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Balla balla ballerino

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di Pasquale Vitagliano

L’11 settembre più drammatico per un’intera generazione, che sognava un mondo libero e giusto, è stato nel 1973, l’anno del colpo di stato in Cile. Non quello del crollo delle Torri Gemelle nel 2001. Quanti “11 settembre” ha conosciuto l’Italia dalla bomba di Piazza Fontana nel 1969 a Milano all’esplosione nella stazione di Bologna il 2 agosto del 1980? Basta soffermarsi a pensarci un istante per cogliere l’anomalia storica del nostro paese. Paolo Morando con la sua ricostruzione della Strage di Bologna – Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (Feltrinelli, 2023) va oltre e più a fondo. Ormai si fa fatica a ricordare, ci sollecita, che prima del 1980 le bombe esplodevano ancora numerose, anche se non facevano morti, “in giornate punteggiate dalle azioni che il terrorismo di sinistra dispiegava in tutto Italia”. Non tutti, tuttavia, furono assopiti dalle prime onde di riflusso. Un magistrato, Mario Amato, cui il libro è dedicato, si rese conto che la “guerra” non era ancora terminata. Senza di lui (ucciso dai Nar il 23 giugno 1980), oggi non conosceremmo mandanti ed esecutori dell’attentato terroristico più grave nella storia italiana.
La parte più intensa del libro di Morando, però, s’incentra su quello che viene definito il “perdono tradito”. Sì, Francesca Mambro poté uscire prima dal carcere grazie alla lettera di perdono di Anna Di Vittorio e Gian Carlo Calidori (nell’esplosione aveva perso un amico). Ciò non impedì a lei e a Valerio Fioravanti di accodarsi alla comoda tesi innocentista che sosteneva la responsabilità di Mauro Di Vittorio (vicino a Lotta Continua e fratello di Anna), vittima della bomba che trasportava. In verità, sono poi arrivate altre inchieste e altre sentenze di ergastolo. Quella a carico di Gilberto Cavallini, dei Nar come Mambro e Fioravanti, e quella a carico di Paolo Bellini, dell’area di Avanguardia Nazionale. Mentre la prima smonta per sempre la narrazione dell’azione di un gruppo di esalatati ideologizzati; l’altra accerta i mandanti nella P2 e l’esistenza di un’operazione a lungo studiata e preparata nei dettagli, con imprevedibili coperture da parte di pezzi infedeli dello Stato. Morando, infine, ricorda l’infondatezza della “pista palestinese”, già raccontata nell’ottobre del 2012 da un’inchiesta de Il Manifesto, e fino alla richiesta di archiviazione dell’indagine presentata e ottenuta nel 2014 dalla Procura della Repubblica di Bologna.
Rivivono i veleni di una stagione che ancora non vuole concludersi: la quarta di copertina scrive una facile profezia. Ancora quest’anno, sempre in occasione delle celebrazioni,  il portavoce della Regione Lazio, Marcello de Angelis, rilancia la tesi innocentista. “Calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. Le sentenze, invece, hanno parlato.
Con l’autore di questo libro importante condividiamo molti ricordi. Lo ringrazio per avermi ricordato che Lucio Dalla dedicò alle vittime di Bologna la canzone Balla balla ballerino. Ferma con quelle tue mani il treno Palermo-Francoforte/ Per la mia commozione c’è un ragazzo al finestrino/ Gli occhi verdi che sembrano di vetro/ Corri e ferma quel treno/ fallo tornare indietro. Non è sentimentalismo se alla constatazione che Mauro Di Vittorio sia stato ucciso molte, vorrei lasciare la suggestione che il treno poi si sia potuto fermare. E tutti i passeggeri scesero sani e salvi.

Nascita e morte del neo horror all’italiana

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di Matteo Quaglia

Quello che posso aggiungere sul “filone cinema” è che di una tempesta di sabbia si può dire solo quello che ci è concesso quando il vento smette di vorticare e di sollevare i granelli, cioè che non ci si è capito un cazzo.

In ufficio erano tutti molto presi da una catena di incidenti stradali sospetti; nessuno osava parlare apertamente di truffe, ma l’aria che si respirava era quella. Della vita aziendale non si può raccontare chissà quanto, perché parafrasando Tolstoj tutte le aziende felici si somigliano, mentre ogni azienda infelice ha una tragedia tutta sua; nel nostro caso, si può dire che qualcuno ci stava spennando come dei polli in un mercato marocchino.

La circostanza particolare di quella catena di sinistri, che per il resto somigliavano in tutto e per tutto a incidenti genuini, era che le parti coinvolte nelle richieste risarcitorie, talvolta in qualità di danneggiati, altre come responsabili, altre ancora quali testimoni, erano “attori motociclisti”. O così riportavano nella casella “professione” della constatazione amichevole.

Quanto a me, non avevo mai sentito parlare di niente del genere. Attori motociclisti? Non credo si trattasse di una vera e propria professione. Chi mai avrebbe dichiarato di essere un attore motociclista? Soltanto qualcuno che non avesse molto da perdere. Inoltre, non mi era ben chiaro se con tale dicitura si intendesse dire che queste persone erano sia attori, sia motociclisti, o se, invece, che fossero attori abituati a recitare soltanto in film in cui fossero presenti motociclette. La circostanza non era chiara.

I colleghi che stavano seguendo più direttamente la serie di sinistri che dal luglio al dicembre di quell’anno avrebbero, per così dire, incendiato tutto il Nord Italia, senza alcun collegamento particolare, se non la ricorrenza professionale di cui ho detto, avevano soprannominato il fenomeno “filone cinema” (le persone, soprattutto gli impiegati delle aziende assicurative, si fanno sempre l’obbligo di assegnare nomi in codice alle cose, per renderle riconoscibili agli addetti ai lavori e irriconoscibili al resto del mondo).

Nei sinistri di questo “filone cinema” il luogo dell’incidente cambiava sempre, il sinistro poteva accadere a Udine, a Vicenza, a Bollate o Garbagnate o in qualche remota strada provinciale piemontese. Di solito si trattava di incidenti di poco conto, che costavano alla compagnia alcune migliaia di euro, e dunque per qualche tempo nessuno aveva dato troppo peso al fatto che per il Nord Italia circolassero, e soprattutto restassero coinvolti in incidenti, un grande numero di attori di poco conto, attori motociclisti, che da ricerche sugli appositi portali non risultavano neppure affiliati a un qualche moto club.

Se gli incidenti fossero accaduti nei pressi di un motoraduno, o nell’ambito di certe sfilate a cui partecipano a volte i bikers, non ci sarebbe stato nulla di sospetto, invece così non era, i sinistri erano del tutto slegati tra loro, coinvolgevano moto, scooteroni, auto, senza alcun tipo di distinzione; il fenomeno era stato tracciato soltanto a ottobre, l’ennesimo giorno di pioggia contro le vetrate dell’ufficio doveva aver risvegliato qualcosa nel cervello di uno dei colleghi dell’ufficio antifrode, un tale di nome Vincenzo, originario del Cilento, che non aveva niente a che vedere con l’ambiente motociclistico né tanto meno con quello cinematografico, ma che a quanto pare era un grande appassionato di b-movies.

Esaminando la documentazione di una pratica, che in seguito sarebbe passata agli onori della cronaca del nostro ufficio come “Multiplo dei pistoleri” (si trattava di un incidente in cui erano rimasti coinvolti un ex militare, una studentessa di medicina che nel tempo libero si esercitava al tiro al piattello sognando di entrare a far parte della prossima spedizione olimpica, nonché, appunto, un attore da quattro soldi), si era accorto che una delle figure coinvolte gli era famigliare. Il ragazzo con i capelli biondo cenere e lo sguardo vitreo, disse Vincenzo al collega con cui divideva la scrivania, gli ricordava qualcuno, forse una vecchia conoscenza, o magari una persona che aveva visto di recente e che non conosceva affatto.

La curiosità è spesso nemica del quieto vivere, così Vincenzo aveva cercato su Google il nome del soggetto coinvolto nell’incidente. Da lì, la scoperta. Il ragazzo, tale Roberto Pozzi, aveva recitato in alcuni film splatter che si inserivano in quella che allora, nel sottobosco degli appassionati dei film a basso budget e delle libere creazioni prive di patrocinio e di finanziamenti pubblici, prendeva il nome di “neo horror del NordEst”. Si trattava di registrazioni fatte con videocamere o spesso smartphone di ultima generazione e poi caricate su YouTube o su altri siti di cui, personalmente, non avevo mai sentito parlare fino a quel momento. I film in questione avevano per lo più a oggetto storie di provincia, vite spezzate da un avvenimento straordinario o da una tragedia soprannaturale; insomma si potrebbe dire che rappresentavano per certi versi il parallelo cinematografico a quello che in letteratura veniva definito “new weird all’italiana”. I filmati erano registrati in vecchie fabbriche o in discoteche o perfino dentro licei abbandonati.

Tornando a Roberto Pozzi, il ragazzo aveva recitato una parte fondamentale in un film intitolato “Corvi selvaggi”: così mi spiegò Vincenzo quando capitò di parlare con lui del “filone cinema”, cosa affatto difficile, posto che quel Vincenzo era una testa di cazzo che non parlava d’altro, se non del “filone cinema”. Mi spiegò che guardando la carta d’identità di quel Pozzi, aveva come riconosciuto, nei lineamenti aguzzi dell’uomo, una grande verità nascosta, ecco perché gli era suonata un campanello d’allarme, che l’aveva indotto a cercare informazioni in più su quel viso tanto bello quanto scialbo.

Venne fuori che Pozzi, in “Corvi selvaggi”, aveva recitato la parte di un giovane ribelle neo fascista nonché spacciatore di anfetamine, innamorato della figlia di un boss di paese, e per boss si intendeva il capo di una fabbrica di motociclette del trevigiano; la storia era tanto semplice quanto controversa. Pozzi e la figlia del boss, una bionda anche lei abbronzata e con gli occhi spiritati, scappavano dalle ire paterne di lei a bordo di due motociclette prive di targhe, il boss li inseguiva e alla fine riusciva a raggiungerli, perché la figlia, all’ultimo istante, cambiava idea sulla fuga e forse anche sul suo amore per Pozzi, e lo pregava di farla scendere prima che “fosse troppo tardi”. Il tocco horror era dato da alcuni corvi che, per tutta la durata della fuga, incombevano sulla coppia di fuggiaschi come una nuvola di pioggia. Un chiaro riferimento a Hitchcock; e nemmeno l’ultimo.

Guardammo spezzoni del film in ufficio, e per certi versi fu simile al cineforum dell’università, mentre per altri fu del tutto diverso. Però spegnemmo addirittura le luci, e un collega anziano appese delle giacche alle finestre, così da creare l’ambiente giusto. Il film, caricato su YouTube da un utente con troppi pochi iscritti per risultare interessante (si trattava, com’è ovvio, di un prestanome), durava mezz’ora, e seppure pessimo, trasudava un’atmosfera che non saprei come meglio definire se non come “polverosa”. Trasudava sottilissima follia polverosa.

Da cosa nasce cosa. Lo stesso collega anziano che aveva appeso le giacche alle finestre, anche lui passato tempo addietro nell’ufficio antifrode prima di essere, per così dire, parcheggiato nell’area Compliance, disse che la ragazza spiritata, bella da far male, lui l’aveva già vista da qualche parte, ne era pressoché certo. Dai titoli di coda scoprimmo che si chiamava Sofia Vergassola, e che oltre a essere una modella con un buon numero di follower su Instagram, era stata anche testimone di un tamponamento avvenuto mesi prima, in luglio appunto, a Gallarate. La cosa che mi sconvolse di più fu la memoria storica di questi miei colleghi, che dal volto di un film riuscivano a riconoscere il viso di una persona vista di sfuggita mesi prima, ma si dirà: ognuno ha il talento che si merita, e sono d’accordo.

La Vergassola era nata in una famiglia benestante, i suoi genitori possedevano una fabbrica di torrefazione del caffè e vari possedimenti in Cile, o forse era la Bolivia, non è importante; aveva studiato danza classica e soprattutto aveva recitato in alcuni spot pubblicitari dell’azienda famigliare per poi, così dicevano le note biografiche reperite su internet, tagliare i ponti con la famiglia dopo che il fratello, anche lui biondo e con gli occhi spiritati di chi ha appena assunto una dose massiccia di polvere bianca, era finito oltre il guardrail con la sua Jeep, e da lì nel torrente, e da lì, presumevo, negli incubi e nelle notti insonni di tutta la famiglia Vergassola.

Sofia aveva abbandonato gli studi per dedicarsi alla vita notturna, così disse un altro collega, spulciando le foto postate sui social dalla ragazza, la quale, per inciso, nel suo profilo si dichiarava divoratrice di libri e amante segreta di Ken Follett (il che, per conto mio, la posizionava in un preciso girone dell’inferno). Ancor più importante, aveva recitato in una serie YouTube ambientata in un liceo di provincia, intitolata “La ragazza infuocata”, titolo che suscitò, tra i colleghi, più di un commento e qualche battuta truce. La Vergassola, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non recitava la parte della protagonista, bensì un ruolo minore, cioè quello dell’amica del cuore della protagonista, che invece era una giovane dalla pelle bianca come la solitudine più desolante, con occhi spietati, dunque appariva l’opposto della Vergassola, la quale come detto era invece il sogno di ogni uomo di mezza età stufo della vita di provincia. È proprio lei, disse il collega, quando, nei giorni successivi, guardammo un paio di puntate di “La ragazza infuocata” (questa volta senza creare l’atmosfera soffusa da sala di proiezioni di cui ho detto).

Era lei, il suo documento d’identità appariva nel documentale del sinistro di Gallarate, un tamponamento di poco conto, nel quale la Vergassola aveva testimoniato in qualità di passeggera del veicolo danneggiato.

Il collegamento però non portò a nuove scoperte; Pozzi e la Vergassola si conoscevano perché avevano recitato assieme, entrambi erano rimasti coinvolti in un incidente, anzi in due incidenti distinti. Eppure era qualcosa. Come si suol dire, date un pezzo di legno a un carpentiere e ci vedrà un martello, date una labile connessione tra due attori bellissimi e dei sinistri a un liquidatore dell’area antifrode di una compagnia assicurativa e ci vedrà un complotto.

Da quel momento in avanti, tutto l’ufficio iniziò a prestare attenzione alle richieste risarcitorie in cui, tra i figuranti, compariva un “attore”, o “attore motociclista”. In questo modo, nel “filone cinema” finirono tale James Baldaccino, colpevole di aver recitato nel film “Gli ultimi inseguimenti dell’orso cocainomane”, il cui titolo è sufficientemente esplicativo, nonché di essere stato investito a Spilimbergo (paese che ha la peculiare e in questo caso sinistra caratteristica di richiamare, nel nome, il cognome del noto regista, Steven Spielberg) mentre scendeva dall’auto; Romina Pivani, trentenne testimone di un investimento pedonale, che aveva recitato, forse quale stuntman, forse quale attrice, in una docufiction sulle gare di moto acrobatiche intitolato “The New Frontiera. Un viaggio”; Giovanni Bonaventura, villain in un film ambientato a Roma, “Quel vento di tramontana d’inferno”, anche lì c’erano delle motociclette, ma servivano solo da scenografia; Federica Armani Billi, modella, comparsa in “Cuori stracciati”; e molti altri di cui non mi sovviene nome e ruolo, e che rivestirono la stessa scarsa importanza delle figure che ho citato. Si può dire che ci facemmo una cultura sul mondo dei b-movies, su quel “neo horror del NordEst”, ma non ottenemmo chissà quale risultato concreto, se non quello di essere consapevoli della presa in giro a cui stavamo assistendo.

Incaricammo degli investigatori. Funzionava pressappoco così: i colleghi che seguivano il fenomeno davano mandato a una società investigativa indicando gli scopi dell’incarico e cosa ci si sarebbe aspettati di trovare. L’investigatore contattava le parti coinvolte nel sinistro, le interrogava, cercava eventuali ulteriori testimoni, infine traeva le sue conclusioni. I report investigativi che ebbi modo di vedere sembravano dei puzzle. L’idea generale era che mancasse sempre qualche tessera.

Nello stesso periodo mi capitò di dare una spulciata alla rivista online di cui mi aveva parlato Ludovica, una mia ex ragazza, una delle ultime volte in cui ci eravamo visti, forse perché all’interno speravo di trovare un suo contributo, o forse perché speravo di trovarci me stesso, ma non trovai né l’una né l’altra cosa. In compenso, lessi un interessante articolo sullo stato del cinema di genere italiano, e in particolare del cinema horror nel quale, in buona sostanza, si diceva che la nostra gioventù migliore era diventata ormai la nostra vecchiaia migliore, posto che i vari Ruggero Deodato, Lucio Fulci, per non parlare di Dario Argento avevano, nel migliore dei casi, una certa età, e nel peggiore dei casi erano morti; e nella scena non si vedevano spiragli di luce. Quei vecchi tirannosauri non erano stati sostituiti da esemplari più giovani, il meglio c’era già stato e noi ce l’eravamo perso, così come era successo con i film non di genere, dove i vari Fellini De Sica Germi erano gli unici dei in un pantheon popolato per lo più da imbecilli senza palle, così l’articolo.

Ma mentre per il cinema per così dire impegnato la vita era andata avanti e nuove leve erano riuscite in qualche modo a reinventare il genere, o quanto meno a reinventare sé stessi, insomma ce l’avevano fatta, per l’horror la situazione era ben più tragica. Si diceva anche che alcune delle cause per cui l’horror stava perdendo la guerra erano dovute al fatto che, al giorno d’oggi, fosse sempre più difficile stupire chicchessia, figuriamoci spaventarlo a morte. La paura aveva a che fare con la claustrofobia, così l’articolo, e posto che “il cinema è composto da tanti elementi, e il pubblico è uno di questi”, così Marcello Aguildara, sparito il pubblico stava scomparendo anche il cinema.

A meno che non spuntassero dall’oscurità, o quanto meno da qualche università di prestigio, nuove menti coraggiose, capaci di dare fuoco ai vecchi dogmi della paura per riscriverne di nuovi, di dogmi, che avessero maggiormente a che fare con le nuove paure, posto che, com’era fin troppo chiaro, una casa indemoniata non spaventava più nessuno. “È come se col passare del tempo avessimo smarrito qualcosa, e non riuscissimo più a realizzare prodotti innovativi”, diceva un regista citato nell’articolo, secondo il quale in giro c’erano poche idee e scarsa personalità. Insomma, servivano nuove proposte coraggiose, capaci di ribaltare le prospettive passate e tracciare una nuova via, più consona alla modernità. L’articolo non era firmato.

Una mattina scrissi a Bottiglieri, un mio ex compagno di università con certe velleità letterarie da turarsi il naso, il quale nel frattempo si era laureato con il calcio accademico e adesso aveva aperto una filiale dell’infortunistica paterna a Mestre, compiendo il sogno dei genitori e abbandonando per sempre i suoi. Gli chiesi come se la passasse, poi, com’è naturale, finimmo per discutere della serie di incidenti del “filone cinema”. Dal lato suo, Bottiglieri sapeva poco, non aveva, per così dire, una visione d’insieme, però mi disse che in effetti gli era capitato di sentir parlare del fenomeno e, soprattutto, di ricevere un cliente che asseriva di essere stato tamponato da “questo belloccio che, dopo avergli urtato la macchina, si era messo a fare una sceneggiata teatrale, quasi stesse recitando un pessimo copione; infatti si trattava di un attore”.

Per questioni di privacy non potevo rivelare a Bottiglieri tutte le informazioni che circolavano in ufficio; io stesso in verità ero marginalmente coinvolto nel tracciamento del fenomeno, posto che a occuparsene in modo diretto erano i colleghi dell’ufficio antifrode, mentre a me e agli altri tempi determinati spettava, per così dire, il ruolo di chi si immerge con le gambe nel fiume per setacciare la ghiaia, con la speranza di intercettare dell’oro.

Anche per questa ragione lo scambio epistolare tra me e il mio vecchio amico assunse un tono letterario. Divenne insomma un gioco di continui rimandi e citazioni. A volte gli scrivevo il nominativo di una delle attrici coinvolte e Bottiglieri rispondeva riportando per iscritto le battute che quell’attrice — mi viene in mente una stanga di nome Claudia Borromeo — aveva recitato in uno dei b-movies. Altre volte ipotizzavamo delle trame per nuovi film di genere, oppure ci divertivamo a collegare citazioni da romanzi letti nell’epoca in cui respiravamo narrativa a questi personaggi da cinema; insomma il nostro era puro cazzeggio letterario. Ci dicemmo che sarebbe stato bello andare a farci una birra, e promettemmo che, presto o tardi, ci saremmo visti, lui sarebbe venuto qui o io sarei andato a Mestre; entrambi sapevamo che l’incontro non si sarebbe mai verificato.

Nel corso degli ultimi mesi della mia permanenza nella società di assicurazioni il clamore suscitato dal “filone cinema” si esaurì, nel senso che i casi conclamati diminuirono, fino a cessare del tutto, quasi che qualcuno avesse costruito una diga capace di arginare il fiume di marcio che aveva inondato le strade del settentrione, e forse quel qualcuno altri non era che la mente dietro la serie di sinistri, l’eminenza grigia, sempre che ce ne fosse una e che il tutto non fosse dovuto invece all’entropia. Sia come sia, chi doveva essere risarcito fu risarcito, e il fenomeno ebbe come unico risultato quello di farci scoprire l’esistenza del “neo horror del NordEst”, e di attori che, se non fosse stato per il loro coinvolgimento in sinistri dubbi, non avremmo mai avuto modo di veder recitare. Insomma, per loro, per questi attori, fu un successo su tutta la linea. Per la compagnia assicurativa, invece, fu un bagno di sangue.

Foto di SplitShire da Pixabay

ESISTE LA RICERCA: 1-2-3 settembre, Milano, Teatro Litta

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di Marco Giovenale

Esiste la ricerca (giugno 2022, marzo 2023, settembre 2023) è un esperimento in più momenti, tentativi, occasioni, in cui ci si confronta, orizzontalmente e non accademicamente, sulle nuove o nuovissime scritture di ricerca.

Non si tratta di un luogo di visibilità: all’allestimento degli spazi manca un palco, manca una cattedra. Non c’è una regia in senso stretto, né dei “panel” di discussione. La discussione si sviluppa sul momento. Dal 2023 non ci sono microfoni né registrazioni.

Esiste la ricerca è in definitiva un contesto per raccogliere – misurando tempi e voce – le diverse percezioni che oggi si hanno delle scritture sperimentali, complesse e di ricerca, e le pratiche artistiche e critiche che con queste entrano (a vario titolo, anche conflittualmente) in relazione.

L’impianto gerarchico del “convegno” è escluso o viene tendenzialmente decostruito. Semmai, Esiste la ricerca prova a riprendere, valorizzare e rendere usuale e sistematico un modus operandi minore, tuttavia rintracciabile in tutti gli incontri letterari, di tutti i tipi. Ovvero: in tutti gli incontri letterari, di tutti i tipi, dopo i momenti ufficiali più o meno paludati, le letture, le relazioni critiche, i convenevoli e la diplomazia, si rompono le righe e (prima che venga imbandito il buffet) i presenti chiacchierano tra loro, esprimono dubbi e persuasioni. Senza microfono e senza grandi filtri. Esiste la ricerca vuole ritagliare precisamente le prassi di questi momenti interstiziali, informali, e farne il centro di un (anti)discorso: con fini di confronto e conoscenza. Eliminati i tavoli rialzati e le pedane, tolti gli interventi scritti o a braccio, cancellato il climax oratorio, rimangono le persone e le interazioni che le coinvolgono.

Si tratta in definitiva di incontri pubblici senza convenevoli e retorica accademica prima, né buffet=dispersione dopo. Rimane quella che potrebbe essere la sostanza del letterario, ascoltabile.

Tutto questo – anche e soprattutto – come ascolto transgenerazionale, e attenzione agli autori più giovani.

Sempre con focus sulla ricerca letteraria, e in particolare su quella ricerca che gammm.org sta da quasi vent’anni seguendo, traducendo, attuando, promuovendo. (Con tutte le derive e derivazioni che appunto i più giovani hanno innestato su quelle linee testuali).

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Esiste la ricerca non è un evento canonizzante. Chi partecipa non vince niente, non resta nella storia, semmai contribuisce a conoscere e capire il presente immediato.

Esiste la ricerca non è un’antologia, gli assenti non sono dimenticati (il loro ascolto potrebbe essere solo rinviato alla prossima occasione), i presenti non diventano stelle.

L’incontro non “legittima” i partecipanti né “delegittima” chi manca. (Con quale autorità poi lo farebbe? E: legittimare o delegittimare a fare che?). Non costruisce storia ma – insisto – crea le condizioni per il verificarsi di quelle conversazioni informali e interstiziali che sono in verità il senso migliore di incontri altrimenti ingabbiati nel cerimoniale accademico o simil-accademico.

Esiste la ricerca si è invitati per partecipare a un contesto, non a un contest. A Esiste la ricerca si parla per alzata di mano e non per titoli.

[Già apparso su slowforward il 19 luglio 2023]

Un’estate con Manzoni #5 — Tutta la vita

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David Hockney, "A Bigger Wave", 1989
David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[Ogni giovedì di agosto, Un’estate con Manzoni: qui la prima, la seconda, la terza e la quarta puntata.]

 

di Marco Viscardi

I promessi sposi, capitolo XXXVII: Tutta la vita

Inizio con una confessione: questa pagina mi ha sempre commosso. Siamo nel capitolo trentasette e Renzo, dopo aver ritrovato Lucia, torna al paese per preparare le nozze. La felicità è vicinissima, questione di passi. Intorno, il mondo si pulisce: con un brutto gioco di parole ‘il mondo si monda’. E ricordate il cognome di Lucia? Mondella!

Piove, la pioggia spazza via la peste, irriga i campi, inumidisce tutto quello che rischiava di morire, e Renzo corre, corre e non ci pensa:

Andava dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né come, né quando, né se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di portarsi avanti, d’arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo, in cerca d’Agnese.

C’è una energia traboccante, emozionante, in tutta la pagina. Renzo è vigore puro, vigore in cammino. Non gli interessa la strada, non conta più. Ora che si avvicinano le nozze, e con loro arriva la felicità, conta solo l’arrivare, solo la meta. Renzo ha attraversato mondi infernali: è stato nella rivolta, ha conosciuto l’inganno di chi serve il potere, le vie dell’esilio, si è scaltrito e, dopo essere guarito dalla peste, ha rivisto il suo paese stravolto dall’epidemia e dal passaggio delle truppe mercenarie imperiali; è stato coi monatti, quei demoni!, si è inoltrato nel lazzaretto, il regno della morte, alla ricerca della luce, di Lucia, che ha visto viva. Ora tutto è compiuto, il voto è sciolto. Si avvicina il giorno delle nozze che aspettiamo da trentasette capitoli. Trentasette! Anche se Renzo si è trovato spesso solo, la sua indole non è solitaria. Ha bisogno di un mondo degli uomini da cui si è sentito troppe volte esiliato. E alla comunità di cui fa parte vuole raccontare la sua storia, riviverla nelle parole e nei gesti, farla diventare parte di una più grande memoria collettiva. Lo farà davvero e, fra i suoi interlocutori, troverà anche l’anonimo autore del manoscritto alla base del romanzo. Ma ora i suoi discorsi sono ancora tutti mentali. Se li ripete sotto la pioggia che cade monotona e copiosa e rende incerti i contorni delle cose, e piene di fango le strade:

Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l’ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un’annaffiata all’intorno, come un can barbone uscito dall’acqua; qualche volta si contentava d’una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! “E l’ho trovata viva!” concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de’ convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l’aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c’era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo.

Quando Renzo si scuote come un cagnone, zuppo e felice, siamo tentati di spostarci dal libro (o, nel vostro caso, dallo schermo) per non essere infradiciati. La sua è una storia di orrori, una storia tremenda, ingiusta e ingiustificabile eppure, sotto tutte le macerie, sotto ogni tristezza, c’è il pensiero della felice conclusione. Adesso, finalmente, la storia vissuta si converte in gioia. Renzo si rivede compiere tutte le ultime azioni: bussare alle porte della casa di donna Prassede per scoprire che Lucia si era ammalata, cercarla fra la folla del lazzaretto, poi nella processione dei guariti, sopportare la delusione di non ravvisarla, ed infine inoltrarsi alla ricerca di lei, col terrore di non trovarla fra i vivi.

Il ritmo della pagina è incalzante. Le parole dello scrittore trapassano senza interruzione in quelle del personaggio: magia della narrazione onnisciente, il racconto passa dalla terza alla prima persona, dallo sguardo esterno, che tutto conosce, all’interiorità, che vede le cose mentre si svolgono, ed ora, incredula, le rimette in ordine e si scopre ancora salva, alla fine di un simile naufragio. Renzo è un reduce, un sopravvissuto che ha toccato terra e non gli sembra vero. Sembra di stare in mezzo al mare: la pioggia toglie nettezza ai contorni, il visibile sfuma, il cammino lo fanno le gambe, e i pensieri sono onde che alternano i movimenti della perdita e del ritrovare. Trovare di nuovo, riappropriarsi di una felicità che la logica irrazionale dei potenti aveva vietato.

E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello. Talmentechè non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l’incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste.

Così, ripercorrendo le vicende passate, Renzo torna a casa, torna verso il mondo originario, quello da cui tutto era partito, ma l’armonia del mondo ingenuo non esiste più. Don Rodrigo, il feudatario prepotente, è ora solo un malato reso demente dalla peste, un corpo fra i corpi che Renzo è finalmente riuscito a perdonare; il volto battagliero di Cristoforo si è fatto scarno per la malattia: annuncia la fine imminente. L’orizzonte è ferito, il pericolo e la morte fanno capolino dai lati della scena. Ma c’è nel nostro filatore qualcosa di egoista: il felice realizzarsi delle sue speranze l’assorbe completamente, e la malinconia non domina la mente.

