
E non c’indurre in tentazione
Un’interpretazione morale de
La persecuzione del rigorista
di Luca Ricci
di Matteo Pelliti
Con La persecuzione del rigorista (Einaudi, 2008) il trentaquatrenne pisano Luca Ricci si prende una vacanza dalla forma “raccolta di racconti”, i piccoli inferni coniugali descritti nel precedente e fortunato L’amore e altre forme d’odio (Premio Chiara 2007) e ci consegna una storia. Romanzo, racconto lungo sono spesso etichette di comodo e, talvolta, fuorvianti. Qui abbiamo, a prima vista, una storia da raccontare. E l’ingresso in una storia, nella dimensione tipica della vicenda da raccontare, verosimiglianza compresa, è l’ingresso di una onomastica attraverso una toponomastica. Una storia, romanzo o racconto lungo che si voglia dire, ha bisogno di nomi. La vicenda si svolgerà, quindi, a Chiavalle e Chiamonte. La toponomastica fittizia del paesello dell’Appennino, frazione inclusa, arriva alla seconda pagina, ed inaugura di fatto la storia. Un luogo immaginario che, come tutti i luoghi immaginari delle storie, risulta iperrealista perché condensazione di tradizioni letterarie e geografie reali. Ma il racconto è illusoriamente verosimile. Il nome del luogo mima il realismo, il verosimile, mentre il racconto è, al contrario e consapevolmente, fortemente simbolico.
Post in translation
dedicato a Chiara Valerio perché ci parli quanto prima di uno dei più bei saggi usciti in Italia sulla complessa arte del tradurre.

Bang Bang (My Baby Shot Me Down)”
written by Sonny Bono. 1966
Bang bang
Paroles: Claude Carrère, Georges Aber (1966)
Bang bang
Parole: Miki Del Prete e Alessandro Colombini (1966)
Noi e loro (più noi che loro)
di Marco Simonelli
Se Pasolini aveva “un’infinita fame/ d’amore, dell’amore di corpi senza anima”, Franco Buffoni in Noi e loro (Roma: Donzelli 2008; Euro 14) nutre la sua poesia con anime dotate di corpi.
“Annunciazione in metropolitana” di Chiara Cretella a Parma.

Mercoledì 16 luglio, ore 21
presso Piazzale Picelli a Parma, ART-OFF-CAFE’
Presentazione del libro
Annunciazione in metropolitana (Roma:Fazi, 2007. Prefazione di Valerio Evangelisti)
di Chiara Cretella
Introduce
Christian Donelli
Letteratura e cinquantenni, la parola a Canetti
di Antonio Sparzani

«Poiché lo stile non è certo qualcosa di limitato all’archi- tettura o all’arte plastica, lo stile è qualcosa che penetra in ugual misura tutte le espressioni vitali di un’epoca. Sa- rebbe assurdo considerare l’artista un essere d’eccezione, uno che conduce quasi una vita appartata, nell’ambito dello stile ch’egli crea, mentre gli altri ne restano esclusi».
[Hermann Broch, I sonnambuli, III: Huguenau o il realismo, trad. it. di Clara Bovero]
Come preannunciato qui, vi offro la parte iniziale del discorso tenuto a Vienna nel dicembre 1936 da Elias Canetti, allora trentunenne, per celebrare i cinquant’anni di Hermann Broch. Questi all’epoca aveva pubblicato i tre volumi Die Schlafwandler [I sonnambuli] e poche altre prose. Anche qui l’interesse mi sembra risieda nei criteri di valutazione che Canetti propone per il valore di uno scrittore. Nella premessa al volume che ora contiene questo discorso (das Gewissen der Worte, C. Hanser Verlag, München – Wien 1976, trad. it. di Renata Colorni e Furio Jesi, La coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1984/2007) Canetti ribadisce che a distanza di tanti anni non troverebbe nulla da cambiare in quel discorso di allora.
«È bello e significativo che si usi il cinquantesimo compleanno di un uomo per rivolgergli un discorso davanti a tutti, e quasi strappandolo con violenza alle fitte trame della sua vita
Tre ore zero del Novecento
di Stefano Zangrando
Tra le foto di Michael Ruetz sul Sessantotto in mostra all’Accademia delle arti di Berlino fino al 27 luglio ve n’è una che immortala Rudi Dutschke, il più celebre leader studentesco germanico, durante un discorso alla Libera Università di Berlino Ovest nell’autunno 1967. L’espressione del volto è contratta nell’impeto dell’arringa, la bocca spalancata e tesa, e una fonte di luce posta esattamente dietro l’oratore crea intorno al suo capo un’aureola, emblema appena ironico della “santificazione” che lieviterà nei decenni a venire.
