di Stefano Gallerani
Illustre Dottore, lei mi ha detto, durante il nostro ultimo incontro, di tenerla avvertita d’ogni avvenimento che per me avesse peso o importanza. Insomma, di scriverle, come se si trattasse di redigere un “rapporto” che soltanto un amico – in questo caso lei – avrebbe letto. Ebbene, soltanto per questo le scrivo. Ma come faccio a raccontare una storia simile? Non so neppure in che modo cominciare. Sì, lo so, ho lasciato trascorrere molto tempo, non me ne faccia una colpa, e però sento che ora devo raccontarla. Per fare luce e capire, per chiarire, soprattutto a me stesso, certe ragioni intrinseche, che sono poi quelle della vita e della morte. Niente di importante, potrebbe pensare qualcuno; problemi fondamentali, per altri. Fatto sta che, dopo averla lasciata, per molte settimane sono stato con gli occhi aperti scrutando quello che capitava intorno o dentro a me: per comprendere cosa non funzionasse in un ragazzo che era stato sano e forte come un bue, alto oltre il metro e ottanta, e discretamente bello (a giudizio unanime delle ragazze che conosco) con una propensione naturale, credo, alla comunicazione senza ipocrisie e alla spensierata felicità; un ragazzo che è diventato, come ho letto d’un personaggio in un romanzo di Dostoevskij, un uomo malato (forse un uomo cattivo), così triste e incerto nelle decisioni da risolvermi a venire da lei.





di Vanni Santoni





