
disegno di Andrea Pazienza
Animalità e fantasmi della scrittura:l’an(t)imetafora
di
Paolo Trama
In un certo senso, se lo scrittore è colui che spinge il linguaggio al limite, limite che separa il linguaggio dall’animalità, dal grido, dal canto, allora sì, bisogna dire che lo scrittore è responsabile di fronte agli animali che muoiono, responsabile degli animali che muoiono. Scrivere, non per loro, non si scrive per il proprio gatto o per il proprio cane, ma al posto degli animali che muoiono, significa portare il linguaggio a questo limite. E non c’è letteratura che non porti il linguaggio e la sintassi al limite che separa l’uomo dall’animale. Bisogna stare su questo stesso limite. Credo… Anche quando si fa della filosofia. Si è al limite che separa il pensiero dal non-pensiero. Bisogna sempre essere al limite che separa dall’animalità, ma appunto in modo da non esserne più separati. C’è un’inumanità propria al corpo e allo spirito umano, ci sono dei rapporti animali con l’animale.1
Nelle battute conclusive della voce ‘animale’ del suo Abecedario, così Gilles Deleuze illumina quella vertigine regressiva che spinge la scrittura al suo limite, ovvero sulla soglia che separa il linguaggio dall’animalità, dal grido, dal canto: «non c’è letteratura che non porti il linguaggio e la sintassi al limite che separa l’uomo dall’animale», sul confine dove l’umanità si separa dall’animalità, «ma appunto in modo da non esserne più separati».