L’anniversaire
Neira, undici anni, mingherlina, capelli lisci, biondissimi, occhi cerulei, un volto dolce e intelligente. E’ vispa, Neira. Ci guarda ed evidenzia con una smorfia che c’è cattivo odore. Due ragazzi passano silenziosi in mezzo a noialtri, che ce ne stiamo seduti per terra. I suoi fratelli. Due maschi. Se ne contano cinque in tutto, in questo gruppo di quaranta donne. Le madri sole, le vedove di Srebrenica.
I fratelli di Neira, vent’anni a testa, rincasano senza dire una parola dopo un’intera giornata di lavoro nei campi, sulle zolle altrui: puzzano di sudore, di terra, di acqua marcia. Vestiti di stracci, le maniche ancora rimboccate. Alti, nerboruti, i capelli scuri, bruciati dal sole, mesti: tutto il contrario di Neira.
La madre parla mentre tesse la lana di un maglione disfatto. Fa un cenno di capo verso Neira: “E’ lei che avrei lasciato”.
A Srebrenica, nel luglio del 1995, ha salutato il marito: lui da una parte, assieme ad altri ottomila uomini bosniaci, nel disperato tentativo di sopravvivere; lei dall’altra, con quattro bambini. I due gemelli legati alla gonna con lo spago, Neira, di appena sei mesi, assicurata al petto con una sciarpa, il figlio maggiore, dodicenne, tenuto per mano. “Se non mi avessero lasciato passare con tutti e quattro, avrei lasciato Neira”.
RADIOBAHIA: racconti per canzoni [009]
di Marco Ciriello
9.
“La velina di Putin” si chiama il romanzo, è ambientato a Mosca e parla dell’America. È una storia piena di sorprese che Ernest Bishop scrive in aereo. Dentro giornate morte, ci sono: la televisione russa, la scrivania di Putin, Monica Levinski in cerca di lavoro, e soprattutto un finale unico nella storia della letteratura mondiale: quando racconta di come suo padre è diventato una piscina.
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Mode d’emploi
lettera d’istruzione distruttiva al lettore
Per apprezzare o disprezzare il seguente pezzo di…, si desidera
offrire codesta sorta di vaderetromecum o di prontuario al disuso;
punto per punto si daranno dunque le scoordinate, poco o nulla
cartesiane, per disorientarsi al meglio e orientarsi al peggio. La
historia è breve: il direttore dell’ Eco di Caserta ,
avendo pubblicato un articoletto, tra l’altro di già edito su
Lo Straniero fofiano, dello ‘scrittore’ Antonio
Pascale sul problema dell’immonda immondizia, gli balenò
l’idea di averne un commento da parte del sottononscritto, a suo
(del direttore) dire egli (il Pascale) essendo un ‘mio’ collega. Tra-
lascio – qui non essendo sede per diatribe – di dire di quel pos-
sessivo e della professione di ‘scrittore’, questa, come dire?,
categoria (?) non esistendo affatto, né dunque potendomi impos-
sessare d’un’inesistenza – quest’ultima ipotesi godrebbe d’una
impossibilità a me cara per altri versi. – Ma, come che sia, a
tale richiesta cercai di denegarmi, adducendo che al più avrei
potuto scriverne, visto che l’articolo in questione prendeva le
mosse (è proprio il caso di dirlo) dalla scatoletta manzoniana
plena di ‘merda d’artista’, un altero commento sì, ma solo e
soltanto su d’ella scatola escatologica.
I limiti dell’arte
di Massimo Rizzante
A
Definire i contorni delle parole è diventato un compito difficile, soprattutto da quando le specializzazioni e i gerghi hanno invaso ogni campo, confondendo le frontiere delle arti e in particolare dell’arte letteraria. Parole come «contaminazione», «riscrittura», «riuso», «intertestualità» hanno fatto il giro del mondo in bocca a critici raffinati, precipitando poi nei manuali, per diventare, infine, luoghi comuni nelle tesi degli studenti più scaltri. Danilo Kis diceva che la letteratura dovrebbe essere «l’ultimo bastione del buon senso». Che cos’è, si chiedeva, un sonetto d’amore se non «un isolotto sul quale possiamo posare il piede» in mezzo alla palude dei gerghi?
