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Il conflitto tra India e Pakistan: una storia infinita alla quale bisogna porre fine

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di Marzia Casolari

A un mese dalla crisi Indo-Pakistana di Pahalgam, la situazione internazionale si è ulteriormente aggravata con l’attacco israeliano all’Iran, alla vigilia del terzo round di negoziati tra la Repubblica Islamica e gli Stati Uniti, per la formalizzazione di un accordo sul nucleare iraniano, dopo l’abbandono unilaterale di analoghe trattative da parte americana nel 2018. A seguito dell’attacco ingiustificato da parte israeliana, questa volta è stato l’Iran a dichiarare la fine dei negoziati. L’irrisolto conflitto tra India e Pakistan resta sempre latente, nonostante la sottoscrizione di successive tregue a accordi, tra ricorrenti crisi ed escalation. Per questo è un conflitto che non andrebbe dimenticato e che dovrebbe impegnare la comunità internazionale in uno sforzo di mediazione affinché i due contendenti trovino una soluzione definitiva e condivisa, che non sia imposta con la forza dall’uno o dall’altro. Oggi, il conflitto indo-pakistano assume una centralità ancora maggiore in quanto, con lo scontro tra Iran e Israele, che si è apparentemente risolto in dodici giorni ma rischia di tornare a deflagrare, l’arco di crisi si allarga su un’area molto vasta, che va dal Mediterraneo orientale (Gaza e Cisgiordania) all’Asia meridionale, con un’estensione alla guerra russo-ucraina. Il mondo può permettere ancora a lungo che si moltiplichino aree di guerra così distruttive, tra potenze nucleari, con tutti i rischi e le conseguenze che queste comportano?

A oltre un mese dalla crisi di Pahalgam, in una situazione internazionale ulteriormente aggravata, il conflitto permanente tra India e Pakistan, a seguito dello sforzo diplomatico di numerosi mediatori, ha trovato solo una soluzione temporanea, che ha tutte le premesse per tornare a esplodere.

I fatti di Pahalgam

Il 22 aprile 2025 cinque miliziani appartenenti a un gruppo armato del radicalismo islamico kashmiro hanno assalito a colpi di arma da fuoco una comitiva di cittadini indiani in visita alla località di Pahalgam, in Kashmir, provocando almeno 26 morti e 17 feriti.[1] L’attentato è stato rivendicato da The Resistance Front (TRF), una nuova formazione, probabilmente affiliata al Lashkar-e-Taiba (LeT, ‘esercito del bene’, ‘dei puri’ o ‘dei giusti’), storico gruppo militante, fondato all’inizio degli anni ’90 nel Kashmir indiano e attualmente stanziato in Pakistan. Il TRF è una formazione poco conosciuta, fondata nell’ottobre 2019, come reazione all’eliminazione dell’articolo 370 della Costituzione indiana, che garantiva ampie autonomie al Kashmir.[2]

Il paese di Pahalgam è il punto di partenza del pellegrinaggio verso il santuario di Amarnath, una delle mete religiose più importanti ed emblematiche dell’induismo. L’attentato del 22 aprile era quindi evidentemente motivato dalla volontà di colpire dei fedeli indù, che si trattasse di semplici turisti o pellegrini. Questo è dimostrato dal fatto che i miliziani hanno chiesto alle vittime di recitare la shahada, ovvero la formula che ogni musulmano pronuncia come atto di fede in un unico Dio e di riconoscimento di Muhammad come suo profeta. I combattenti hanno ucciso deliberatamente gli uomini non musulmani, risparmiando le donne.

La reazione immediata del governo indiano è stata di condanna al Pakistan, additato come mandante dell’attentato, prassi ormai consueta anche per i precedenti governi, in simili circostanze. Anche se, come di consueto in altre occasioni analoghe, il Pakistan ha negato ogni responsabilità, Delhi ha minacciato una risposta severa, arrivata nella notte tra il 6 e il 7 maggio, quando l’India ha lanciato l’operazione “Sindoor”: l’uso del termine riveste un preciso significato simbolico, dal momento che questa parola definisce il colore rosso della spartitura dei capelli o del segno sulla fronte delle donne indù sposate. L’operazione Sindoor aveva quindi l’obiettivo di vendicare le vedove delle vittime dell’attentato. La rappresaglia dell’India è consistita nel lancio di missili contro obiettivi in Pakistan, considerati siti terroristici. Secondo il Pakistan, invece, sarebbero stare colpite quattro moschee e una clinica, oltre a edifici civili. Immediatamente dopo l’attacco di Pahalgam, Delhi ha poi sospeso il trattato per le acque dell’Indo, che dal 1960 consente al Pakistan di utilizzare l’approvvigionamento idrico di parte del fiume principale e di due dei suoi affluenti occidentali, il Jhelam e il Chenab. Il trattato vieta all’India di costruire lungo il corso di questi fiumi infrastrutture che impediscano il flusso delle acque verso il Pakistan. La condizione posta da Delhi per il ripristino del trattato è stata che il Pakistan condannasse pubblicamente gli atti di terrorismo, cosa che il Pakistan ha effettivamente fatto. Da parte sua, Islamabad ha però definito il gesto di Delhi come un atto di guerra e ha minacciato di uscire dall’Accordo di Shimla del 1972, che rappresenta il fondamento delle relazioni bilaterali dei due paesi, dal momento che li obbliga al riconoscimento delle rispettive integrità territoriali e sovranità e all’impegno di risolvere politicamente le dispute bilaterali, compresa quella che riguarda il Kashmir.

