[18 immagini + lettere invernali per l’estate; 1, 2, 3,4,5,6…]
di Andrea Inglese
Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,
lo stare male, per me, non è mai stato un problema.
Quando c’è da stare male, sono in grado di farlo,
di stare male a lungo, ininterrottamente, senza
riserve. A Buenos Aires, una città fredda,
sono stato male per più di un anno, con qualche
breve interruzione al tramonto, e dopo cena, via,
si riprendeva. (E al porto, o al ristorante
seduto solo al tavolo, imparando a memoria
la breve frase della mia ordinazione: «sogliola
in salsa di cipolle rosse con riso bianco».)
Prefazione. Sono accerchiato e sono fottuto.
Piove, piovono soprattutto calci allo stomaco, cazzotti al petto, ad occhi chiusi per evitare i danni collaterali, un bulbo fuori dall’ orbita, che ne so… so che piovono mazzate come non erano mai piovute prima, e la quantità e la frequenza… mi colpiscono così velocemente al petto che non ho il tempo di prendere fiato, ogni colpo mi mozza in gola il tentativo di inspirazione, non riesco a respirare. Non so quanti sono, non lo voglio sapere e non me lo chiedo; la verità è che voglio incassare. Passivo passivo passivo, non muoverò un dito, me ne starò lì a terra, senza reagire, innamorato.
Innamorato. È solo questo, sono innamorato.
Un uomo urla, mentre sta morendo. Qualche strumento (un cellulare, una videocamera) Io registra: io – webmaster, regista, giornalista – in possesso dell’audio, ho il diritto di renderlo pubblico, di utilizzare il suo ultimo grido? Mimmo Calopresti, nel suo film-documentario sulla tragedia della Thyssen, in un primo momento ha detto sì. Ha ha inserito le grida di uno degli operai morti nella fabbrica torinese. Poi, di fronte alle proteste della madre della vittima, ha deciso di toglierle. Ha fatto bene.
Calopresti avrà agito con le migliori intenzioni: per denunciare le morti sul lavoro, per fini artistici, di cronaca. Ma quella voce corre il rischio di essere troppo simile ad altre che hanno dato vita a un’insopportabile giostra mediatica, a una partita di giro di emozioni digerite e sputate da radio, tv e giornali.
Il Tirocinio
Il tirocinio è una attività che si compie per allenarsi a diventare professore della scuola italiana. Si fa nelle scuole affiancando professori che ti insegnano a diventare come loro abili nell’insegnamento e quindi si impara a contribuire a formare la società italiana.
La prof.ssa Vengo
La prof.ssa Vengo oggi ha cominciato a insegnarmi a diventare professore.
Lei è un tipo spigliato e aperto che contesta la destra che sta al governo facendo riferimenti ironici a Berlusconi e al nord che è produttivo ma non ha la cultura. La prof.ssa Vengo ha un rapporto paritario con gli alunni che danno molto fastidio facendo battute in continuazione o scrivendo sul muro.
Lei mi ha spiegato che il registro è un’arma antidemocratica nei confronti degli allievi, poi non ho capito come, mi ha detto che i suoi alunni cambieranno in meglio la società.
Mi ha detto che anche il professore impara dagli alunni e che i voti si contrattano con la classe.
Insegna in uno dei licei classici più antichi della città e ritengo che le sue idee sono ancora troppo difficili per l’Italia.
Io la stimo già però se avessi un figlio lo metterei in un’altra sezione.
Quasi un decennio della vita di Antonio Pizzuto è rifratto nei nuovi carteggi – dopo quelli con Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini, Betocchi – che Polistampa rende adesso disponibili, seguitando l’opera di reimpressione integrale di un vertice del nostro Novecento: Antonio Pizzuto e Alberto Mondadori, (L’ultima è sempre la migliore. Carteggio (1967 – 1975), a cura di Antonio Pane, introduzione di Claudio Vela, pp. 288, euro 18,00 Polistampa). Il volume raccoglie 263 missive: 92 a Alberto Mondadori e le repliche pervenute; 171 a Madeleine Santschi – di cui un piccolo numero a Pierre Graff, marito di lei –, spericolata traduttrice e scoliaste del Pizzuto definitivo di Pagelle I, Pagelle II, Ultime.