Nella fabbrica del gesto
di Franz Krauspenhaar e Nina Maroccolo
Chiamalo
Chiamalo attenzione, e dispersione
e disperazione e fiore nero e caduta
e innalzarsi, invece; e speranza, e mirto,
e i tuoi occhi e la cascata di dolore
che mi prese al solo pensare di lei
e di te; e poi consumazione, e stanco
EUROSIÓN: RETORNO O TRASTORNO?
di Roberto Quesada
La legge (Direttiva del Rientro) è stata promulgata con sconcertante impunità, che risulterebbe inspiegabile se non fossimo abituati a venir divorati e a vivere con la paura.
Eduardo Galeano
Uscivo da una di quelle belle riunioni delle Nazioni Unite per un mondo migliore, senza sapere quello che accadeva nel mondo disunito, quando qualcuno mi ha informato della Direttiva del Rientro che l’Unione Europea aveva appena approvato. Sono arrivato al nostro Dipartimento e la segretaria mi comunica che mi ha cercato il direttore dell’Istituto Cervantes di New York, Eduardo Lago.
Racconti di un uomo invisibile. Su Fortune, di Igor De Marchi
di Cristina Babino
Fortuna è ciò che porta il caso. Né buona né cattiva. Per gli antichi voleva dire tanto evento lieto che tempesta, tanto ricchezza che pericolo. Fortune sono quelle che accadono ogni giorno, insieme ai giorni, un po’ contemplate e un po’ subite, accettate con rassegnata sospensione del giudizio.
Letteratura e cinquantenni
di Antonio Sparzani

Non sono un giovane scrittore, nessuna di queste due parole mi si addice, e quindi non riesco a entrare, né me ne dolgo poi molto, nelle questio- ni, più o meno ve- nate di polemica, re- lative ai giovani nella letteratura così come alla supposta crisi di questa, in Italia e nel mondo. Leggo con grandissimo piacere – ancorché in modo selettivo e non onnivoro – la letteratura dovunque spunti, ma la mia ignoranza complessiva dei contemporanei è forse maggiore di quella della letteratura classica. Tuttavia, leggendo appunto un po’ più spesso qualche ‘classico’, con tutta l’incertezza legata a questa definizione, mi capita di trovare opinioni ‘illustri’ che mi sembra di condividere, o almeno di ritenere davvero importanti.
È quello che mi è accaduto leggendo un – non so se dir famoso o no, perché secondo me dovrebbe esserlo, ma non son certo che lo sia – saggio di Hermann Broch, scritto in occasione del cinquantesimo compleanno di James Joyce. Approssimativamente, s’intende, perché Joyce i cinquanta li compiva nel 1932 mentre il saggio di Broch apparve nel 1936. Ma nel 1936 Broch stesso compiva cinquant’anni e questo forse ebbe il suo peso nella scrittura. Un ulteriore e curioso dettaglio, su cui spero di tornare tra non molto, è che Elias Canetti, proprio nel 1936, trentunenne, dedicò un saggio a Broch per i suoi cinquant’anni, stavolta on-time, saggio che apre ora la raccolta di scritti La coscienza delle parole (Adelphi, Milano 1984/2007).
Do you remember Peteano? – Parte seconda

di
Manuela Vittorelli
qui la prima parte.
21 marzo 1973, alba.
Dal punto di vista istruttorio, dal 1° agosto all’8 novembre 1972 è il vuoto assoluto: né interrogatori, né ispezioni, né perquisizioni. L’8 novembre su ordine dall’alto l’autorità inquirente si sposta sulla pista programmaticamente “non politica”, quella della malavita locale. I sei penseranno però sempre di essere sentiti in qualità di testimoni, non di imputati.
Resen subisce un unico interrogatorio (durante il quale gli viene ricordato il suo passato nella destra e proposto di fare l’infiltrato, lui rifiuta), poi niente fino all’arresto, anche se in quei mesi si accorge di essere seguito.
Lo vanno a prendere all’alba del 21 marzo 1973. Davanti alla caserma di via Nazario Sauro un carabiniere lo guarda e dice: “L’ho visto al Brennero”. Questo perché il capo di imputazione sulla provenienza dell’esplosivo è incerto e gli inquirenti hanno detto che è stato trovato in Germania: dunque per pararsi le spalle serve qualcuno che dica di aver visto Resen passare la frontiera.