Dopo la reazione indiana, l’escalation è stata fulminea: il Pakistan ha immediatamente risposto con un attacco missilistico a obiettivi indiani, a cui sono seguiti combattimenti aerei, scambi di fuoco e raid da ambedue le parti con missili e droni. Nella serata del 9 maggio sono state avvertite forti esplosioni all’aeroporto di Jammu, nel Kashmir indiano, dovute probabilmente all’abbattimento di droni pakistani. L’esercito di Islamabad ha colpito obiettivi non solo in Kashmir, ma anche in Rajasthan e in Punjab, persino ad Amritsar, ovvero in aree diverse da quelle contese. L’India ha effettuato attacchi a Lahore, Islamabad e altre città pakistane. La gravità dello scontro, il più serio dalla terza guerra indo-pakistana del 1971, ha suscitato preoccupazione in tutto il mondo e il timore che si aprisse un altro fronte di guerra, per giunta tra due potenze nucleari oltre a quello ucraino e a Gaza, inducendo numerosi paesi, persino l’Iran, a tentare una mediazione. Dopo avere affermato che l’attacco indiano era una “vergogna”, il presidente Trump si è speso in prima persona per evitare il conflitto e il 10 maggio le ostilità sono cessate.

Caccia cinesi, droni turchi: una sconfitta militare e politica per l’India

La crisi di Pahalgam è stata caratterizzata per l’intensità della risposta indiana all’attacco del 22 aprile: se si pensa a una circostanza molto più grave, come gli attentati di Mumbai del 26 novembre 2008, in cui furono colpiti diversi obiettivi in città, e in particolare il centralissimo Hotel Taj Mahal, allora la reazione da parte dell’India, che comunque non mancò di additare il Pakistan come responsabile degli attacchi, fu politica e molto più moderata di quella attuale. Nei giorni che hanno preceduto la rappresaglia del 7 maggio, il governo e la stampa indiani hanno assunto toni incendiari nei confronti del Pakistan, ripresi dall’opinione pubblica, come si è potuto evincere dai messaggi circolati sui social: l’idea era quella di ridimensionare una volta per tutte il Pakistan, evocando scenari da ‘soluzione finale’. Insolito, e ancora più preoccupante, il fatto che la posizione ufficiale del governo indiano rispetto all’attacco di Pahalgam è stata condivisa da tutto l’arco parlamentare, compresa tutta l’opposizione, incluso il Communist Party of India-Marxist, il PCI(M), che prende spesso posizioni diverse da quelle degli altri partiti in politica estera. Segno del fatto che un decennio di indottrinamento delle masse, autoritarismo e repressione violenta del dissenso hanno raggiunto l’obiettivo di inibire il senso critico delle persone. L’opposizione frontale adottata dall’India verso il Pakistan, inoltre, riflette una logica particolarmente pericolosa, considerando il fatto che entrambe le nazioni possiedono armamenti atomici. È però una visione del tutto coerente con l’atteggiamento assunto dall’India di Narendra Modi, che ambisce a imporsi come potenza egemone in Asia meridionale. La risposta ‘muscolare’ che Delhi ha deciso di adottare nei confronti del Pakistan contraddice i principi basilari del diritto internazionale, secondo i quali il ricorso alle armi dovrebbe essere l’ultima ratio, da adottare solo nel caso in cui tutte le vie politiche e diplomatiche abbiano fallito.

Dall’atteggiamento assertivo dell’India ci si sarebbe aspettati una preparazione militare impeccabile, invece l’impresa messa in atto da Delhi si è rivelata improvvisata, risultata in un bilancio di cinque velivoli, tra cui dei Rafale di fabbricazione francese in dotazione all’aeronautica militare indiana, abbattuti da caccia J-10 in uso all’aviazione pakistana, di fabbricazione cinese.[3] Quando ha cominciato a circolare sui social e sui media internazionali la notizia dell’abbattimento dei cinque jet indiani vi è stato da parte di Delhi un imbarazzato silenzio: se da un lato è normale, in simili circostanze, il riserbo sulle perdite subite e se questa è una consuetudine particolarmente in uso in India, nel caso specifico il silenzio sul bilancio dell’attacco al Pakistan è stato particolarmente eloquente. Il 9 maggio la notizia era di dominio pubblico e, al di là del numero esatto di aerei abbattuti, confermato solo diversi giorni dopo, sono stati diffusi, inizialmente soprattutto dai canali non ufficiali, i video che mostravano i caccia pakistani che inseguivano e colpivano gli aerei indiani, rendendo la notizia inconfutabile. Inoltre, i velivoli pakistani erano armati da missili a breve gittata dotati di un raggio di azione più ampio e di maggiore precisione rispetto a quelli indiani, sebbene gli armamenti cinesi in dotazione all’esercito pakistano non siano neppure quelli di più recente produzione. I fatti hanno smontato la retorica bellicista di Modi, del suo governo e della stampa indiana.