Saltiamo ora qualche riga ed arriviamo qui:

E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.

All’origine di tutta la storia c’era il desiderio di vita. Due giovani che volevano sposarsi e perpetuare la vita. La vita biologica, organica. Il mondo per andare avanti, per aprirsi a nuove fioriture, aveva bisogno di queste nozze, ma l’inverno non vuole cedere il suo posto alla primavera e i rappresentanti del vecchio mondo si sono opposti a tutti i costi, hanno disperso le energie vitali. Ma ora, le catastrofi che hanno scandito la vicenda sono tutte passate, non fanno più paura.

Nella prima puntata abbiamo visto come il male conosciuto da Lucia era entrato a far parte della sua anima, come una patina che opacizza la bellezza del mondo. Renzo è tutto proiettato nel futuro. Il suo romanzo, il romanzo che abbiamo letto e amato, è solo un prologo a quello che veramente conta. A tutta la vita. E quando pensiamo a Renzo che si racconta tutta la vita, lo vediamo slanciarsi in un futuro che non conosce confini. Tutto è a-venire, tutto deve ancora compiersi. Il romanzo dell’Ottocento qui rompe per un attimo le sue strutture, si annienta nello slancio verso ciò che non si conosce. La vita, la furia, la speranza pervadono tutto, invadono gli spazi dell’immaginazione. In quel momento, noi siamo Renzo e con lui vediamo gli anni che verranno in una luce radiosa. C’è qualcosa in questa pagina manzoniana che fa pensare a quello strepitoso apologo di Kafka sul Desiderio di essere un indiano:  

Se si potesse essere un indiano, subito pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nell’aria, continuamente fremendo sul suolo fremente, sino a lasciare gli speroni, perché non ci sono speroni, sino a gettare le redini, perché non ci sono redini e appena si vede la terra di fronte a sé, come una landa rasata, già senza collo né testa di cavallo.

Così, in quel momento, per Renzo non esistono distinzioni fra sé e il suo narrare. Passato e futuro, avventura e necessità, interiorità e mondo, per un attimo di vortice coincidono, come l’indiano e il cavallo si fondono nella corsa. E il lettore sente la felicità di questo attimo perfetto e sente che questa felicità gli appartiene, almeno come possibilità. Possibilità che un giorno accada anche a lui.

E dopo il matrimonio? Solo le fiabe finiscono con le nozze e i Promessi sposi sono l’opposto di una favola. Romanzo senza idillio, l’ha definito il suo più grande lettore del Novecento: romanzo senza lieto fine, senza “e vissero felici e contenti”. E quindi sì, alla fine Renzo e Lucia si sposano, ma attorno a loro non cambia nulla. Il mondo resta irredento. Le grandi tragedie non sono del tutto passate, ma la peste è finita e nell’ultimo capitolo del romanzo si respira l’aria del dopoguerra. Il mondo deve rimettersi in piedi, la pietà per i morti deve lasciare il passo al lavoro, alla coltura, alla crescita. E anche la vicenda di fantasia deve finire, ma non può succedere di botto, nel culmine delle nozze, coi petardi e la banda municipale. No, bisogna defaticare, allentare, sciogliere. La prosa si rilassa senza perdere di tensione. Renzo e Lucia tornano nei territori del bergamasco, lasciano il paese natale per una personale inquietudine, più che per vera necessità, e i bergamaschi, che hanno orecchiato le vicende dei giovani, vanno a vedere Lucia. Ma sono delusi: volevano un’eroina, un personaggio, una maschera e trovano una donna. Qualcuno ne mette in discussione la bellezza, Renzo si arrabbia, cambia posto e i nuovi vicini sono più gentili. Il romanzo si allenta, diventa piccola cronaca, microstoria, racconto di modi di vivere e mentalità. Così vediamo Renzo, Lucia e Agnese smarrirsi nella folla del loro mondo seicentesco, ora che gli avvenimenti eccezionali sono passati. E ci sono i figli, e i guadagni, ci sono le esigenze di una nuova vita prosaica. E c’è Renzo che delira e dice di aver imparato a non cercare i guai, mentre Lucia sa che sono i guai a stanarci, a cercarci, a metterci a nudo. La fede, dice il narratore, ci aiuta a sopportarli. Non a risolverli, ma a sopportarli. Possiamo essere o meno credenti, possiamo decidere di mettere una legge morale laica al posto della fede, fare dell’etica, e non della trascendenza, la bussola in questo mondo dissennato, ma il romanzo non perde di forza. Le favole finiscono con le nozze. Qui le nozze sono l’inizio di una nuova vicenda, il narratore mago libera i suoi personaggi, ma quel mondo ci resta dentro, se l’abbiamo attraversato. E in quel mondo si rispecchiano la consolazione e la paura, la speranza e il disinganno di questo mondo qua. Quello che resta quando chiudiamo il romanzo è che il romanzo ci aiuta a vedere, a (non) capire. Il romanzo non finisce, e neppure la vita.

Sound Track -> Jean Sibelius, Andante Festivo, 1922

Deserti (sillabario della terra # 11)

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di Giacomo Sartori

I deserti non sono solo quelli sabbiosi o pietrosi che ci vengono per primi alla mente, lontani e immensi. Deserti sono anche le lande spoglie di molti scoscendimenti dell’Appennino, della maggior parte delle montagne del Mediterraneo, di moltissime sue isole. Il taglio delle foreste originarie ha lasciato scoperti i suoli, che sono stati poi piallati via dalle piogge. Spesso passando da una fase di macchie arbustive, pascolate e ripascolate da pecore e capre, fino a non lasciare più nulla. E quasi sempre ci hanno messo lo zampino anche gli incendi, quelli stessi delle estati attuali, che fanno parlare di loro per qualche giorno.

Dove ora vediamo la roccia nuda, con qua e là qualche ciuffo di vegetazione, prima c’era una scura e fresca lecceta, o un’ariosa pineta. La normalità, per dirla così, è quella. L’aspetto lunare è subentrato dopo l’asportazione della terra, della vita. Una volta andata, la terra non può riformarsi dalla roccia: ci vorrebbero millenni, senza disturbi di sorta. Cresce lenta, le nostre vite le sembrano attimi. O ne restano brandelli sottili, buoni a ospitare qualche erba o arbusto senza troppe pretese. Moltissimi paesaggi che ci sembrano normali sono il risultato di una devastazione, sono un campo di battaglia.

Mi colpiscono molte fotografie turistiche, dove le persone sorridono, paghe dei bagni e del sole, e non sanno riconoscere la distruzione che le attornia. Si felicitano dell’acqua chiara, della sabbia, e degli addobbi turistici, senza notare le sterili rocciosità alle loro spalle, l’annientamento dei suoli. Per loro quello è lo sfondo naturale dei loro divertimenti. Se scoppia un ulteriore incendio pensano in primo luogo al fastidio delle strade interrotte, alla puzza di fumo.

In quella noncuranza trovo l’ennesima riprova della nostra sconsideratezza. Ci siamo plasmati un’idea di natura oleografica, maestosa e incontaminata, bucolica o selvaggia, sempre invitante, sempre remota, molto utile nei fatti per poter devastare a cuor leggero tutto quello che non rientra nelle sue varie declinazioni ammantate di fascino e purezza. Che è molto, moltissimo, e spesso è vicino a dove viviamo.

Quasi tutte le superfici delle aree vivibili della Terra, quelle che circondano le città dove si ammassano sempre di più gli umani, sono in effetti occupate dall’agricoltura. E il loro elemento prezioso, in mancanza di foreste secolari o falesie o cascate o altre attrattive sfruttabili dal rullo compressore del turismo, è la terra, con la t minuscola.  La nostra cultura disconosce però il suolo e il tipo di vita che alberga, o anche lo considera una cosa bassa, al meglio un qualsiasi mezzo di produzione. La Natura per noi è appunto ben altro, la bellezza non sta lì, e le nostre ninfe le troviamo adesso sugli schermi. Non c’è quindi da stupirsi che non facciamo caso ai deserti che creiamo attorno a noi.

L’educazione che riceviamo non ci insegna a leggere i paesaggi che percorriamo, a capire come funzionano, cosa vi sta succedendo, quali sono le degradazioni in atto, quelle potenziali ancora peggiori. E tanto meno a respirarne i misteri. Conosciamo i modelli di automobili e di telefoni, le loro virtù, i loro possibili guasti, e beninteso il loro costo monetario, non gli alberi e le rocce, e le associazioni di piante, e le loro problematiche. Nel migliore dei casi ascoltiamo con pazienza quello che ci riassumono in qualche istante i relativi specialisti, e se proprio ci sentiamo molto coinvolti prendiamo il tempo per vedere un documentario.

Capiamo al volo i cartelli stradali, e ignoriamo completamente la segnaletica della natura, altrettanto vistosa e esplicita. I sintomi dell’erosione della terra, che se ne va per sempre, della sua perdita di sostanza organica, della sofferenza delle piante, della siccità, del latitare di animali sono messaggi perentori come pubblicità giganti, ma non attirano la nostra attenzione, presa da altro. Il senso della nostra vita lo cerchiamo altrove.

I deserti che l’agricoltura lascia dietro di sé, più diffusi dove i climi sono più contrastati, avanzano in realtà in tutti i continenti a passo di corsa. I suoli sono sgranocchiati in superficie, si assottigliano sempre di più. Con i concimi chimici e l’irrigazione possiamo spesso mascherarlo a lungo, ma a un certo punto l’ecatombe si palesa. I deserti non sono totalmente privi di vita, come spesso si crede, ma hanno una vita molto ridotta.

I deserti dove il suolo non c’è più, o è troppo ridotto, non sono però gli unici. Ci sono anche quelli delle terre troppo salate, pure qui per una pressione agricola e umana eccessiva, in particolare nei territori aridi. E quelli delle terre contaminate da metalli pesanti o da inquinanti organici. E soprattutto quelli inarrestabili della cementificazione, la forma di desertificazione più repentina e radicale. Ogni anno migliaia di chilometri quadrati di terre buone sono seppellite dal cemento armato e dall’asfalto, e le proiezioni per il futuro parlano di milioni di chilometri quadrati.

Ci preoccupiamo molto per la riduzione delle foreste, effettivamente gravissima, e per i cambiamenti climatici, che spesso intensificano le dinamiche in atto, ma più grave ancora è lo sterminio della terra. Con modalità spesso poco appariscenti e delle quali poteri pubblici e persone comuni sottostimano l’insidia, stiamo distruggendo i nostri habitat. Le foreste possono essere in una certa misura ricreate, e suoli in buone condizioni aiutano a affrontare i cambiamenti climatici, ma quando le terre non ci sono più, o sono alterate in maniera definitiva, non si può fare nulla.

So però bene che è ingiusto da parte mia prendermela con chi va in spiaggia senza notare i pietrami sterili alle sue spalle: tutti noi facciamo suppergiù lo stesso. Tutti noi siamo disattenti e sappiamo poco, è la nostra cultura. Tutti noi partecipiamo con zelo alla devastazione, direttamente o indirettamente, alla misura del nostro reddito e dei nostri consumi. Ce lo nascondiamo, o alla meglio rileviamo solo alcuni focolai che ci sono più vicini o ci stanno più cuore.

Non ci resta quindi che lo scoraggiamento, di fronte all’avanzare dei deserti attorno a noi? No, le pratiche di conservazione e di rigenerazione dei suoli non troppo danneggiati esistono e funzionano. Se ne parla sempre di più, le esperienze si moltiplicano: battiamoci perché prendano il sopravvento. Consideriamo per cominciare che i suoli sono sottilini e poco visibili, ma costituiscono l’elemento cardine dei paesaggi: su di essi si imperniano tutti gli insiemi dei viventi, quelli che gli ecologi chiamano ecosistemi. Fanno insomma vivere le piante, gli animali e noi, che siamo caduti in un delirio di onnipotenza. Esistono: cerchiamo di coglierli con i nostri sguardi, scegliamo e appoggiamo chi li protegge, compriamo i prodotti di chi li difende.

(la fotografia: sud della Tunisia)

Gruyaert a Parigi: il miracolo del colore

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Harry Gruyaert, Belgique, Bruxelles, Gare de Bruxelles-Midi, 1981

 

di Ornella Tajani

A Parigi, nello spazio espositivo Le Bal, è aperta fino al 24 settembre la mostra dal titolo La part des choses, dedicata al fotografo belga Harry Gruyaert, classe 1941: membro dell’agenzia Magnum Photos, è considerato uno dei maestri europei della fotografia a colori. In esposizione per la prima volta 60 sue fotografie realizzate tra il 1974 e il 1996.

Non stupisce, scorrendone la biografia, scoprire che Gruyaert abbia seguito da giovane anche studi di cinema: davanti a molti dei suoi scatti è difficile, in effetti, credere che siano “solo” foto e non piuttosto fotogrammi di un film, tali sono la potenza narrativa, la capacità di evocare un prima e un dopo l’attimo ritratto – di suggerire frammenti di storie non ancora accadute, forse prossime e inevitabili, come argomenta Richard Nonas in uno dei testi di presentazione.

 

Harry Gruyaert, Belgique, Anvers, 1988

 

A volte mi dico che sarebbe talmente più semplice mettere in scena le mie immagini, ricreare un certo muro come Antonioni, o chiedere al tal personaggio di vestirsi in modo diverso. Ma credo che perderei il miracolo istantaneo dell’inatteso che toglie il fiato,

si legge nelle parole del fotografo. Citando anch’egli Antonioni a mo’ di riferimento, come già nel caso di Raymond Depardon, Gruyaert sottolinea l’importanza della matericità del proprio lavoro, nel quale i colori acidi, saturi, la «matière couleur», come lui stesso la definisce, rivestono un ruolo di primo piano.

Il colore è un modo di scolpire ciò che vedo. Il colore non serve a mostrare un soggetto o la scena che sto fotografando, è un valore in sé. È l’emozione stessa della fotografia.

 

Harry Gruyaert, Belgique, Boom, 1988

 

Il miracolo del colore detta la ricerca di Gruyaert, lo si vede in ogni scatto: da quelli più minimalisti, in cui un idrante giallo troneggia fra due paletti rossi, a quelli più compositi, come questo. Lo stesso allestimento della mostra gioca con i colori, cambiandone uno per ogni tramezzo. Per il resto l’articolazione del percorso espositivo appare un po’ confusa, proponendo tappe perlopiù geografiche (Belgio, Stati Uniti, Maghreb, ecc.), criterio non sempre prioritario nei lavori del fotografo.

 

© Marc Domage
© Marc Domage

 

«Mi butto nelle cose per sperimentare il mistero, l’alchimia: le cose mi attirano e io le attiro», dice Gruyaert. La part des choses, dunque, perché ciò che gli interessa è «trascriverne la percezione, farsi veggente», come annota la co-direttrice di Le Bal Diane Dufour, con un clin-d’œil à Rimbaud e uno finale, più nascosto, a Jean Cocteau: «Fotografare può essere anche questo: comunicare uno stato di solitudine e dire una bugia più vera della verità».

 

Harry Gruyaert, Maroc, Ouarzazate, 1986

 

Narrare dunque mentendo, o meglio confondendo un po’ le carte, per raggiungere un diverso livello della realtà, per schiudere una visione. La fotografia di Gruyaert è déroutante, le sue luci catturano chi osserva in una dimensione apparentemente ordinaria eppure inafferrabile, davanti a immagini iperconcrete e nondimeno ambigue: così quello che a prima vista sembrerebbe un incrocio di strade statunitensi si rivela essere uno scorcio della città marocchina di Ouarzazate; altrove, lo scatto di un uomo che cammina fra due macchine suggerisce un paese dell’America latina, e invece è tratto dalla serie Irish Summers – serie magnifica, di cui purtroppo poco si vede in questa occasione.

 

Harry Gruyaert, Irlande, Comté de Kerry, 1983

 

Merita molto, ed è invece ben presente, il lavoro «Moscow», risalente al 1989: all’indomani della caduta del muro di Berlino, il fotografo viaggia in URSS, dove racconta di essersi ritrovato davanti a una società «congelata e fossilizzata»; lì «una tavolozza di colori sconosciuti, sbiaditi, attenuati» gli si è offerta alla vista, «l’immagine di un universo che era esistito tra due mondi».

 

Harry Gruyaert, URSS, Moscou, 1989

 

La part des choses resta dunque una mostra di indubbio interesse e godimento, in uno degli spazi fotografici più interessanti di Parigi. Si spera che possa arrivare anche in Italia, dove l’opera di Gruyaert è ancora poco nota.

 

Il tempo della diseducazione

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di Alessandro Tesetti

Ti rendi conto che sei fatto in un certo modo per cui io dovrò giudicare fallimento ogni cosa in cui riuscirai? Anche se a trent’anni sarai ordinario di cattedra di Lingua e letteratura inglese? Dovrò considerarti sempre e comunque un fallito, poiché sei fatto a quel certo modo. – Dunque, – aveva risposto Johnny, – dovrei morire molto giovane. –

Beppe Fenoglio

Anni di inadattamento e non-luogo. Mi è stato detto fai questa scuola, è una delle migliori per quello che vuoi fare. Io ho obbedito senza neanche chiedermi cosa volessi fare, cosa intendessero, loro, con per quello che vuoi fare. Tredicenne, balengo vuoto della terza media, cosa voglio fare? Voglio solo dare l’esame (una delle prime nevrosi da competizione), andare al lago vicino casa, compiere gesti estremi, far sì che Giulia si innamori di me, imparare a suonare la chitarra per scriverle canzoni (e non scrivere canzoni da dedicare a lei), restare sott’acqua più di un minuto e mostrare a Giulia quanto sono bravo e quanto sono innamorato di lei. Settembre è lontanissimo, macchia scura dall’altra parte del cielo. Intanto l’iscrizione all’Istituto Tecnico G. è già stata fatta, la firma è dei miei genitori, non la mia. Euforia indistinta: prendere il treno tutte le mattine e raggiungere la città. L’esame lo passo con sette, tanti bagni al lago, tanti tuffi e immersioni da un minuto e mezzo; imparo il giro di Do e scrivo qualche pezzo svenevole; Giulia non si innamora di me.

Mi trovo a un certo momento della giornata, alle 6.57 di tutte le mattine, dal lunedì al sabato, in una stazione di provincia (quando iniziai le superiori era provincia, ora è periferia). Come tutte le stazioni di provincia l’aria che si respira e ciò che si guarda iniettano una strana malinconia. Fare il pendolare a quattordici anni insegna a gestire la dose sporca dei paesaggi, dei residui, della stanchezza carnale. Pendolare è sempre stata una parola che non ho capito. Cerco l’etimologia nella ferraglia del treno, nella puzza dei freni malamente oliati quando agiscono in prossimità della banchina, nelle rughe e nelle occhiaie dei redivivi, e giustamente, nel dizionario. Sono nove anni ormai, ancora non l’ho capita; la voce nel dizionario non è esatta.

Inizio a fare il pendolare a quattordici anni per raggiungere l’Istituto Tecnico G., è bello, è emozionante; prima d’allora raggiungere la città era motivo d’occasioni importanti, o la passeggiata domenicale, o i parenti quando venivano a trovarci: ora diventa quotidianità.

Potevo scegliere una scuola vicino casa, scuola sempre molto accreditata il Liceo scientifico V., dai miei genitori come da tutti i concittadini e da quelli ancora più fuori, oltre le colline. Molti miei compagni delle medie andavano lì, anche Giulia andava lì, le professoresse delle medie consigliavano quella scuola lì. Bastava vestirmi e uscire di casa, camminare dieci minuti e sarei arrivato.

La mia decisione, sempre dove avevo la possibilità d’aprire bocca, sempre dove possedevo lucidità d’aprire bocca, è stata al negativo: basta che non sia il liceo scientifico V. E allora mio padre chiedeva ma è per il liceo scientifico o il liceo scientifico V.? Io non lo sapevo: non sapevo la differenza come non sapevo la categoria. Cos’era il liceo scientifico? Dove s’approfondiva la matematica, la scienza, la fisica; inoltre offriva una buona preparazione per l’università. Ma è tutto così generale, di conseguenza così vuoto. Io non volevo andare al liceo scientifico V., e non volevo andare al liceo scientifico: non volevo studiare generalità e svuotezze.

E mia madre diceva: ma come? Tutti i tuoi amici vanno lì, perché tu no? è vicino casa poi. Lei aveva ragione, e io, non sapendo come giustificarmi, non sapendo cosa rispondere per avere la ragione dalla mia parte dissi: perché voglio fare l’istituto tecnico G., così ho ragione, così la responsabilità me l’assumo io.

Ma si può parlare di responsabilità? Io non sapevo l’esistenza del liceo artistico, del liceo linguistico, del liceo delle scienze umane: erano tutte parole cave poste sul depliant dell’orientamento scolastico, con qualche sbavatura empirica omosociale (al linguistico vanno le ragazze, scienze umane è l’ex Magistrale è quindi per ragazze, l’artistico se non sai disegnare che ci vai a fare). Non ho mai visitato scuole di questi indirizzi, i miei genitori non me ne hanno mai parlato, le professoresse delle medie dicevano di andare al Liceo scientifico V., e quando si accennava al Liceo Classico erano perlopiù blaterazioni sulle lingue morte, la difficoltà, il mondo che cambia, la distanza da casa (raggiungere la città, far scoppiare la bolla provinciale), lo svantaggio universitario in caso di ingegneria per noi maschietti (di nuovo: educazione e formazione omosociale).

Intanto leggevo, ma non sapevo cosa fosse la letteratura. La professoressa D. in tre anni di scuole medie non ci ha dato un romanzo in mano. I miei temi erano buoni. Vicino scuola, accanto a un cassonetto, rincasando, trovai un libro di Kafka, edizione orribile con i caratteri seminvisibili. La professoressa D. non ci dava da leggere niente, io intanto provavo a leggere Kafka, i temi venivano fuori buoni, ma Kafka non lo capivo, neanche oggi lo capisco; ma intanto leggevo e mi innamoravo di altre ragazze che non erano Giulia, e non capivo Kafka, non capivo perché dovessi scegliere un percorso chiuso e immutabile e irreversibile dalla durata di cinque anni. La professoressa D. leggeva i miei temi, diceva che erano buoni, diceva di andare al liceo scientifico V. ed io non sapevo perché.

Avevo ragione: non ho studiato generalità e svuotezze, al contrario, peculiarità e maestranze. Noi che c’arrabattiamo appresso al tubo di Venturi, alle pressioni, al peso specifico dei materiali; bello tutto, ma io intanto leggevo. Interessante la meccanica aeromobile, interessante aerodinamica; ma io intanto leggevo. Leggevo nelle ore di buco, leggevo a ricreazione, ogni tanto leggevo durante le lezioni troppo numeriche e cercavo di non farmi beccare, nascondendo il libro dietro l’astuccio, guardando di continuo la lavagna, prendendo appunti freneticamente. Due volte mi hanno sgamato, e due volte non ho voluto palesare la verità: ho detto che stavo al telefono. Ma perché?, chiedeva il mio compagno di banco Alessio, meglio dire che stai leggendo piuttosto che stai al telefono. Ma io non volevo che si sapesse la verità, almeno in quei momenti lì, durante le lezioni; volevo che si sapesse a ricreazione, negli intervalli, quando il docente entrava e mi trovava leggere, ma non volevo che si sapesse mentre loro spiegavano.

Quindi, peculiarità e maestranze nelle materie scientifiche, generalità e svuotezze in Italiano. Per quattro anni abbiamo avuto la professoressa M., frustrata, aristocratica, depressa: frustrata e depressa perché insegnava in un istituto tecnico, lei che era un’aristocratica, degna del migliore liceo classico della città, invece era lì. Tutti i giorni il suo astio lo defecava su di noi con insufficienze, note, insulti. Passavamo le ore a farci insultare, non spiegava, ci dava da leggere il manuale. La sua, e anche nostra, speranza era che la richiesta di trasferimento venisse accettata, abbiamo aspettato quattro anni, noi ci siamo stancati prima di lei e abbiamo deciso di cacciarla. L’abbiamo registrata e poi siamo andati dalla preside; nell’audio volavano mamme cortigiane, padri gigolò, ignoranti e feccia che eravamo. La preside non poteva sollecitare il trasferimento, non poteva neanche trasferirla lei stessa; le cambiò classe e venne assegnata ai primini. Qualche redarguimento, una tagliuzzata di cresta aristocratica. Nei corridoi non ci salutò più, e noi la guardavamo con aria di vittoria, più che vittoria, di sfida vinta, di t’ho fregato, te l’ho messo nel culo.

In quattro anni, quattro inverni, di Letteratura non ci ha insegnato niente. Io non ricordo una sola nozione: ci dava la storia letteraria da studiare, le interessavano vitamorte&miracoli, date, e altre baggianate. Tipo la stempiatura di Ariosto, Tasso che lanciava le spade, la dieta di Petrarca, il fregno che era Foscolo. Nessuna analisi dei testi, nessun romanzo da leggere. Dalla sua borsetta kitsch fucsia non ho visto uscire un libro, e io mi chiedevo com’era possibile che una persona così insegnasse una materia così (avevo e ho una fede sacrale attorno all’insegnamento della Letteratura, un che di mistico, senza mai apparire misticheggiante; un che di religioso senza essere una religione: ecco cos’è la Letteratura, il cristianesimo senza lacrime, la religione senza peccato).

Io intanto leggevo. Leggevo in treno e nessun pendolare legge mai, in nove anni ancora mi stupisco quando trovo qualcuno a leggere. Al professore di Meccanica piacevo, piacevo perché leggevo. Non andavo bene nella sua materia, una sufficienza scarsa, sempre in bilico; però gli piacevo perché anche lui leggeva. Così mi regalò, a spese sue, Carver, Roth, Rovelli, Del Giudice. Da una parte il minimalismo, dall’altra un’opzione che non avevo mai considerato prima: posso anch’io scrivere di tecnica, di più, posso anch’io scrivere e volare senza mai staccare l’ombra da terra. L’idea era quindi quella, fare il pilota e iniziare a scrivere. Già scrivevo qualcosina: non-racconti, non-poesie, un non-romanzo. Iniziare a scrivere davvero, leggere davvero. Scrivevo e leggevo tanto, ma non davvero. Kafka l’avevo abbandonato, non lo capivo, e in fondo non m’è mai piaciuto. Io, volevo scrivere come Daniele del Giudice. La professoressa M. diceva che i miei temi non erano buoni, come se non l’avessi scritto io, talmente improbabili che non erano buoni. Non un libro da leggere, non un barlume di speranza in noi, eravamo feccia, non degni d’un libro in cui credere.

Importante svolta avvenne al quinto superiore; mandata via la professoressa M., occorreva un nuovo docente di Italiano: venne il prof. P. anti-aristocratico, anti-borghese, anti-tutto. Ci piaceva perché era come noi, uno di borgata o di provincia, cresciuto con le idee rosse e coltivate e ammaestrate con le letture. Aveva una cinquantina d’anni ma sembrava un pischello: veniva in moto, fumava con noi, parlava come noi, mangiava con un coltellino svizzero, era brutto e perciò bello, fumava e leggeva cose dai titoli assurdi (ricordo, e ricorderanno tutti, Puttane assassine). Ci disse che il manuale potevamo anche non comprarlo, che spiegava lui e avremmo preso appunti, che ci dava da leggere delle cose e noi le avremmo lette, poi commentate. Non seguiva il programma e dedicò scarsa attenzione ai grandi del primo novecento per dedicarsi ai minori, a quelli che il canone aveva escluso. D’Annunzio era da leggere insieme a Wilde e Huysmans. Due o tre poesie di Pascoli per passare subito a Corazzini e Gozzano. Baudelaire e i maledetti invece di analizzare Carducci. Poi Morante e Ginzburg e Cialente e De Cespedes per dirci che non solo gli uomini scrivono, che se non ci sono sui manuali non significa che non esistono.

Oltre a farci ragionare sul canone, su “quello che vogliono loro”, l’insegnamento della Letteratura era molto tecnico e religioso. Non c’era la storiografia, c’erano i testi. Non c’erano date e vite, busti e dipinti; c’era l’opera. Il testo era da sbrogliare, c’era l’incipit, l’intreccio, il dialogo che annoda e snoda, il narratore, l’azione. Si leggeva, si sottolineava, si dibatteva sulla verità segreta della scrittura. Religioso ma non cristiano, mai fede indiscussa: sempre compromessa, collaudata.

Mi resi conto che fino ad allora avevo letto canone, e avevo scritto canone, e Del Giudice era canone. Quindi dovevo riiniziare da capo, perlomeno proseguire con l’idea che le mie fondamenta erano canone, dal mio punto vista e dalla mia percezione, contaminanti. Chiesi al prof. P. da dove cominciare perché io ci credevo davvero, io volevo fare lo scrittore, anche se non ero bravo a scrivere e leggevo cose che non capivo, le quali mi sforzavo di capire perché era quello che dovevo leggere, era il canone che mi veniva consegnato. Il prof. P. mi diede da leggere Eluard (scelta che non capisco tutt’oggi); ma neanche Eluard capivo, allora rubai dei versi e scrissi della prosa, ma ancora canone. Forse ero io stolto, io che leggevo e leggevo e non capivo niente. I temi non mi venivano più buoni; ero triste e non sapevo che farmene di me. Mi trovavo in un luogo che non capivo: non capivo le cose che studiavo, non capivo se non ero bravo a studiare o non mi piaceva quello che studiavo. Ero triste e non vedevo la luce fuori dal tunnel, cinque anni di semibuio e disorientamento.