Fuori della caserma c’è una folla inferocita, giornalisti, fotografi, la televisione, tutti contro i “mostri”. Gridano “assassini”, “pena di morte”, cose così.
Quando lo portano nel carcere di via Barzellini, che sta proprio lì vicino, Resen incrocia una cugina: lei lo riconosce, capisce e scoppia a piangere. Lui le grida “Ma va’ a casa, va’!”
“Chissà perché l’ho trattata così”, rimpiangerà poi. “Ero fuori di me”.
Pont des Arts (Aria e dieci variazioni)
Con una sosta delle cose, intorno ad esso, l’illusione di un guasto nel tempo…
di Chiara Valerio
I. È l’unico con un paletot chiaro. Se non ci fosse, qualcuno, uno qualsiasi, io pure, guardando dal basso, quasi dall’acqua, penserebbe che non ci sia vento. L’immobilità delle quattro figure in abiti scuri farebbe dimenticare le increspature delle acque del fiume. Cammina veloce, con i libri sottobraccio e l’aria dello studente che sta per arrivare tardi a un appello, l’ultimo della sessione autunnale. Non arrivare sarebbe come non poter rientrare a casa per le vacanze. Rimanere interdetti fuori dalla porta per una marachella più grande del vezzeggiativo che la definisce. Così cammina a passo svelto, concitato e diretto, ha una meta ma non l’aria dello studente, il sole tra i capelli scuri riflette un bagliore di fili bianchi. Forse è un professore. Sì è un professore, mi convinco, potrei scommettere. È un professore in ritardo per una riunione con altri professori. Se non riesce a essere in quel circolo, intorno a quel tavolo nei prossimi dieci minuti perderà ogni possibilità di interlocuzione ché i ritardatari non hanno diritto alla parola, se fosse rettore eliminerebbe questa regola salica di primogenitura della seggiola, ma rettore non lo sarà mai e comunque non è il momento di sprecare energie in farneticazioni accademiche. Rallenta e si volta a sinistra come se gli fosse volato uno scontrino dalla tasca o un appunto da un volume, rallenta ma lo sguardo scivola troppo in basso, oltre la striscia asfaltata del ponte. Fissa l’acqua, in basso. Sul fiume c’è un battello che si chiama Suzanne, rallenta, leggere lo ha sempre distratto, questo è certo, e rilassato, rallenta ancora ma un poco, appena il tempo che il soprabito, leggero, settembrino gli si sgonfi intorno alle gambe disordinatamente come una vela ammarata da un mozzo inesperto, senza frenarlo.
Breve escursione nei CPT del lavoro elettronico
di Franz Krauspenhaar
Call-center. Tutt’altro che una parola magica, che una formula per la scoperta di qualcosa di utile. Un solo significato pregnante, che ne nasconde qualsiasi altro: sfruttamento elettronico.
“Operai telefonici, ecco quello che siamo”, mi dice un ragazzo che forse non è più un ragazzo, a guardarlo con attenzione. Indossa una maglietta nera con su stampato il nome di una rock band degli anni Ottanta. Ecco, mi trovo davanti a un esemplare non raro di essere umano di sesso maschile fuori tempo massimo. Una specie di pugile suonato del mondo del lavoro, di reperto funzionante.
I turni sono serrati, giovani e meno giovani si pigiano alle loro postazioni. Uomini e donne, più o meno in parti uguali. C’è di tutto: dallo studente di buona famiglia che raggranella i soldi per la vacanze in Spagna allo studente che viene da fuori – spesso da molto fuori – e lavora al call center per pagarsi l’esoso affitto. E poi il disoccupato, di età indefinita, di indefiniti gusti e inclinazioni, che le ha provate tutte, e alla fine è arrivato qui, all’ultima stazione, un luogo teoricamente di transito che alla fine è diventato definitivo, o quasi. C’è l’ex manager licenziato che non riesce a ricollocarsi e in attesa di una chiamata propizia sconta la sua pena al call center. E c’è la pensionata, che distribuisce caramelle ai giovani per ingraziarseli, che parla con spiccato accento milanese e ha vissuto la sua vita lavorativa in fabbrica e ora è qui perché i soldi non bastano mai.