Il primo e più evidente dato emerso dall’ ‘affare Sindoor’ è che il Pakistan è riuscito a ribaltare la sua storica disparità militare verso l’India. Non avere colto il salto di qualità nella capacità militare pakistana può avere contribuito a spingere Delhi a una reazione impulsiva e mal calcolata. La conclusione paradossale (e temporanea) della crisi indo-pakistana dell’aprile-maggio 2025, che in realtà è tutt’altro che conclusa, è che la Cina ha incassato un successo di immagine, pieno di implicazioni di altra natura, in primis economiche e geopolitiche. La Cina ha mostrato una capacità tecnica militare che la mette ormai alla pari delle altre grandi potenze mondiali. Un altro effetto, non previsto e senz’altro indesiderato da parte dell’India, è stato rappresentato dal fatto che l’escalation che essa stessa ha provocato si è trasformata in una vetrina dove sfoggiare armamenti che oltretutto si pongono in concorrenza con quelli di produzione euro-americana e israeliana. Il Pakistan, che fino a pochi anni fa si riforniva di armi principalmente se non esclusivamente dagli Stati Uniti, oggi è in grado di condurre una guerra con armamenti cinesi. Allo stesso modo Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, che proprio nei giorni della crisi indo-pakistana stava effettuando un’esercitazione congiunta con la Cina, si stanno accingendo ad acquistare armamenti cinesi.

Meno chiara la questione dei droni. È oramai accertato, anche per loro stessa ammissione, che entrambi, India e Pakistan, li abbiano utilizzati, e per la prima volta l’uno contro l’altro. L’India ha affermato che nella notte dell’8 maggio il Pakistan avrebbe lanciato verso l’India uno sciame di 300-400 droni e di averli abbattuti tutti, mentre il Pakistan ha affermato di avere intercettato 77 droni indiani. Quelli utilizzati dall’India sono di fabbricazione israeliana, mentre il Pakistan dispone di droni di produzione propria, cinese e turca: [4] l’efficacia dei droni turchi, altamente apprezzata nel loro primo utilizzo in combattimento nella guerra in Ucraina nel 2022, di recente è stata ridimensionata. Canali indiani e americani hanno sottolineato le carenze e la sostanziale inefficacia dei droni turchi, che probabilmente costituiscono una potenziale minaccia per la produzione americana, mentre per l’India, sminuire l’equipaggiamento tecnico del nemico fa parte di una guerra che si sta combattendo più a livello mediatico che sul campo.

Il Kashmir, la politica indiana e lo stato dei rapporti indo-pakistani

Sembra che pochi siano in grado di comprendere che, come scrive Rula Jebreal nel suo libro fresco di stampa, Genocidio, “La guerra produce vendetta: la giustizia evita la vendetta”.[5] Bisognerebbe aggiungere che i diritti e il loro riconoscimento evitano la vendetta. Che l’India tratti il Kashmir e i rapporti con il Pakistan con un metodo che si può definire ‘israeliano’,[6] ovvero con la repressione violenta all’interno dello stato himalayano e accuse, pretesti e aggressività verso la nazione confinante, arrivando ad auspicarne l’annientamento, non è la soluzione. La radicalizzazione della situazione in Kashmir viene da decenni di occupazione militare e violenza perpetrati sotto i precedenti governi nei confronti della popolazione musulmana della vallata. Il quadro è stato aggravato dalla politica adottata dal governo Modi, culminata nell’eliminazione, nel 2019, dell’articolo 370 della Costituzione indiana, che prevedeva la sostanziale autonomia del Kashmir e un sistema legislativo a sé stante. Dal 2019 sono state eliminate le protezioni che impedivano a indiani provenienti da altre zone del paese di avere proprietà o effettuare investimenti nella vallata, mentre sono state introdotte misure per garantire ai non kashmiri l’ottenimento della residenza e la possibilità di gestire attività economiche nello stato. Se si pensa che il Kashmir è una delle mete più attrattive al mondo, si può facilmente immaginare come i lucrosi affari derivanti dallo sfruttamento turistico passino ora dalle mani dei kashmiri a investitori indiani e non solo. Bisogna aggiungere che dal 2019, per anni, non è stata istituita un’assemblea legislativa in Kashmir, che di conseguenza è stato gestito direttamente da Delhi fino al 30 settembre 2024, quando sono state reintrodotte le elezioni locali, su imposizione della corte suprema indiana. Il governo di Delhi però ha introdotto dei dispositivi elettorali volti a garantire un numero più alto di seggi alla minoranza indù del Jammu, rispetto alla maggioranza musulmana del Kashmir. Nel 2019 il territorio è stato diviso in tre aree: Jammu, Kashmir e Ladakh, applicando un modello che riporta a quello coloniale della partition, secondo il principio del divide et impera. La tripartizione dello stato ha un impatto negativo sugli equilibri socio-economici preesistenti. A tutto questo si aggiungono le restrizioni, molte delle quali inasprite e giustificate da un’emergenza pandemica durata ben oltre il limite, l’imposizione del coprifuoco dall’estate 2019 fino al 2023, la repressione delle libertà civili, di opinione e di stampa, l’arresto di attivisti e giornalisti, la criminalizzazione della popolazione musulmana, che va di pari passo con la repressione dei musulmani dell’India, in una situazione che molti analisti ed esperti paragonano a quella della Palestina.[7] Il 5 giugno 2025 Narendra Modi ha celebrato l’avvio di un progetto per la costruzione di una linea ferroviaria in Kashmir, che ha lo scopo di garantire la connettività con lo stato himalayano nell’arco di tutto l’anno, con ogni condizione atmosferica. Lo scopo ufficiale della ferrovia è promuovere il turismo spirituale, facilitando l’accesso agli importanti santuari indù del Kashmir e offrire opportunità di sviluppo economico alla popolazione locale. In realtà però la nuova infrastruttura viene vista comprensibilmente come una minaccia alla specificità culturale del Kashmir e come uno strumento per rafforzare il controllo militare della vallata.[8] È abbastanza ovvio che in simili condizioni si sviluppi il radicalismo politico e c’è da sorprendersi che non dilaghi tra la popolazione musulmana di tutta l’India, vittima di analoghe repressioni. In particolare, la possibilità per i non kashmiri, indiani e stranieri, di investire e intraprendere attività economiche nello stato provoca non solo allarme e tensione, ma un danno materiale e tangibile soprattutto alle giovani generazioni: un segnale preoccupante è rappresentato dal tasso di disoccupazione giovanile, lievitato dal 2019 fino a raggiungere punte del 17.4 % nella fascia d’età 15-19, rispetto al 10.2 del dato nazionale e al 6.1% del totale della popolazione indiana.[9] A peggiorare la situazione, le misure introdotte dal governo indiano prevedono anche l’accesso alle quote riservate alle professioni nel settore pubblico ai non locali.[10]

