
di Francesca Matteoni
Il 4 agosto è sempre stato un giorno speciale per me: in questa data nel 1792 nasceva infatti nel Sussex Percy Bysshe Shelley, il poeta romantico che amavo da ragazzina. Avevo circa tredici anni – dopo aver letto Ode to the West Wind su una vecchia antologia liceale, mia madre mi regalò un’edizione italiana delle sue poesie con traduzione di Roberto Sanesi. Nella mia fantasia Shelley divenne molto di più dell’autore di poesie o del bel volto efebico dei ritratti – morto giovane, al largo di Livorno, personaggio idealista che conversava con le rovine di regni immaginari, con la maga di Atlantide, con il cantore del mattino (l’allodola, dove Keats che avrei conosciuto dopo, sceglieva la malinconia lunare dell’usignolo) e naturalmente con il turbine di foglie nel vento occidentale, si trasformò in uno spettro inquieto che rispondeva alla mia adolescenza. Il fatto che in realtà non lo “vedessi” se non tra i versi tradotti e le mie prime faticose incursioni nell’originale, non costituiva un problema: avevo collezionato una serie di amici fantastici di cui lui era soltanto l’ultimo ed il più eccezionale.


















