“…take another little piece o’ my heart babe / take’t take’t…”
La mia amica Marisa, nel corso di Letteratura Inglese per l’esame del primo anno, si innamorò del suo professore. E non fu un amore a distanza, cioè una di quelle infatuazioni che generano adorazione silenziosa e abbandoni sognanti, estasi e distrazioni dalla realtà – il suo fu un vero amore, perseguito in modo discreto e tenace finché aveva avuto senso, poi trasformato in un ricordo caro, e lui, il professore, Edoardo, in una guida intellettuale, in un punto di riferimento.
Comunque Marisa aveva una vera passione per Janis Joplin – e anche il suo professore. Perciò questa era una loro patria comune, come la poesia dei romantici inglesi, specie John Keats. Janis Joplin piaceva a Marisa perché era una creatura tenace e fragile, una vera contraddizione vivente. Non era bella, e non faceva nulla per diventarlo. Spesso saliva sul palco ubriaca, e fumava come un uomo. Aveva i capelli sempre arruffati. In genere sporchi. O mèzzi dell’appiccicosa umidità che rende micidiale certe città americane, New York per esempio, d’estate.

di Robert Lumley e John Foot


Neruda