The Resistance Front rappresenta anche il disagio delle componenti giovanili del Kashmir, che non vedono sbocchi per il futuro. Questa formazione, che non usa i simboli e il linguaggio del radicalismo islamico, ha fra i propri punti fondanti la critica all’eliminazione dell’articolo 370 della Costituzione per le sue ricadute economiche e occupazionali.[11] Certamente il Pakistan ha sostenuto e continua a sostenere le formazioni del radicalismo kashmiro, ma non si hanno certezze sulle connessioni con il TRF. Quindi non si può affermare senza ombra di dubbio, come ha fatto l’India, che l’attentato del 22 aprile sia stato organizzato direttamente da Islamabad. Puntare il dito contro il Pakistan ogni volta che si verifica un attentato in Kashmir è miope e pretestuoso, dal momento che serve a distogliere l’attenzione dalle mancanze, decennali, che i successivi governi indiani, non solo quello del BJP, hanno avuto nei confronti del Kashmir; serve a distogliere l’attenzione dall’incapacità di trovare soluzioni costruttive e non distruttive alla questione kashmira e agli stessi rapporti indo-pakistani.

Sul piano geopolitico, la mancanza di un organismo di gestione delle crisi fa sì che ogni tensione tra India e Pakistan rischi di degenerare pericolosamente in un conflitto aperto. Di conseguenza, ogni volta che entrano in collisione, India e Pakistan devono fare ricorso a mediatori esterni: nell’ultimo caso gli Stati Uniti, ma anche la Cina.[12] Non bisogna dimenticare che l’attacco di Pahalgam è avvenuto durante il secondo dei quattro giorni della visita di JD Vance in India. È probabile che l’attentato fosse un messaggio del TRF agli Stati Uniti come alleato dell’India e alla comunità internazionale. In ogni caso, la mediazione di Washington sembrerebbe essere stata fondamentale nel smorzare i toni tra i due contendenti. Se la visita del vicepresidente americano era avvenuta nella massima cordialità, con gli auspici di un ulteriore rafforzamento dei rapporti bilaterali e del coinvolgimento dell’India nei piani americani, i rapporti tra Delhi e Washington si sono raffreddati a seguito dell’attacco indiano al Pakistan. Durante la visita di Modi alla Casa Bianca, il 13 febbraio 2025, il primo ministro indiano e il presidente Trump avevano annunciato il piano denominato Tranforming the Relationship Utilizing Strategic Technology (TRUST), che prevede la realizzazione di catene di approvvigionamento sicure, soprattutto per i semiconduttori e i minerali rari e prende in considerazione la possibilità di produrre in India chip ‘maturi’, piuttosto che leading-edge, o avanzati, i quali richiederebbero la costruzione di impianti di fabbricazione troppo costosi. Il rafforzamento dei rapporti economici tra i due paesi doveva essere la cornice entro la quale sviluppare il TRUST,[13] ma l’accordo commerciale, che dovrebbe comportare, tra l’altro, il raddoppio delle transazioni entro il 2030, e la cui prima fase dovrebbe essere conclusa entro il 2030,[14] ha subito un rallentamento che ha richiesto una proroga di una settimana dei negoziati, per la definizione dei dettagli tariffari. A complicare la situazione, è arrivata la richiesta americana della liberalizzazione del mercato agricolo e caseario indiano, che suscita inquietudine in India, perché esporrebbe al rischio della povertà agricoltori e produttori.[15] Queste due componenti potrebbero mettere in atto proteste analoghe a quelle del 2020-2021, contro l’introduzione di tre norme da parte del governo indiano, tese a liberalizzare il settore agrario. Il rallentamento dei negoziati per l’accordo commerciale lascia presupporre che i rapporti tra India e Stati Uniti, nonostante l’ottimismo sbandierato soprattutto da Delhi, mantengano un certo grado di difficoltà.