Poi una mattina a Porta Portese, ancora mosso dal canone, confuso da una curiosità oltreoceano, presi Salinger a cinquanta centesimi, poi a casa: io voglio scrivere così.

Senza imparare nulla a memoria, senza un disciplinamento coatto, imparammo molto più in quell’anno che in quelli precedenti. Tanti lessero un libro per la prima volta (a fare da deflorazione per molti fu Due di due di Andrea de Carlo). Nelle ore del prof. P., quando era lui a parlare vigeva un silenzio brutale; quando bisognava parlare, si interveniva, si litigava; stavamo facendo della critica militante, eravamo un’avanguardia senza dichiarare niente a nessuno: io prendevo appunti, poi a casa scrivevo. Provo gelosia se penso che il prof. P. utilizzi lo stesso metodo con altre classi, altri ragazzi. Ma è sbagliato parlare di metodo, il suo non è un fare: è un modo d’essere teso al fare.

E da quei sciatti e abborracciati che eravamo – così si rivolgeva a noi il prof. di Meccanica – stavamo maturando, ed era il tempo della diseducazione: saper prendere una decisione. Il diploma era alle porte, agli altri bussava chiassosamente, a me no. Ero più che convinto nella scelta di Lettere all’università ma ero spaventato in un modo disgustoso. Se non avessi la preparazione adeguata, se non ce la facessi con lo studio, se non fosse più immediato trovarmi un lavoro o iscrivermi ad ingegneria, se fossi mosso solo da velleità artistiche e non pragmatiche.

La verità è che non volevo più fare il pilota, non volevo più studiare materie scientifiche, non volevo più essere allevato per cinque anni dentro un recinto, non avrei mai indossato una divisa come suggerivano i miei genitori, non volevo scrivere di volo e di tecnica: io volevo fare, o meglio, volevo essere, uno scrittore. Anche se non ero bravo né a leggere né a scrivere, e di case editrici non sapevo niente, e non leggevo nuove uscite, entravo poco in libreria e compravo libri usati al mercatino, mi limitavo a sfottere il premio Strega e il premio Campiello, proclamare la morte della letteratura. Ma avevo capito delle cose: leggere bene è importante tanto quanto scrivere bene; avere un canone è una disgrazia; picchiare sui tasti un po’ pensando un po’ non pensando, un po’ sono un po’ non sono, un po’ lucido un po’ sbronzo; leggere sbranando e rubando, scrivere con l’idea di star scrivendo sempre male e sempre peggio; giurare solennemente di non avere buone intenzioni; mai nella vita e dico mai frequentare un corso di scrittura creativa.

Scelsi Lettere perché era inevitabile, perché avevo bisogno di certezze. Devo confrontarmi con qualcuno che già ne sa, io non so niente, leggo, scrivo; dico a mio padre senza guardarlo mai; voglio fare questo ma non so niente. Lui prima incredulo, poi alterato, il discorso termina con un va bene secco, tiepido. Mia madre non dice nulla. Io non sono più quello della terza media, ma loro mi giudicano più infantile adesso che allora.

Nessuno in famiglia legge o si interessa minimamente alla letteratura, solo in base ai miei esami: conta il voto e non l’argomento. La mia scelta è stata vista come uno sbandamento, un desiderio puerile, la solita non-idea attorno alle cose; sto per laurearmi e mio padre ancora mi propone dei concorsi per le forze armate, deve ancora capire perché, dove ha sbagliato con me, digerire il pasto nudo (che poi è il mio, ma lo sente il suo: lo preoccupa cosa farò dopo, non pensa sia possibile trovarmi un lavoro col mio titolo, abituato com’è a pensare che lavoro è solo quando si usano le mani, si fatica, si sputa, si bestemmia, si suda; tutte cose che faccio, scrivendo). E così il luogo astratto e intimo che m’ero creato leggendo, transumando dal recinto, si fa visibile: non più un percorso scelto a caso, distrattamente, per indecisione o inerzia, ma una scelta mia, lucida.

Uscendo quasi col massimo (seconda nevrosi da competizione: non volevo dimostrare niente, sapevo delle tasse, mi sono spolmonato apposta, uno studio insano e disinteressato per studiare senza chiacchiericci di spese ingenti) mio padre pagò quasi zero il primo anno accademico, fu un sollievo per lui, non voleva buttare soldi per un anno che avrei perso, avrei accettato il fallimento e avrei capito che quella roba non era per me. Di quei venti che eravamo in classe, quattro o cinque si dedicano esclusivamente e attivamente all’università, altri per hobby, altri ancora lavorano in nero, il residuo lavora con contratto. Di quei venti che eravamo, soltanto due lavorano in ambito aeronautico, e cioè attinente alla nostra formazione. Tutti gli altri sparsi, sparpagliati. Ma allora perché scegliere così presto? Farsi influenzare, vivere con l’angoscia, pensare di non essere bravi con lo studio e magari aver scelto solo la scuola sbagliata. Ero convinto che G. fosse portato per la filosofia, non si è mai potuto esprimere, perché noi all’istituto tecnico, non studiavamo filosofia; leggeva di nascosto, dopo il diploma non ha avuto il coraggio di iscriversi all’università. Lavora come magazziniere, ogni tanto, mi dice, va a Villa Mirafiori (dipartimento di Filosofia della Sapienza), si mette a leggere lì, immagina come sarebbe stato studiare lì.

Se avessi letto allora Works di Vitaliano Trevisan, forse, oggi, non avrei una laurea in Lettere moderne. Ogni tanto mi stuzzica l’idea di abbandonare il luogo, la bolla che è l’università (stanco delle bolle, cerco di sfuggirle, da quella provinciale a quella accademica; ma forse la vita non è altro che una serie di bolle dove si è prigionieri, c’è chi se ne accorge e chi no), non proseguire con la magistrale, trovarmi un lavoro manuale, poi scrivere, vedere quello che succede. Vivere col conforto della Letteratura, sapere e conoscere il dono del conforto, come atto di fede.

In fondo ho 23 anni, gli unici lavori che ho fatto sono stati il bagnino, il cameriere, il servizio di volantinaggio, il rider per Deliveroo, il fattorino per un ristorante giapponese. Le mie mani non hanno mai visto un callo, il mio corpo è scarno. Continuo a concentrarmi sulla letteratura e sul lavoro culturale, anche se, molto probabilmente, non sono bravo come vorrei.

Entrai a Lettere convinto di trovare gente a me affine. Trovare persone che vestono come vesto io, che pensano come penso io, che leggono spasmodicamente come spasmodicamente leggo io. Non è omologazione, né neutralizzazione; ma dopo anni di solitudine, hai bisogno dell’altro, tuo simile. Anni non qualsiasi, anni di crescita e formazione, dove inizi a farti un’idea del mondo, e il mondo non è solo quello che fino ad allora ho vissuto io: provincia-periferia, pendolarismo da bestie al macello, ragazzi delusi e incazzati che la scuola è solo un contenitore minuscolo per quello che fanno il resto della giornata; la droga come ammazzanoia, roba che si sniffa sottobanco durante lezioni, o si brucia e si tira dietro la palestra a ricreazione; l’omosocialità opprimente, l’omofobia latente; un fascismo di sinistra incomprensibile; il romanesco odierno sub-urbano come schermo, filtro e protezione; la repressione sessuale, le poche ragazze che c’erano venivano pedinate, eroticizzate, verbalmente stuprate (almeno nel gruppetto, mai direttamente, nel ristretto del giro); l’istinto manesco e coltellino se qualcosa girava storto in atrio come in certe notti a San Lorenzo. Poi l’altra metà, l’altra idea: inetti, nerd, futuri scienziati dalle mediocri competenze ma con l’idea certa del nobel, bullizzati, emo riciclati; volti che si notavano solo all’entrata e all’uscita da scuola, stavano sempre in classe e uscivano per andare al bagno durante le lezioni, mai a ricreazione, paura di chi avrebbero potuto incontrare; e con loro non sono mai riuscito a socializzare.

Oltre a non c’entrare niente, io non potevo fare niente, io volevo pure fare qualcosa, ma cosa? La Letteratura ha sempre avuto un ruolo per me quale impegno e consapevolezza e coscienza in più, ma come si traduce, poi? È solo la mia rivoluzione? Da sprovveduto che ero, sciocco e abborracciato del Tecnico, il conforto e le centinaia di vite che ho vissuto grazie ai libri, qualcosa è cambiato. Ma la rivoluzione non può essere solo individuale, non può essere solo mia. Durante le lezioni del professor. P., pensavo che la rivoluzione fosse una cosa più o meno simile: noi, in quell’aula, facevamo la rivoluzione. Poi però, usciti dall’aula, le cose tornavano uguali: per difendersi dagli altri ci mostravamo più forti degli altri: nei gesti, nei movimenti, nelle imprecazioni; la Letteratura, come ogni cosa culturale, non veniva più toccata, parevano svenevolezze da deboli. Ma io sapevo che dentro di loro, il germe c’era, e una volta che c’è, resta. E quando si prova nostalgia per una storia, la si riprende in mano.

Poi di nuovo, la delusione. Ho attorno gente senza carattere, a-patica, a-ideologica, sono qui e sanno di essere qui senza sapere perché sono qui. Andavano bene in Italiano alle superiori, avevano nove o dieci, vengono dal Liceo Classico, la scelta di Lettere è stata consequenziale. Non sono lettori, sono studenti. Non sono studenti, sono “colleghi”. Collega è la parola preferita, più volte pronunciata: dà una certa autorità, non siamo tutti uguali: in collega non c’è l’accezione di star imparando qualcosa, ma di produttività; fa sentire importanti, parte di quell’organismo, sentire quell’organismo come unico valore esistenziale, nobilitante. Al contempo, però, non socializzare l’organismo, non socializzare nell’organismo. Insomma, siamo tutti diversi, ma si sta insieme per fare qualcosa di grande, facendo finta di sostenerci, illudendoci di sostenerci l’un l’altro. Io ce la farò, voi non so, ma non mi interessa; il segreto è che se vuoi, puoi; se vuoi, ottieni.

Nessuno è appassionato davvero, leggono una decina di libri l’anno di cui la maggior parte sono a fini didattici, cioè per la preparazione degli esami. Ricordo una lezione di Critica Letteraria, una delle prime, in cui la professoressa voleva conoscerci e scoprire i nostri interessi, le nostre letture. Era il secondo anno accademico, quando ci chiese il nostro libro preferito, eravamo circa un’ottantina in classe, forse più. Uscirono fuori solo banalità, letture coercitive liceali, letture snob quali L’idiota, titoli demenziali che sfioravano l’ironia, l’unico titolo che più mi garbava era Addio alle armi, più per una certa idea che per la sostanza; il resto muffa marcia. Quando dissi il mio titolo – Detective selvaggi, nessuno lo conosceva, nessuno l’aveva mai sentito, neppure la professoressa. Eppure basta entrare in una libreria per avere minimamente presente un titolo; routine, che a quanto pare, loro non hanno. C’è da notare, poi, che parliamo del catalogo Adelphi e non Pidgin, TerraRossa, o qualche altro editore indipendente. Si conoscono i grandi, gli storici; attraverso le biblioteche. Quando vanno in libreria io lo so, io li vedo, si fiondano sul catalogo Einaudi e fanno commenti lacrimosi, prevedibili. Il libraio suggerisce, e loro con la bocca spalancata, di non star capendo. La stessa espressione quando mi trovo a parlare con loro o con i professori dell’ultima uscita, della genialità che hanno avuto quelli di Tetra edizioni, ad esempio.

Il più delle volte, comunque, i libri non li leggono, magari li stampano in pdf per non comprarli, e poi si accantonano. Si fanno sforzi quando il romanzo non supera le centocinquanta pagine (menomale dai, Una stanza tutta per sé è piccolino, mi sa che lo leggo, massì, vuoi il pdf? Io ce l’ho, così non lo compri. Che poi forse l’ho letto un sacco di tempo fa ma proprio non me lo ricordo.) Ci si accontenta delle spiegazioni del docente, che non hanno mai natura esaustiva e tecnica, ovviamente. E la cosa più indecente è che per anni e anni ti hanno affibbiato Calvino, alla fine ti scocci e lo leggi, o no? Beh, questo può anche non accadere: continui a scansarlo, ma non per leggere altro, non per avere il tempo di leggere il romanzo che vuoi, quello che hai scelto tu: no, semplicemente per… (impossibile teorizzare, impossibile trovare il termine giusto: non è pigrizia, né accidia, né inerzia. Perché uno studente di Lettere non legge romanzi?)

Mai un esame in cui il/la prof. apre il romanzo, mi fa leggere la pagina e poi commentare. Capita con la poesia, ma con la poesia ci pare legittimo; con la prosa no. Se ci fosse questo metodo, faremmo piazza pulita, il numero di promossi all’esame si ridurrebbe a uno sputo.

Scrive Flannery O’Connor Nel territorio del diavolo e c’è questa frase breve che racchiude tutto il mio paragrafo: “Penso sia senz’altro possibile completare una carriera accademica in letteratura (inglese), procurandosi fama di studioso apparentemente rispettabile, senza con ciò sapere leggere la narrativa”.

Ma infatti diventare prof. di Letteratura all’università è la cosa più facile che ci sia, non ci vuole nulla: basta chiudersi in una bella biblioteca tutti i pomeriggi, leggere i saggi assegnati fino allo sfinimento (la curiosità non è consentita, fare più del necessario è una perdita di tempo), imparare a memoria, non sollazzarsi coi romanzi; ecco fatto. Quindi si leggono sempre i soliti quattro tipi (bianchi, maschi, etero), le solite quattro sollecitudini; mai un nome nuovo, mai un titolo nuovo. Le modalità, ripeto, sono di carattere storico, psicologico, autoriale. Conta più l’autore in carne e ossa di quello che ha scritto, compiuto artisticamente in forma immortale; conta il valore differenziale storicizzato ma senza far confronti (mai sentito parlare, per esempio, di accostamenti quali Altri Libertini e Il nome della rosa, usciti entrambi nel 1980; conta solo il ruolo importante che hanno avuto i due libri nella post-produzione scrittoria ed editoriale, ma senza sapere perché). Quindi vengono date le informazioni ma senza andare a fondo: l’insegnamento della Letteratura si limita alla superficie, dell’endogeno non importa un accidente. Quindi basta sapere l’importanza senza sapere l’importante. Basta sapere cosa dice quel libro senza averlo letto.

Tutte queste cose le leggo nei volti, non solo dei colleghi ma anche dei docenti. Segno di amarezza, delusione, mentirsi, ma intanto ce l’ho fatta.

Anomalo è parlare di libri che ci piacciono, anomalo è parlare di letteratura, lì, sulla scalinata di Lettere della Sapienza, tanto famosa, tanto cinematografata. Bisogna riposare il cervello tra una lezione e l’altra, si fuma, si tracanna il caffè, le domande che si rivolgono son sempre più o meno le stesse: quanti esami ti mancano, che hai dato alla sessione, che chiede la prof. V., quando ti laurei. Il resto sono domande retoriche, le risposte già si conoscono, poiché sentite da mille persone uguali e standardizzate che la pensano tutte allo stesso modo: bisogna laurearsi in tempo per non andare fuori corso (e non è una questione di soldi e tasse, ma di principio e orgoglio e solennità), bisogna imparare senza leggere (perché leggere è una perdita gravosa e irrecuperabile di tempo), si trovano escamotage per sbrigarsi (come inserire nel piano di studio esami più semplici, esami tenuti da docenti tranquilli che non bocciano, come se bocciare non fosse l’alternativa, la possibilità, nella sua natura binaria). C’è chi la vive con insana competizione, e chi soccombe. Tutti questi discorsi portano malessere, disamore, ma sia chiaro: non è la sola università come ente ad essere malsana, il problema risiede soprattutto in chi la vive – l’università come ente. Non è solo l’università ad essere meccanismo indifferente, è l’indifferenza di chi muove il meccanismo (e quindi gli studenti e le studentesse) ad essere nocivo.

Che l’università è un luogo e un concetto borghese è risaputo: bisogna dare gli esami solo nelle sessioni dichiarate, quindi due volte e mezzo l’anno (gennaio, giugno; a settembre soli due appelli in uscita dall’estate).

Sono nove esami da dare all’anno per laurearsi in tempo, poi, si paga di più. Come se andare fuoricorso fosse un paghi pegno, un pentimento dal quale devi uscire spurgato.[1]

Resto dell’idea che la valutazione è tossica, finché ci saranno voti ci sarà competizione, finché ci sarà competizione ci sarà l’obliamento di ogni nozione, poiché lo studio è esclusivamente mnemonico, e la memoria cede quand’è superficiale. Basterebbe un idoneo, non idoneo. Ma sono gli stessi studenti a chiedere il 30 e lode, non c’è nulla da fare. Lo rincorrono, lo bramano; piangono se non ricevono la lode (votazione che viene data sempre, meramente, nel piccolo e recintato e sudicio programma del corso; la domanda non si sporge mai, la domanda non osa mai; di conseguenza, neanche la risposta. Non conta il discorso ragionato e critico, ma lo sciorinamento dei saperi mnemonici: gli appunti del professore, le citazioni del manuale).

Mentre, per alcuni, dare il massimo e prendere il massimo, diventa un fatto meccanico, euforico, dispregiativo. Per altri non è così: vedere gli altri che vanno avanti, danno gli esami, prendono il massimo; accentua l’autorità che si dà all’esame e al suo conseguimento, la difficoltà e l’impossibilità ad affrontare il docente che ti giudica, comportano nevrosi, ansia, attacchi di panico, suicidio.

Di università si muore, anzi, l’università uccide: smetti subito.

Il rapporto docente-alunno oscilla dal paternalistico-liceale al gerarchico-verticale: o trovi il professore che ti tratta come un bambino vuoto e ignorante (il che non è male all’esame, sapendo che sei stupido e sei riuscito almeno a imparare quelle due cosucce, fioccano i 30), o quello antico, vecchia solida e sordida scuola, che ti reputa un umano vuoto e ignorante. L’approccio è diverso, non bisogna fare esempi, sappiamo come ci si rivolge ai bambini. A cos’è dovuto? Alla troppa autorità che si dà a chi sta in cattedra; si sostituisce la figura del sapere e della sua trasmissione, con quella d’una guardia infida giudicante. Conta poco o nulla quanto si impari dal corso, conto solo il voto che prendo alla fine del corso. Quindi la poca umanità che si dà al prof., oltre a tagliare ogni rapporto minimamente confidenziale, non permette mai la messa in discussione della sua tesi. Ma non è solo dibattere, è anche aggiungere un’idea, un’opinione, un appunto; invece no, nessuno si azzarda a fiatare, tutti muti. Carente pure l’empatia umana: chi sta in cattedra cerca il dialogo, ma se tutti tacciono non avviene lo scambio intenzionale; e non è rassegnazione culturale, è rassegnazione umana. Quindi un rapporto asimmetrico e verticale creato dagli studenti che non parlano, non agiscono, non reagiscono; e quando parlano (è raro, sono pochi) sono mossi da ideologie che fanno vaneggiare, eppure lo fanno così accanitamente che pensano di aver ragione, che si trovano in un luogo di muffa, che l’università è ormai muffa. Il/la prof. ha ormai imparato ed è diffidente, si considera egli stesso muffa, non al ritmo coi tempi, la generazione che cambia dal linguaggio spezzato, concettual-frammentario incomprensibile.

Quindi un rapporto asimmetrico e verticale creato dagli studenti che non mettono in discussione l’università come ente, come metodo, come disciplina, come configurazione; lo sguardo dev’essere critico e sapiente, filtrato, che sappia muovere, e non balbettante ideologico-mnemonico: sarebbe combattere con le stesse armi nozionistiche, manualistiche. Lo status quo tiranneggia autarchico, le decisioni sono all’interno dell’ente, mai esposte fuori, quindi, mai contrastate (sono gli stessi a parlare, dalle stesse idee che convergono nello stesso sistema. Bisogna che gli interlocutori cambino e siano anche fuori dall’ente e dal sistema. Bisogna soprattutto che parlino con i diretti interessati: studenti e studentesse).

Vanno bene le due sessioni all’anno, vanno bene le tasse, vanno bene le banconote sganciate in più fuoricorso, vanno bene le lezioni frontali senza dialogo, vanno bene le gare come medaglie e le coppe e le lodi e premi di merito, vanno bene le inconsistenze d’un percorso lastricato, non garante, ammazzatoio, suicidario. Vanno bene i morti che sentiamo al tg per non aver passato un esame. Vanno bene i discorsi che fanno, banalizzando la morte, il percorso, gli altri motivi, la carenza, il caso unico, la famiglia alle spalle, il mancato dialogo, e tutte quelle stronzate. Vanno bene i cadaveri spiaccicati sui marciapiedi nei quartieri universitari di fuorisede volati dal settimo piano; mentre i futuri dottorandi con lo spritz in mano e la cicca in bocca che commentano Mi chiedo com’è possibile che non ce l’abbia fatta, che ci vuole, ti impari due stronzate.

Che non conferisce preparazione culturale, la laurea, è un dato di fatto. Tre anni sono solo di lusinghe preparatorie. Per chi cerca lavoro in ambito culturale, e non all’interno dello stesso contenitore – scuole e università – la laurea serve poco. Non dà prestigio in quanto ormai semi-democratica, di conseguenza neanche autorità (di fatto sbagliato), non dà curiosità. Ecco cosa manca più di tutto: curiosità. L’università è una fabbrica, la conoscenza è sul rullo, dobbiamo limitarci a non inceppare il meccanismo. Pezzo per pezzo, cfu su cfu, per anni. Vivere sul rullo, vivere del rullo. La velocità non può che passare per lo studio mnemonico, sono i tempi che lo richiedono, sono le persone che vivono di questi tempi coercitivi, inconsci. Dei suicidi non ci deve importare, sono loro a non avercela fatta, io sì. E se c’è un tempo, un merito, un traguardo, è ovvio che bisogna sbrigarsi, ovvio che la curiosità viene scartata. Bisogna leggere i libri assegnati, bisogna passare più tempo in biblioteca che in libreria, bisogna impiegare il tempo sui saggi e non sulle riviste online. Alienante tutto, allarmante la poca sensibilità che c’è.

Eliminare tutto, buttare tutto giù, riscrivere e rifondare la scuola italiana, l’educazione italiana rimasta alla riforma Gentile. Smetterla con questi incanalamenti preadolescenziali, aprirci all’imprevedibilità d’una formazione: singola e non massiccia, elaborata per ciascuno e non greggistica-omosociale. Mossa dalla curiosità dell’apprendimento, e non dalla velocità, dalla competizione e dalla nozione.

Al momento vivacchio, accontento loro: prendo il titolo ma lo reputo vuoto, dall’inchiostro slavato. Leggo tutto quello che trovo, scrivo quando posso. Parlo ai miei colleghi delle riviste online dove scrivo, della mia ricerca continua di nuovi titoli sfornati da piccoli editori. Loro mi ascoltano, si mostrano interessati e poi mi dicono che non conoscono niente di quello che ho citato e che devono rientrare in biblioteca a finire il saggio di Asor Rosa per l’esame della prof. Z.

Giorni dopo chiedo se hanno comprato quel libro di Wojtek edizioni , se hanno fatto un giro su Nazione Indiana o Super Tramps Club, se scrivono racconti, se vogliono pubblicarli. Loro mi guardano alienati, spenti, lontani; poi mi dicono non ancora, non ho avuto tempo, sono giorni così, magari domani, e tornano dentro.

Stanco del pendolarismo ho scelto un’altra città, al nord. Tra qualche mese vado, senza sapere se continuare gli studi o trovare qualcosa che mi permetta la spesa fissa di affitto e libri. Avverto la transizione, ancora una volta, unicamente mia. Percepisco la bolla, ancora una volta, asfissiante. Non ho mai scelto così lucidamente.

[1] Liberi da qualunque idea o ideologia, dati alla mano, proseguiamo oggettivamente: per laurearsi in triennale occorrono 180 CFU, considerando gli esami da 12 CFU come due esami da 6 CFU, togliendo abilità informatiche 2 cfu, altre conoscenze utili 4 cfu, lingua straniera 4 cfu, tesi 8 cfu,  rimangono 162 cfu. Toglierli non significa non prepararli e non studiarli anzi, abilità informatiche è un corso da seguire con conseguimento di prova finale, spesso progettazione di un sito web, altre conoscenze utili è a discrezione dello studente: chi segue 8 seminari con relazione da 40.000 battute, chi segue un corso con esame finale, chi si rivolge ad aziende esterne per svolgere, di fatto, uno stage, solitamente non retribuito e indifferente agli orari delle lezioni in corso; lingua straniera, ripassare la grammatica di livello B2. Tesi: bibliografia da studiare, più scrivere almeno 80 pagine. Quindi, i cfu tolti sono solo per essere precisi, 162 abbiamo detto; 162÷3=54, ovvero il numero di cfu da raggiungere in un anno. Ora, sempre perché la matematica non è un opinione, arrivare a 54 cfu in un anno significa dare 9 esami. Quindi cinque alla sessione invernale e quattro a quella estiva, o viceversa; o giocarsela con la sessione di settembre. Potremmo anche riflettere perché l’università Sapienza apra solo tre sessioni all’anno, magari ci penseremo altrove. Caso strettamente individuato nel corso di Laurea in Lettere moderne, presso l’università Sapienza di Roma. Già a Bologna è diverso