Pubblico un estratto della lezione su transgenderismo e intersessualità che Lorenzo Bernini ha tenuto il 9 settembre 2008 presso il corso di dottorato di ricerca in Studi Culturali dell’Università degli Studi di Palermo, corredato da fotografie scattate da Giovanni Hänninen agli ultimi gaylesbiantransgender pride di Milano (7 giugno 2008) e Bologna (28 giugno 2008). Il 27 giugno, in occasione del pride bolognese, Bernini era intervenuto sugli stessi temi all’iniziativa “intersex pride” organizzata dal collettivo “antagonismogay” JR.
di Lorenzo Bernini
1. Perché questi punti, perché questi zoccoli: Il titolo che ho scelto per questa lezione è una citazione del versetto 1, 27 della Genesi – “Maschio e femmina Dio li creò” – a cui ho aggiunto un punto esclamativo e uno interrogativo. E per iniziare vorrei spiegarvi il senso di questa aggiunta poco elegante e piuttosto “pop”. Ho aggiunto il punto esclamativo per esprimere un tono imperativo: infatti, dal momento che tutto quello che Dio fa è cosa buona e giusta, le descrizioni degli atti divini contenute nella Bibbia devono essere lette come prescrizioni. In particolare, il versetto 1, 27 della Genesi deve essere letto come una frase che ci ordina: “Tu devi essere maschio oppure femmina – punto esclamativo! – perché così vuole Dio”. Il punto interrogativo simboleggia, invece, la collocazione che ho scelto di assumere di fronte a questa ingiunzione divina. Per illustrarvi questa collocazione, mi è però necessaria una breve digressione.
Stamattina, prima di prendere il treno mi sono chiesto come si fosse risolto il contenzioso tra il direttore di Flash art , Giancarlo Politi e il fotografo Oliviero Toscani. La cosa mi interessa perché all’epoca dei fatti, eravamo nel 2002, una rivista francese, Le vrai papier Journal mi mandò in Italia come corrispondente per scoprire la verità, la vera verità di una delle più grandi beffe mediatiche giocate ai danni dell’Arte contemporanea in Italia. Per essere più precisi l’attacco fu portato a uno dei suoi più importanti riferimenti critici, Flash Art. E così, navigando in rete ho scoperto che circa un mese fa il direttore della storica testata replicando a una lettrice sosteneva la cosa seguente:
John Ashbery è uno dei maggiori poeti statunitensi viventi. È attivo dalla metà degli anni Cinquanta (del 1956 è la sua prima raccolta Some Trees). Personalità estremamente autonoma, difficilmente inquadrabile in correnti e scuole, Ashbery è il poeta metamorfico e sperimentale per eccellenza. La sua scrittura si muove costantemente tra la l’assunzione delle forme ereditate e la pressione verso l’informe. La sua esplorazione dell’identità avviene per itinerari ellittici, enigmatici, ambigui, ponendosi agli antipodi del filone “confessionale” della poesia statunitense e del suo capostipite Robert Lowell.
In Italia apparve nel 1983, per Garzanti, Autoritratto in uno specchio convesso con un’introduzione di Giovanni Giudici e traduzione di Aldo Busi. Oggi è finalmente disponibile in Italia un’antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan, alla cui selezione ha collaborato lo stesso autore. Si tratta di Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, Luca Sossella, 2008.
di John Ashbery
da Your Name Here [Qui il vostro nome], 2000
This Room
The room I entered was a dream of this room.
Surely all those feet on the sofa were mine.
The oval portrait
of a dog was me at an early age.
Something shimmers, something is hushed up.
We had macaroni for lunch every day
except Sunday, when a small quail was induced
to be served to us. Why do I tell you these things?
You are not even here.
[Da qualche tempo a questa parte, da più parti, mi vengono richieste opinioni su temi urbani e territoriali. Mi accorgo, di volta in volta, di annotarmele come su un ipotetico taccuino, quasi fossero gli appunti di un discorso del quale, in realtà, non ho ancora chiara la forma. Li deposito qui su NI più come stimoli di una discussione che come testi definitivi. G.B.]
Lo slogan in effetti suona bene: “prima le case agli italiani”, pare persino razionale. Ovviamente non lo è. Anche perché se davvero escludessimo per decreto le domande degli extracomunitari dalle liste per le case popolari, non risolveremmo un bel niente. Lo slogan successivo diverrebbe: “ prima le case ai residenti in Lombardia”, per poi diventare “le case ai residenti a Milano”, “nel mio quartiere”, “a quelli con tutti e quattro i nonni nati fra la Bovisa e la Comasina”.
di Javier Marías, a cura di Antonio Sparzani Madrid, città di intensi odori
Tempo fa ho cominciato a leggere Domani nella battaglia pensa a me, di Javier Marías, ormai affermato, prolifico e pluritradotto scrittore madrileno. Dopo una trentina di pagina l’ho mollato. Non era il momento. Ma dopo un anno circa ho letti i primi due volumi già usciti in Italia della sua trilogia Il tuo volto domani, mi hanno affascinato, e, in attesa della prossima traduzione del terzo – già uscito in Spagna – ho ripreso in mano, in queste settimane di forzata inerzia, il volume che avevo in un primo tempo abbandonato. L’ho letto d’un fiato e l’ho molto apprezzato. Mi ero forse avvezzato allo stile dell’uomo, al suo undivago girovagare per pensieri e discorsi, al suo personalissimo modo di scavare nel flusso di coscienza.