Una crisi irrisolta e un futuro incerto

Ciò che resta, dopo la crisi di Pahalgam, è un conflitto irrisolto, che è tale da settant’anni. Così come quello di Pulwama del 2019 e dei molti scontri tra India e Pakistan, anche questo è un episodio di una saga apparentemente senza fine, che potrebbe sfociare in una guerra aperta, se solo intervenisse un elemento scatenante: basterebbero una reazione troppo impulsiva o un errore umano. È incredibile che né in Pakistan, né in India, a trent’anni di distanza, ci si ricordi più il tentativo di normalizzazione dei rapporti bilaterali portato avanti dal primo ministro Inder Kumar Gujral, il cui governo durò solo undici mesi, tra il 1997 e il 1998. Fu geniale, all’epoca, l’elaborazione della cosiddetta dottrina Gujral, che consisteva in un’idea visionaria e lungimirante dei rapporti tra l’India e i paesi dell’Asia meridionale, in particolare il Pakistan. Partendo dal presupposto che l’India fosse un paese di gran lunga più forte di ciascuno dei suoi vicini in Asia Meridionale,Gujral riteneva che avesse l’obbligo morale di fare concessioni più ampie di quelle che poteva aspettarsi dalle sue controparti. Su queste basi, il primo ministro aveva ideato e avviato un percorso bilaterale di pace, denominato “multi-track approach” o “composite dialogue”, dialogo composito, che consisteva nell’affrontare simultaneamente tutte le questioni irrisolte tra India e Pakistan e non solo quella riguardante il Kashmir, e nel mantenere un canale di dialogo costante.[16] I primi colloqui intrapresi tra il primo ministro indiano e il suo omologo, Pervez Musharraf, portarono alla riapertura delle frontiere, degli scambi bilaterali, alla riattivazione dei contatti tra le rispettive società civili e all’avvio di un dialogo inizialmente piuttosto serrato e propositivo, che aveva fatto credere in una definitiva distensione. Poi sopraggiunsero la guerra di Kargil, tra maggio e luglio 1999 e, appena due anni dopo, il 13 dicembre 2001, l’attacco al parlamento indiano realizzato dal Jaish-e-Mohammed (esercito di Mohammed), a rendere sempre più difficoltoso il dialogo e sempre più critici i rapporti bilaterali. Tra tentativi di riapertura dei contatti e reciproche accuse, il colpo di grazia al periodo idilliaco del governo Gujral fu dato dall’attentato all’Hotel Taj Mahal e ad altri due alberghi di lusso di Mumbai, avvenuto tra il 26 e il 29 novembre 2008 ad opera di un gruppo poco conosciuto, il Deccan Mujahedeen. Quelli erano gli anni dei governi Vajpayee, primo ministro del BJP, per poco più di un anno tra il 1998 e il 1999, poi di nuovo dal 1999 al 2004, che avevano determinato un rafforzamento senza precedenti della destra indù e dell’odio antimusulmano, non mitigati neppure dai successivi dieci anni di governo del Congresso, dal 2004 al 2014. Quello fu anche il periodo del tentativo di espandersi in Asia meridionale da parte di al-Qaeda, di cui si ritiene che il Deccan Mujahedeen fosse un’emanazione. L’affermazione politica della destra indù ha compromesso pressoché definitivamente la possibilità, da un lato, di una normalizzazione dei rapporti indo-pakistani e, dall’altro, di una soluzione definitiva della questione del Kashmir, in realtà due facce della stessa medaglia.

Anziché attuare una  valutazione costruttiva degli errori commessi in Kashmir in passato e cambiare rotta, l’India continua ad additare il Pakistan come matrice dell’islam radicale e del terrorismo kashmiro, nonostante Islamabad abbia aderito alla coalizione internazionale per la lotta globale contro il terrorismo.[17] Questo tipo di retorica serve a rafforzare la politica violentemente anti-musulmana del BJP. Politica interna e politica estera si riflettono reciprocamente e l’atteggiamento duro verso i musulmani indiani e verso il Kashmir serve anche ad accreditare l’India di Modi come garante della sicurezza regionale e internazionale.

L’attacco di Pahalgam ha suscitato stupore, oltre che costernazione e indignazione, perché inaspettato: il Kashmir veniva descritto dalla retorica del BJP e dallo stesso primo ministro, come uno stato finalmente pacificato, dopo la repressione degli ultimi anni; di conseguenza lo stato indiano aveva abbassato la guardia, ipotizzando anche una futura smilitarizzazione del Kashmir. Si è trattato di una percezione e di una narrazione sbagliate e fuorvianti, puramente propagandistiche, quando si sarebbe dovuto intraprendere un progetto di sviluppo di lunga durata del Kashmir, che comprendesse tutta la sua popolazione, musulmana e indù e, al tempo stesso, la si proteggesse da interessi esterni: invece si è fatto l’esatto contrario. Soprattutto, per risolvere definitivamente la questione del Kashmir, bisogna intraprendere (o riprendere) il dialogo con il Pakistan perché, come afferma uno stimato analista indiano quale Prem Shankar Jha, qualsiasi soluzione si decida di adottare per il Kashmir, questa deve riguardare entrambe le parti dello stato, quella indiana e quella pakistana.[18] Attualmente l’atteggiamento più propositivo viene assunto dal Pakistan, il cui vice primo ministro Ishaq Dar,  il 22 maggio, ha dichiarato che era necessario riprendere il dialogo composito con l’India, in un paese terzo, come l’Arabia Saudita o gli Emirati.[19]

