di Antonio Sparzani
Come ci riferisce Diogene Laerzio (III sec. d.C.), allorché nelle sue Vite dei Filosofi parla del grande Epicuro (IV-III sec. a.C.), nell’antichità, ma anche – aggiungerei – poi nel Medioevo, si dibatteva del singolare tema se il piacere fosse connesso necessariamente col movimento o se consistesse semplicemente nell’assenza di dolore (piacere catastematico, ovvero calmo e stabile). Diogene osserva che, a differenza dei Cirenaici che “non ammettono il piacere catastematico, bensì soltanto quello che consiste in un movimento”, Epicuro li “ammette entrambi, quello della mente e quello del corpo”. E infatti, entrando poi nel merito della dottrina epicurea, Diogene cita esplicitamente la seguente affermazione di Epicuro: “Infatti, l’imperturbabilità e l’assenza di dolore sono piaceri catastematici, mentre la gioia e la letizia sono viste come piaceri in movimento e in azione” (1). Questa locuzione “in azione” è, nell’originale, energeìa(i), dove la parola vale ‘attività’,(2) qualcosa comunque di dinamico. Deriva ovviamente da érgon, opera, impresa, dalla stessa radice indoeuropea che ha dato luogo al tedesco Werk e all’inglese work, tanto per dire.