Non intendo proporne una recensione, perché recensire un volume così scritto è superiore alle mie capacità e difficilmente darebbe dunque la misura dello spessore di Marías. Intendo invece copiarvi qui un capitoletto finale, che lui chiama Epilogo, che non ha nulla a che vedere con la vicenda narrata nel romanzo, ma che è un discorso sul romanzo in generale e sullo scrivere della realtà, quale realtà. Mi pare che chi scrive – e anche chi legge – possa leggerlo con vero piacere e interesse. Eccolo dunque:
[l’originale Mañana en la batalla piensa en mí è uscito in Spagna nel 1994; il titolo riproduce la frase più volte ripetuta (Tomorrow in the battle think on me) a re Riccardo, la notte precedente la sua sconfitta e morte sul campo di Bosworth (atto V, scena III, del Riccardo III di Shakespeare) dai fantasmi di tutti coloro che egli fece uccidere.]
«Forse non è la cosa più sensata, da parte di uno scrittore che scrive soprattutto romanzi, confessare che gli sembra sempre molto strano non soltanto scriverne ma anche leggerne. Ci siamo abituati a questo genere ibrido e flessibile da almeno trecentonovant’anni, da quando nel 1605 usci la prima parte del Chisciotte nella mia città natale, Madrid, e ci siamo cosi tanto abituati che consideriamo del tutto normale il gesto di aprire un libro e di cominciare a leggere ciò che non ci si nasconde che è finzione, vale a dire, qualcosa di non accaduto, che non ha avuto luogo nella realtà.
L’antrofonico La Russa ha rammemorato “quelli della Nembo” come esempio di soldati repubblichini che meritano il rispetto di chi guardi con obiettività alla storia d’Italia, in quanto “dal loro punto di vista combatterono credendo di difendere la patria”. L’ingenuità di tale enunciato è disarmante, se non fosse che lascia tralucere un ben forte arrière-pensée: quello di uno che è rimasto, senza mezzi termini, fascista. Il loro punto di vista, dice l’Ignazio. E parla di credenza, ovvero di fede.
Il cavaliere dell’eterna gioventù
seguì, verso la cinquantina,
la legge che batteva nel suo cuore.
Partì un bel mattino di luglio
per conquistare il bello, il vero, il giusto.
Davanti a lui c’era il mondo
coi suoi giganti assurdi e abietti
sotto di lui Ronzinante
triste ed eroico.
Lo so
quando si è presi da questa passione
e il cuore ha un peso rispettabile
non c’è niente da fare, Don Chisciotte,
niente da fare
è necessario battersi
contro i mulini a vento.
Hai ragione tu, Dulcinea
è la donna più bella del mondo
certo
bisognava gridarlo in faccia
ai bottegai
certo
dovevano buttartisi addosso
e coprirti di botte
ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati
tu continuerai a vivere come una fiamma
nel tuo pesante guscio di ferro
e Dulcinea
sarà ogni giorno più bella.
«Esulando dal campo della teologia e della letteratura fantastica, pochi possono mettere in dubbio che le caratteristiche principali del nostro universo siano il vuoto di significato e la mancanza di un fine riconoscibile». Prosecuzione ideale dei precedenti Una storia della lettura (Mondadori, 1997) e Diario di un lettore (Archinto, 2006), tutto La biblioteca di notte (traduzione di Giovanna Baglieri, Archinto, pp. 310, € 24,00), dell’argentino Alberto Manguel (classe ’48), poggia sul paradosso implicito nella retorica constatazione che apre il volume:
Scriveva Gaetano Salvemini: “Tutti in Italia sembrano aver dimenticato che la libertà non è la mia libertà ma è la libertà di chi non la pensa come me. Un clericale non capirà mai questo punto né in Italia né in nessun altro paese del mondo. Un clericale non arriverà mai a capire la distinzione fra peccato, quello che lui crede peccato, e delitto, quello che la legge secolare ha il compito di condannare come delitto. Il clericale punisce il peccato come fosse delitto e perdona il delitto come se fosse peccato. Perciò è necessario tener lontano i clericali dai governi dei paesi civili”.
Nell’ottobre 2007 il Consiglio d’Europa (organismo internazionale istituito il 5 maggio 1949, da non confondersi con il Consiglio Europeo, che è un organo dell’UE) ha affrontato una questione controversa: l’insegnamento del creazionismo nelle scuole in QUANTO PRESUNTA TEORIA SCIENTIFICA. Preciso che non era in discussione la possibilità della presentazione del Creazionismo nell’ambito di materie come la Storia del pensiero o delle religioni, o anche dell’antropologia culturale o simili. Il problema in discussione era se fosse opportuno o meno presentare il creazionismo come teoria scientifica, alla pari con le altre teorie scientifiche!
Avere una karavida (Scyllarides latus, cicala di mare) nel piatto non è usuale e non è immediatamente intuitivo.
E non è nemmeno come averci un’aragosta.
All’aragosta e all’astice siamo più abituati, mentre questa è una creatura del tutto aliena, che sembra provenire da un pianeta con condizioni molto più dure del nostro, con un campo gravitazionale ben maggiore, predatori molto pericolosi e attrezzati.
La karavida è lì, spaccata a metà, che basta accostare le due parti, farle combaciare con attenzione, per riavere l’animale intero, tutto intero, sulla tua tavola, assieme al pane, al vino, all’insalata di melanzane, a tutte le altre cose normali che normalmente beviamo e mangiamo.
Tutta questa normalità del desinare civile e attovagliato, il coltello e la forchetta, il bicchiere, il tovagliolo di carta che presto volerà via alla prima folata robusta di vento, la vaschetta della salsa olio/limone, il flacone del sale, la bottiglia di fisikò metallikò nerò (acqua minerale naturale), eccetera, fa da contesto, da quinta teatrale, da sfondo alla comparsa del quasi estinto Trilobite Rosso.
Robert Doisneau, 1943, le remorqueur du-Champ-de-Mars
Canestro canestrino
pieno di parole
le sole le solite
non nuove
ninnoli ninna-nanna
a briglia sciolte
sciogli la lingua
manina tira il naso
liscia la barba,
il tocco delicato di mia figlia
seta, soffio che si sente
come presenza della mano nella mente.
Poesie di Nunzio Festa e Paroles di Franco Arminio
visioni di Giovanni Cossu
Confessioni di un paesologo
di Franco Arminio
Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non deve sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello il paese è. Non devi fare altro.
Poesie
di Nunzio Festa la parete congela
questi secondi scalzi
balzi di sensazioni
urla
in frazioni di appaganti
feritoie di desiderio
e il ragno con la ragnatela
attende che me ne vada
[In Il Larice di Daurija. Dalla Kolyma ai Laogai (La Camera Verde, Roma, 2008), Tiziana de Novellis invita il lettore a esplorare in fondo l’orrore della Cina d’oggi, l’orrore del miglior partner e socio commerciale delle multinazionali occidentali.]
di Tiziana de Novellis
Capitolo VII – I laogai oggi
Riforma liberista e lavoro forzato
Fonti inesauribili di mano d’opera gratuita, i laogai sono oggi parte integrante dell’economia cinese, di cui accrescono produttività e profitto. Milioni di persone internate nei campi di lavoro forzato modificano in modo “inedito” l’economia cinese, trasformandola in un’economia di schiavitù. Da una dichiarazione del Ministero della Giustizia della Repubblica popolare cinese del 1988 si legge: “Le nostre unità dei laogai sono al tempo stesso dei centri di rieducazione e delle aziende speciali”. E, non a caso, il governo ritiene che le attività produttive dei laogai siano segreti di Stato. I prigionieri devono insomma essere “rieducati” in “nuovi comunisti”, raggiungendo un obiettivo prefissato di produttività.
[mi è stata chiesta, questa estate, una opinione sul delitto di Garlasco, quasi io fossi una “persona informata dei fatti”. Questa è stata la mia risposta. G.B.]
Non è un giallo. Finiamola di usare le parole a sproposito. Vorrei più deontologia dai media che si nascondono dietro l’esile paravento del diritto di cronaca. Non è un giallo, non è intrattenimento, non è una cosa divertente, piena di colpi di scena, dove poi arriva l’eroe che risolve il caso e poi tutti “vissero felici e contenti”. Non è fiction, non è letteratura. Non è una puntata di CSI o della sua emulazione fallita, i RIS.