Il recentissimo e sorprendente riavvicinamento del Pakistan all’Iran, con cui i rapporti sono stati storicamente tutt’altro che buoni, oltre a indicare l’elevato livello di pericolosità della situazione in Medio Oriente, con molta probabilità è motivato dalla paura di un Iran annientato e di un’influenza diretta in Asia Meridionale di Israele, dall’ascesa al potere di Modi alleato previlegiato dell’India. D’altra parte l’India, fin dal primo governo Modi, del 2014, non solo ha rafforzato i rapporti con Tel Aviv, con cui condivide una politica ferocemente antimusulmana, ma utilizza tecnologia per il controllo della popolazione, armamenti e assistenza tecnica e antiterrorismo forniti da Israele.  Gli stessi metodi di repressione, probabilmente anche suggeriti dai consiglieri israeliani, come demolire le abitazioni di presunti terroristi al momento della cattura, anche per semplice ritorsione verso le famiglie, in Kashmir, ricordano quelli utilizzati dall’IDF in Palestina.                                                                                                                                                            Per quanto riguarda la politica estera, l’aggressività nei confronti degli stati confinanti, basata sulla minaccia militare più che sulla diplomazia, adottata dall’India nei confronti del Pakistan e, in parte, della Cina,[20] ricorda la politica attuata da Israele nei confronti dei vicini arabi che non hanno aderito agli Accordi di Abramo. Inoltre, anche l’utilizzo del soft power da parte dell’India ricorda quello di Israele: un’analogia rappresentata dal fatto che, una volta raggiunta la tregua dopo la crisi di Pahalgam, il governo di Delhi ha avviato un’‘offensiva diplomatica’, inviando delegazioni di parlamentari presso i ministeri degli Esteri di altri paesi, per promuovere le proprie ragioni e per influenzare positivamente i decisori politici stranieri. È una pratica che Israele adotta da decenni e che ha contribuito a generare una solidarietà internazionale spesso acritica verso Tel Aviv.[21]

[1] Il numero delle vittime varia da 26 a 28, a seconda delle fonti

[2] Y. Sharma, What is the Resistance Front, the group claiming the deadly Kashmir attack?, “Al Jazeera”, 23 aprile 2025 https://www.aljazeera.com/news/2025/4/23/what-is-the-resistance-front-the-group-behind-the-deadly-kashmir-attack

[3] Did China’s Fighter Jets Beat the West in the India-Pak War? Is U.S. Trade Power at Risk?  Endgame Compass https://youtu.be/30sh7u-max0?si=ANqDJ8t1TD-lzZOK; I caccia indiani abbattuti da jet di fabbricazione cinese, “Contropiano”, 8 maggio 2025 https://contropiano.org/news/internazionale-news/2025/05/08/i-caccia-indiani-abbattuti-da-jet-di-fabbricazione-cinese-0182898

[4] Notte di scontri lungo il confine in Kashmir. India, il Pakistan ci ha attaccati con missili e droni, ANSA, 8 maggio 2025; Cosa si sa sull’uso dei droni nella crisi tra India e Pakistan, “Il Post”, 10 maggio 2025.

[5] R. Jebreal. Genocidio. Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale, Milano, Piemme, 2025, p. 218.

[6] La sussistenza di un’emulazione esplicita e pianificata da parte dell’India delle modalità di sopraffazione, repressione e controllo adottate da Israele verso i palestinesi è confermata da sempre più frequenti testimonianze. Nel 2019 il console generale indiano negli Stati Uniti aveva invocato l’adozione di un ‘modello israeliano’ da parte dell’India, che consistesse nella creazione di insediamenti di kashmiri indù come quelli dei coloni sionisti. Nel 2024 questa idea è stata ripresa dell’opinionista politico Anand Ranganathan, il quale ha dichiarato che in Kashmir l’India dovrebbe adottare il ‘modello israeliano’, suscitando forti polemiche nel paese: rispettivamente Anger over India’s diplomat calling for ‘Israel model’ in Kashmir, “Al Jazeera”, 28 novembre 2019; A. Bhasin, Bringing the Israeli model to Kashmir, “Al Jazeera”, 20 giugno 2020; H. Kanjwal,  How India is implementing the ‘Israel model’ in Kashmir, “Middle East Eye”, 13 giugno 2024.

[7] Sulla grave situazione dei diritti umani e del diritto in genere in Kashmir dopo l’eliminazione dell’articolo 370 esiste una vastissima letteratura, sia giornalistica che accademica. Una buona sintesi, recente, si trova in India’s Modi visits Kashmir: How has the region changed since 2019?, “Al Jazeera”, 7 marzo 2024. Per uno sguardo in prospettiva storica della pubblicistica sull’analogia tra la Palestina e il Kashmir, di seguito una selezione di scritti: G. Jafar, Kashmir and Palestine: Similar ‘Solution’ to Similar Issues?, “Strategic Studies”, vol. 12, n. 2-3, inverno 1995-primavera 1996; G. Osuri, Kashmir and Palestine: The story of two occupations, “Al Jazeera”, 24 agosto 2016; U. Tramballi, Kashmir, una Palestina sull’Himalaya, ISPI, 7 agosto 2019 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/kashmir-una-palestina-sullhimalaya-23779; G. Osuri, A. Zia, Kashmir and Palestine: archives of coloniality and solidarity, “Global Studies in Culture and Power”, vo.. 27, n. 3, 2020; N. Kaul, India, Israel, and Geopolitical Imagineries of Cooperation and Oppression, “Georgetown Journal of International Affairs”, 17 giugno 2022; H.K. Baloch, Drawing Parallel Between Kashmir and Palestine, “South Asia Journal”, 11 novembre 2023; H. Kanjwal, Colonizing Kashmir: State-Building Under Indian Occupation, Stanford University Press, 2023.     

