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E infine arrivò il bebop.
Anche qui luoghi comuni: Bird e Dizzy e compagni si ribellavano allo swing commerciale e facevano questa musica nera, orgogliosamente nera, piena di ritmi bizzarri, e soprattutto non-ballabile, piena di frasi arzigogolate e guizzanti. Lo capiamo solo noi, bianco, questa è la nostra musica, lo swing è musica vecchia, noi siamo il futuro.
Tutte cose vere solo per metà. Ma una cosa è certa: è qui che il jazz comincia a staccarsi dall’entertainment e a proporsi come arte. E, ancora più importante, il jazz comincia a non essere solo pittoresco, o divertente, ma anche cool. Per essere hip si doveva ascoltare quella musica. Gli hipsters avevano anche un loro costume, lo zoot suit, fatto di pantaloni con la vita altissima, larghi lungo le gambe ma stretti da molle alla caviglia, e giacche coloratissime con le spalle spropositatamente ampie. Oppure imitavano Dizzy Gillespie, con il suo basco, gli occhiali neri e la “mosca” di peli sotto il labbro. Norman Mailer descrisse l’hipster come un “negro bianco”, proveniente dalla classe media che “cercava di deporre la propria ‘bianchezza’ e adottare quello che credeva fosse lo stile di vita rilassato, spontaneo, cool degli hipster neri”. Era un modo per segnalare la propria appartenenza a una confraternita, un gruppo chiuso.
Questi due fatti hanno conseguenze importanti: perché ancor oggi, se si chiede all’uomo della strada che cosa gli evoca il jazz, la risposta sarà: o una musica “difficile” (ergo: ostica, faticosa da ascoltare, non fischiettabile), oppure una musica che evoca una certa aura di coolness.