Foto di Nino Souza Nino da Pixabay

Lancillotto fu uno dei suoi cavalieri

3

di Gianluca Valenti

Nel momento in cui aprì la porta notò un aereo venirgli incontro alla massima velocità. Con un gesto istintivo lo afferrò e disse, simulando la voce metallica di un ipotetico robot parlante: «Oggetto volante individuato, nemico abbattuto».
«Noooo!» udì dall’altro lato del salotto. «Lascialo papà, così me lo rompi».
Non fece in tempo a rispondere che sentì una voce domandargli: «Posso dormire domani da Sara? Mamma ha detto che per lei va bene, se va bene anche per te».
«Chi è Sara? Ahi! Luca, mi fai male».
«Me l’hai rovinato!» piagnucolò Luca strappandogli l’aereo di carta dalle mani.
«Tipregotipregotiprego… Se mamma è d’accordo vuol dire che non c’è niente di male, no?»«Non è questione se ci sia o meno qualcosa di male, però—»
«Ti sei ricordato il latte?» gli chiese la donna venendogli incontro trafelata mentre dalla cucina si udiva il pianto di un neonato. «Dimmi che ti sei ricordato, mi sta facendo impazzire».
«Sì, certo, dovrei averlo qui» rispose lui chinando la testa sulle buste della spesa e pregando il dio in cui non credeva di fargli trovare lì dentro una scatola di latte in polvere.
«Mamma, convincilo tu! Papà non mi vuole fare uscire».
«Non ho mai detto che—»
«Non ora, Marta. Oh, finalmente!» esclamò la donna vedendo un contenitore metallico bianco e azzurro apparire dal fondo dell’ultima busta. Lo agguantò e scappò via, in direzione della stanza da cui era venuta.
La ragazzina continuava a guardare il padre nella speranza di un suo cenno di assenso. Lui si voltò verso la moglie e, mentre quest’ultima spariva dietro la porta della cucina, le gridò: «Lo sai, vero, qual è il problema? Ne abbiamo discusso ottocento volte».
«Non ora!» urlò lei di rimando.
«Posso? Per favooore» insistette Marta, decisa a non dargli tregua.
«Basta, cazzo. Non so se ti sei accorta che non mi sono ancora tolto la giacca. Adesso ci penso e stasera a tavola ti do una risposta».
Per quanto delusa, Marta biascicò una specie di «Va bene» prima di allontanarsi docile, ritenendo che una strategia attendista avrebbe aumentato le sue possibilità di ottenere un responso favorevole.
Pietro posò la giacca sulla poltrona all’ingresso e si avviò verso la cucina per sistemare negli appositi ripiani il resto della spesa.
«Corre più veloce un ghepardo o una gazzella?» chiese Luca.
«Beh dipende» rispose l’uomo, che fin dalla nascita di Marta si era ripromesso di non dare mai, ai suoi figli, risposte dogmatiche o semplicistiche. «Il ghepardo raggiunge velocità più elevate, però non riesce a mantenerle per molto tempo. La gazzella invece—»
«Quindi il ghepardo?»
«No! Ti sto spiegando che non è così semplice: un conto è la velocità massima che un animale può raggiungere, e un conto è quanto tempo è in grado di—»
«Ok ok, ma chi corre più veloce?»
Dopo qualche secondo di silenzio «Il ghepardo» rispose sconsolato Pietro, sperando di soddisfare la curiosità del figlio e riuscire a levarselo di torno.
«Ma allora come fanno le gazzelle a non farsi prendere? A scuola ci hanno mostrato un documentario dove—»
«Te lo stavo spiegando, ma non mi hai dato il tempo». Poi, voltandosi verso la sua destra e vedendo la moglie avvicinarsi, ne approfittò per chiedere: «Giovanna, hai visto per caso—»
«Non ora» lo interruppe lei, sparendo dietro la porta del bagno con, in braccio, il bambino che continuava a strillare e a divincolarsi.
Erano passati quattro giorni da quando aveva comprato la sua prima copia de “La settimana enigmistica”, eppure non aveva avuto ancora il tempo di completare un singolo cruciverba. Non avrebbe potuto dire perché avesse deciso proprio ora, a quarant’anni suonati, di consacrarsi a un passatempo che, in fondo, non gli era mai piaciuto. Non è, del resto, che avesse dedicato così tanto tempo a riflettere alle motivazioni psicologiche dietro il suo recente acquisto, ma se lo avesse fatto sarebbe forse giunto alla conclusione che quello era stato un suo tentativo di ribellarsi al mondo, una personale sfida all’esistenza cronofagica che lo avviluppava ogni giorno con i suoi tentacoli fatti di bollette, responsabilità, tasse, scadenze e ostentazioni di irreprensibili modelli comportamentali che un qualche tipo di legge morale autoindotta lo obbligava a trasmettere ai propri figli.
Dopo avere suddiviso e organizzato in base al luogo di conservazione i differenti prodotti della spesa, Pietro si voltò verso la rivista che giaceva malinconica su una mensola e, già rassegnatosi a quanto temeva che sarebbe successo di lì a poco, la prese in mano.
Uno verticale, quattro lettere, “è famoso per il ceviche”. L’inizio non prometteva bene, non aveva idea di quale fosse la risposta.
Dodici orizzontale, otto lettere, “Il fiume varcato da Cesare”. Questa definizione era invece alla sua portata, si ricordava a grandi linee la frase sul dado ed era quasi sicuro che fosse stata pronunciata proprio da Giulio Cesare dopo aver passato il fiume, quel fiume, mentre marciava su Roma. Ma di quale fiume si trattava? Indovinarlo gli avrebbe fornito un aiuto anche per l’altra definizione, poiché la prima lettera di questa parola incrociava la terza dell’altra. Ma non gli veniva in mente.
«Ho un’altra domanda» disse Luca irrompendo in cucina. «Tra Lancillotto e Galvano chi è il più forte?»
«Tra chi e chi?»
«Lancillotto!» urlò la donna dal bagno, in risposta al figlio.
«Anche a mezzogiorno?» si intestardì il ragazzo.
«Che si mangia stasera?» chiese Marta aprendo il frigorifero. Pietro fece in tempo a osservare una macchia nera che spuntava dalla scollatura della sua maglietta. «Cos’è quello?»
Marta si affrettò a nascondere la macchia. «Cosa? Niente, niente».
«Mammaaaa! Anche a mezzogiorno?» ripeté Luca con voce più squillante.
«Non pensare di cavartela così: vieni qui signorina, fammi vedere».
«Uff, a pa’, quanto sei bigotto!»
Giovanna rientrò in cucina e si liberò le mani lasciando il biberon vuoto dentro il lavandino e il bambino tra le braccia di Pietro. «A mezzogiorno forse è più forte Galvano, ma solo a mezzogiorno, quando è all’apice delle sue energie». Le dava gioia il fatto che Luca – a differenza di Marta e Pietro – si interessasse alla letteratura, e che già all’età di sei anni conoscesse Omero, Dante, Moby Dick e i poemi arturiani.
«Nostro figlio diventerà un nerd emarginato» l’aveva rimproverata una volta Pietro. «Andrà in giro a fingere di salvare damigelle mentre i suoi compagni di scuola si scambiano figurine di calcio. Citerà versi in latino mentre verrà pestato dai bulli della scuola». Lei era rimasta in silenzio, ma quell’immagine di un bambino che si disinteressava allo sport per giocare a sconfiggere i cavalieri della Dolorosa Guardia l’aveva riempita segretamente di orgoglio.
«Marta ha un tatuaggio? Tu ne sapevi qualcosa?» chiese lui, già conoscendo la risposta.
«Ha chiesto il permesso a me» disse Giovanna con noncuranza aprendo e chiudendo gli sportelli del ripiano alto.
«E tra Galvano e Keu?»
«Come ti è venuto in mente» sbottò Pietro, «di non dirmi niente? Questa fa il paio con la questione della notte fuori, tu li lasci liberi di fare quello che vogliono e poi sono sempre io che devo recitare la parte del poliziotto cattivo».
«Non è che devi farlo; il fatto è che… beh, un po’ lo sei» rispose la donna, infastidita da quella critica a suo dire ingiusta. «Vuoi sempre fare l’amicone dei tuoi figli ma la verità è che vuoi tenere tutti in gabbia, non li lasci mai liberi di esprimersi».
Lei si fermò, nell’attesa di una replica che non arrivava: Pietro era stato distratto da un suono, una rima, un’assonanza e aveva perso il filo del discorso. Così Giovanna ebbe il tempo di voltarsi verso Luca e dire: «Keu è scarsissimo, non ha senso metterlo a paragone con Galvano».
Un’intuizione passò per la testa di Pietro, veloce come una meteora: “Rubicone!” pensò soddisfatto. Poi, con la mente di nuovo sgombra, riprese la conversazione, poggiando con delicatezza il bambino dentro una sdraietta a dondolo lì vicina che – notò l’uomo di sfuggita – si trovava come al solito fuori posto: «Non ho niente contro i tatuaggi, ma vorrei essere avvertito, prima che si prendessero certe decisioni».
«Non hai niente contro questo e quello, però poi oggi per esempio Marta ti ha chiesto di andare a dormire da un’amica e tu subito ti sei agitato: guarda che tua figlia è grande, ha nove anni! Quanto ancora la vuoi tenere chiusa in casa?»
«Ma io non voglio tenere proprio nessuno chiuso in casa!» urlò lui, spossato, prendendo al contempo in mano le parole crociate.
«Quindi posso andare da Sara?» chiese Marta, approfittando di quel momento di caos.
Pietro non le rispose ma aprì la rivista e si mise a scrivere con bella grafia, una dopo l’altra, le lettere – r, u, b, i, c, o, n, e – che andarono formando la prima definizione azzeccata della sua vita. Pur riconoscendo che quello dell’enigmistica era un piacere infantile, non poté fare a meno di sentirsi fiero del piccolo risultato appena conseguito.
«Papà!» urlò lei, distraendolo dai suoi pensieri.
«Ma vai un po’ dove cazzo ti pare» rispose lui infastidito da quelle continue interruzioni.
«Pietro! Niente parolacce».
«E’ mai possibile che un povero Cristo non riesca a trovare nemmeno un secondo per scrivere otto lettere, otto cazzo» ripeté guardando la moglie in tono di sfida «di lettere?»
«Sei serio? Stai facendo tutto questo casino perché non ti lasciamo fare le parole crociate? Ma ti sei accorto invece che tuo figlio piange da cinque minuti? Il principino però deve fare le parole crociate, non può mica perdere tempo a tenerti in braccio cinque cazzo di minuti» sbraitò Giovanna solo apparentemente rivolta al neonato.
«Cosa si mangia stasera?» domandò Luca.
«L’ho chiesto anch’io ma i nostri genitori sono troppo impegnati a litigare per perdere tempo a nutrirci» disse polemica Marta.
«Pesce e verdura» rispose Pietro proprio mentre «Pasta» rispondeva Giovanna.

 

La telefonata arrivò il giorno dopo, appena arrivato in ufficio; lo colpì in volto come una frustata e lo lasciò stordito per il resto della sua vita.
«Pietro Massone?»
«Sono io, chi parla?»
«Mi chiamo Ernesto Levi, primario del reparto di terapia intensiva del policlinico Gemelli».
Con un riflesso automatico Pietro si alzò di scatto in piedi. Cercò di mantenere un tono neutro mentre diceva: «La ascolto».
Si percepiva, dall’altro lato del telefono, un evidente senso di disagio. Le pause, i tentennamenti, le esitazioni del primario Ernesto Levi non lasciavano presagire niente di buono, ma ancora il senso di quella chiamata rimaneva opaco. «La pioggia… il camion non ha frenato in tempo… un terribile incidente…»
«Non sto capendo niente di quello che dice: mi spieghi chiaramente cos’è successo» si ritrovò infine a pronunciare Pietro senza quasi rendersi conto dell’inflessione aggressiva che aveva appena assunto la sua voce.
Il primario inspirò e disse tutto d’un fiato: «Sono costernato nel doverle comunicare che stamattina, verso le ore 8:20, la macchina in cui viaggiavano sua moglie e i suoi tre figli è rimasta coinvolta in un grave incidente in via della Camilluccia».
«Come stanno?» quasi urlò Pietro, tanto che i suoi colleghi si fermarono a osservarlo.
«Sono stati portati subito qui, al Gemelli, ma non c’è stato niente da fare, mi dispiace davvero moltissimo».
«Mi faccia parlare con mia moglie» chiese Pietro con voce rotta. L’uomo, il primario, attese qualche secondo prima di rispondere. «Sua moglie è disgraziatamente deceduta alle 08:45 di stamattina, mentre si trovava sull’ambulanza».
Eleonora, una collega di Pietro con cui un paio di anni prima lui aveva avuto una breve storia extraconiugale, gli si avvicinò e gli cinse le spalle con un braccio. Pietro non si avvide della sua presenza ma, con l’ultimo filo di voce che gli restava, riuscì a malapena a domandare: «E i miei figli?»
«Non hanno avuto sorte migliore, mi dispiace moltissimo. Il piccolo e la grande sono mancati sul colpo, senza soffrire, se questo può esserle di un minimo di conforto. Quando l’ambulanza è giunta sul posto i medici hanno subito notato che l’altro ragazzo respirava ancora e lo hanno immediatamente portato al policlinico, ma anche lui è deceduto nel tragitto, poco prima di giungere in ospedale».
«Luca…» sussurrò Pietro.
«So che è un momento tragico, ma abbiamo bisogno della sua presenza per firmare dei documenti e per… altre procedure burocratiche» concluse dopo una breve pausa il dottor Levi, nel medesimo istante in cui Pietro si lasciò cadere a terra, in ginocchio, con la mente offuscata dall’arrivo di milioni di orribili fantasmi che vennero a mangiargli le ossa, le viscere, il cuore.

Non appena Pietro terminò di parlare con il primario, Eleonora si avventò su di lui per preservarlo – non tanto dalla caduta, che non si sarebbe potuta evitare – perlomeno dalla completa disfatta corporale, dal totale annichilimento dei sensi. Prima ancora che Pietro capisse cos’era successo si vide attorniato da colleghi, amici e, dopo un tempo che non seppe quantificare, pure dal direttore dell’azienda farmaceutica per la quale lavorava.
«è una notizia terribile, si prenda di riposo tutti i giorni di cui ha bisogno, ci mancherebbe».
«Devo finire il report…» balbettò Pietro in uno stato di semi incoscienza.
«Non si preoccupi, non si preoccupi, lo farò terminare a Federica. Ecco, si sieda qui piuttosto».
«Direttore, posso prendermi il pomeriggio libero per accompagnarlo a casa?» chiese Eleonora interponendosi in una pausa nel dialogo tra i due uomini.
«Certo, certo, mi sembra anche questa un’ottima idea» rispose il direttore, trovando così conferma ai suoi antichi sospetti che le relazioni tra i due si ramificassero ben al di là degli apparenti confini professionali.
I giorni seguenti furono caratterizzati da un enorme intrico di emozioni, richieste, persone, domande, abbracci, decisioni, telefonate, soldi e sguardi compassionevoli. Quelle ore Pietro le visse come in un sogno, contornato da figure eteree che andavano e venivano e apparivano e sparivano dicendogli cose che non udiva, senza che nulla di tutto ciò che accadeva nel mondo tangibile delle cose arrivasse davvero a scalfire l’impenetrabile corteccia di ghiaccio che era improvvisamente apparsa a ricoprire la sua anima.
Arrivò sua sorella Irene che, avvisata dalla stessa Eleonora, prese il primo treno disponibile. In seguito si materializzarono i suoi genitori e – in una sequenza cronologica che non gli fu possibile stabilire con certezza – passarono a trovarlo amici, familiari, amici di amici, conoscenti e semi sconosciuti che in modo del tutto casuale facevano o avevano in passato fatto parte, da vicino o da lontano, della sua vita.
Mentre Pietro sedeva attonito sul divano, attorniato da un indecifrabile andirivieni di persone che gli parlavano e forse si aspettavano sue reazioni in risposta, vide le parole crociate di cui la sera precedente era riuscito a trovare un’unica definizione. Con un gesto lento ma risoluto afferrò la rivista e ne sfogliò delicatamente le pagine fino a ritrovarsi di fronte al noto cruciverba.
Nove orizzontale, quattro lettere, “La prima si paga al momento dell’acquisto”. Pietro non ebbe nemmeno il tempo di formulare nella propria testa il concetto di “rata” che fu stretto in una morsa composta da due abbracci simultanei da parte delle sue cugine Flavia e Caterina le quali, piangendo a dirotto, continuavano a ripetere che era terribile, una disgrazia senza pari, e che non vi era alcuna vergogna nel dare sfogo a tutta la rabbia e al dolore che, erano certe, lui stava in quel preciso momento sperimentando.
Irene si avvicinò titubante al terzetto ancora avviluppato. «Sticcio» cominciò, chiamandolo con il soprannome che gli aveva affettuosamente attribuito quando erano bambini, «so che non è semplice ma… c’è qui il rappresentante dell’agenzia funebre, vorrebbe parlare con te». E, vedendo che suo fratello non diceva nulla, si affettò ad aggiungere: «Posso sempre dirgli di ritornare più tardi, se preferisci».
Prima che Pietro avesse il tempo di rispondere, l’uomo si sentì autorizzato a procedere, elegante ma sobrio, verso di lui. Quando gli si trovò di fronte disse con un garbo accuratamente calcolato: «So che è orribile dover pensare a certe cose in tali frangenti, ma avrei bisogno della sua approvazione per una serie di disposizioni pratiche. Signor Massone, se la sentirebbe di dedicarmi dieci minuti del suo tempo?»
Benché impercettibile, il gesto di assenso dell’interlocutore diede l’avvio alla procedura. Così Pietro passò i successivi quaranta minuti a discutere di bare, tipologie di legno, fiori e urne cinerarie, e furono quaranta minuti in cui – come se non bastasse – ogni singola decisione era accompagnata da un’accurata traduzione in euro. Né lui né sua moglie erano mai stati ricchi, ma solo in quel momento si rese conto che quattro funerali erano una spesa che non si poteva permettere di affrontare. Tuttavia continuava a non capire niente di quanto gli veniva detto, per cui acconsentì a tutte le soluzioni che l’uomo in giacca e camicia gli propose.
La sera lo colse impreparato. La maggior parte delle persone che erano passate a fargli visita uscirono insieme, di colpo, quasi come se si fossero messe d’accordo con un semplice gesto d’intesa che non prevedeva interazioni verbali. Irene invece restò a casa, proprio come gli aveva promesso, e gli preparò con amorevole dedizione una cena a base di pasta alle vongole e straccetti di carne di cui Pietro a malapena riuscì a mandare giù un paio di bocconi.
Mentre la donna sparecchiava, lui si alzò con discrezione per avviarsi verso il divano. Il telefono squillò proprio mentre si accingeva a vergare in lettere stampatelle la seconda parola che andava a comporre il suo cruciverba, rata, parola che gli era balenata in mente durante un racconto di mutui a tasso variabile che sua sorella gli aveva narrato durante la cena.
«Ciao mamma, che c’è ancora? Ci siamo salutati due ore fa» disse Pietro rispondendo al telefono.
«Volevo essere sicura che stavi bene. Stai bene, vero?»
«Sì, non ti preoccupare. E poi c’è Irene qui con me».
«Questo mi rassicura. Ti ha preparato la cena? Cosa avete mangiato?»
«Pasta al sugo e hamburger» rispose lui di getto, affinché la madre non sospettasse che il figlio, di quanto avevano mangiato a cena, non ricordava assolutamente nulla.
«Ti ho lasciato nel frigo una torta. Non l’ho fatta io, non ho avuto tempo, ma l’ho comprata alla pasticceria sotto casa vostra, quella vicina al fioraio, che piace tanto a… cioè, volevo dire…»
«Ho capito di quale pasticceria parli» tagliò corto lui per toglierla dall’imbarazzo. «Va bene, grazie, domani a colazione la mangeremo. Ora vorrei andare a riposarmi».
«Certo, fai benissimo. Dormi bene, lo so che non è facile ma devi provarci, mi prometti che ci proverai?»
«Lo prometto. Ciao, ma’» disse, e attaccò.
«Chi era?» urlò Irene dalla cucina mentre finiva di lavare i piatti.
«Niente, niente. Era mamma, voleva sapere come stavo».
«Le hai detto che, poco dopo che è andata via, è passato anche zio Felice?»
«Mi sono dimenticato».
«Dovresti richiamarla. Penso che le farebbe piacere saperlo».
«Diglielo tu, se vuoi» rispose lui stanco. Proprio in quell’istante suonò il citofono e Pietro, ancora prima di aprire la porta, si sentì schiacciato dal peso delle relazioni sociali che lo stritolavano, lo disossavano e non gli davano modo di respirare.
«Lucio, grazie di essere passato» disse meccanicamente.
Altre mani, altre braccia lo cinsero con affetto e compunzione. «è una tragedia, dio, come farai, Pietro, ad affrontare i prossimi giorni?»
«Ciao Lucio» disse fredda Irene entrando in salotto.
«Irene, anche tu sei qui?» chiese Lucio ancora più freddo, ritraendosi di un passo verso la porta. «Cioè, certo che sei qui, scusami. Solo, non mi aspettavo di trovarti a quest’ora».
«In effetti è tardi per le visite» rispose lei con un tono di voce che in pochi secondi era passato dal freddo al gelido.
Lucio ignorò la frase polemica e restò altri minuti, quanto bastò affinché i due si dimenticassero del motivo della loro presenza in quella casa e prendessero a battibeccare come ai vecchi tempi, come negli ultimi anni del loro matrimonio. Pietro non se ne dispiacque, ma sfruttò gli antichi rancori per prendere le parole crociate e sgattaiolare in camera.
Chiuse la porta, si stese sul letto e lesse un’ulteriore definizione – tre verticale, undici lettere, “Un monaco di Montecassino” – prima di farsi prendere dai sensi di colpa. Era giunto il momento che aveva posticipato per tutta la giornata, ma adesso non poteva più rinviare. Si fece forza e accese il telefono, aprì whatsapp e iniziò a rispondere alle decine di messaggi che gli erano arrivati, alcuni convenzionali altri personali, alcuni insulsi altri commoventi, alcuni lunghi altri incredibilmente brevi, nulla più di un “ti penso”, “ti mando un grandissimo abbraccio”, persino un messaggio composto solo da un cuore che batteva, a indicare che in fondo non esistevano parole per descrivere ciò che era successo.
Quando ormai aveva risposto a circa tre quarti dei messaggi, ancora vestito, con la luce accesa e il cruciverba appoggiato sulle ginocchia, si addormentò.

 

Il funerale era stato fissato al sabato, la camera ardente giovedì e venerdì pomeriggio. Il giorno seguente era dunque teoricamente libero da impegni sociali. «Non so davvero cosa dire, non ci sono parole quando accadono disgrazie come questa» commentò Elisa introducendosi in casa sua alle nove di mattina con una teglia di cannelloni.
Si sistemarono in salotto a parlare e per fortuna di lì a poco giunse Irene che, lanciando un’occhiataccia al fratello che, per quanto addolorato, era comunque tenuto a rispettare i protocolli minimi del vivere civile, chiese subito: «Cara, vuoi un caffè?»
“Un caffè” ripeté nella sua testa Pietro poi, mentre Elisa consolava Irene che nel frattempo si era messa a piangere, fu come se la sua anima si staccasse dal corpo e iniziasse a librarsi al centro della stanza: vide sé stesso seduto sulla poltrona con una tazza in mano – vuota? piena? non riuscì a capirlo, le anime vedono tutto un po’ sfocato – che ticchettava con le dita sul tavolino. Vide frammenti della sua vita passata che si sovrapponevano a immagini della sua vita futura perché, quando non sono incastonate nella materia, le anime possono raggiungere velocità molto più elevate di quella della luce e andare avanti e indietro nel tempo. «Avrai bisogno di un aiuto in questi giorni, chiamami, sono a disposizione per qualsiasi cosa». Pietro non rispose, per cui Elisa insistette: «Dico davvero! Non ti fare scrupoli».
«Grazie, sei molto gentile» si limitò a dire lui, il cui soffio vitale era stato bruscamente richiamato all’interno del proprio involucro corporeo.
Suonò il telefono, arrivò un messaggio, citofonarono alla porta. Non aveva avuto ancora il tempo di farsi una doccia ma non era un problema, perché tutti quelli che venivano a trovarlo trovavano perfettamente comprensibile che non si fosse lavato e che li ricevesse in pigiama, povero, dopo quella terribile disgrazia. A mezzogiorno arrivò di nuovo il rappresentante dell’agenzia funebre, avevano fissato un appuntamento, Pietro non se ne ricordava?
No, Pietro non se ne ricordava.
«Ci mancherebbe, nella sua situazione ha tutto il diritto di dimenticarsi di segnare gli appuntamenti in agenda» rispose l’uomo tirando fuori un documento, poi un altro, poi un altro ancora, poi così tanti fogli che la stanza cominciò a riempirsi di carta fino al punto in cui Pietro quasi soffocò sotto il peso di un’infinita burocrazia asettica e inadeguata a rispettare il dolore vero, profondo che si cela negli abissi più remoti dell’essere umano. «Una firma qui e – sempre se è d’accordo con la proposta – una firma anche qui, prego».
Irene, Elisa, Lucio.
Eleonora e il Direttore.
Il dottor Levi, il dottor Levi, Ernesto Levi, primario del reparto di terapia intensiva del policlinico Gemelli.
Pietro accese la televisione, tramortito dalla mole di persone che si sentivano in dovere di esigere una porzione della sua più intima sofferenza. Al telegiornale si parlava di politica ma lui non riuscì a seguire il filo del discorso, colse solo le parole Luca, incidente, camion, Camilluccia, nulla da fare. Nulla da fare. Marta, Giovanna. Tra Lancillotto e Galvano chi è il più forte?
E tra Lancillotto e Keu?
«Mamma, che ci fai qui?» chiese Irene. «Non avevamo detto che—»
“Ieri Marta sarebbe dovuta andare a dormire dalla sua amica!” balenò all’improvviso nella mente di Pietro. “Qualcuno l’avrà avvisata? Qualcuno le avrà detto quello che è successo? Spero che non avrà passato tutta la sera ad aspettarla invano”.
«Oh, figlia mia, non credere che per me sia facile! Perdere così una nuora e soprattutto tre nipoti, tre! Di colpo, senza alcun preavviso» singhiozzò la mamma scoppiando in lacrime. Irene la avvolse in un tenero abbraccio mentre Pietro le osservava da lontano, distaccato, e intanto stringeva la mano a tutta la gente che entrava all’interno della camera ardente – è già giovedì? com’è successo che siamo già a giovedì? dov’è finita mamma? – vestita con abiti di differenti tonalità di blu, marrone, grigio e anche, a volte, bianco. Ma mai colori sgargianti. Sfumature di giallo, rosso, verde e arancione erano bandite, in occasioni come quella.
Le quattro bare – una grande, due intermedie e una piccolissima, come il mignolo di un bambino – troneggiavano al centro della camera.
Pietro era ossessionato dalla definizione che aveva letto poco prima di uscire di casa, sette orizzontale, sette lettere, “Il regista de Il labirinto del fauno”, si ricordava benissimo il film, lo aveva visto forse anche due volte, «Grazie, davvero, grazie, mi fa piacere che siate venuti» e soprattutto ormai era una questione di principio, com’era possibile che nemmeno adesso che tutto il suo passato, tutti i suoi affetti erano svaniti in una bolla di sapone, nemmeno ora lui avesse il tempo di completare un cazzo di cruciverba?
«A Prima Porta, sì. No, credo che al Verano non ci sia più posto da vent’anni, infatti».
Aveva come una vaga sensazione di avere fatto progressi negli ultimi due giorni ma non ne era sicuro, non era più sicuro di niente, gli sembrava di aver trovato alcune soluzioni facili, “Un uomo che non si è sposato”, celibe, lo sapevano tutti; “Una parte della capitale ungherese”, o Buda o Pest, non vi erano alternative, ma la seconda lettera era una e. «Arrivederci, mi ha fatto molto piacere, certo, ci vediamo sabato»; “Case signorili plurifamiliari”, palazzine, questa l’aveva capita solo incrociandola con un altro paio di definizioni già indovinate.
La madre gli prese la mano. «Guarda chi è venuto, Giovanna non gli parlava da dieci anni, con che coraggio si presenta qui?»
Iñárritu! Eccolo, il regista il cui nome gli sfuggiva, sette lettere, sì, era lui. Appena sarebbe rientrato a casa lo avrebbe subito annotato, «è dura, sì, ma ho molta gente che mi sta accanto, per fortuna sono circondato da persone che mi vogliono bene».
«Una vera fortuna».
«Un regalo del cielo».
«Ci vediamo domani».
«Come ‘domani’? No, ti sbagli, la cerimonia è sabato. Cosa? Domani è già sabato? Come dici? Oggi è venerdì? Ah, certo, è venerdì, che sciocco. Ci vediamo domani allora».
In effetti stavolta gli invitati erano tutti vestiti di nero, e piccoli demoni dell’inferno volavano sulle loro teste come macabri avvoltoi, per cui doveva effettivamente essere arrivato il giorno del funerale. Gli spiritelli malefici saltavano da una spalla all’altra come scimmie invasate a cui non erano state impartite le buone maniere, quando il sacerdote fece il suo ingresso ed essi sparirono veloci come erano arrivati.
Non era Iñárritu perché la terza lettera doveva essere una l. Allora chi era il misterioso regista? Non poteva controllare su internet, non sarebbe stato deontologico, né poteva chiedere in giro, a chi avrebbe potuto porre una domanda del genere, in chiesa, in un tale momento? Sua sorella gli appoggiò la testa sulla spalla, lui le passò una mano tra i lunghi capelli neri simulando una sorta di carezza, si sentivano nasi smocciolare dentro fazzoletti di stoffa e occhi lacrimare dentro fazzoletti di cotone.
Guillermo del Toro, e che cazzo, finalmente.
Senza farsi vedere tirò fuori dalla tasca la rivista che, dopo un istante di indecisione, quella mattina aveva preso con sé e con aria disinvolta gravò, una dopo l’altra, le sette lettere del cognome, senza bisogno di lasciare spazi bianchi perché nei cruciverba, aveva scoperto da poco e per via empirica, gli spazi non contano.
Nessuno lo vide, forse.
O se qualcuno lo vide, non disse nulla, il che fu per lui sufficiente.
O forse solo credette di prendere la rivista e scriverci sopra un nome, ma non lo fece, non fece nulla da quando quel giorno aveva ricevuto una telefonata.
Il prete alzò l’ostia al cielo e il pane divenne il corpo di Cristo mentre diavoli sempre più inferociti si contorcevano e si dimenavano strappandosi la pelle a morsi per il dolore immenso che provavano alla vista del dio che li aveva relegati giù nell’inferno, una donna si accostò a lui e gli confidò di essere Anna Maria, la collega di Giovanna di cui probabilmente Pietro aveva già sentito parlare, lui disse di sì e accettò le condoglianze, indeciso su come proseguire la conversazione, poi si voltò e vide – non se ne era reso conto fino a quel momento – la chiesa gremita di bambini di ogni sesso e età, ma soprattutto di sei e nove anni, un accumulo di seenni e novenni spropositato per un luogo come quello, forse la loro presenza – pensò – era l’unico motivo per cui i demoni erano rimasti in un angolo, spaventati da tanta purezza, e non erano scesi a mangiarselo vivo, partendo dai capelli e rosicchiando via via la testa, il cervello, la lingua, l’esofago, i polmoni, il cuore, l’intestino e il fegato, fino a farne ossa, cenere, polvere, morte.
L’auto nera lo trasportò al cimitero nero dove nere persone gli dissero parole nere che non udì, Irene era costernata, «Sei sicuro?» gli chiese, «Certo» rispose lui senza sapere a cosa lei alludesse, «Sono costernata, Matteo si è sentito male e devo rientrare a Milano», «Starò bene», «Davvero?», «Davvero».
Davvero.
«Se hai bisogno chiamami, va bene?»
«Va bene».
Non va bene per un cazzo, non va bene.
Per un cazzo.
Il sole stava terminando la sua parabola discendente quando l’ultimo degli invitati – un uomo di cui stranamente non aveva mai sentito parlare – lasciò il cimitero e lui si ritrovò insieme a Francesco che gli aveva promesso che lo avrebbe riaccompagnato a casa.
«Vuoi stare qualche minuto da solo?» gli chiese con tatto.
«No, andiamo».
Pietro salutò Francesco con insistenza davanti alla porta di casa. L’amico voleva entrare ma lui era ormai arrivato al limite estremo della sua capacità di sopportazione: la gente le lacrime il rumore il pianto l’empatia, tutto lo irritava fino al parossismo.
Chiuse la porta alle sue spalle, era dentro. E il mondo era fuori.
La casa era, per la prima volta da cinque giorni – per la prima volta da nove anni – silenziosa, quieta, immobile.
Non una voce venne a disturbarlo mentre si toglieva la giacca e la posava con ostentata lentezza sopra l’appendiabiti.
Non un aereo venne a bombardarlo.
Era solo, finalmente e disperatamente solo.
Si avviò verso il divano, si sedette e prese la copia de “La settimana enigmistica” di cui era quasi riuscito a completare un intero cruciverba.
Aprì la rivista e – teso l’orecchio, invano, per sentire se qualcuno lo chiamava, se qualcuno aveva bisogno di lui – posò lo sguardo su una delle ultime definizioni rimaste incomplete. Quattro verticale, sei lettere, finisce con tu.
Restò ancora qualche secondo con gli occhi fissi sulla pagina in completo silenzio, prima di esplodere all’improvviso in un pianto inarrestabile, inesprimibile, inconsolabile.

(L’immagine è opera di Ana Estrada)

Nel nome del padre, del figlio e dell’umorismo

1

di Corrado Passi

Nel nome del padre, del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante, il saggio di Emanuele Pettener pubblicato nel 2023 da Oligo Editore, è un libro a più dimensioni, un bassorilievo scolpito da una luce intensa, californiana, che ne pone in risalto le numerose sfaccettature e ne modella il gioco di chiaroscuri. Pettener, romanziere e docente di Lingua e Letteratura Italiana alla Florida Atlantic University, USA, indaga criticamente gli aspetti peculiari – alcuni dei quali inesplorati o fraintesi dalla critica ufficiale – di un autore rimasto per troppo tempo nell’ombra e i cui meriti sono quasi del tutto postumi.

