Come scrivere durante Auschwitz
di
François Taillandier
traduzione di Francesca Spinelli
Kaputt è un libro affascinante, che ammiro senza riserve. Il suo titolo, però, non mi convince. Alle mie orecchie suona troppo familiare, troppo piccolo. In Francia, diciamo per scherzo «kaputt» parlando di una vecchia bagnarola in panne, di un phon che inizia a puzzare di bruciato, o di noi stessi quando alla fine della giornata ci viene una botta di stanchezza. Se fossi stato l’editore di Malaparte, gli avrei proposto un titolo diverso da quell’ironico e familiare «kaputt»; ad esempio Le Mille e Una Notte della notte.
Le mille e una notte, perché Curzio Malaparte si comporta come una vera e propria Shahrazàd, e forse per le stesse ragioni: non morire, non farsi tagliare la testa (caput, capitis: testa). «Allora io narrai dei cani dell’Ucraina». «Allora mi misi a narrare la storia di Spin, il cane del Ministro d’Italia, Mameli, sotto il bombardamento di Belgrado». «Ora le racconterò, dissi, la storia di Sigfrido e del gatto».
Le mille e una notte della notte, perché questa strana ridondanza si sposa bene con l’eccesso e la superfetazione che sono al centro del libro, che ne costituiscono la molla e l’ossessiva singolarità.