

Alice e Marie dormivano vicine e il sonno se le prendeva senza sollievo né pace. La notte era solo un intervallo inquieto al dolore e nel pulsare tanto flebile delle loro vite non c’era differenza di rumori rispetto al giorno: l’abbaiare dei cani, passi, le voci secche. E il freddo così intenso di quel marzo senza primavera. L’avvolgersi del buio, invece, portava loro il suono smorzato di una campana, forse della chiesa di un villaggio lì vicino, intravisto all’arrivo. Dalla punta aguzza di un campanile oltre il lago, oltre la radura di betulle, rintoccava ogni quarto d’ora, anche di giorno, ma con la luce e la sua durezza Alice e Marie non la sentivano. Non si ricordavano di ascoltarla. Nel silenzio scuro, invece, contavano i quarti, le mezz’ore e i tre quarti, che avevano un tocco più leggero e vicino, e le ore, più lente e profonde, e in quel battito regolare pareva potessero sentire il polso al cuore del mondo che confermava di esistere ancora, al di là del filo spinato, in buona salute, con le cose e le case e le persone, le finestre accese nel ritmo regolare di uno scorrere intatto e perduto.