John Fante, nato a Denver, Colorado, nel 1909, figlio di un muratore abruzzese e di una casalinga americana di origini lucane, iniziò a pubblicare negli anni Trenta; per quasi cinquant’anni, in America, le sue opere furono guardate con diffidenza e solo negli anni Ottanta, soprattutto in Europa, iniziò a crescere l’attenzione del pubblico e della critica verso la sua vasta produzione letteraria che include generi quali il romanzo, il racconto e la sceneggiatura cinematografica.

L’umorismo, evocato nel titolo del saggio, è per Pettener il dispositivo narrativo centrale nella produzione di John Fante. L’autore si riferisce all’umorismo di pirandelliana memoria, distinto dall’ironia in quanto basato su quel “sentimento del contrario”, avvertito sia dallo scrittore sia dall’autore, che sottolinea la bipolarità della vita, la sua relatività; l’ironia, al contrario, implica un inganno, è una figura retorica che sottende una contraddizione fittizia tra ciò che si dice e ciò che il lettore deve intendere. L’analisi relativa all’umorismo viene approntata da Pettener considerando le scelte lessicali di Fante, le sfumature del testo, le ambiguità narrative. «In un lavoro umoristico sorriso e amarezza sono quasi simultanei, mentre in un’opera ironica o satirica sono sempre separati: si ride o si piange…», si legge nel saggio (p.33). Si tratta di un umorismo genuino, insito nella scrittura di Fante, connaturato ad essa: egli, come spiega Pettener, si sofferma sulla realtà non per giudicarla né per ritrarsi, sdegnato; suo intento è cogliere l’intrinseca contraddizione dell’esistenza, la sua incoerenza, e narrare con spontaneità e freschezza, generando riso e amarezza insieme, inducendo nel lettore sentimenti diversi, contrari.

Questa tensione dialettica, uno degli elementi portanti di tutta la produzione letteraria di Fante – fatta eccezione per Full of life, pubblicato nel 1952, suo unico successo editoriale e considerato dalla maggior parte della critica il suo peggior romanzo –, si alimenta attingendo ad alcuni topoi onnipresenti nelle sue opere: l’ambiguità, l’incongruenza, il ridicolo. Pettener compie un’operazione precisa e dettagliata che si articola in modo duplice: analizzando in modo comparativo le teorie di alcuni suoi colleghi, critici americani (Fred Gardaphé, Anthony J. Tamburri), e concentrando l’attenzione sulle caratteristiche antropologiche dei personaggi. Fante, nonostante sia nato in America, è sempre stato considerato, soprattutto negli USA, uno scrittore italoamericano, e questo aspetto ha notevolmente influenzato, in senso negativo, l’atteggiamento della critica statunitense. Ma l’italianità dei personaggi di Fante e gli stereotipi etnici ad essa collegati – l’ingenuità, il desiderio di affermarsi socialmente, il senso di inferiorità, di rabbia e di ribellione nei confronti di una terra straniera spesso ostile, refrattaria all’integrazione, che soprannominava gli immigrati italiani con epiteti quali Dago, Wop o Guinea – non sono, afferma Pettener, che tratti descrittivo-coloristici: non rappresentano l’argomento centrale, nucleare della narrazione, costituito invece dalla rappresentazione di un’America intesa come luogo immaginato, sognato, rappresentato e vivo nella memoria poetica universale; l’America carica di valenze culturali ed epiche che interessò Cesare Pavese, Italo Calvino e molti intellettuali; la madre dell’American Dream e della cosmologia letteraria ad esso correlata. Il protagonista di Ask the dusk, Arturo Bandini, seduto al tavolo di un caffè legge la classifica dei migliori battitori d’America, i campioni della Baseball National League, e si sente orgoglioso che un italoamericano, Joe DiMaggio, tenga alto l’onore degli italiani: dietro l’apparente ingenuità di questo pensiero si cela, stratificata, l’epica del sogno americano, dell’appartenenza a un mondo divenuto, in poco tempo, archetipo indiscusso e potente evocatore simbolico.

L’approccio critico di Pettener apre infatti numerose finestre sulla valenza simbolica, epica, del mondo americano inteso quale cosmo generatore di un mito. L’autore analizza il rapporto fra padre e figlio, un altro topos fondamentale nei romanzi di Fante e predominante in Aspetta primavera, Bandini e Un anno terribile. Il saggio ci riporta alle figure letterarie di Don Chisciotte e di Sancho e alla loro relazione ambivalente. Si tratta di un rapporto simbiotico, di mutuo soccorso, nel quale si realizza una cooperazione immaginativa: il servitore, reduce da avventure e fallimenti e deluso dal male del mondo, nei momenti di crisi che affliggono Don Chisciotte si sostituisce al cavaliere nella produzione visionaria di scenari, di sogni che possano sostenere cavaliere e servitore nel loro viaggio esistenziale. Allo stesso modo, la figura dei padri – Svevo Bandini e Peter Molise – moderni Don Chisciotte italoamericani, anch’essi ispirati da un sogno originato da racconti e leggende, è fonte di ispirazione per i figli che li seguono così come Sancho segue Don Chisciotte; i figli, moderni Sancho Panza, si ritrovano a perpetuare il cammino dei padri in un’America irta di ostacoli e di suadenti canti di sirene. La tensione psicologica padre-figlio, ci spiega Pettener, è nelle opere di Fante un riscontro costante; essa si svela attraverso una narrazione epica, eroica. E non si tratta solo di una dialettica padre-figlio ma di un conflitto che si pone su due temporalità più ampie, antropologiche: una è legata alla differenza di età e di esperienze, appunto, e l’altra è connaturata al fatto di essere figli di due mondi diversi, della vecchia Europa e del Nuovo Mondo. E, afferma Pettener, dietro la trama e l’intreccio, oltre il paesaggio, traspaiono le forze ancestrali, totemiche, di due culture contrapposte: l’una è percepita dai protagonisti come tradizione statica, stratificata, e l’altra quale dimensione onirica, immaginativa e, per questo, attinente alla libertà e all’american dream.

Grande attenzione è dedicata da Pettener alla figura della madre: egli indaga in modo approfondito le relazioni familiari dei protagonisti in Full of Life, il maggior successo letterario di Fante e il romanzo più discusso e controverso; l’autore stesso, in Selected Letters, a pagina 294, a molti anni di distanza dalla pubblicazione confessa: «Scrissi Full of life per soldi. Non è un gran romanzo». In esso l’elemento etnico, privo di un substrato umoristico, è utilizzato per generare curiosità e interesse nel lettore e resta limitato a questa funzione, creando uno scenario perfettamente compatibile con l’America degli anni Cinquanta, un ambiente caratterizzato da stereotipi quali la casa borghese, la famiglia, il matrimonio e la fedeltà coniugale. Si tratta di valori indiscutibili, fondanti della società statunitense di quel periodo e condivisi dagli immigrati italoamericani che, in essi, riconoscevano gli strumenti indispensabili per il loro riscatto esistenziale e per la conseguente ascesa sociale. Pettener sottolinea alcune scelte stilistiche e narrative di Full of life, attuate dall’autore al fine di ingraziarsi il pubblico e suscitare riso, simpatia: la madre del protagonista è infatti descritta in modo caricaturale, forzando l’elemento etnico fino a renderne il profilo melodrammatico; si tratta di una donna priva di istruzione, subordinata al marito, così religiosa da apparire quasi superstiziosa, innocua e bonaria. Un cliché perfetto della donna immigrata di origini italiane che si guarda le mani callose e, confrontandole con quelle delle modelle ritratte sulle riviste patinate, capisce che non potrà mai essere un’americana. Questa rappresentazione introduce, come in un gioco di scatole cinesi, la presa di coscienza di una nuova identità etnica acquisibile solo a metà: diventare americani in tutto e per tutto, per un immigrato italiano, appare missione quasi impossibile e foriera, in termini generazionali, di futuri sensi di colpa e di inferiorità, una nemesi che marchierà l’italo-americano per sempre.

Ancora una volta l’autore si oppone alla critica ufficiale – americana e italiana – e sottolinea i rischi di un’analisi talvolta frettolosa, basata su stereotipi e preconcetti, mettendo in guardia il lettore ed esortandolo a mantenere l’attenzione sull’umorismo presente in Fante e sull’utilizzo dello stesso in altri autori quali Knut Hamsun, Charles Bukowski, Sandro Veronesi, Marco Vichi. John Fante confessò fedeltà assoluta a Knut Hamsun, da lui considerato padre letterario, e Bukowski si dichiarò profondamente ispirato dalle opere di John Fante. Nella propria analisi comparativa Pettener approfondisce la scrittura umoristica di Hamsun e di Fante, sottolineando il loro “divertimento della scrittura”, “l’istinto giocoso” che ne caratterizza lo stile (pg. 170), l’aspetto ludico che potenzia l’intreccio e l’architettura narrativa. In Bukowski, al contrario, l’umorismo è spesso assente (fatta eccezione per Pulp), prevalendo il sarcasmo verso il mondo e il disprezzo verso i suoi abitanti; i protagonisti di Hamsun e Fante sono coinvolti dal mondo, ne sono attratti o respinti e la loro scrittura è un mezzo per comprendere la contraddittorietà del mondo; in Bukowski, al contrario, l’egocentrismo cinico trova forma, sovente, in una scrittura meccanica, priva di quella forza evocativa che in Fante origina vibrazioni, risonanze.

L’analisi comparativa – riguardante critici, altri romanzieri, John Fante e Dan Fante, figlio di John e a sua volta scrittore – è certamente un punto di forza del saggio ma il valore di questo libro non si riscontra solo in essa. Pettener, con passione, indaga le cause dell’assenza, durata decenni, delle opere di John Fante dal panorama letterario internazionale. Il maggior imputato di questo scarso successo in terra americana è proprio l’umorismo e la conseguente assenza, nei romanzi di Fante, di un messaggio, di un insegnamento, di una risposta. La vita di Arturo Bandini, alter-ego scrittore di John Fante e protagonista di quattro dei suoi romanzi – Wait Until Spring, Bandini, The Road to Los Angeles, Ask the Dusk e Dreams from Bunker Hill – non offre al lettore alcuna verità né lezione di vita. Il successo tardo, spesso postumo, è avvenuto in epoca postmoderna, in un periodo caratterizzato dal crollo della fiducia nelle verità assolute; il riscontro maggiore, da parte dei lettori, si è avuto in Europa, madre storica dell’umorismo letterario e lontana anni luce, per tradizioni estetiche e antropologiche, da quel paese romantico che è l’America, tempio della fede nell’assoluto, nella verità e nelle certezze politiche ed esistenziali. Milan Kundera, al quale sono dedicate alcune pagine del saggio, afferma che ogni romanzo trova la sua ragione di essere nella scoperta esistenziale; che la conoscenza da esso generata non ha a che fare con una verità assoluta ma con l’incertezza, con il dubbio, le ambiguità. Il genere romanzo non offre risposte ma pone interrogativi; non giudica ma rappresenta; non si pone come affermazione dogmatica, apodittica, ma è relativo, ambiguo.

Il saggio di Pettener è, per il lettore, un viaggio circolare. Esso prende l’abbrivio partendo dalla poetica di John Fante, dalla Los Angeles di Arturo Bandini e, dopo aver attraversato i territori canonici della letteratura novecentesca – e non solo – approda nuovamente alla costa californiana tracciando itinerari ampi, rigorosi per il procedimento analitico che li sostiene e per la chiarezza di intenti.

“Nome e Lagrime” di Elio Vittorini – nuova edizione Bompiani

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Nota critica di Luca Alerci

La riedizione di un testo di Elio Vittorini è un evento importante, sempre. Bompiani ha in queste settimane ripubblicato Nome e lagrime, titolo misterioso e dalla storia abbastanza complicata. Nato come racconto sulla rivista Corrente di Vita giovanile a Milano, Vittorini però lo riutilizzerà già due anni dopo come premessa e primo titolo di un romanzo (Firenze, 1941) ma né il titolo né la premessa troveremo per la seconda edizione Mondadori dello stesso romanzo, opera che tutti conosciamo come Conversazione in Sicilia. Si dovrà aspettare il 1972, sei anni dopo la morte dell’autore, perché Mondadori riprenda questo titolo per pubblicare una raccolta di racconti e scritti diversi risalenti agli anni Trenta e Quaranta del Novecento. La stessa raccolta viene oggi appunto riproposta da Bompiani con la cura di Giuseppe Lupo, profondo esegeta di Vittorini.

Seppure molto (forse troppo) si sia scritto e detto su questo intellettuale, il suo è un universo letterario talmente originale, articolato ed enigmatico, che l’esplorazione non sembra possa avere confini. Del resto è questa la natura dei classici, arabe fenici sempre pronte a rinascere, ma è pur vero che per decenni Vittorini è sembrato forse un po’ datato, ingombrante, da incasellare tra i classici solo per dovere. Fortunatamente questo libro ci ricorda il ruolo che ha avuto nelle trasformazioni della cultura e della letteratura italiana.

I testi raccolti sono parte di quel laboratorio che è stata la produzione dell’autore siciliano lungo tutto il suo percorso: un banco di lavoro sparso di immagini, sondaggi, illuminazioni, ed errori. Ogni racconto è come la struttura sintetica dei romanzi della maturità e vi troviamo tutti i temi, i luoghi, talvolta i personaggi, lo stile dei suoi scritti maggiori, tutto però in forma nucleare.

Leggere questi lavori, se vogliamo, è come ascoltare le opere giovanili di Verdi: anch’esse sono simili a prime forme dei grandi lavori successivi, poi rimeditati: cos’è Il Trovatore se non un Ernani portato alla perfezione?

Ma cerchiamo di esplorare alcuni di questi testi, proprio alla ricerca degli indizi e delle anticipazioni di cui abbiamo detto.

Nel racconto del titolo, ad esempio, troviamo subito l’evidente legame con Conversazione in Sicilia, gli stessi dialoghi scarni, asciutti, che rimandano ai processi di costruzione del pensiero, fatti di riduzioni, di risposte che già ci sono ma di cui bisogna scoprire la necessità. Come detto, Vittorini utilizzò il racconto a premessa della prima edizione del suo capolavoro.

Continuando a sfogliare, troviamo un altro titolo emblematico, Le città del mondo, un altro titolo che subirà anch’esso diverse metamorfosi: oltre che per questo racconto sarà utilizzato per un progetto di esplorazione dei grandi centri urbani nell’ambito de Il Politecnico, e diventerà infine il titolo dello straordinario romanzo rapsodico, incompiuto, pubblicato postumo nel 1969. Il tema delle città è davvero cruciale in molti di questi testi, come sapientemente sottolineato dal curatore.

Non potevano poi mancare i racconti sul regime, sulla guerra, sulla resistenza: senza alibi, senza tentativi di revisione, Vittorini presenta il conto del fascismo, soprattutto a sé stesso. Come nel racconto Il mio ottobre fascista dove la fascinazione per Mussolini viene spiegata tramite la storia di un’improbabile e infatti fallita partecipazione di un ragazzino alla marcia su Roma;  o come nel drammatico Milano come in Spagna Milano come in Cina.

Molto densi risultano poi altri racconti quali Quando cominciò l’inverno, dove risuona il suo lavoro di quegli anni sugli scrittori americani, Hemingway e Faulkner su tutti, il primo come fabbro di dialoghi, il secondo negli squarci di nuda umanità senza giustizia.

Mi piace concludere citando il gustoso Il signore che voleva assassinarlo, un testo che, per molti aspetti, anticipa le atmosfere e le suggestioni dei racconti di Buzzati.

Emerge da queste pagine, in fondo, il Vittorini che già conosciamo, rigoroso, duro, sfuggente. Ma è anche il Vittorini di cui parlava Consolo, un intellettuale travisato, puro, e perciò spesso strumentalizzato. Questa raccolta ci parla di un mondo disperso, in frantumi, alla ricerca di una voce univoca, di una guida quasi. Vittorini indaga questo sfacelo non nascondendo la propria incapacità, come fosse una volontà incompiuta. Eppure nel sogno progressista del Gran Lombardo di Conversazione in Sicilia già balena un orizzonte nuovo, civile, politico, letterario, pur nel pieno della tragedia bellica. Bisognava guardare lontano quindi, e per questo la sua ricerca doveva pur essa guardare lontano, in America ad esempio, ma bisognava guardare anche vicino, vicinissimo, negli spettri della notte europea di quegli anni terribili.


 

Luca Alerci è nato e vive ad Enna. È docente presso la scuola pubblica. Collabora con riviste cartacee e online (La balena bianca, Limina, Lucialibri, Scorci). Ha partecipato alla raccolta Ancora guerre a cura di Marcello Benfante (Istituto Poligrafico Europeo, 2022). Cura il blog Vite di montagna, dedicato all’ambiente e alla cultura dell’appennino sicliano.

Un’estate con Manzoni #4 — Le relazioni

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David Hockney, "A Bigger Wave", 1989
David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[Ogni giovedì di agosto, Un’estate con Manzoni: qui la prima, la seconda e la terza puntata.]

 

di Marco Viscardi

I Promessi sposi, capitolo XVII : le relazioni

Insomma, la storia è nota: i due fidanzati tentano di sorprendere il parroco per farsi sposare, ma don Abbondio ha un guizzo, capisce tutto e manda all’aria i piani. Nel frattempo, gli uomini di don Rodrigo tentano di rapire Lucia, senza riuscirci. Tira una pessima aria e fra’ Cristoforo organizza l’allontanamento dei Promessi dal paese. Con loro, anche Agnese, la madre di Lucia. Le due donne andranno a ripararsi dalle suore, mentre Renzo deve riparare in un convento di frati a Milano. Quest’ultimo arriva, però, in una città in rivolta, si implica negli avvenimenti, viene preso per un pericoloso capopopolo, ma sfugge con destrezza all’arresto. L’unica possibilità di salvezza è oltre confine, negli stati veneti, sotto la bandiera di San Marco. Bisogna trovare l’Adda, attraversarlo clandestinamente e nottetempo. «Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò», dice il filatore, e quell’espressione – cammina, cammina – resta attaccata alla penna del narratore, che continua ad usarla.

‘Cammina, cammina’, come nelle favole notturne, quando i personaggi bambini si perdono nel bosco e non sanno trovare la via del ritorno. ‘Cammina, cammina’ è un punto di vista in movimento: ad ogni passo, il mondo si fa e disfa sotto gli occhi del protagonista che, come noi, non sa nulla di quello che ha davanti. Sembra, a una lettura superficiale, che Manzoni stia sminuendo Renzo, riportandolo alle sue angosce infantili. Ma Renzo non è un bambino e il narratore sta portando in superficie le paure profonde dell’anima, quelle che nascono da ciò che non conosciamo. La notte, il regno dei morti, il silenzio, le ombre. Tutto ciò che il mondo diurno non comprende e non spiega.

Renzo si sta dunque allontanando dal mondo umano e tutto attorno a lui si fa sinistro.

Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse.

Renzo sprofonda in una dimensione nella quale le cose gli sono familiari e ostili allo stesso tempo. Il paesaggio si rivela ai suoi occhi in inquietanti figure antropomorfe. Stiamo scivolando in quello che Freud, in suo famoso saggio, aveva chiamato Unheimliche, termine che in genere viene tradotto come ‘perturbante’, ma che significa qualcosa di differente. Unheimliche è letteralmente il non-familiare, il non consueto: il noto che mostra, come nel delirio della febbre, il suo lato sinistro, spaesante. Il corpo stanco si appesantisce, il torpore fa nascere visioni assurde nel cervello sconfortato. Renzo è in abito da sposo. Si muove in quella landa inumana, col vestito delle feste, quello scomodo, inospitale. Lui stesso è uno spettro: il fantasma della vita felice che non si è avverata.

Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse.
Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: – è l’Adda! – Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore
.

Durante tutta la sua parabola di ribelle, Renzo si è isolato sempre di più dal consorzio degli uomini, si è dato alla macchia, affidando al bosco e alla foresta il procedere della fuga. Si è fatto proteggere dagli stessi spazi nei quali gli animali trovano cibo e riparo. Ma ora che ha richiamato a sé stesso il vero Renzo, l’uomo si è riconciliato con sé stesso. Manzoni, per un attimo, sembra prendere la penna di Tasso e, dopo avergli fatto attraversare gli spazi della fiaba, porta Renzo nel territorio dell’epica. Ma di un’epica tormentata, drammatica, nella quale i personaggi conoscono l’amarezza della sconfitta, il disorientamento del venire meno e l’obbligo di ritrovarsi dopo la perdita. Così Renzo, per un attimo, si sovrappone a Tancredi, il cavaliere innamorato, l’uomo sottomesso alla passione che pure è chiamato a dominarsi, a compiere una missione. Renzo deve ricompattarsi, impedire alla disperazione di prendere il sopravvento, mantenere l’unità dell’anima e della volontà, senza scomporsi in mille frammenti contraddittori, senza cedere all’angoscia di un mondo insensato, stordito dalla paura.

La voce dell’Adda è la voce di un mondo, di una civiltà. Il mondo degli affetti, delle persone, dei volti concreti. Nella bellezza lirica dell’addio ai monti, Lucia aveva rimpianto lo spazio natio, descrivendolo come luogo della distinzione, del riconoscimento. Ogni cima, ogni torrente, ogni casa è da sempre nota, da sempre ha un suo significato. Mentre nell’ostile universo verso cui erano diretti, tutto era sconosciuto, ma perversamente omologato e indistinto, lì dove «le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade» danno il senso della nausea della ripetizione infernale, e gli enigmatici «edifizi ammirati dallo straniero» affaticano la vista, sforzandola a comprendere fasti e ornamenti innaturali. L’Adda era passato accanto a quel nido lontano: le acque, che Renzo ora sente nel silenzio notturno, hanno già toccato i luoghi delle origini. Per questo gli parlano e per questo lui può ascoltarle solo nel momento della riconciliazione.

Appunto, quel fiume è il suono di un mondo intero, un mondo che ora si stava smembrando, dove ciascuno era vissuto all’interno di una trama fitta di relazioni.

Se c’è qualcosa che il romanzo ottocentesco insegna, quasi un suo messaggio nella bottiglia, è che ogni vita conta. Ogni singola vita conta, e per ciascuna esiste un luogo, ma nessuna può vivere isolata. Il romanzo realista borghese racconta sempre una collettività, una comunità immaginata, spesso in acceso contrasto, dominata da logiche ferine. Italo Calvino ha definito I Promessi Sposi come il romanzo dei rapporti di forza: il romanzo dei grandi corpi sociali (l’Aristocrazia, il Clero, i Mercanti, etc.) e della loro continua tensione, sempre sull’orlo di uno scontro. Un mondo di corporazioni, più che di corpi: corpaccioni sociali che tentano in ogni modo di difendere i loro interessi.

Indimenticabile l’episodio del colloquio fra il Conte Zio e il Padre Provinciale, entrambi apicali, l’uno nella società dei nobili, l’altro nel mondo dei cappuccini. «Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte». Due poteri vecchi, consumati, scaltri. Due abili simulatori. Si dovrebbe leggere questa pagina con una scena del Don Carlo verdiano in sottofondo. Quella del colloquio fra il Re di Spagna Filippo II e il Grande inquisitore. La musica striscia, è sinuosa, viene da profondità sconosciute. È musica buia, senza aspirazione, senza domande. Un labirinto di suoni che ricorda l’andamento del serpente. Ma se Verdi racconta la violenza del potere col coraggio di guardare l’abisso, Manzoni ha abiurato alla tragedia, la sua parola è sempre ironica, straniante, grottesca.

Come grotteschi appaiono questi personaggi nelle vignette di Gonin. Teste deformi, gesti cerimoniosi, scarpe e piedi. Cervelli scaltrissimi, abilità simulatorie e dissimulatorie, ma corpi devastati, infelici, oppressi dall’esercizio del potere.

Se guardiamo solo le mani, staccandole dall’insieme della scena, sembrano mani di innamorati che stanno finalmente per toccarsi la prima volta. In quella presa si sancisce un patto fra potentati, e a farne le spese sarà fra’ Cristoforo, mandato via dalle terre di Rodrigo, a Rimini, e nel Fermo e Lucia addirittura a Palermo.

Nel Discorso sulla storia longobardica in Italia, Manzoni dice che la società è «quello stato così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori». In un mondo irredento, la vita collettiva non è mai pacificata, ma gli uomini vivono dentro un’interminabile lotta per la sopravvivenza, nella quale la loro natura associativa li spinge a coalizzarsi per non soccombere.

L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sè, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità.

Ne esce un maledetto imbroglio. Questa pagina del primo capitolo è quasi una desolata anti-Ginestra. Nel grande canto leopardiano leggiamo l’utopia dell’umanità compatta e pacificata; qui invece gli uomini si aggregano per tutelare il loro egoismo. Per tutto l’Ottocento, il secolo del barocco è stato considerato un’onta nazionale: l’età del servilismo compiaciuto verso lo straniero, del cattivo gusto nelle arti (e nel dire questo, non sapevano cosa si perdevano), della povertà economica e morale (anche se il ducato di Milano era la parte più ricca dei possedimenti spagnoli.). Guardare questa aberrazione, come fa Manzoni, vuol dire guardare alla radice della nazione, alla sua crisi insanabile, la ferita immedicabile.

Un romanzo sulle nostre vergogne, ma anche una storia in cui si mostra come gli uomini reagiscono ad un male diffuso, atmosferico. A come si possa praticare il bene in un cosmo ordinato al male. Allora, se i grandi si coalizzano spesso in base a logiche di interessi, a relazioni di potere, gli altri, la gente di nessuno, si legano con vincoli di amicizia e di aiuto reciproco. Lucia, dopo essere stata liberata dall’innominato convertito, trova una rete di protettori, anche se sgangherati, come donna Prassede e don Ferrante; quando Agnese ha bisogno di comunicare con Renzo trova chi può scrivere per lei; gli appestati a Milano non conoscono solo la violenza dei monatti, ma anche la sincera carità dei religiosi. Renzo è al centro di una rete di amicizie importanti. C’è il cugino Bortolo a Bergamo, ma anche Tonio e Gervasio, con la loro parabola. Tonio, all’inizio della storia, è il savio, mentre Gervasio lo scemo del paese, ma poi la peste fa saltare il banco e troviamo Tonio instupidito come Gervasio, il mondo travolto. E fra le macerie del piccolo mondo antico, reso irriconoscibile dalla peste e dalla guerra, Renzo incontra quel magnifico personaggio che Manzoni chiama semplicemente l’Amico:

L’amico era sull’uscio, a sedere sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo un calpestìo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: – non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa un’opera di misericordia. Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.

– Renzo….! – disse quello, esclamando insieme e interrogando.

– Proprio, – disse Renzo; e si corsero incontro.

– Sei proprio tu! – disse l’amico, quando furon vicini:

– oh che gusto ho di vederti! Chi l’avrebbe pensato? T’avevo preso per Paolin de’ morti, che vien sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito!

Manganelli ha detto che l’unico fra gli scrittori italiani che si possa paragonare ai Russi è Manzoni. Manzoni che in poche parole crea uno spazio. Un mondo. L’Amico sta sulla soglia: è non-morto in un paese devastato, inacidito e reso scontroso da quello che ha visto, dalla routine del dolore a cui ha partecipato. Le sue prime parole sono insofferenti: teme di essere di nuovo chiamato al rito della sepoltura da Paolin de’ Morti. Chi sia questo Paolino non lo sappiamo, è il becchino? Lo era prima della peste? È sopravvissuto? Non sappiamo nulla, ma siamo catapultati in una quotidianità scandita dal rapporto coi cadaveri. Seppellire i morti è il fondamento della civiltà, ma in tempi di epidemia diventa un atto meccanico, irriflessivo, freddo. L’amico si è isolato. Solo, solo, solo – lo scandisce tre volte, come una ossessione. È un eremita fra le macerie, e il destino gli ha riportato il compagno di un’età che si credeva spenta per sempre. L’apparizione di Renzo è per lui l’arrivo di un amico, di un fratello, di un salvatore! L’amico passa il suo confine e torna alla vita reale, al cibo, alle relazioni. Quella che credeva essere la morte definitiva delle cose, era solo una stagione del mondo. Ora le cose si rimettono in cammino.

Soundtrack -> Henry Purcell, Music for a While, 1692

 

Terre avvelenate (sillabario della terra # 10)

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di Giacomo Sartori

Abituato da tempo alle terre alpine con i loro odori di resine e muschi di punto in bianco mi sono ritrovato a avere a che fare con i suoli di una valle con schiere disciplinate di meleti che occupavano ogni tassello delle ondulazioni, anche i fazzoletti più erti, a perdita d’occhio. Era evidente che i coltivatori non sopportavano la minima asperità o avvallamento: prima di irregimentare le file di piantine nanizzate piallavano i versanti con grandi macchine, rendendoli perfettamente piatti. Li volevano certo al passo con i tempi, in coerenza con i geometrici capannoni di cemento armato per la cernita e la conservazione dei frutti, e con i futuribili centri commerciali dei paesi più floridi.

Così facendo devastavano per sempre terre che ci avevano messo quindicimila anni a formarsi, e che non avrebbero più ritrovato la loro bella fisionomia e la loro fiera vitalità. Non lo sapevano, o non se ne davano pensiero. Per facilitare la circolazione dei trattori spianavano anche lo spazio tra le file dei meli di nuova generazione, levandogli la pendenza trasversale, trasformandolo in una comoda strada. Anche lì sotterravano gli strati buoni della terra, suggellando il seppellimento con la costipazione delle pesanti macchine.

