frammenti di un dialogo fra Demetrio Paolin e Giacomo Sartori, a proposito del romanzo Anatomia della battaglia.
[Il saggio di Demetrio Paolin Una tragedia negata è stato pubblicato in rete da Vibrisselibri. Ne verrà pubblicata dalle edizioni Il Maestrale una versione cartacea, che sarà corredata da interviste a diversi romanzieri: Gian Mario Villalta, Toni Capuozzo, Valerio Lucarelli, Giorgio Vasta, Luca Rastello, Andrea Comotti, Duccio Cimatti, Roberta Sala e Giacomo Sartori. Dell’intervista a quest’ultimo, per gentile concessione degli autori e dell’editore, presento qui un estratto. a.r.]
Demetrio Paolin Un[a] (…) parola importante [nel tuo romanzo] è anatomia. C’è una tensione verso la comprensione, ma che non è pietas, ma bensì analisi scientifica, fredda e oggettiva del malessere del tuo personaggio e di suo padre. Tu credi che quell’oscurità che hai sondato nel tuo libro sia il sentimento oscuro degli anni ’70. Come lo definiresti? Sapresti descriverlo? Quello che io noto nella scrittura del mio saggio è una mia, oggettiva, difficoltà a riuscire a darne una definizione univoca.
Giacomo Sartori Il mio romanzo è incentrato su una figura di un ex-fascista, visto con gli occhi del figlio che invece fin da giovanissimo è stato di sinistra, e che a un certo punto del suo percorso ha avuto a che fare con il terrorismo. Sono temi difficili, con i quali la nostra società non ha ancora fatto i conti. Sono piaghe – per quanto possa apparire molto incongruo, specialmente se si considera il fascismo, dal quale ci separano ormai più di sessant’anni – ancora aperte. Imperversano i luoghi comuni, le interpretazioni di comodo, le rimozioni. Credo che la tensione della mia lingua sia il risultato dello sforzo di liberarmi dai luoghi comuni e dalle interpretazioni precostituite, fosse per così dire una scelta obbligata. Non è facile muoversi in un magma di parole per molti versi tra loro legate – come fascismo, guerra, resistenza, terrorismo – che senza che ce ne rendiamo conto si portano dietro delle incredibili zavorre, che alla minima disattenzione ci fanno dire cose che non vogliamo dire, ci conducono in territori dove non vogliamo andare. La lingua è il frutto delle interpretazioni dominanti e che vanno per la maggiore, è una schiava.