-comunista non è nelle mie corde. Tuttavia la distanza propositiva tra i due “candidati” mi apparve subito siderale. Boccia e i suoi committenti avevano come unico obiettivo l’accordo con l’Udc, la formazione più clericale e codina del parlamento italiano. Al confronto Vendola giganteggiava come un colto profeta provvisto di visione.

Su letteratura e politica (la penso proprio come George Orwell e Danilo Kiš)

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di Andrea Inglese

Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico: “Voglio produrre un’opera d’arte”. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio tirare l’attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare.
George Orwell

Se non puoi dire la verità – taci.
Guardati dalle mezze verità.

Danilo Kiš

C’è qualcosa di male se, nell’Italia di oggi, uno scrittore che si ritiene di sinistra pubblica su di un quotidiano come “Il Giornale” o come “Libero”? Piuttosto che sopportare il silenzio, si può anche cominciare una discussione con una domanda brusca. Intorno a questa domanda, dapprima in rete, nella forma del frammentario dibattito per commenti, e poi in contesti più tradizionali e codificati, si è avviato un dibattito pubblico intorno a una vecchia questione, quella della responsabilità dello scrittore. Si è partiti dalla notizia della collaborazione di Paolo Nori a “Libero”, ma le occasioni di porsi certe domande sono state diverse. Un articolo di Tiziano Scarpa proposto a un giornale di sinistra e mai da questo pubblicato, che finisce anch’esso su “Libero”. Ma anche le scelte di coloro, come Berardinelli, che già da anni scrivono per giornali quali “Il Foglio” o“Il Domenicale”. Nonostante molte persone – scrittori, giornalisti o semplici lettori comuni – siano ormai convinti che qualsiasi forma di dissenso, scontro d’idee, discussione critica equivalga ad un puro attacco alla libertà individuale, riprendere in mano la questione della responsabilità dello scrittore, partendo da situazioni così concrete, può essere molto più fecondo che lanciare un astratto dibattito sull’impegno dell’intellettuale o sul rapporto tra lo scrittore e la realtà. Per me si tratta di un’occasione importante per chiarire innanzitutto le mie posizioni, cercando di dissipare un po’ di malintesi e confusioni. Il confronto critico con le posizioni altrui non è tanto mirato a distribuire colpe, quanto a mostrare la bontà di posizioni alternative.

A Granada, leggendo Bolaño

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di Massimo Rizzante

Eravamo agli inizi della decade scorsa. In Italia quasi nessuno si era accorto di Bolaño, sebbene molti suoi libri fossero stati pubblicati da Sellerio. In Spagna e in Francia l’autore era già molto noto. Nella primavera del 2007 «Nuova prosa» (46), diretta da Luigi Grazioli, pubblicò un volume dedicato alla nuova narrativa latinoamericana. Oltre a Bolaño (di cui si presentava lo scritto postato qui sotto e che ora si trova nella raccolta di scritti saggistici Tra parentesi, in uscita in questi giorni da Adelphi), appaiono molto nomi di sicuro valore: scrittori già classici come Sergio Pitol e Ricardo Piglia, i più giovani Volpi, Fresán, Angel Palou, Paz Soldán…
Nel maggio del 2005, nel quartiere sufi di Granada, io e il «mio solo fratello» Miguel Gallego Roca leggevamo Bolaño e scoprivamo un’altra America Latina che stava reinventando l’Europa del XXI secolo, o almeno la sua tradizione romanzesca. Poi, la radiografia del mondo di Bolaño si trasformò improvvisamente in una sala operatoria dove un chirurgo si dilettava in esperimenti di crudeltà. Ci fu l’incontro con Osvaldo Lamborghini e la sua opera, di cui si dirà fra un po’ di tempo…

Granada, 13 maggio 2005

[…]

Massimo Rizzante: Quando ho letto i romanzi di Alan Pauls, Rodrigo Fresán, Jorge Volpi e di altri scrittori latinoamericani (spesso esuli volontari in Spagna, in Europa o negli Stati Uniti) mi sono detto: «Finalmente degli interlocutori!». «Finalmente degli scrittori-lettori che non hanno paura del passato, che dialogano con tutta la tradizione letteraria, europea, americana e latinoamericana, da Rabelais a Borges, da Dante a William Gaddis!».

Miguel Gallego Roca.: E poi, quando hai letto i racconti e i romanzi di Roberto Bolaño, ritenuto da costoro un fratello maggiore e un maestro, che cosa è successo?

M.R.: Nei confronti dell’opera di Bolaño non provo soltanto ammirazione, ma quella felicità attiva grazie alla quale ti senti sciolto da ogni obbligo morale, professionale, e perfino intellettuale. La vera letteratura ti mette le ali. Ti rende più coraggioso.