Per i loro fini immediati andava bene così: i nuovi meli ancora più produttivi non erano più alti di una persona e avevano radici di una spanna. Per facilitare raccolta e potatura ricercatori e vivaisti riusciti a metamorfosare i poderosi meli tradizionali in rachitici cespuglietti, piegati sotto il peso esagerato dei frutti pompati di acqua e nutrienti chimici, senza alcun difetto. Non pensavano ai loro figli e ai figli dei loro figli, che forse avrebbero avuto bisogno, l’abbondanza non è mai eterna, di buona terra per coltivare frumento o patate per nutrirsi. Per me quello sprezzo e quell’incoscienza erano una sofferenza.

Anche lì facevo le mie solite buche, perché il nostro metodo rimane sempre quello, per arcaico che appaia nell’epoca dei sensori che vedono in profondità, delle fotocamere miniaturizzate e delle intelligenze elettroniche. Lì non c’era più la successione ordinata di strati delle terre naturali, quasi una lingua criptata della natura: la massa terrosa era stata rivoltata in malo modo varie volte, era stata violata e lordata. L’odore non era mai buono, c’era un tanfo di cattive fermentazioni e di prodotti chimici, di sozze acque stagnanti. Spesso dalla massa spuntavano frammenti di plastica, pezzi di ferro, e qualche volta anche grossi frantumi catramosi, finiti lì chissà come.

Dopo i trattamenti con i pesticidi il manto erboso e le chiome erano un marmo senza incrinature: non c’era il più il minimissimo fremito di ali, nessun cricchio o crepitio. Per giorni e giorni. Facendo i carotaggi io cercavo allora di toccare il meno possibile, di non respirare l’aria satura di sentori chimici. Rimpiangevo le terre delle montagne, la loro altera purezza, ma inanellavo i gesti che le mie mani e il mio cervello sono abituati a fare senza quasi pensarci. Era terra molto maltrattata, però svolgeva pur sempre il suo compito, faceva vivere quei meli nani stracolmi di frutti di uniforme turgidezza e pezzatura, che ricordavano magri schiavi schiacciati dalle mercanzie. Mi dicevo che forse il mio lavoro sarebbe servito per far capire che ci volevano più attenzioni, per migliorare la situazione.

Da quello che avevo sentito dire lo studio era stato commissionato dal consorzio degli agricoltori solo per fini di marketing, nessuno intendeva usarlo per risparmiare acqua o non inquinare le falde, nessuno credeva a una sua qualche utilità. Erano più che soddisfatti dei sistemi che adoperavano: per loro la terra era solo uno spazio a disposizione, una superficie sfruttabile che purtroppo era limitata e sul mercato costava parecchio. Non tenevano in conto nessun fattore che non avesse un qualche peso nei bilanci economici dell’annata.

Nelle pubblicità patinate delle loro mele c’erano assolate vette e sorgenti purissime, e anche sulle confezioni rilucevano prati e boschi incontaminati: per l’immagine tornava bene uno studio sulla terra, la terra richiama l’ecologia e i tempi andati. In ogni caso erano riusciti a far pagare l’indagine alle banche locali, con i fondi che queste sono obbligate a reinvestire nei progetti culturali. Io però continuavo a dirmi che certo qualche tecnico o qualche agricoltore avrebbe apprezzato quello che facevo, avrebbe trovato l’ispirazione per dare retta alla terra.

In molti campi, quelli considerati più avanzati, alla sommità degli imponenti pali di cemento che sorreggevano le schiere di quelle piante nanizzate erano fissati gli spioventi delle reti antigrandine. Sembrava di essere in una serra, se non piuttosto in uno stabilimento industriale, visto il forte odore di plastica battuta dal sole e di medicinali. Altro che mele raccolte da ragazze con le gote rosse di ossigeno in un paradiso alpino: quella era solo la comunicazione.

Con molte resistenze sono riuscito a trovare un accordo con l’Istituto di ricerca agricola regionale per misurare i residui di pesticidi in quei terreni tanto martoriati, ma anche verdi di erba e apprezzati dai turisti in transito verso le località alpine. Ho quindi messo a punto un elaborato piano sperimentale per verificare le differenze nei vari tipi di suolo e nelle varie zone, mi dicevo che anche quello poteva forse avere una utilità. Ho poi eseguito i campionamenti, e il grande e attrezzatissimo laboratorio dell’ente ha eseguito approfondite analisi. Nonostante le reiterate mie insistenze non sono però mai riuscito a vedere i risultati. Presumo che abbiano trovato dei valori molto alti, e non avessero fiducia nella mia discrezione.

La cosa incredibile è che perfino in quelle caverne mortifere la vita finiva per risvegliarsi. Riappariva qualche rallentato animaletto della terra, qualche ragnetto come inebetito. Presto sarebbe arrivata un’altra spruzzata di micidiali veleni, ma loro non demordevano, cercavano di rialzarsi. Sapevano forse che la vita è più forte degli uomini, continuerà anche dopo di loro. Persistevano.

A posteriori mi dico che erano come le mie speranze, che non muoiono mai. Del resto anch’io persistevo, e senza accorgermi cominciavo anzi a voler bene a quelle terre massacrate per ignoranza e mancanza di rispetto, a quelle terre avvelenate con la presunzione di mettere a bacchetta la natura, alle quali mi ero dedicato solo per mancanza di alternative, quando avevano tagliato i fondi delle ricerche naturalistiche.

Paure e feticci del futuro ( dettagli)

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di Giorgio Mascitelli

Su facebook di recente mi è capitato di leggere l’accorata dichiarazione di una traduttrice, molto brava e stimata, che affermava che con l’introduzione di chatGPT o forse di qualche altro programma le sarebbero restati cinque anni di lavoro prima di essere soppiantata da un algoritmo dell’intelligenza artificiale. Questo genere di paure non è affatto infondato sia perché l’esperienza sociale degli ultimi decenni a proposito di innovazione tecnologica non rassicura, con un’eliminazione di un numero di posti di lavoro superiore alla creazione di nuovi a differenza delle precedenti rivoluzioni tecnologiche, sia perché nel caso specifico della IA anche alcuni documenti di addetti ai lavori autorizzano interpretazioni pessimistiche ( ne abbiamo parlato  qui). Per quel che può valere la mio opinione, ritengo che tra cinque anni né la traduttrice in questione né nessuno dei suoi colleghi ( nemmeno quelli che fanno traduzioni commerciali e tecniche) resterà senza lavoro, ma certo verrà pagata di meno, sarà più precaria e più ricattabile grazie a una modificazione dell’immagine sociale del suo lavoro che da specializzato e culturalmente qualificato verrà rimodellato nell’immaginario collettivo come un relitto del passato che ostacola il progresso.

Infatti il lavoro di traduttore,  essendo la traduzione una scrittura creativa di secondo grado, non potrà mai essere realmente sostituito da un meccanismo di apprendimento imitativo proprio perché le soluzioni tra cui deve scegliere un traduttore nel suo lavoro sono numerose, non equivalenti, sovente non ripetibili, contestuali e non riconducibili a criteri uniformi. Forse chatGPT non sarebbe in grado di tradurre  decentemente nemmeno un testo composto da essa stessa e dunque costituito interamente da sintagmi già immagazzinati. Del resto molti addetti ai lavori hanno messo in luce che il termine intelligenza artificiale è enfatico e fuorviante rispetto a meccanismi molto più pappagalleschi di quanto il loro nome ci farebbe credere. Quello che però ha da offrire questa ‘intelligenza’ ai suoi finanziatori è qualcosa di molto più concreto e immediato: come scrivevo sopra, la maggiore ricattabilità del traduttore ( e questo vale anche per altre professioni come giornalisti, insegnanti eccetera) come lavoratore, che viene indotto a percepire la propria attività come provvisoria e subito sostituibile da una macchina, e la diffusione della convinzione nel pubblico che una traduzione fatta con la sommarietà degli automatismi e un veloce editing umano, cioè una traduzione di qualità peggiore se non illeggibile, sia in realtà migliore perché così vuole il progresso.

D’altra parte qualche bizzarro intelletto dei tempi recenti ha messo in luce che la tecnologia non nasce spontaneamente in una zona iperurania e poi entra nella società plasmabile in ogni direzione e quindi i suoi effetti dipendono solo da come la si usa, ma al contrario è espressione dei rapporti sociali, intesi qui non solo come rapporti di produzione ma anche come idee delle classi dominanti sulla soluzione ideale dei problemi prioritari che affliggono la società. Per esempio l’unico paese al mondo che dispone di una tecnologia in grado di dissolvere le nubi per poche ore su uno spazio di cielo limitato è la Russia, che l’ha ereditata dall’Unione Sovietica: tale tecnologia non è un esito di un generico progresso anonimo, ma è il prodotto di una società in cui le parate militari, che naturalmente vengono meglio con il sole, giocavano un ruolo di primo piano nelle preoccupazioni dei gruppi dirigenti. Allo stesso modo nella nostra società, su un terreno preparato ideologicamente da quello che Evgenij Morozov chiama soluzionismo ( ossia l’idea che internet e in senso lato l’informatica risolveranno a livello tecnologico qualsiasi problematica sociale), una delle priorità dei gruppi dirigenti è l’ottimizzazione dei costi di produzione, il che coincide con la tendenza generale alla riduzione dei costi del lavoro, di qualsiasi lavoro: ecco perché partecipano del processo di precarizzazione ossia di proletarizzazione anche lavoratori della sfera cognitiva,  risparmiati ai tempi del fordismo. L’intelligenza artificiale è espressione di questa costellazione sociale e nasce per rispondere a questa priorità.

Tuttavia perché questo processo sia accolto senza discussioni nella società, è necessario che venga visto come un evento oggettivo, necessario e quasi naturale senza che decisioni politiche ed economiche umane appaiano giocarvi alcun ruolo. Indicativo o meglio sintomatico di questa ricezione nello sviluppo dell’immaginario collettivo sull’intelligenza artificiale è la sua presentazione antropomorfa:  abbiamo assistenti vocali con nomi umani ( e visto che mi risulta che un autorevole ministro del nostro governo ha biasimato l’abitudine di dare nomi umani ai cani, bisognerebbe sollecitare un suo autorevole intervento anche in questo ambito, perché se uno chiama Antonio un barboncino in cuor suo saprà sempre che è un cane, in quanto gli manca la parola, ma se chiama Antonio qualcosa che apparentemente parla, subito i suoi sentimenti diventano più complessi), giornalisti che ci raccontano convinti di computer che provano sentimenti compulsivi di gelosia e, infine, un’imprenditrice attiva nel campo delle start up educative che ci ha rivelato che è possibile innamorarsi di un robot, non mi ricordo se ricambiati o meno. Questa rappresentazione antropomorfa non è un fenomeno ingenuamente spontaneo, ma ha lo scopo di spostare l’attenzione dagli aspetti più socialmente dirompenti dell’intelligenza artificiale, favorendone l’accettazione nel quotidiano tramite la sua narrazione come qualcosa di naturale, fraterno o amoroso, la cui presenza è inevitabile.  Eppure in essa possiamo trovare un’ingenuità di secondo livello, per così dire, che mette involontariamente in luce la natura feticistica del rapporto con l’intelligenza artificiale, alla quale vengono attribuite decisioni autonome che in realtà sono realizzazioni di scelte umane, in particolare di funzioni che esprimono gli interessi delle classi sociali dominanti. In un certo senso si potrebbe definire questo rapporto come un feticismo secondario, una sorta di effetto collaterale, derivato dal feticismo primario della nostra società, quello delle merci, che ha educato le nostre menti a concepire i rapporti con le cose in termini feticistici. Si apre a questo proposito lo spazio all’osservazione di una serie di fenomeni curiosi e talvolta francamente divertenti, che si potrebbero definire forme di animismo ipermoderno, per cui se qualcuno volesse tenere un calepino, o aprire un file, in cui annotare diligentemente casi di persone che, specialmente nel discorso mediatico, attribuiscono a oggetti o programmi caratteri e sentimenti umani, si troverebbe a completarlo rapidamente, ovviamente se avesse scelto di vergarli nel primo, perché si sa che i file possono essere allungati a dismisura.

( nell’immagine: Anonimo, Distributore automatico di vino ovvero forme plastiche di evoluzione tecnologica secondo differenti bisogni sociali)

Modalità lettura decontestualizzata

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di Mauro Baldrati

L’inizio dell’ultimo, atteso romanzo di Niccolò Ammaniti, è faticoso. Non per la scrittura, di cui l’autore è un grande professionista e un esperto timoniere, ma per la domanda che sorge già dalle prime pagine: Perché? Un’altra, ennesima storia ambientata nel mondo dell’alta borghesia, coi suoi abissi infestati da topi e scorpioni, dove veli polverosi nascondono alla meno peggio miseria e solitudine, noia e incomunicabilità? Scriveva Silvia Plath nel romanzo La campana di vetro (1963): “Queste ragazze avevano tutte l’aria annoiata. Le vedevo nei solarium, che sbadigliavano e si laccavano le unghie mentre prendevano il sole per mantenere la tintarella delle Bermuda, e mi sembravano annoiate a morte. Scambiai due chiacchiere con una di loro: era stufa di yacht, stufa di girare il mondo in aeroplano, stufa di andare a sciare in Svizzera per Natale, stufa degli uomini del Brasile.” Sono passati sessant’anni e stiamo ancora celebrando il vuoto emozionale e la tristezza dei ricchi privilegiati? Siam sempre qui, con l’aria annoiata e anche un po’ arrabbiata?

Per cui, se non vogliamo abbandonare l’opera, dobbiamo attivare la cosiddetta “lettura decontestualizzata”. E’ una tecnica che richiede un discreto senso dell’umorismo e una sufficiente capacità di distacco dalle cose. Ci permette di goderci certe opere, soprattutto di genere thriller, dove i buoni sono gli agenti della CIA o del Mossad che combattono, come antichi cavalieri alla ricerca del Graal, contro i feroci terroristi islamici, votati solo al massacro. Sappiamo che qualcosa non va, ma gli autori hanno realizzato un prodotto perfetto dal punto di vista della vicenda – sbagliata in sé, ma sviluppata con stile inappuntabile – degli ambienti, dei personaggi, della fotografia.

Dunque partiamo, anche perché conosciamo il talento dell’autore, tornato sulla scena dopo otto anni di silenzio – forse di ricarica? – e lo seguiamo mentre, con pazienza e cura dei dettagli, ricama il grande tappeto su cui si muoveranno i personaggi. Potremmo forse dire il personaggio, perché la regina è lei, Maria Cristina Palma, la moglie del presidente del Consiglio, e tutti gli altri sono al suo servizio. La sua corte è fatta di segretarie, l’assistente tuttofare, il preparatore atletico, l’esperto di look, e la scorta, il mitico servizio segreto che tanti registi ci hanno raccontato quando ricreano l’ambiente della casa Bianca. E’ “la moglie di”, per cui ogni suo gesto, ogni pettinatura, ogni posa, ogni sorriso deve essere accuratamente tenuto sotto controllo, perché potrebbe riverberarsi sul personaggio pubblico del marito, e quindi sulla tenuta del governo. Così come ogni spostamento deve essere pianificato, per cui l’entrata in un nuovo locale deve sempre essere preceduto da un sopralluogo e così via. Una routine che forse farà sognare i più, ma non esente da una certa inquietudine.

La vita della “moglie di” è piatta, nel lusso e nella mancanza di tensione, che la protagonista accetta di buon grado, fedele, in fondo al suo ruolo. Per certi versi ricorda il bel film Spencer, interpretato dall’attrice Kristen Stewart, ed è a lei che pensiamo mentre la seguiamo nei suoi riti, nel suo scorrere lungo il desolation row, proprio come Ophelia, della quale “il suo peccato è la mancanza di vita”. Ammanniti la fa muovere nello spazio, con garbo, e con affetto, animandola come un costoso, fragile e un po’ triste avatar. Maria Cristina è anche “la donna più bella del mondo”, secondo uno studio filologico internazionale che ne ha analizzato le misure, i rapporti tra le diverse linee, dei piedi, delle braccia, delle gambe. L’autore regge con la mano ferma di un esperto regista il variegato popolo dei personaggi, restituendo ad ognuno la sua “cifra” esistenziale, il suo ruolo e i suoi tic. Domenico, il marito, il Premier, c’è e non c’è, spesso in viaggio o in riunione, è affettuoso ma sfuggente, debole, probabilmente adultero, calato completamente nel suo ruolo. Per esempio, quando Maria Cristina, ubriaca, si rifugia in un wc per vomitare, entra l’assistente personale, Caterina, in compagnia della fidanzata. Le due donne parlano, o meglio, spettegolano, e Caterina definisce Maria Cristina una donna frivola, vuota e anche un po’ stupida. Furiosa, chiede al marito di licenziarla immediatamente. E Domenico fa: “Licenziarla? Scherzi? Bisogna promuoverla!” Maria Cristina, sbalordita, chiede chiarimenti. Non si può assolutamente licenziarla, conosce molti segreti imbarazzanti che potrebbe rivelare alla stampa per vendetta. E mettere in pericolo il suo ruolo di Premier e quindi la stabilità del paese e così via. Oppure certi caratteristi che compaiono per singole parti nella fantasiosa, ma mai fuori controllo folla che costituisce il mondo di Maria Cristina: un ministro belga, che, entusiasta di conoscere la donna più bella del mondo, vuole assaggiare la famosa “pizza beneventana” preparata da lei, che peraltro non esiste. E qui il lettore esigente si chiede come farà Ammaniti a non deluderlo, creando un personaggio non stereotipato. Risposta automatica: il talento del nostro autore ricorda il grande Tom Wolfe (1930 – 2018), impareggiabile navigatore negli oceani letterari popolati da delfini, squali, polipi, cavallucci marini, coralli, murene, pesci palla, per i quali ha sempre una scheda pronta per l’uso. Con poche, geniali pennellate ci restituisce un barbaro del nord, discendente da quei cacciatori vestiti di pelli, pidocchiosi, crapuloni e scorreggioni, mentre da noi, dopo avere avuto i filosofi greci, erano saliti alla ribalta i romani, con le terme, il diritto, le strade e gli acquedotti (e anche il feroce imperialismo, ma siamo in modalità decontestualizzata, non dimentichiamolo).

A questo punto Ammaniti ci conduce verso la svolta, quando la temperatura narrativa si alza e noi, ormai invischiati nella tela, non possiamo più divincolarci. Ecco allora che fanno il loro ingresso due eventi, che d’ora in poi domineranno la cosiddetta “narrazione” con le loro radiazioni minacciose: una pressante proposta di intervista da parte della più famosa anchor woman italiana, un combinato chimico tra Lilly Gruber e Serena Bortone, e un terribile video porno spedito da un vecchio amico e amante. Forse per ricatto? Soprattutto questo evento deflagrante manda in paranoia Maria Cristina, ma è anche il grimaldello che scardina l’impalcatura della noia, dell’inutilità e della sconfitta.

Mentre, come il metrò letterario di Céline che corre lungo il tunnel, avanziamo senza più ostacoli, guidati da quel guru dello stile che è l’autore, ci chiediamo come diavolo potrà terminare questo viaggio al termine del vuoto. Tutte le mattonelle sembrano andare al loro posto, ma come riuscirà la nostra guida a dirimere l’intrico velenoso del video? Passiamo in rassegna tutte le possibili opzioni, ma nessuna ci soddisfa. Ognuna sembra un ripiego, una caduta di tensione.

Tranqui. E’ di un Antonio Pigafetta della scrittura che stiamo parlando. Il finale è solo un tantino inverosimile, ma gli serve per confezionare la giusta svolta, forse il colpo di scena che nessuno potrà trovare deludente. E dopo aver letto le ultime parole, che sono “giù, verso il mare”, chiudiamo il libro.

Mentre assaporiamo il piacevole stato d’animo che segue la lettura di un testo pieno, avvincente, con personaggi vivi e rilassate descrizioni di albe e tramonti e paesaggi, ricominciamo a pensare: “Ma santo cielo, sempre con ‘ste storie interne all’alta borghesia? Ma non sarebbe ora di emanciparsi, e praticare la letteratura come rappresentazione del conflitto sociale, della vita vera?”

Ma ormai è tardi, e abbiamo chiuso la modalità “lettura decontestualizzata”. Siamo out.

Dallo Zoo all’Aldilà

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Ezio Sinigaglia in uno scatto di Roberto Gandola

di Romano A. Fiocchi

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario, TerraRossa Edizioni.

Se ci sediamo a un pianoforte, quasi tutti sappiamo riconoscere le note, premere tasti, fare scale. Qualcuno sa mettere le note in sequenza, o in accordo, o eseguire brani. Pochissimi sanno comporre musica. Ecco, in questo senso pochissimi sanno scrivere. Intendo pochissimi tra gli autori italiani viventi. Uno di questi è Ezio Sinigaglia. Poi, i suoi libri possono piacere o non piacere. Si può amare una macchina letteraria come Il pantarèi, che ha nella complessità la sua bellezza, o un piccolo gioiello formalmente compiuto come Eclissi, oppure ancora un divertissement di stampo boccaccesco come L’imitazion del vero, meno i due Fifty-fifty (mio parere personale, per carità!). Ma la musica che crea Sinigaglia si sente in tutti i suoi lavori, anche in Sillabario all’incontrario. Che è in un certo senso un compendio delle sue tematiche dalla A alla Zeta, anzi: dalla Z di Zoo alla A di Aldilà, come a simboleggiare un’evoluzione darwiniana dall’animale allo spirito. Un compendio, in realtà, che non è neppure un sillabario ma qualcosa di nuovo di cui cercherò di delineare le caratteristiche.

Il libro si apre con la Prefazione che illustra la classica motivazione diaristica a scopi terapeutici, ineludibile citazione sveviana. L’arguzia di Sinigaglia ne ricava subito una regola generale: «Non sarebbe fuori luogo affermare che il romanzo, ben più di ogni altro genere letterario, trae spesso origine dal germe di una patologia dell’autore e ne costituisce il (temporaneo, effimero) piano terapeutico». Il Sillabario è dunque un romanzo? L’autore milanese, sempre nella Prefazione, dà questa risposta: «Autobiografia sì, ma senz’ordine e senza pretese di completezza, diario sì, ma senza minutaglie, saggio sì, ma senza disciplina, questo libro così ricco di piccoli e grandi fatti, di memorie, di analisi, di divagazioni, di personaggi (perfino!) e soprattutto di umorismo può ben essere considerato, nell’eclettico panorama della narrativa di oggi più ancora che in quello dell’epoca in cui fu scritto (1996-97), un vero e proprio romanzo. Ma è bene non dimenticare che non è stato progettato come romanzo, ma come una medicina».

Romanzo che è un insieme di tante cose, quindi, messo in una scatola divisa in ventuno scomparti, uno per ogni lettera dell’alfabeto italiano. Una scatola che è soprattutto un contenitore di umorismo. Perché una della chiavi non solo del Sillabario ma di tutta l’opera di Sinigaglia è l’umorismo, inteso sia come battuta gratuita (le vezzose poltroncine «Luigi Ennesimo» in D come Dilazione) sia come autoironia, ovvero il non prendersi sul serio, tanto meno il prendere sul serio gli altri, persino la morte: «l’unica esperienza che nessuno si sia mai lagnato d’aver fatto». È un umorismo alla Svevo, o meglio ancora alla Pirandello: umorismo con quella venatura malinconica dovuta alla verità messa in mostra, al passaggio pirandelliano dall’avvertimento del contrario al sentimento del contrario. Ricordiamoci che Sinigaglia è sempre vissuto all’ombra della letteratura senza mai potersi dire scrittore, come se la letteratura stessa l’avesse preso in giro. Quel capolavoro che è Il pantarèi, da molti ancora ignorato nonostante la bella edizione di TerraRossa del 2019, era uscito negli anni Novanta senza la minima visibilità. Tutto il resto della sua produzione è rimasto per due decenni in un cassetto. Ezio Sinigaglia è insomma – sono parole sue – «lo scrittore più inedito di cui si abbia notizia».

Ezio Sinigaglia in uno scatto di Roberto Gandola

Ma proviamo a smontare la scatola in cui l’autore ha inserito il suo Sillabario. Una volta sollevato quello che costituisce il coperchio, ossia la Prefazione, ci sono, come si è detto, ventuno scomparti. Ad essere più precisi, si tratta di tre macroscomparti che racchiudono ciascuno un numero diverso di scomparti più piccoli, tipograficamente presentati come capitoli. Il primo macroscomparto va da Z di Zoo a Q di Quattrini ed è costruito come una cornice esteriore, in pratica una descrizione del presente che si ferma al paesaggio di superficie. Il secondo va da P di Padre a F di Freud e prende in esame memoria e autoanalisi, compresa la morte del padre, di evocazione sveviana. Il terzo macroscomparto va da E di Eros a A di Aldilà, questa un’indagine più intima e disincantata, tra erotismo e morte etica. Si noti la ricorrenza matematica del sette, numero primo: il macroscomparto iniziale è composto da sette scomparti più piccoli, il secondo da nove (sette più due), il terzo da cinque (sette meno due). Non per nulla il sette è un numero dal forte potere simbolico, basti pensare ai sette giorni della settimana, ai sette bracci della Menorah, alle sette note musicali (ecco che torna la musica), ai sette colori dell’arcobaleno, e così via. Sette, insomma, come gli elementi che servono per comporre il tutto.

Questo schema compositivo, che Giorgia Tribuiani collega a certi princìpi dell’Oulipo, in particolare a Perec, si rifà a un concetto che Sinigaglia esprime apertamente nelle ultime battute del libro e giustifica qualsiasi scrittura purché sia autentica scrittura: «Scrivere è la sola cosa che renda vivibile la vita». Il fascino dei suoi testi (che è poi lo stesso di molti classici) credo consista proprio in questo: trasmettono al lettore la sensazione di trovarsi di fronte, oltre che a un congegno letterario, a una partitura fatta di parole ben calibrate in significato e significante, a una connessione tra pensiero e lingua sempre in perfetto equilibrio. È per questo, nel caso specifico del Sillabario, che mi è venuto in mente la lucidità espositiva del Dizionario filosofico di Voltaire che lessi da giovane. C’è, in Sinigaglia, quella stessa capacità di tenere la giusta distanza dalle cose per poter descrivere senza giudicare, atteggiamento che gli consente – grazie all’intelligenza dell’umorismo – di prendersi gioco del genere umano e quindi di se stesso.

Si potrebbe parlare, paradossalmente, anche di romanzo giallo. Perché in fondo il Sillabario è una ricerca della verità (la stessa cui aspira l’Akron di Eclissi), l’identificazione di qualcuno o di qualcosa che non si conosce, compiendo un percorso a ritroso: dalle deduzioni alla soluzione finale ossia alla ricostruzione dei fatti. Che in questo frangente non è se non la ricostruzione dell’origine del disagio psichico denunciato sin dalle prime pagine. In fondo: il senso della letteratura.

Sillabario all’incontrario non è dunque un sillabario. Esattamente come ne Il pantarèi non è vero che tutto scorre, o ne I delitti della via Morgue (si confronti F come Freud) i delitti non sono delitti. Il non essere ciò che dovrebbe essere, il riportare titoli di capitoli che poi inglobano altri temi, ricordi, invenzioni, consente a questo testo di abbracciare una moltitudine di argomenti. Dall’inno alla bellezza della vegetazione, descritta con la passione di un Blossfeldt, alla condanna dell’abuso edilizio, risultato dell’alleanza tra il denaro e l’imbecillità, all’elogio del silenzio («È nella mia aureola di silenzio che siedo quando scrivo»), alle divagazioni sulla struttura dei romanzi, con le tre categorie di finali (Requiescat, Testa-Coda e Scioglinodi) e la bellissima definizione di opera: «Un’opera è sempre un ponte, a ben guardare: un ponte fra l’idea e la cosa, fra il disegno e l’atto, fra la riva del divenire e quella dell’essere, o dell’esser stato». Disseminati tra i capitoli si inseriscono veri e propri racconti, come l’incontro con la zingara dal dente d’argento in C come Calorie, o la delicata storia d’amore con Miele, nomignolo che deriva dal colore degli occhi della ragazza, o il crudele rapporto con Pietro Rana in B come Bambini. Questo per dare solo un’idea della vastità di tematiche che arricchisce le duecentotrenta pagine del Sillabario.

Infine si arriva alla lettera A di questo alfabeto capovolto. Dove la ricerca, in fondo effettuata procedendo alla cieca, dà un risultato che non è un risultato: piuttosto la consapevolezza di uno stato d’essere, l’abbassamento di un ottava della propria musica vitale, sintetizzata poi in una visita premonitrice della morte: «Non mi meraviglierei se domattina un autorevole personaggio si presentasse alla mia porta e mi comunicasse che sono morto circa un anno fa». Un Aldilà, quindi, che ancora una volta non è quello che è perché è un Aldilà terrestre e provvisorio.

“Filosofia della casa” pop-rock-punk: i Babilonia Teatri rileggono Emanuele Coccia

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di Silvia de March

 

È stato un vero e proprio allunaggio quello dei Babilonia Teatri a Treviso, ospiti domenica 16 luglio all’interno della rassegna di teatro contemporaneo Gea.23. Evidentemente non erano bastati due Premi Ubu (2009 e 2011), né un Leone d’Argento alle Biennale di Venezia (2016), nemmeno il passaggio in Rai con la rilettura di Romeo e Giulietta (2021), per accreditarli tra le proposte da avanzare al pubblico trevigiano, da decenni escluso da una circuitazione non convenzionale e non condizionata dal mainstream televisivo.

Dichiariamo subito le costanti della poetica sovversiva del loro teatro pop-rock-punk che abbiamo ancora una volta piacevolmente ritrovato: una drammaturgia apparentemente destrutturata, spesso declinata attraverso lunghe elencazioni, abbinamenti non-sense, elementi di denuncia sociale e momenti di pathos integrati in una parodia della società dall’ilarità irrefrenabile; irruzioni musicali ad altissimo volume, luci a tratti accecanti, colori sgargianti. Le scene allestite dai Babilonia Teatri, così come le loro drammaturgie, sono un coacervo di ready-made decontestualizzati e rimontati con un effetto fortemente straniante. Sul palco ci può stare di tutto, nel tentativo di ridurre la complessità della realtà ad un microcosmo che inevitabilmente finisce per apparire caotico: antenne, una pianta appesa a testa in giù, un divano ciclopico gonfiabile, persino una betoniera; e soprattutto si può fare di tutto: saltare su un tappeto elastico, usare un letto a rotelle come una giostra rotante, far deflagrare due cuscini e spargere le loro piume al soffio di un ventilatore. Tutto in un’orchestrazione mai improvvisata, dominata con precisione e sicurezza, puntellata da istanti iconici ed epigrammatici di grande incisività.

I Babilonia sono sbarcati a Treviso con Pietre nere, uno spettacolo che affronta il concetto di casa da multiformi prospettive, ricavate dal saggio Filosofia della casa di Emanuele Coccia e dai dati raccolti attraverso un’indagine condotta sul territorio di Asti (all’interno di Casa Mondo, progetto vincitore del Bando Art Waves di Compagnia San Paolo) in luoghi diversamente abitati, come le residenze per anziani o i dormitori per clochard.

È senz’altro tra le loro produzioni più appropriate per questa città loro refrattaria, visto che tutti i candidati alla carica di sindaco alle elezioni primaverili hanno riconosciuto l’emergenza casa che ci contraddistingue: decine di migliaia di immobili sfitti, canoni insostenibili, un centro storico divenuto appannaggio di un’élite, con un dormitorio clamorosamente insufficiente (solo una ventina di posti) rispetto alle crescenti emergenze. Insomma, il capoluogo della nostra provincia è sempre meno abitato e sempre più relegato a mero polo funzionale e a ipermercato diffuso, disseminato di retail di grandi brand. Se la dinamica è comune ad altre grandi città, le piccole dimensioni della nostra suggeriscono che qui il processo avrebbe potuto essere da tempo diversamente governato.

Pietre nere è un’inesauribile ed inesausta sollecitazione, non solo intellettiva ma anche sensoriale – e per gli attori persino ginnica -, sul ruolo assunto dall’abitazione tanto nell’immaginario collettivo e merceologico, quanto nella nostra singolare identità: come un abito, come una pelle magari tatuata, la casa ci racconta, agli altri e a noi stessi. Cosa significa non averla? Cosa significa abbandonarla? E viceversa, cosa implica identificarsi eccessivamente o esclusivamente in essa?

Diritto o privilegio, fisiologica aspirazione o proiezione idealizzata, guscio o barricata, vantaggio sociale o costrizione subita, oasi o prigione, radura o tana. Con rapidi ma caustici accenni, ci vengono illustrate le variegate accezioni che convivono e confliggono nel medesimo spazio, al tempo stesso fisico e simbolico, e che si moltiplicano in rapporto alle relazioni che vi sono ospitate e tra le quali occorre considerare anche la coesistenza immateriale dei contatti social. C’è chi una casa non può permettersela nemmeno in affitto, chi trasloca di contratto in contratto, chi trova la sua collocazione per un breve tratto o per

sempre o chi si sente sradicato: non hanno dunque un medesimo abito gli abitanti delle case, né gli abitanti delle città – dipende e cambia in rapporto a possibilità economiche, fattori sociali, background culturali, non di meno in una misura corrispondente alla nostra personale capacità di “fare casa”, di creare e modulare il nostro spirito di appartenenza, in particolare oggi in un contesto in cui il mondo reale sembra la piattaforma d’accesso a quello virtuale in cui più frequentemente ci spostiamo.

Non è uno spettacolo dedicato soltanto agli interni, anzi, forse il piano su cui la critica sociale sa pungere in modo costruttivo è proprio quello che indaga le interazioni tra ciò che c’è dentro e ciò che c’è fuori. Fingiamo di abitare case in cui torniamo a dormire; fingiamo di abitare città che non frequentiamo se non attraversandole per dirigerci al lavoro, lungo corridoi che tracciano le stesse abitazioni l’una accanto all’altra. I veri abitanti della città, ci suggerisce Enrico Castellani, sono i senzatetto; non sarebbe perciò privo di senso spostare i nostri letti nelle piazze o nei parcheggi dei grandi supermercati per sperimentare con maggior autenticità cosa significhi far parte di un luogo e di una cittadinanza.

Già in exergo, Enrico Castellani aggancia un aneddoto personale ad un altro storico più fecondo: Boston, 1916, durante una calda notte Flavio Machicado Viscarra termina di ascoltare uno dei suoi dischi e scattano gli applausi dei vicini; tornato in Bolivia, il medesimo nel 1938 comincia ad aprire regolarmente le porte di casa sua a La Paz a chiunque voglia apprezzare la musica classica e dal suo nome vengono intitolate “Las Flaviadas” le sessioni settimanali di ascolto collettivo. Una casa dalle porte aperte, luogo di incontri e incrocio di traiettorie, può essere ancora oggi un modello nei nostri orizzonti?

È proprio questa la direzione a cui ci invita la compagnia. “Mia nonna diceva che il radicchio va mangiato con tutte le radici / le radici sono amare e sono la parte più buona del radicchio / senza le radici il radicchio non è niente”; eppure, alla fine, oltre la morte, si scopre che per apprezzare l’amaro c’è bisogno della foglia più morbida e dolce che dalle radici si allunga verso l’esterno.

A questa conclusione, in realtà il pubblico è orientato sin dall’inizio: infatti, si entra in sala scoprendo il teatro nella sua nudità, totalmente esposta in assenza di quinte e fondali; i componenti della compagnia sono già sul palco e stanno facendo le pulizie come se stessero nel loro e anche nostro salotto. Siamo i benvenuti in una casa che abbiamo dimenticato essere nostra, il teatro, luogo che potenzialmente potrebbe tornare ad essere un’agorà calamitante se la si rendesse disponibile per opere come questa, di stringente attualità e dalle forme espressive imprevedibili e coinvolgenti. Una casa – il teatro – che ci consente di uscire dall’isolamento, ci offre l’esperienza sempre più esclusiva di condividere emozioni e riflessioni, trasforma gli sconosciuti in affini e ripara molti altri danni da omologazione ed appiattimento culturale. Non è un caso che Àlex Rigola, direttore della Biennale Teatro che nel 2016 assegnò ai Babilonia Tetri il Leone d’Argento, nella motivazione indicò la loro capacità di «essere terapeutici» e descrisse il loro come un «teatro necessario».

Fortunati quindi i figli di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, Ettore e Orlando, che, pur essendo ancora ai primi cicli scolastici, hanno il privilegio di andare in scena insieme ai genitori: stanno scoprendo non solo la sana adrenalina della creatività ma una prospettiva illuminata a pochi, ovvero la stretta attinenza dell’arte ai nostri vissuti e alla crescita collettiva. Non dell’arte tutta, ma di quella con la A maiuscola che dismette la facile tentazione dell’intrattenimento o una sterile quanto pericolosa autoreferenzialità.

Pietre nere

di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, e con Francesco Alberici, Ettore Castellani, Orlando Castellani – visto a Treviso al Teatro Del Monaco il 16.7.2023. Produzione Babilonia Teatri e La Corte Ospitale, coproduzione Operaestate Festival Veneto, con il sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo.

 

Un’estate con Manzoni #3 — Il corpo

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David Hockney, "A Bigger Wave", 1989
David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[Ogni giovedì di agosto, Un’estate con Manzoni: qui la prima e la seconda puntata.]

di Marco Viscardi

I Promessi sposi, capitolo XIV : il corpo

È bastata una notte. Una sola interminabile notte. Quella che San Giovanni della Croce avrebbe chiamato l’oscura notte dell’anima. Quella dell’incontro con l’Altro per eccellenza. Il Divino, in questo caso Cristo. Uno studioso magnifico, come il padre francescano Giovanni Pozzi, ha scritto un bellissimo saggio sul nome di Dio nei Promessi sposi e ci ha insegnato che mai, in tutto il romanzo, si pronuncia la parola Cristo, quindi anche io, da laico, la scrivo con rispetto e sottolineandola. In una notte, l’innominato ha riconosciuto, nella sua interiorità, la voce di Dio. È stata una notte interminabile, mostruosa. Al mattino, il suono del popolo festante, in marcia verso il cardinale Borromeo, in visita pastorale, l’aveva dissuaso dal suicidio. Era la voce della vita. Il resto si sa: dall’incontro con l’uomo santo, il peccatore prende l’impegno di cambiare vita, libera Lucia e arringa i suoi uomini dicendo loro che tutto è cambiato e che, da ora, la sua immensa energia vitale, la sua potenza, l’intelligenza del falco saranno orientate al bene.

Ora leggiamo il brano:

E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n’andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrature, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.

Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel’avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant’anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza, ora l’aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l’aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s’era messa la confusione e l’incertezza in casa; eppure aveva sonno.

Cosa caratterizza un grande scrittore? Ognuno avrà la propria risposta, io credo sia la capacità di tenere il mondo nella sua scrittura, nella sua sintassi. Di tenerlo saldamente e poi, se vuole, di lasciarlo andare. Insomma, questa pagina per me è bellissima: commentarla è una sfida, bisogna contare le parole.

Qui Manzoni è concentratissimo: sta affrontando uno dei passaggi più ideologicamente delicati del romanzo. La conversione, che lui stesso, don Alessandro Manzoni, aveva conosciuto in un momento delicatissimo della sua esistenza.  Non è apologetica, non è dottrina astratta, è l’anima di un uomo che attua, o forse subisce, una torsione, cambia, ma cambia senza dimenticare chi è stato fino a quel momento. Getta all’aria la propria dittatura interiore, si apre ad un mondo nuovo di possibilità. Rileggiamo tutto:

E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n’andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrature, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.

L’innominato sta al centro della sala, eccolo:

Il suo è il gesto di un condottiero: i suoi uomini, abituati ad un mondo di violenza, «vedevano in lui un santo, ma un di que’ santi che si dipingono con la testa alta, e con la spada in pugno». Nel loro immaginario, la santità è una virtù energica, pronta alla battaglia. L’innominato li vede andare via come pecore e bastano davvero queste poche parole per darci il senso visivo della scena. Si sono sbrancati, hanno rotto le fila, nella penombra dei lumi, bellissimo.

Rimasto solo, l’innominato procede all’ispezione degli spazi. Maledetto Manzoni, ancora una volta ci sono poche parole e, a noi, quel giro pare lunghissimo e allo stesso tempo consuetudinario. È il dovere del comandante, ma in questa scena c’è qualcosa del commiato, dell’addio a ciò che era prima. Ogni volta che la leggo, penso a Prospero nella Tempesta di Shakespeare che spezza la sua bacchetta e dice addio agli inganni, alle illusioni e ai trucchi. Qui il comandante attraversa per l’ultima volta gli spazi del male: d’ora in poi, la roccaforte darà rifugio e protezione a chiunque si senta in pericolo e perso fra le tragedie del mondo.

Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel’avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant’anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza, ora l’aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l’aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s’era messa la confusione e l’incertezza in casa; eppure aveva sonno.

Rieccolo, il grande scrittore: entra nella testa del personaggio senza dircelo. Ora, per l’innominato, il mondo assomiglia ad un caos, ad una matassa da sbrogliare, da rimettere in ordine. Un caos che lui stesso ha creato, come artefice principale, e che a lui tocca rimediare.

Ma non adesso. Dopo aver pacificato l’anima, il corpo si fa sentire. Scandisce la sintassi del romanzo, addolcisce i pensieri. È il sonno della riconciliazione, quello che la notte prima, e per chissà quante notti, gli era mancato. Il corpo sancisce il nuovo accordo che l’uomo ha stretto con sé stesso. Nel bellissimo italiano di Boccaccio, potremmo dire che l’innominato si è “rappattumato”. Verbo difficile da pronunciare, ma bellissimo, che deriva dal pactum, dal patto che sempre stringiamo con noi stessi, che spesso è un patto pavido, un po’ al ribasso, ma che, nelle grandi crisi, quando tutto crolla, a volte riusciamo a rinegoziare — e, in questo modo, a rinascere.

Aveva sonno, aveva sonno, aveva sonno.

L’ingombro delle cose da fare, quelle che avrebbero messo a dura prova l’intelligenza, appartengono alla dimensione del domani. Ora il corpo consiglia la necessità superiore del sonno e del riposo. E l’ora di dimenticare il male, di cedere ad una saggezza delle membra, e non dei pensieri.

Il corpo è il campo di battaglia del romanzo. Tutto inizia dalla scommessa di don Rodrigo e del cugino Attilio sul corpo di Lucia. Il potere feudale è basato sul possesso: delle terre, delle anime, dei corpi. Il potere feudale verticizza: il nucleo di quella morale sta tutto nelle parole che il Principe Padre rivolge alla figlia Geltrude, non ancora monaca di Monza, per spiegarle come va il mondo. Una volta badessa, le dice, farai l’«alto e il basso». Il cosmo mentale di questi personaggi è gerarchico, ogni cosa sta in una tassonomia, tutto è disposto secondo un ordine in cui si può solo obbedire o comandare. Più si va verso il basso, più l’unica sorte possibile è servire e tacere. Sono gente di nessuno, dice don Rodrigo di Renzo e Lucia, e vuol dire una cosa precisa: sono esseri umani senza protezione, non appartengono a corporazioni, non gravitano in campi di potere, valgono per sé stessi. Sono solo corpi. Corpi da possedere. Come si fa al bordello.

Ma il corpo non è mai controllabile, malgrado ogni diffusa fantasia al riguardo. Il corpo non segue le regole sociali, tira trabocchetti, non è affidabile. Si ammala, e così anche don Rodrigo si ammala di peste, va al lazzaretto, diventa corpo fra i corpi, cosa fra le cose.

Nella notte in cui si ammala, fa un sogno che è uno degli incubi più perfetti della nostra letteratura. Si ritrova in una chiesa: «Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni». Nel delirio onirico, Rodrigo si trova nella messa dei morti. Dal fondo della coscienza, il tema folclorico della funzione, cui partecipano i defunti che da vivi non furono pii, diventa lo scenario perfetto per l’angoscia. In mezzo a quei volti deturpati, a quella folla che l’opprime, anche don Rodrigo è diventato nessuno. Ogni autorità, ogni distinzione si è persa.

Largo canaglia! – gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte.

Sentiamo anche noi l’orrore di quei corpi sporchi: solo uno scrittore agorafobico poteva pensare una pagina come questa. Don Rodrigo si perde, quei corpi sparsi e oppressivi sono in realtà il suo corpo, il corpo che, in preda alla malattia, si fa enorme e straniero. Si fa ostile. La spada, il simbolo dell’orgoglio nobiliare, si trasforma nel male fisico, della piaga che genera dolore. Come per tutti gli altri appestati.

Il corpo vince sempre.

Ma il corpo ha le sue esigenze. Nel suo Romanzo per gli occhi, Daniela Brogi ha immaginato che una copia delle caravaggesche Sette opere di Misericordia campeggiasse nelle sale del Lazzaretto di Milano.

Il quadro fu completato nel 1607, a Napoli, per il Pio Monte della Misericordia, e da allora è ancora lì, sopra l’altare maggiore. Il Pio Monte era nato dal desiderio di alcuni giovani nobili napoletani di attuare misericordia per i bisognosi. Misericordia materiale, occuparsi dei corpi. Perché da soli, i corpi non sopravvivono.

La natura, nel romanzo, è spesso segnata dalla carestia e dalla privazione.  È un mondo povero, fragile, instupidito dalla fame. Mendichi, lavoratori stremati e sfiduciati, bambini stralunati e persi, animali macilenti. Il cibo è scarso, ma nel romanzo si mangia, tanto che lo si potrebbe leggere seguendo la traccia del cibo, dalla polenta minima di Tonio che sembrava «una piccola luna, in un gran cerchio di vapori», alle polpette che Renzo mangia all’osteria. Renzo è un eroe mangiatore, si nutre di continuo e quando arriva a Milano nei giorni della rivolta, si avvicina al grande avvenimento, mangiando dei pani che ha trovato per strada. Come un bambino al circo. Ma vediamo mangiare anche Lucia quando, libera dal suo prigioniero, trova riparo nella casa di quel meraviglioso personaggio che è il sarto, gran lettore di storie cavalleresche.

Eccola, in un interno lombardo che, per pulizia e sobrietà, ricorda le case della pittura olandese. Il padrone di casa manda cibo ad una vicina afflitta dalla miseria. Il corpo è universale e nutrirlo è un atto collettivo, sociale, soprattutto in tempi di carestia. “Compagno” è chi divide il pane, che non è mai solo il pane. È il corpo di Cristo, ma è anche l’incontro con chi condivide il nostro destino. Può essere uno sconosciuto o un amico. E così, avvicinandoci alla prossima puntata, chiudiamo con Renzo che nel capitolo trentasette torna nel paese dopo aver ritrovato Lucia viva e ripara a casa di un amico – Manzoni lo chiama proprio così, l’amico – che gli offre un pasto.

“Lascia fare”, disse l’amico; mise l’acqua in un paiolo, che attaccò alla catena; e soggiunse: “vado a mungere: quando tornerò col latte, l’acqua sarà nell’ordine; e si fa una buona polenta. Tu intanto fa’ il tuo comodo”.

Il centro della frase mi sembra essere il biancore del latte, soprattutto associato alla trasparenza dell’acqua. Erich Auerbach ha messo al centro della rivoluzione culturale del romanzo la dignità con cui esso tratta gli aspetti più quotidiani e materiali dell’esistenza. La vita, anche quella organica e semplice, è seria, va rispettata. L’avevano già fatto i pittori olandesi, appunto, e ora lo fanno i narratori. Nei gesti dell’amico c’è la gioia della condivisione. E l’invito finale è commovente. Dopo tante che ne hai passate, adesso riposati un po’ e sbracati, che dopo si mangia. È la vita, la vita che tutti conosciamo nella totale uguaglianza del corpo, dei suoi bisogni e dei suoi desideri.

Il romanzo iniziato col corpo braccato di Lucia termina coi figli degli sposi. Nelle nuove incarnazioni, la vita va avanti.

Colore (sillabario della terra # 9)

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di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

Le tinte dei paesaggi che abbiamo in testa sprizzano sovente da quelle delle loro terre. Senza le coltivazioni queste starebbero nascoste sotto la vegetazione, ma le arature e le lavorazioni ce le sbattono sotto gli occhi, come succede con le ferite aperte. Prendono allora il sopravvento, fiere della loro dispotica impronta sui territori, di essere all’origine della loro bellezza. Si pensi al sanguigno delle terre rosse mediterranee o alle crete abbaglianti solcate dai calanchi degli Appennini. Spesso invece l’impatto è più discreto, quasi un rumore di fondo, come avviene con gli ocra luminosi della Padana. Ma egualmente essenziale. Al pari di tutte le faccende dello sguardo, dobbiamo un po’ autoeducarci, prima di diventarne coscienti.

I colori della terra hanno pochi ingredienti, che sono in genere facili da indovinare. Il pigmento fondamentale è costituito dagli ossidi di ferro. I quali hanno un legame molto stretto con il clima, perché nelle regioni calde o comunque con una stagione calda e secca, come quelle mediterranee, hanno gradazioni rossastre o decisamente rosse, e insomma rugginose. E anche quando il clima si avvicina a quello mediterraneo, senza esserlo davvero, come in molte zone del nord Italia, i toni tendono al rosellino o all’ocra arrossato. Le varie sfumature terra di Siena, per intenderci.

Nei climi più freddi e umidi, e in particolare a nord delle Alpi, gli ossidi originati durante la formazione del suolo risentono invece dell’abbondanza di umidità e hanno tinte giallastre: i suoli sono gialletti o beigeolini. Niente sciali sanguigni, niente schiaffi visivi che eccitano le passioni, si pensa piuttosto al tedio dei lunghi inverni dalle giornate corte. Dove poi c’è un eccesso d’acqua, come nelle zone acquitrinose, i colori sono grigio chiari o anche azzurrognoli o verdolini, fanno pensare alla faccia di una persona anemica. Il ferro in realtà c’è, ma per la carenza di ossigeno non è ossidato.

La colorazione dovuta agli ossidi viene in genere sporcata dalla presenza della sostanza organica, che dà tonalità fosche, tanto più scure quanto più è abbondante. I suoli delle regioni temperate ne sono ricchi, perché con il freddo i batteri che la decompongono lavorano meno bene, o per periodi più brevi: tende a accumularsi, dando colori marroni. Nelle vecchie nomenclature si parlava di terre brune, è un nome che rispecchiava bene la sovrapposizione delle due componenti. Quando il freddo è più intenso si va verso tinte nerastre. Nei climi caldi la sostanza organica si degrada invece molto velocemente, quindi i rossi hanno tendenza a restare belli puliti.

I suoli agrari sono al contrario quasi sempre impoveriti di sostanza organica, perché coltivando se ne asporta, sotto forma di prodotti commestibili o insomma utilizzabili, più di quanta se ne apporti. A meno che non si prestino grandi attenzioni, non è il caso dell’agricoltura industriale, ogni anno il contenuto diminuisce. Anche qui, lo può vedere chiunque: quanto più i suoli sono carenti tanto più sono pallidini. O anche, se c’è una forte tinta di base, questa resta pulita e vivida. Come quei malati che non sembrano tali, grazie alla luce della loro pelle.

I colori possono poi derivare anche dalle rocce dalle quali si sviluppano i suoli, come un dolce si porta dietro il colorito delle carote o del cioccolato. E questo soprattutto quando esse hanno appunto tinte molto spiccate o particolari. I basalti, rocce laviche grigiastre scure o nere, alle Eolie come in Sardegna o in India, danno suoli molto scuri, severi e elegantissimi. Così come i gessi danno i suoli bianchi dello Champagne, spagnoli e tunisini, che fanno sempre il loro limpido effettone. Varie rocce amaranto o viola, per esempio molte arenarie o marne, tendono a dare vistosi suoli granata o con tonalità violacee. In effetti i suoli molto colorati che spuntano qua e là nelle regioni temperate o fredde, come luci lampeggianti che chiamano l’attenzione, ereditano in genere i loro vestiti sgargianti dai substrati, la spiegazione non va cercata nel clima attuale.

Per parte mia i colori ai quali sono più affezionato, forse perché li ho frequentati più a lungo e con più diletto, sono nascosti, e non amano mostrarsi. Sono gli ocra aranciati delle alte terre alpine, o insomma nordiche, delle zone silicatiche, per esempio granitiche o porfiriche. Sotto la scorza della lettiera o dei muschi la terra ha vivissimi colori pastello, da giallo intenso fino a arancio molto carico. In superficie non appare nulla, quasi nessuno sa che cammina su un’opera di Rothko. Bastano però alcuni forti colpi con il tacco dello scarpone, o anche semplicemente uno sbrego recente al lato del sentiero, per vedere il tesoro nascosto.

Bisogna però sbrigarsi, perché le magnifiche tinte a contatto con l’aria perdono subito smalto e forza, diventano gialletti spenti, polverosi ocra senza interesse. Non si mostrano in superficie, e non possono essere conservati. Sono come i papaveri e quei fiori che non si possono raccogliere, perché subito appassiscono. Forse non amano troppo gli uomini e le loro devastazioni. Ti restano solo dentro, come sanno fare le cose davvero preziose.

(l’immagine: tipica sequenza mediterranea: dossetti erosi chiari, terre rosse sui versantini, terre nere nelle depressioni; nord dell’Algeria)

 

Sibili e spasmi: Polly Jean oltre la fossilizzazione del rock

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di Stefano Solventi

Col nuovo disco PJ Harvey si è lasciata alle spalle le soluzioni canoniche del rock: una scelta necessaria e perciò emblematica. Qualche considerazione a latere su I Inside the Old Year Dying.

PJ Harvey è maturata lungo un viaggio che l’ha vista attraversare il mondo e quindi attraversare se stessa, esplorare ed esplorarsi, cambiare maschera, sguardo, linguaggio. Se Dry (1992) era l’esordio di una ventiduenne irrequieta che si aggrappava all’effervescenza tumultuosa dei primi anni Novanta, di un rock che recuperava centralità nell’immaginario collettivo come espressione di inquietudine generazionale e sguardo critico sulle prospettive, l’ultimo lavoro I Inside the Old Year Dying vede invece all’opera una (splendida) cinquantatreenne che ha imparato a domare la propria irrequietezza senza risolverla, ovvero accettando che un’esistenza consapevole debba (non possa fare a meno di) prevedere turbamenti, crucci, irrequietezza (appunto).
Un bel po’ di tempo fa – era il 2009 – pubblicai una monografia su di lei (PJ Harvey Musiche Maschere Vita, Odoya) nel quale azzardavo una profezia: ovvero che White Chalk (2007) rappresentava per Polly Jean la conclusione di un percorso e, di conseguenza, la premessa per l’aprirsi di una nuova fase della sua carriera. Non sono mai stato granché bravo con le previsioni, ma in quel caso gli eventi non mi smentirono. Il successivo Let England Shake (del 2010) coincise infatti con una svolta piuttosto netta, senz’altro da un punto di vista musicale (anche se a ben vedere non si trattava di una novità: praticamente in ogni disco Harvey aveva introdotto cambiamenti stilistici considerevoli) ma soprattutto sul versante tematico, perché la ex-ragazza del Dorset sembrava allargare lo sguardo al di fuori della propria parabola esistenziale, oltre le inquietudini (auto)biografiche.
Dopo avere cercato se stessa nel mondo, sembrava prendere coscienza del mondo. Ecco quindi che nuovi temi – la guerra, le forme contemporanee e variamente delocalizzate di imperialismo, le strategie macro-economiche e relative ricadute sulle realtà sociali – arrivarono a segnare liriche e atmosfere di Let England Shake così come del successivo The Hope Six Demolition Project (2016).
Il cambiamento più importante rispetto alla produzione dei Novanta e degli anni Zero riguardava quindi il rapporto tra musica e testi, con questi ultimi spostati sensibilmente in posizione prioritaria, a guidare – per così dire – il design sonoro. Non a caso The Hope Six Demolition Project fu preceduto da The Hollow of the Hand (2015), un progetto poetico e visuale condotto a quattro mani assieme al fotografo e videomaker Seamus Murphy. Mi pare conseguente individuare proprio in questo spostamento dell’angolazione espressiva una delle ragioni alla base della mutazione profonda sul versante sonoro: con il suo tipico basso profilo ma con altrettanto tipica risolutezza, PJ Harvey ci stava dicendo che non poteva più essere considerata semplicemente una rocker.
O, almeno, non nell’accezione più tipica e caratterizzante del fare rock, che al di là delle connotazioni stilistiche e formali – struttura delle canzoni, arrangiamenti – vede le canzoni ruotare quasi sempre attorno a una volontà di agnizione, al tentativo di sciogliere nodi emotivi con finalità liberatorie, contemplando “temperature” espressive che vanno dalla rabbia alla tristezza, dall’allegria all’aggressività, dal rapimento allo scazzo, dall’eccitazione (sessuale o meno) all’apatia e via discorrendo.
In ogni caso, la canzone rock – utilizzo qui “rock” come termine ombrello sotto il quale, fin dalla sua nascita, agisce una pletora di elementi anche assai eterogenei, dalla black music al folk passando dalla musica sintetica alla colta contemporanea e via discorrendo – è nella migliore delle ipotesi una cipolla di vetro intrigante, nella quale è piacevole – liberatorio – gettare lo sguardo e immergersi. Tuttavia, è una cipolla compiuta in sé, un “luogo” formalmente e atmosfericamente delimitato in cui si consuma una vicenda emotiva anche stratificata e complessa, ma di cui viene fornita comunque una soluzione (coincidente con il suo acme o la sua stessa problematizzazione, talvolta entrambe le cose).
Da Let England Shake in avanti – ma a guardar bene già da White Chalk – sembra che per PJ Harvey questo schema non abbia più avuto importanza o, addirittura, senso. Per il malcelato sconcerto – ammettiamolo – dei fan della prima ora.

Negli scorsi mesi mi è capitato qualche volta di scambiare con amici qualche ipotesi sul nuovo disco di Polly Jean, di cui era ormai certa l’imminenza. Quasi sempre le considerazioni vertevano su un auspicio: che tornasse a farsi sentire almeno in parte la potenza scorbutica e viscerale di un tempo. Di cui anche il tour di The Hope Six Demolition Project recava ormai pochi segni, a favore di un ben congegnato e peraltro assai efficace costrutto post (o avant) folk con perturbazioni blues e a tratti persino jazz. L’auspicio di cui sopra parlava chiaramente più di noi – del nostro attaccamento a un’idea ormai fossile, della nostra comprensibile nostalgia – che della musicista Polly Jean Harvey negli anni Venti del ventunesimo secolo.
Colpa, va detto, di una prassi trita e ritrita di molte carriere rock convenzionali: il famigerato rientro nei ranghi dopo una più o meno lunga escursione in territori diversi e in alcuni casi addirittura sperimentali. Fa parte del novero di ritualità consolatorie che rappresentano il porto sicuro per ispirazioni giunte al capolinea in termini di spinta propulsiva, mantenendo così viva (e remunerativa) la relazione coi vecchi fan e lasciando aperta casomai la possibilità che a questi se ne aggiungano di nuovi, attratti dal riverbero mitologico tipico delle vecchie glorie. Ma è evidente – lo è ancor più oggi – che quella di PJ Harvey non può essere definita una carriera rock standard.
Più correttamente, pare essersi sganciata dal locomotore rock per inoltrarsi in un territorio che deve rendere conto solo alla propria necessità di esprimere, nelle forme, nei modi e nei tempi che ritiene più congrui. In poche parole, Harvey si sta prendendo il rischio di volersi tanto poeta quanto musicista, forse addirittura prima poeta che musicista. Il suo sembra essere un approccio sempre più verbale all’espressione (coprendo tutto l’arco che va dalla sintassi alla semantica narrativa), come testimonia il grande lavoro sulla voce che caratterizza I Inside the Old Year Dying.

Va da sé che la voce è sempre stata per Polly Jean un elemento cruciale, ma la sua calligrafia canora (se mi si consente la locuzione) è assai mutata nel tempo. Inizialmente si è contraddistinta per l’approccio selvatico, poco o per nulla impostato, votato alla fibrillazione e al deragliamento. La sua dichiarata ammirazione per Captain Beefheart e i costanti paragoni con Nick Cave (con cui ebbe una breve ma intensa relazione), risultano del tutto indicativi per quanto riguarda la prima parte della discografia (fino a To Bring You My Love – 1995 – compreso). Poi qualcosa ha iniziato a sfaldarsi e a ricomporsi diversamente, prendendo direzioni poco pronosticabili.
Allargando progressivamente il raggio d’azione – in senso stilistico ma anche geografico e (quindi) tematico – Harvey ha capito di dover domare il timbro e il fraseggio, si è affidata a insegnanti di canto che le hanno consentito di modulare un semifalsetto evocativo e inquietante senza il quale non sarebbe stato concepibile un lavoro come Is This Desire, l’album del 1998 con cui incrociava le traiettorie trip-hop di Bristol, e soprattutto il più volte citato White Chalk. Quest’ultimo, è il caso di ribadire, la vedeva fare i conti coi fantasmi delle proprie origini adottando uno stile prossimo al cosiddetto prewar folk, ovvero lontanissimo (già allora) da tutto ciò che ci saremmo aspettati da una delle rocker più importanti a cavallo tra anni ‘90 e Zero.
Si trattò di una scelta sorprendente ma del tutto congrua se valutiamo la sua parabola come un percorso di individuazione, di ricerca di sé dal Dorset al Mondo e ritorno. Era proprio questo senso di compimento e chiusura, di pacificazione e individuazione, che all’alba degli anni Dieci mi spingeva a ipotizzare nel futuro di Polly Jean l’aprirsi di una fase nuova.

Let England Shake costituì indubbiamente una svolta, anche se per molti versi presentava ancora stilemi e strutture di stampo rock, retaggi della “vecchia” Polly Jean. Nei testi, soprattutto, avveniva qualcosa di inedito: pur se ispirati ad avvenimenti storici, sembravano progettati affinché ogni canzone lasciasse una questione aperta sul tavolo. Di conseguenza, il processo canonico – l’enunciazione di una tensione o tumulto, l’eventuale sedimentazione in uno stato d’animo e la più o meno immancabile soluzione liberatoria – appariva depotenziato, per non dire oltrepassato. Lo sguardo di Polly Jean somigliava più a un otturatore aperto, le sue canzoni a carrellate che catturavano situazioni conflittuali, corrose, tese, delle quali intendeva essere testimone prima che (anziché) il punto di fusione: una specie di rovesciamento copernicano rispetto al fisiologico egocentrismo del rock, come frutto di una rinnovata consapevolezza della propria dimensione e del proprio ruolo rispetto al presente e alla Storia.
Un aspetto che nel successivo The Hope Six Demolition Project sarà ancora più evidente. A quel punto, a rimanere fuori dalle inquadrature era lei stessa, o meglio le maschere nella quali si era incarnata fino ad allora, vale a dire quel suo cercarsi tenace e spasmodico. Guadagnata padronanza di sé, dell’idea di sé nel mondo, sceglieva di essere testimone di un mondo ferito, tanto più labirintico quanto più interconnesso, scrutando nelle pieghe e nelle piaghe del sistema alla ricerca delle particelle elementari dell’iniquità.

Tuttavia, il suo non sembrava affatto un impegno indossato come si può indossare una maglietta. Si trattava di un approccio più poetico che militante, e in questo senso non tanto a-politico quanto pre-politico: la Harvey degli anni Dieci non sceglieva una parte, il suo era un esercizio di sguardo, un farsi carico della realtà anche se spigolosa e impura, anzi proprio della sua condizione più accidentata e contraddittoria. I testi volevano costituirsi come cronache da un mondo sottoposto alla forza sia centripeta che centrifuga della globalizzazione ai tempi del web, un paradigma che investe ogni angolo del pianeta, instaurando connessioni pervasive ma impedendo una reale vicinanza, anzi esaurendosi proprio nell’imposizione di un simulacro di vicinanza, confezionato su modelli economici e sociali sradicati, funzionali a un meccanismo economico tanto immanente quanto astratto. Da cui un ritorno alla (un bisogno di) percezione immediata – Polly Jean si recò personalmente in Kosovo, in Afghanistan e a Washington DC per realizzare The Hollow Of the Hand – come antidoto alla falsa prossimità della connessione, al gioco di prestigio che illude di abbattere gradi di separazione solo per straniarti in un soddisfacimento dopaminico.
Non c’è conclusione né morale nelle storie che raccontano le canzoni di The Hope Six Demolition Project, sono sequenze che catturano un presente instabile, in bilico su sviluppi che ramificheranno tanto nella realtà esterna quanto in quella interiore di chi ascolta. Tutto è pianificato, sembra dire Harvey in filigrana, ma molto si sta ancora scrivendo, dove si consuma l’attrito tra vita e Mondo, nella risacca tra quotidiano e globale. Da cui un’esigenza espressiva poco compatibile con le convenzioni della canzone rock, che appunto tende a orbitare attorno a un costrutto emotivo chiuso, risolto, esplosivo anzi esploso, per quanto complesso e stratificato. Al contrario, il bisogno di apertura, di inesploso, di alea, ha spinto sempre più PJ Harvey verso la poesia.

Perciò non ha stupito – non troppo, almeno – che I Inside the Old Year Dying sia stato preceduto nell’aprile del 2022 dalla pubblicazione di Orlam, un poema (300 pagine nell’edizione inglese) incentrato sulla stessa vicenda che diverrà poi il concept del disco. Protagonista è Ira-Abel Rawles, una bambina di nove anni che vive nel villaggio immaginario di Underwhelem, un luogo intriso di superstizioni ataviche con al centro il santuario di Gore Woods, del quale Orlam – bulbo oculare di un agnello mitologico – costituisce una sorta di guardiano spirituale. Le pagine seguono il passaggio di Ira dall’età dell’innocenza a quella della consapevolezza-corruzione, segnata da turbamenti inconfessabili, soprusi, trasalimenti estatici, ribellione agli schemi oppressivi della famiglia e della piccola comunità, quindi dall’infatuazione per un soldato fantasma, Wyman, nel quale si compenetra la figura di Elvis, colui che annuncia “La Parola”, simboleggiata da una canzone emblematica come Love Me Tender.
Appare chiaro come tutto ciò comporti una cesura rispetto alla direzione intrapresa dai due dischi (e dal libro) precedenti. A prima vista sembra anzi trattarsi di un recupero dei vecchi temi, con Polly Jean che collassa di nuovo nel groviglio (evidentemente) irrisolto di se stessa, ovvero scruta il cuore oscuro dei tempi attraverso Ira-Abel e la sua tenebrosa vicenda di formazione. In effetti il tema della superstizione, delle figure ctonie, dell’arretratezza culturale e della perniciosità rurale caratterizzavano già la primissima produzione di Harvey, basti pensare a pezzi come Sheela-Na-Gig o Dress. Sono d’altronde gli stessi spettri (culturali e sociali) che più avanti avrebbe affrontato – con una diversa maturità, altri mezzi e intenzioni – in White Chalk. Ma sarebbe un errore credere che la PJ Harvey degli anni Dieci, quella che osservava il mondo facendosene carico, con I Inside the Old Year Dying sia stata messa da parte, svanita come una parentesi o un vezzo episodico.
Ogni percorso analitico non può che partire da Ira-Abel, simbolo di ciò che galleggia nel suo (nel nostro) essere profondo, il fanciullino pascoliano che la formattazione sociale sempre più pervasiva tenta di rimuovere col risultato di farne un mostriciattolo rannicchiato dietro i pensieri coscienti, il demone che complica i piani della volontà, la sabbia nel motore del raziocinio. In altre parole, è il fattore umano, il desiderante, quello che nell’epifania di Elvis Presley scorge il varco per raggiungere la liberazione del corpo e della parola (ovvero l’individuazione tra corpo e parola) in un presente che tende sempre più a normalizzare il desiderio – la sua natura misteriosa e sostanzialmente impura – per farne input di profilazione e carburante di piattaforme commerciali.
In questo senso, Orlam e la sua appendice sonora I Inside the Old Year Dying rientrano ancora nella sfera della militanza, dello sguardo sul mondo. Ovvero, sono il modo con cui Polly Jean Harvey ha coperto la frattura tra biografia e politica, con la mediazione di musica e poesia. Una musica che, per tutto quanto detto sopra, non poteva manifestarsi e costituirsi all’interno dei tipici schemi rock: dal punto di vista degli arrangiamenti (architettati assieme ai fidi Flood e John Parish), notiamo che trombone, clarinetto, Variophon, field recording, pianoforte, chitarre acustiche, sintetizzatori e loop pennellano una trama vibratile, caliginosa, che non esclude il rock dallo scenario (possiamo pretendere che il rock non affiori nella calligrafia di Polly Jean?) ma lo spinge in secondo piano, come una silhouette familiare (folk-psych? slowcore?) che riesci a scorgere attraverso a un diaframma, come un’ombra dietro le palpebre socchiuse.
Ma al di là degli elementi che compongono la palette sonora, nelle dodici canzoni di I Inside the Old Year Dying domina ancor più che nei due dischi precedenti un senso di tensione orizzontale, di mesmerismo rapsodico che non intende risolvere l’intuizione melodico/narrativa in un acme emotivo (come tende a fare il rock e ancor più il pop), ma anzi disegna una geografia sgranata, la vaghezza angosciosa di un orizzonte senza punti di riferimento netti. È un “luogo” che elude la territorialità, vaporizza le coordinate temporali, spariglia i connotati culturali, costituendosi come un altrove ibrido, superficie atavica lacerata di strappi e cosparsa di buchi dai quali filtrano i fantasmi di un futuro passato.
È il campo da gioco ideale – o, meglio, necessario – per la strategia espressiva individuata da Polly Jean, il modo in cui ha scelto di produrre senso, dal momento che il senso è sempre prodotto, non è mai originario ma causato, quindi correlato a modi e forme delle sue cause. Un senso che evidentemente non poteva essere causato da forme rock: tuttavia, Harvey non ha potuto abdicare a se stessa, a tutto ciò che l’ha portata fino a qui (e quindi anche fino a quel senso). Perciò al poema è seguito il disco, il riflesso sonoro del poema.
Vista da qui può sembrare una scelta arbitraria e, soprattutto, conveniente. Ma occorre puntualizzare: Harvey ha confermato le voci che la volevano intenzionata a chiudere con la musica dopo The Hope Six Demolition Project, così da potersi dedicare alle sue altre passioni, ovvero la scrittura e il disegno. Ha rivelato inoltre di avere coltivato concretamente il sogno di realizzare una versione teatrale di Orlam, progetto poi naufragato ma i cui lavori preliminari l’hanno portata naturalmente a concepire il disco.
Così ha dichiarato in un’intervista a NPR: “Mi sono resa conto che sono un’artista che crea con parole, musica e immagini, e non sono mai del tutto sicura degli esiti finali. Anche nelle prime fasi di scrittura di una canzone, molto spesso concepisco le cose in modo molto visivo: potrei vedere una scena, quasi come una scena di un film, e vedrò i colori e l’ora del giorno. Le immagini, le parole, la musica: si alimentano a vicenda”. Il disco andrebbe visto quindi come un asintoto tra due forme espressive così lontane così vicine – così sovrapponibili e aliene – come la poesia e la musica (con l’arte figurativa ad agire, diciamo così, come processo sinestetico in background).

Sostiene Lewis Carroll, citato da Gilles Deleuze: “spasmo o sibilo, le due regole della poesia”. Quanto sia “sibilo” il (post?)rock di I Inside the Old Year Dying è evidente all’ascolto, costituisce la fibra stessa del canto di Polly Jean, prevalentemente tarato su un registro sfuggente, laterale, quasi riluttante (“mi sento come se non avessi mai cantato come faccio in questo disco”, sostiene nella succitata intervista a NPR). Non cerca mai la deflagrazione, l’agnizione – melodica, testuale – liberatoria. Dal punto di vista lessicale, ricorre sistematicamente a locuzioni dialettali – del Dorset – per la loro carica esoterica, per la capacità di offuscare e al tempo stesso contenere, di ramificare senso. Termini come “leery”, “bwoneyard”, “wordle”, “gapmouth”, “Eäpril” o “curdling” determinano uno scostamento ricorrente tra significante e significato, sono riconoscibili e quindi tutto sommato comprensibili rispetto all’inglese standard eppure sono altro, prevedono un livello residuo di sfocamento, testimoniano uno scarto di realtà minimo ma sensibile. Da cui il perturbante, l’uncanny che si prova di fronte a ciò che è familiare tuttavia trasmette segnali di alterità. È una delle chiavi con cui Harvey tenta di scardinare la materia oscura del senso.
In una scaletta più dinamica di quanto non faccia pensare un ascolto superficiale, che appunto fa prevalere – deve farlo – il senso profilmico di slittamento e mancanza di appigli, Lwonesome Tonight costituisce la chiave di volta: la bambina si schiude rispetto ai misteri diversi – ma simili nella loro profondità – di Natura e Civiltà, da una parte i faggi, i salici, le betulle e i pioppi tremuli, dall’altra il soldato/fantasma con la sua Pepsi, i panini al burro di arachidi e banana, e quella canzone che sembra spalancare universi di carne e spirito. “Are you Elvis? Are you God?/Jesus sent to win my trust?”, sibila Ira-Abel, ed è quasi più un’invocazione che una domanda. In questo amplesso spettrale intravediamo l’interrogativo angoscioso della contemporaneità: se è vero che siamo umani perché produttori di strumenti culturali, di tecnologie sociali, cosa sta accadendo alla nostra umanità profonda, alla nostra dualità indecifrabile, al nostro essere pre-tecnologico?
La canzone si chiude con una domanda – “My love, will you come back again?” – che spinge il sibilo fin sull’orlo dello spasmo. E proprio su questo orlo/confine il disco continuerà a muoversi fino al movimento conclusivo, al tracimare nella dimensione elettrificata di A Noiseless Noise, nella sua pulsazione battente, meccanica. Che è uno spasmo sì, e uno spasmo rock, certo, ma non spasmodico, anzi come devitalizzato, vissuto da una distanza poetica, domato in una forma reiterabile, quindi rumore senza rumore (appunto), un falso movimento, uno spasmo spettrificato. In questo finale si avverte come un corrugarsi estemporaneo del mistero, un’oscillazione di senso tra una “gawly girl” e un “bogus boy” prima che cali di nuovo su di loro la foschia dell’indistinto, la falsamente pacifica(ta) normalità (“Go home now, love/Leave your wandering”). E questo è il massimo che ci viene concesso in quanto acme liberatorio: sembra quasi che Harvey utilizzi una forma rock per evidenziarne l’impotenza in una cornice narrativa che non prevede soluzione. Che non prevede liberazione.

Dopo un numero considerevole di ascolti, la sensazione è che I Inside the Old Year Dying sia un disco destinato a restare. Sono convinto che lo aiuterà – paradossalmente: ma questa è un’epoca di strani paradossi – il fatto di non curarsi dei trend e delle prassi promozionali standard. Anche solo per la sua così strutturata e stratificata natura di album (potremmo addirittura parlare di concept album), costituisce un anacronismo tenace, una sfida alle prassi imposte dalle piattaforme di streaming che tendono a privilegiare l’uscita del singolo (di più singoli anziché di un album), tanto che tra i cosiddetti nativi digitali fatica ad attecchire il concetto di album diversamente da quello di “raccolta di canzoni”.
Tuttavia, non si può ignorare che I Inside the Old Year Dying esiste così come esiste grazie a un’opera letteraria preesistente: sembra quasi suggerire che la possibilità stessa di un (concept) album oggi non possa prescindere da una “stampella” esterna, da qualcosa che lo determini e lo giustifichi.
Inoltre, come ampiamente detto, per realizzarlo la sua autrice – una delle più importanti figure del rock degli ultimi trent’anni – ha ritenuto necessario intervenire sul proprio linguaggio fino a metterne in crisi la fisionomia rock, vale a dire mutando in profondità quelle caratteristiche che definiscono il rock da circa settant’anni – dal primo Elvis – a questa parte.

In conclusione, credo che I Inside the Old Year Dying sia un disco particolarmente riuscito anche per come chiede all’ascoltatore di uscire dalla comfort zone e riconsiderare la propria cassetta degli attrezzi estetica. Ciò vale ancor più per chi voglia tentare un approccio critico: un’angolazione rock (ci si metta tutto il folk, il blues e le escursioni sintetiche che si vuole) rischia di spingere l’analisi fuori dalla cornice e produrre valutazioni incongrue.
Detto in altre parole, col suo decimo album PJ Harvey ci sta comunicando – sta sibilando – un messaggio a latere ma a mio avviso cruciale: in un presente mai tanto rapido a trasfigurare ogni codice nel proprio stesso avatar, per esprimere in maniera significativa occorre tenere salda la presa sul significante, e se necessario intervenire con determinazione, modificandolo anche in profondità. Per evitare che ne rimanga solo un riflesso calcificato al termine di una lunga catena di riflessi, la scintillante amnesia di un linguaggio ormai fossile.

Da “Scrivere sul margine”

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di Matteo Pelliti

Tra i significati letterali
di scrivere sul margine
è piuttosto famoso quello
del teorema di Fermat,
                                                         che sul bordo
                                                         non ci sta.
Per questo sono più
interessanti quelli
metaforici.

*

Pablito, i tre gol al Brasile certo,
ero in spiaggia e fu l’unica volta
che comprai una bandiera tricolore,
avevo dieci anni compiuti.

Ora che sei andato via
e le ceneri sono state
deposte in una Coppa
del Mondo, aggiorno il conto
di questo strano mondo,
dopo Bialetti, un altro funerale
che mescola il sacro
con quanto è ritenuto sacro
e forse è profano.
.
*

2. Un Dio

E quando mi sporgo dalla finestra
della cucina
per guardare laggiù
la gente in fila
a chiedere il cestino,
un po’ di pasta, del pane, un poco d’acqua
immagino che ci sia
sopra di me un Dio

                 - e perché poi uno solo? E non sarebbe meglio
                 invece un Dio per ogni povero cristo in fila? -

alquanto deluso,
un Dio che si sporge dalla finestra
della sua cucina
per guardare quaggiù, e guarda me
che guardo la gente in fila,
e lo vedo,
lo vedo
scuotere la testa.

*

Desiderio di diventare un istruttore di karate

Un amico poeta mi ha suggerito
di non indulgere troppo
nel mettere i figli al centro dei versi
ma in questa estate in secca d’ispirazione
come di acqua piovana è una foto
di mia figlia a farmi riaprire la pagina
con quell’urgenza di scrivere qualcosa
per riuscire a conservarne traccia.

Lei su una canoa, con i compagni
di karate, insieme agli istruttori,
sorride, felice, negli occhi
la piena consapevolezza di sé quattordicenne
che fa di lei se stessa, è una serata
di fine corso, sul lago, al tramonto.

È allora che penso che vorrei essere
il suo istruttore di karate
perché conosce mia figlia
e perché passa con lei un tempo ininterrotto settimanale
                                                           - ho calcolato, tre ore -
per me invidiabile e poi perché lei dice
che in qualcosa ci somigliamo, lui e io,
spero sia forse il tentativo mio di praticare
una mitezza che non ho, una gentilezza indiscriminata,
la calma che non ho e che vorrei avere, mostrare,

e vorrei passare con lei il tempo che passa lui,
come quest’anno, che è diventata cintura blu,
come questo cielo senz’acqua,
questa estate in secca d’ispirazione,
questo tempo che continuo a inseguire con lei
meravigliosa e unica ragazza.

*

Ecdotica

                                               Lascia al lettore ciò di cui il lettore è capace...
                                               ma aiutalo anche a farti capire.

Qualche pagina fa avrai letto
quel testo che raggranellava
parole pescate da altri testi
per farne uno nuovo e tentare così
un elenco di idee significanti
intorno all’espressione
“Scrivere sul Margine”.

Con quel gioco volevo suggerirti
di non cercare il senso delle cose
concentrato tutto in un punto solo
in un concetto
ma piuttosto in costellazioni,
in disegni frastagliati
come quelle figure che si rivelano
soltanto unendo i punti da uno
a novantanove.

Lo vedi, a forza d’avere in uggia
i poeti che non spiegano più niente
finisce che qui ho spiegato troppo.

*


[Questi testi fanno parte della raccolta Scrivere sul margine, 
arricchita dei disegni di Guido Scarabottolo, in uscita 
per Interno Poesia.]

La scorza

1

di Maria Teresa Rovitto

Riuscivamo a vedere l’abbondanza che ci circondava senza prendere sul serio nessuna delle teorie sulla povertà relativa. Era bastato nascere da madri che consumavano pasti nutrienti, dormivano supine e ci leggevano le favole proposte dai libri che afferravano dalle vetrine del corso. Il mondo era diventato un posto più sfacciato da quando abitavamo nella stessa casa e, prima di quel momento, nessuno ci aveva mai chiesto conto dell’unione dei nostri corpi. Dal giorno in cui a lui si conficcò un insetto nell’orecchio ci sembrò inutile continuare a ragionare sulle nostre scelte. Che bello questo insetto!, lo teniamo?, chiesi una sola volta.

Lui diceva che mi avrebbe aiutata a comprendere questa novità: io avevo ancora entrambi i canali uditivi liberi, dopotutto, e non c’era alcuna forma di vita che premeva sulla mia membrana timpanica, (studiava la conformazione dell’orecchio). Non avevo alcun modo di sviluppare le sue stesse capacità sensoriali. Diceva anche che da quel momento avrebbe avuto bisogno di più tempo per fare la stessa quantità di cose di prima, perché erano in due, il peso dell’insetto si era aggiunto al suo, e che già qualche parola dei nostri discorsi gli sfuggiva, soprattutto quando l’animaletto si agitava, infastidito nei movimenti dall’impiastro di cerume. In verità, diceva che a volte non riusciva a sentire neanche la propria voce. In questo colsi una fragilità che mi strinse ancora di più a lui. Nonostante questi intoppi, vivevamo entrambi più sollevati: la gestione dell’esserino incavato richiedeva concentrazione, pazienza, adesione. Iniziò un periodo di rinnovato interesse verso la nostra anatomia. Le ispezioni interne si facevano sempre più frequenti, ci dimenticavamo i ruoli assegnati, ci misuravamo reciprocamente la temperatura basale per assicurarci che non ci fossero infiammazioni in corso; se io gli soffiavo nell’orecchio per provocare le leggere vibrazioni dell’insetto, lui mi faceva aprire la bocca. Avevamo di nuovo tanto di cui parlare: ci chiedevamo quale fosse la specie di bestiola incavernata (sperando che non si trattasse dell’ordine degli emitteri, dal momento che alcuni di loro erano ematofagi), illuminati fino a notte dallo schermo di più dispositivi attivati per le nostre ricerche simultanee (elitre: primo paio di ali, chitinizzato e indurito, che costituisce come un astuccio a protezione del secondo paio di ali e dell’addome). Ci lanciavamo anche in domande meno scientifiche, come quelle sull’umore dell’insetto: era contento o malcapitato? Questa inedita forma di dipendenza ci eccitava. Qualche volta lui provava un fastidio che poteva diventare dolore, e me ne accorgevo da una leggera contrazione del suo volto. Quella smorfia appariva come un lampo di ridicolo e sarei inesatta se provassi a descriverla; posso solo ammettere che mi induceva a pensare che forse stavamo sbagliando a non fare davvero i conti con quella situazione; però era bello tornare a vederlo per la prima volta, dopo tanto tempo, piangere con tutto il corpo, di cui i suoi occhi non erano che la parte più trasparente. Nonostante l’euforia, gli proposi una seria visita medica. Uscirà da solo, rispose. Così aprimmo tutte le finestre per quando avrebbe deciso di andare via e questo scenario ci permise di essere meno sospettosi durante l’accoppiamento: non si può parlare di sesso né prendersi in una stanza dove non tira vento.

Una notte l’insetto stappò l’orecchio e sparì, come lui aveva previsto. Tornammo a sentire l’abbondanza, a provarne nausea e a constatare con rammarico che nessuno aveva il coraggio di derubarci. Tornammo a giorni offuscati in cui dimenticavamo di prepararci i nostri pasti preferiti, di pagare l’affitto e di andare a ritirare in lavanderia i nostri capi più delicati. Trovavamo il lavandaio sommerso dai vestiti puliti da consegnare nel suo piccolo negozio in cui non c’era più spazio e ci chiedevamo chi potesse essere tanto distratto ed egoista. Ci chiedevamo chi fossero i nostri simili. Era un’opportunità: certe uguaglianze non sono così manifeste fino a quando qualcuno non rischia di essere seppellito. Cambiare idea era di nuovo una debolezza. La scorza si riformò velocemente. Ci prese di nuovo la smania di pianificare brevi soggiorni in città europee ridipinte da street art commissionata; ogni cosa ci sembrava raggiungibile: una frivolezza spenta solo dalla nostra abitudine serale di indagare sulle malattie che avevano colpito gli altri prima di noi. Le sofferenze altrui erano diventate una buona forma di mediazione e qualche volta dopocena riuscivamo a toccarci pur non sapendo più nulla l’uno dell’altra. Usavamo l’energia che ci avanzava per praticare un tipo di violenza slegata da ogni tattica e quindi mirata alla pura disintegrazione. L’amplesso era tornato a scottare nella sua luce cinerea e io, durante, non potevo fare a meno di immaginare l’esoscheletro di quel piccolo insetto sparito che un tempo ci aveva scelto. Ripresi a dirgli cose orribili che includevano l’elenco dei compiti che avrebbe sicuramente accettato durante una dittatura. E lui a me. Tornammo a prendere appunti sulle pratiche di ringiovanimento. Ogni volta che cercavo di aprire un libro, mi tagliuzzavo un polpastrello con il bordo di una delle pagine centrali, ma la carta non si tingeva mai di rosso. Mi deludevo e passavo avanti. Dovevo inventarmi qualcosa.

Presi a fare lunghe passeggiate in campagna per favorire l’ingresso di un insetto nel mio orecchio. Sarebbe bastato fingersi addormentata vicino a un arbusto di sambuco o di sanguinella e creare con la respirazione una pressione d’aria tale da rendere ogni mia cavità un posto sicuro e non solo un luogo di passaggio.

Lo sguardo perso nel pietrisco rinsaviva nei cardi. Ogni tanto mi fermavo presso la vasca di una fontana dal fondo limaccioso e lì i moscerini aggiravano gli schizzi d’acqua che avrebbero potuto annegarli in aria. Le trasparenze e il volo nervoso degli sciami di corpuscoli formavano come un circuito elettrico. Accarezzavo fasci di verde spinosi, punteggiati da bacche lungo vialetti scoscesi; vi erano numerose piante allogene di cui nessuno ormai sarebbe stato in grado di riconoscere l’origine lontana. Io baravo e usavo un’applicazione che insieme al nome e alla provenienza dell’esemplare fotografato, elencava tutte le specie native per le quali rappresentava un pericolo. Nonostante avessi tanti ricordi di bambina legati a un paesaggio campestre, non successe nulla. Nessun insetto tradì la sua natura.

È stato nel bosco, gli dissi, inventando tutto. E raccontai.

Non era vero che il bosco era un luogo dalla scarsa presenza umana. I miei simili erano alla ricerca dei loro animali e, prima di disperdersi, si riunivano in gruppi presso le macchie lasciate dagli incendi. Io li osservavo, ma non potevo imitare le loro tecniche perché avevo un buco piccolo da far riempire e non mi serviva percorrere lunghe distanze, al contrario dovevo restare immobile. Per un anno ogni mattina entravo dai margini al centro dell’ombra di faggi e querce, spinta dall’immagine fissa di noi tre: di noi due che vincevamo di nuovo la stanchezza. Credo che l’insetto che ora si trova dentro di me, gli spiegai mentendo, sia stato attratto dal colore caldo del mio orecchino di ambra dalla forma irregolare e primitiva o da come la mia pelle rispondeva alla scala di grigi di quella luce filtrata dalla vegetazione. Quella bugia era una forma d’amore, non avevo altro modo che fingere per ristabilire un ordine. Rubai i suoi stessi argomenti per non andare dal dottore, Uscirà da solo quando sarà tempo; del resto lui non aveva il mio coraggio e non si lanciò mai in quelle meticolose ispezioni per controllare almeno lo stato del mio organo. Avevo sempre più spesso la sensazione che provasse una sorta di ribrezzo di me abitata dall’insetto. Iniziai a credere che non era stata una buona idea fingermi nella sua condizione, di quando era accorpato con la bestiolina. La scorza tra noi si ispessiva, anziché staccarsi.

In quegli anni mi appassionai all’entomologia. Delle cavallette, ad esempio, si sa che ciascuno dei loro occhi vede solo una parte dell’oggetto osservato e insieme ricostruiscono l’immagine. Si sa anche che prediligono floridi campi cosparsi dei prodotti del lavoro dell’uomo, serre propizie. Ma a volte qualcuna si perde in terreni aridi e incolti.

Quando tutti avevano ormai appreso della mia morte, lui iniziò a raccontare che era stata causata da un insetto marcito nel mio orecchio destro.