[8] A. Essa, India’s Kashmir railway is an engineering feat – and an occupation project, “Middle East Eye”, 21 giugno 2025.

[9] S. Zargar, Jobless and adrift, Jammu and Kashmir’s youth are struggling to keep the faith, “Scroll”, 17 marzo 2025.  

[10] Y. Sharma, What is the Resistance Front, cit.

[11] Sulla situazione in genere, sulle analogie tra la politica di Modi rispetto al Kashmir e quella di Israele verso la Palestina, con particolare riferimento alle ricadute economiche e occupazionali dell’eliminazione dell’articolo 370 della Costituzione, vale la pena di ascoltare l’intervista radiofonica al Prof. Pradeep Sopory, India And Pakistan On A Knife Edge Over Kashmir Attack, “Wort 89.9 FM Madison”, 4 maggio 2025, https://soundcloud.com/wort-fm/india-and-pakistan-on-a-knife-edge-over-kashmir-attack

[12] M.W. Yusuf, Has the U.S. Prevented Another India-Pakistan War? Belfer Center for Science and International Affairs, 5 maggio 2025.

[13] K. Bandhari, The India-US Trust Initiative: Advancing Semiconductor and Supply Chain Cooperation, Carnegie Endowement for International Peace, 24 aprile 2025.

[14] A. Fox, India-US Trade Deal: A Strategic Play for Growth in Industrial and Agricultural Sectors, AInvest, 27 maggio 2025.

[15] M. Kumar, India, U.S. trade talks extended as deadline looms for interim deal, say sources, Reuters, 6 giugno 2025.

[16] F. Brunello Zanitti, La “dottrina Gujral”: un caso di studio tra aspetti biografici e storia della politica estera indiana, tesi di dottorato, Università degli Studi Firenze-Università di Siena, 2015-2018.

[17] Escalation India-Pakistan: cosa sta succedendo e come siamo arrivati fin qui, ISPI, 7 maggio 2025.

[18] P.S. Jha, Those Speaking of Kashmir as an Independent State Err in Conflating Freedom With Independence, “The Wire”, 24 novembre 2024. Prem Shankar Jha (1938) è uno dei massimi economisti indiani e giornalista. È stato consigliere personale del Primo Ministro V.P. Singh, per tutta la durata del suo mandato, tra dicembre 1989 e novembre 1990.

[19] Pakistan says open to dialogue with India, with Saudi Arabia, UAE among neutral venue options, “Arab News”, 22 maggio 2025.

[20] Soprattutto a causa dell’elevato interscambio tra i due paesi, Delhi non ha messo in secondo piano i rapporti diplomatici con Pechino: non bisogna dimenticare che entrambe fanno entrambi parte del BRICS. Tuttavia la recente adesione e crescente impegno dell’India nella Indo-Pacific Partnership a regia statunitense ha una chiara funzione di contenimento militare della Cina.

[21] Se fino all’insediamento del governo Modi, nel 2014, i rapporti di lunga data tra Israele e India erano ammantati da un certo mistero, sono diventati di dominio pubblico dopo la pubblicazione di un rapporto esteso e articolato, basato su documenti d’archivio, da parte del quotidiano israeliano Haaretz, che mette in luce i legami instaurati da diplomatici israeliani con l’opposizione al Congresso e in particolare con la destra indù, fin dagli anni ‘60 per contrastare la politica filopalestinese del governo indiano: E. Mack, The India File: Israel’s Warm TIes With the Indian Far Right Began Decades Before Modi, “Haaretz”, 8 marzo 2024.

Marseille

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di Pierfrancesco Trocchi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era quell’ora buona in cui a Marsiglia i suoni si fanno d’acqua e i profumi sono liberi di camminare senza che nessuno li cerchi. La giornata era stata pragmatica, sentimentale e pragmatica, e dalle finestre trapelavano adulti silenzi rivolti al presente appena passato. Non ci si poteva aspettare niente di eccezionale, eppure tutto sembrava più gradevole del consueto. Fuori dal breve boulevard le vie erano pruriginose di frette, progetti in dirittura di compimento o abbandonati, musiche allungate come gettate in mare: un universo in espansione. Dentro, il gioco della vita s’era assestato da un po’.
Soddisfatto dalla propria noia, Philippe giocava a non fare sbordare la propria moresque dal bicchiere. Gettò un ultimo sguardo, inclinato da un tenue sorriso, a un gabbiano impegnato ad abbeverarsi del cloro della piscina, prima di rientrare in casa per leggere Les détectives sauvages. La signora Zora nel corso delle sue pulizie aveva riposto il volume al solito posto nella libreria, anche se sapeva quanto al dottore piacesse il contrasto tra la copertina color tramonto e il divano gris foncé. Philippe prese il libro in mano, lo aprì e si addormentò poco dopo nella sua polo sempre uguale dai tempi del divorzio.

*

Ci sono certi calanchi buoni come torroni, si è come viziati quando li si guarda, è troppa bellezza e si rischia poi di non piacersi più: non si può esserne all’altezza. Strade, stradine e strapiombi sostengono Cassis nel mondo, ci trovi tutto quello che senti nei brevi spazi onirici primo pomeridiani, non rappresentativi del nostro inconscio; quegli spazi melliflui dove non si vive né si è vissuti, si è solo contenuti e il sogno fa tutto lui, Cassis fa tutto lei.
Abitare i vialetti del suo porticciolo è nelle ore dell’apéro questione di equilibrismo, e Charlotte scherzava con il fratello in merito al suo naso.
«Ce l’ha così anche Gérard Depardieu» si difese dolcemente stizzito Romain.
«Non hai nemmeno un quarto del suo fascino, pupazzetto».
Romain era vestito di una camicia azzurra a coste, pantaloni di lino e un vezzoso braccialetto di tessuto donatogli da un amico malgascio. Lo chiamavano “L’allemand”, Romain, per via della sua stazza per nulla marsigliese, impreziosita da bei capelli biondo cenere e da uno sguardo stretto ma vispo: non era mai chiaro se stesse semplicemente osservandoti oppure scandagliando il fondo delle tue intenzioni. Ora sorrideva alla sorella mentre rovistava nella tasca destra alla ricerca di una sigaretta sfusa, ne aveva comprate una manciata a Noailles, un po’ perché costavano meno e un po’ perché gli piaceva riporle nel suo astuccio di latta sottile decorato all’indiana. Fece il gesto di offrire una Gauloises alla sorella, che però era impegnata a contare le barche adagiate a pochi passi da loro, salvo poi perdere il conto al passaggio di ogni ragazzo che non le sembrasse un connazionale.
«Chacha, laisse tomber, ti toccherà sposare un ricco francese» annotò ironicamente Romain.
«Tu pensa alla tua Barbara e ai suoi colpi di testa».
«Speravo in una giovinezza più spensierata».
Charlotte gli prese dolcemente la mano. «Sei bello e tonto, il sogno di ogni donna».
Romain rimase a guardarla mentre la brezza gli sussurrava sonno, e non volle pensare a niente. A breve loro fratello Vincent sarebbe arrivato insieme a Monique, lui con il suo sorriso da saltimbanco e lei sfumata da una malinconia pompeiana, quella di chi è costretto a mostrare la propria bellezza in un tempo dove non vorrebbe risiedere. Temeva, Romain, che Monique fosse la vittima di un piccolo, esuberante, assurdo dio qual era Vincent.
Molte sere Charlotte, rincasata alla villa del padre, aveva incontrato Monique seduta sulla terrasse, in netto, desolato anticipo rispetto al ritorno del fidanzato. Allora nell’attesa non le restava che consolarla, la sua Monique – la sua Monà Lisà, per quella foschia azzurra che le inumidiva i pensieri – e accusava Vincent maledicendo il suo machismo così tremendamente francese. Una volta Charlotte gli aveva detto: «Non sei una donna, non puoi capire quanto soffriamo», e la risposta di Vincent era stata «Appunto, non sono una donna, je m’en bat les couilles. Ma non è colpa mia se Monique piange», sorridendo come un satiro bruciato da una vita di orge. La sorella ne aveva tratto un senso di simpatia e di disgusto, di qualcosa di disturbante e magnetico.
«Quando arrivano quei due?». Charlotte parlò seguendo con il capo il passaggio di un avvenente straniero.
«Staranno litigando, come al solito» aggrottò Romain. «Allora, dimmi, come mi sta questo baffo?».
«Ti sta come un completo di Armani sulla Canebière».
«Temo di avere capito».
«Romain» disse più piano Charlotte avvicinandosi «ti devo dire una cosa».
«Hai fatto una bêtise?».
«No» disse Charlotte lisciandosi le unghie.
«Non vuoi fare l’università?».
«No, figurati».
«Ti sei drogata?».
«Dio mio, che puritano. No, ma non sarebbe un problema».
«E allora?».
«Eh, allora… Papà ha una».
«Una che?».
«Una donna, anche se non ho idea di chi sia».
Romain si impuntò sui piedi, piegando le lunghe leve. «Mi prendi in giro?».
«Non scherzo mai su queste cose, lo sai».
«Come fai a sapere che ha una senza sapere chi sia?».
«Lo so, perché…»
Romain era ancora istupidito nel verde degli occhi di Charlotte quando si sentì pizzicare l’orecchio. Infastidito, si girò a mezzo busto come pronto a scattare in piedi, salvo poi arretrare davanti al viso salmastro di Vincent.
«Vincent, putain…» esclamò Romain abbracciandolo, mentre Monique, come già in preda al pentimento di futuri peccati, si stringeva sullo sfondo in uno scialle nero come il suo vestito.
«Monique, mon trésor» sorrise Charlotte «vieni di fianco a me e lascia perdere questi due disgraziati». Charlotte indossava una canottiera color panna e sottili pantaloni neri, una bandiera abbandonata alle folate incoerenti dell’aria di Cassis. Si sentiva dentro a un periodo della sua vita in cui non aveva nulla da perdere, ed era la prima volta – finita la scuola, il padre le aveva promesso una piccola vacanza, sarebbe partita presto e non aveva idea di dove sarebbe andata. I diciannove anni sono qualcosa di incomprensibile mentre li si vive e ancor più quando li si ripensa; così Charlotte rideva a cuore spianato e basta, vedeva mille possibilità e s’era detta che le avrebbe colte tutte, prese per mano e portate in un posto sicuro.
«Chacha, sei più bella oggi» esordì Monique.
«È colpa del tuo fidanzato. