di
Yvonne Baby
traduzione di Francesca Spinelli
Ho conosciuto Orson Welles quando era triste. Naturalmente era ben attento a indossare tutte le sue maschere, cambiandole a seconda della compagnia, recitando, inesauribile e autoironico, i ruoli dei suoi ruoli. Rideva, sopra le sue mani infantili e le bollicine di Dom Pérignon che offriva a tutti, bevendo acqua, aureolato di una tristezza assoluta e decisiva. Tristezza del cinema che finisce e non finisce – fenice che risorge dalle proprie ceneri -, tristezza della vita che lo tradisce, della malattia che lo espone e gli toglie le forze. Eppure resiste, e vuole girare ancora, resiste ma muore sulle orme di re Lear, muore, come scrive Shakespeare, “sulle ombre del suo dolore” (“the shadow of sorrow”).





