di Salvatore Mannuzzu
«Non immaginavo che la morte di Aldo Contini (30 ottobre 2009) potesse essere, per me, così lunga e difficile da digerire. E non trovando altra medicina – perché medicine non ce ne sono, specie alla mia età – sono andato a ripescare dai grigi sprofondi del computer una specie d’intervista che gli avevo dovuto fare per il catalogo d’una sua mostra antologica sassarese, nel 1997. Scrivevo, allora, che ci conoscevamo da mezzo secolo; e adesso? Adesso che sono passati questi altri dodici anni (e lui non sta più qui). Ma da troppo tempo ho imparato che i debiti più veri non si possono pagare. Resta infungibile, comunque, la sua sensibilità visiva: irritante, spaventosa; quasi infallibile. Né io mi pento d’avere detto che tra i pittori viventi era il numero uno in Sardegna. Malgrado si gettasse via molto, forse moltissimo: forse inevitabilmente; per eccessi (continui) di rigore (o di semplice difesa dall’indecenza): che lo spingevano dentro una crescente afasia. È questa, questa afasia, la sua eredità più legittima, per qualcuno di noi? Lo sconfinato territorio da cominciare a percorrere e a esplorare, adesso, sino alla fine». (S.M.)
È una specie di loft, piuttosto bello, lunghissimo: vi si accede da un cortiletto sotto la strada, per una gran porta carrabile di metallo verniciato in nero. Tutto buio: salve le luci in fondo sul quadro dorato (o forse, d’oro). Quadro che, così incandescente, sembra piccolo alla distanza. Il fotografo è un giovanotto alto, legnoso, di poche o nulle parole: nemmeno ci guarda un attimo, mentre fa capire che non è il caso. Sicché Contini trasporta verso quella porta nera, da cui filtra scarsa un po’ della luce del giorno, gli altri suoi quadri, a uno a uno. Ma poi sono quadri? Ho paura, subito, che possa offendersi a chiamarglieli così. Comunque lui li appoggia sul pavimento, nella penombra che spegne gli ori e gli argenti: contro un divano che c’è là e, dopo, contro un altro arredo del loft, mettiamo una scala a pioli.