Dentro il cappotto di Proust

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di Mauro Baldrati

Chi ama Proust, chi ha letto la Ricerca e ne è rimasto affascinato, o impressionato, spesso ama anche le sue cose, gli oggetti, le notizie della sua vita. E’ come se da questo romanzo immenso, abissale, si sprigionasse un fascino che coinvolge il suo autore, l’angelo notturno, la macchina di scrittura totale che fonde la vita con la letteratura, tanto che, con Kafka, potrebbe affermare, e di fatto afferma: “Io sono letteratura.”

Il coraggio che manca alla “sinistra” che parla come la destra

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di Marco Rovelli

Se la sinistra perde, è anche perché non ha compreso come funziona la mente umana. In Pensiero politico e scienza della mente (Bruno Mondadori, 2009), George Lakoff, uno dei più eminenti linguisti americani, torna a invitare la sinistra ad articolare un proprio linguaggio piuttosto che inseguire la destra sul suo terreno. Secondo Lakoff questa rincorsa ha segnato negativamente il destino dei liberal americani nei confronti dei repubblicani – ma viene naturale riportare il suo discorso anche alle derive politiche italiane.

Il fatto è che per vincere occorre comprendere l’inconscio cognitivo, il sistema di concetti che organizza la nostra mente, strutturata da “frame”, cornici concettuali metaforiche di cui per la maggior parte siamo inconsapevoli ma che orientano in maniera decisiva la nostra interpretazione dei temi e dei discorsi politici. Questi frame sono indipendenti da noi, è circuiteria neurale che si è formata fin dai primi anni della nostra vita, è “esperienza incorporata”.

PETER GREENAWAY “Intervals” (1969)

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[ “Intervals” di Peter Greenaway – …ma… non è il maestro Alberto Manzi di “Non è mai troppo tardi” a recitare l’alfabeto? Credo proprio di sì. – 144 – 1° FESTIVAL MONDIALE DEL CIRCO – 4 manifesti di Karl Marx di cui non si legge la scritta e non è “PROLETARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI” – Avevo un cappottino blu e degli stivaletti bianchi come quelli della bambina al minuto 1:17. Con l’altra con gli stivaletti neri se li guardano a lungo. Gli stivaletti. – BARBIERE – Bevete Coca-Cola – casse di bottiglie – DANILO BUEO – deposito vini …IGNAGO – distributore a moneta di bubble gum – donne con i foulards – famiglia/fanciullo/piano/chiama/piede/musica – fato/fatto/avremo/avremmo-coro/corro-capello/cappello-giorno/aggiorno… scarpa/sciarpa-carta/scarta-cena/scena/schema/schiudo/sciupo/gusto/giusto/ghetto/getto/ghiro/giro-pezzo/mezzo – Ferrero – fitto/zero/signore/magnifico/banca/anche/angolo/lungo/dunque/lezione/libro/ala/alla/figlio/egli/moglie/gigli/per favore/parlare/parte/pianterreno/continuano… – GOLIA freschezza bianca – KINDER – l’acqua che solo si intravede per pochi istanti – LAVAGET supercentro del bucato – le immagini e le cose sono racconto – MACELLERIA – MIRELLA PUTANA – molti berretti e cappelli- paletot&soprabiti – Parochia S.Geremia – Pepsi-Cola – piccioni – qualche voce – rari turisti invernali? – rintocchi di campane – S R si amano – STANDA c’è tutto – torri di barattoli – un cagnoletto nero – un metronomo – un netturbino – una calle strettissima – una sirena – Vaporetto N.2 – Venezia com’era nel 1968-69 – Vicks inalante libera il naso chiuso – Visitat… il mobili…facilit… di paga… – Vivaldi ]

carta st[r]amp[al]ata n.2

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di Fabrizio Tonello

Martedì sera vado tranquillamente a dormire e mercoledì mattina penso che il mondo continui come sempre: Obama alla Casa Bianca, i paracadutisti della 101° divisione a Haiti, il salmone affumicato di Barney Greengrass a New York sempre in testa alle classifiche mondiali. E invece no. Apro, dopo aver compiuto opportuni riti purificatori, l’edizione on line di Libero e leggo: “il dato veramente rilevante è che l’elezione di Brown fa perdere a Obama la maggioranza in Senato”. Ostia!, come diceva mio nonno quando pensava che mia nonna non lo sentisse.

Come un cane!

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Biagio Cepollaro, “Da strato a strato”: dal libro alla mostra

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Antiquum Oratorium Passionis- Basilica di S. Ambrogio, a Milano.
28 gennaio, giovedì, alle 18.30

Da strato a strato è il titolo di un libro e di una mostra.
Raccoglie 21 immagini di quadri e 21 stanze di un poemetto di Biagio Cepollaro. Testi e immagini nate contemporaneamente, parole che si sono coagulate sulla pagina e parole che hanno dialogato con i materiali della pittura, diventando segni tra segni.

Le parole della poesia sono leggibili, stampate in un libro: possono essere lette ad alta voce chiamando chi ascolta al significato, le parole che sono diventate segni possono in un certo senso essere viste per quelle che sono: tracce su legno o su tela di movimenti della mano e della sua intensità nell’insieme di altri gesti e di altre tracce.

La ventesima email

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di Piero Sorrentino

ANABOLIZZANTI ALLA FIDANZATA MORTA: 6 ANNI DI CARCERE A CULTURISTA
21/01/2010 – Sei anni di reclusione per aver dato alla fidanzata anabolizzanti che ne provocarono la morte. E’ la condanna inflitta oggi a Roma al culturista Federico Focherini, accusato di aver provocato la morte (avvenuta l’ 8 marzo 2004), della fidanzata, campionessa di body building. I reati contestati: esercizio abusivo della professione medica, somministrazione di sostanze pericolose per la salute pubblica e morte conseguente ad altro delitto. Focherini ha sempre negato di aver procurato alla vittima anabolizzanti.

Ci siamo spediti email dal 31 agosto 2006 al 21 maggio 2007. Nella prima, gli chiedevo un numero di telefono per chiamarlo. Stavo lavorando a quella che sarebbe diventata Il corpo che siamo, una delle inchieste raccolte da Christian Raimo nell’antologia Il corpo e il sangue d’Italia. Un lavoro sul doping nelle palestre italiane. Federico Focherini mi aveva risposto pochi minuti dopo con una impressionante rapidità

Ciao Piero,

io ora sto lavorando vicino a Roma. Quindi ti do il numero di tel. della palestra in cui lavoro. 06-972*****. chiedi di me dalle 13.30 alle 22.00

grazie

federico

Il mio motorino si chiamava Geronimo. Una lunga premessa personale e un nuovo libro sugli Indiani d’America

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di Francesca Matteoni

Era un verde scuro, pieno di adesivi di capi indiani e di semi-sconosciuti gruppi ska. Con i freni scassati e la catena rotta – ecco perché poi me lo rubarono. Era il motorino dei diciannove anni – prima e dopo sempre avuto solo biciclette – un improbabile pulmino su due ruote, dove riuscivamo a viaggiare perfino in tre + cane. E poiché era l’unica cosa motorizzata che abbia mai avuto, e che abbia saputo grossomodo guidare, dovevo dargli gli un nome importante – dritto, dritto da una delle mie grandi passioni: gli Indiani d’America.

Terezia Mora, Tutti i giorni

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di Stefano Zangrando

In un intervento apparso di recente sul blog Nazione indiana, Dubravka Ugrešić, scrittrice croata di stanza ad Amsterdam, si esprime in modo pressoché definitivo sul vizio molto euro-occidentale di affibbiare etichette in difesa delle «minoranze»: «la ricezione delle opere letterarie ha mostrato che il fardello dell’identità finisce per impantanare l’opera. Perché è stato dimostrato chiaramente che le etichette alterano la sostanza di un’opera e il suo significato. Perché l’etichetta è, in effetti, un’interpretazione testuale semplificatrice, quasi sempre fuorviante. Perché un’etichetta fa sì che si legga in un’opera qualcosa che non c’è. E infine perché l’etichetta discrimina l’opera».

Train de Vie

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di
Azra Nuhefendic

La linea ferroviaria tra Belgrado e Sarajevo venne interrotta all’inizio della guerra in Bosnia. Dopo diciotto anni è partito di nuovo il treno che collegava le due città. La locomotiva ha trainato tre vagoni con solo quindici passeggeri. La breve composizione del convoglio rispecchia la situazione politica attuale, cioè la divisione in atto in quel Paese: un vagone delle ferrovie della Republika Srpska, uno di quelle della Federazione della Bosnia Herzegovina e il terzo appartenete alle ferrovie della Serbia.
Mi ritenevo una persona adulta, una donna emancipata. Eppure, come l’ultima deficiente, portavo i miei vestiti sporchi una volta al mese a Sarajevo, perché la mia mammina me li lavasse. Da maggio all’inizio d’ottobre viaggiavo con l’aereo, poi con il treno perché la nebbia o la neve in Bosnia rendevano incerto il viaggio aereo.
All’epoca, tra Sarajevo e Belgrado circolavano tre treni al giorno più uno notturno. Mi sono imbarcata, come al solito, su quello notturno che partiva da Belgrado intorno a mezzanotte. Quella volta, a parte il solito bagaglio sporco, portavo una grande valigia piena dei libri in russo che mia sorella mandava da Mosca a Sarajevo per metterli al sicuro.

Invito a cena

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di Mauro Baldrati

Io e Luigi camminiamo sempre veloci, passo di marcia, ma oggi dobbiamo avanzare come lumaconi, andatura frenata da passeggio, perché abbiamo al traino lo zio.
Ci caracolla dietro lo zio, fa del suo meglio, muove le braccia senza coordinazione, ciondola la testa.
Luigi ogni tanto si gira e lo guarda preoccupato.
“Tutto bene?” chiede.
Lo zio borbotta. Non si capisce se risponda a Luigi o parli da solo. E’ così lo zio, vive in un mondo suo.
“Sarà meglio che rallentiamo” fa Luigi, “se no arriviamo al ristorante che lo zio sembra uno fuso.”
“Ma lo zio non sembra, lo zio è fuso” faccio io.
“E va be’, ci capiamo, no?”

LENIN ON-LINE

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di Antonio Sparzani

Nel 1924, a quest’ora e in questo giorno 21 gennaio, moriva Vladimir Ilyich Ulyanov, in arte Lenin, dopo una lunga malattia, il primo attacco della quale si manifestò nel maggio 1922, anche come conseguenza della pallottola che gli era rimasta nel collo dopo l’attentato del 1918.
Io qui non tento neppure di parlarne (ho linkato la voce di wikipedia che mi pare piuttosto informativa, come pure la sua versione francese), limitandomi ad affermare che, per quel che pare a me, la sua prematura morte fu una vera sciagura per le future sorti del comunismo.
Invito se mai, a rileggere qui, dato che in tempi calamitosi come i nostri rinfrescarsi qualche memoria fa bene alla salute, il documento noto come testamento di Lenin, su cui riporto qualche notizia e di cui trascrivo due brevissimi stralci.

Venezia e la paesologia

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una prosa di Franco Arminio

L’altro ieri camminavo per Venezia. La città era un fuoco morto, a parte la scintilla ferma del commercio. Dalla stazione a San Marco, in tanti fanno questa via aspettando che la spenta meraviglia si ravvivi. Intanto è tutto un negozietto da cui entrare e uscire fino a quando la piazza ti accoglie come una camera ardente dove i piccioni beccano la carne del turista nel suo inutile vagare in questo tempo maciullato.
Io mi chiedevo mentre camminavo se è ancora qui che si deve venire oppure c’è da andare altrove. Penso a Mastralessio, alla prua della desolazione conficcata tra le zolle della Daunia, penso al luogo indenne dalla peste degli sguardi fatui, luogo edificato da chi vive altrove e ha lasciato a sentinelle i vecchi, gli zoppi, i cani. Non so spiegare come sia lì la mia Venezia, come ogni città sia sprofondata, sciolta nel niente del suo voler sembrare attiva, divertente.
I luoghi di cui scrivo non hanno ragioni né torti, sono come una refurtiva abbandonata, un referto sintetico della vasta malattia allegata alla terra tonda. Allora io non giro per svagarmi e forse neppure per vedere. Quello che faccio è leggere la carne non morsa dai cannibali, la terra scampata alla tabula rasa del progresso che rende in apparenza Mastralessio scorza o guscio vuoto.

CARTADITALIA, i primi due numeri

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Dal 2009 l’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma pubblica il semestrale bilingue Cartaditalia, dedicato alla cultura italiana contemporanea. Durante l’anno appena trascorso sono usciti i primi due numeri, incentrati rispettivamente sul romanzo e sulla poesia. I pdf con copertina, indice, editoriale e un breve estratto dei contenuti, sono scaricabili in fondo a questo post. I prossimi due numeri, previsti per la primavera e l’autunno 2010, riguarderanno il cinema e il teatro.

Yes, I Ken – prima parte

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Risulta ora estremamente chiaro ciò che si era venuto preparando già nel corso del secolo diciannovesimo; l’epoca si esprime assai più sensibilmente nella tecnica meccanica e nelle manifestazioni sportive che nell’architettura delle città e nelle opere d’arte.

Hermann Broch, Poesia e Conoscenza, Lerici editore, Milano 1965, trad. di Saverio Vertone.

C’è una breve sequenza sul sito dell’INA in cui si può vedere e ascoltare Albert Camus che commenta dal vivo una partita del Racing contro Monaco al Parc des Princes. C’è un passaggio che merita una particolare attenzione ed è quando alle critiche che il commentatore rivolge al portiere della squadra parigina, colpevole del primo gol della rimonta del Monaco, il filosofo, da poco insignito del Nobel, risponde che è solo quando si è tra i pali che ci si rende conto di quanto sia difficile!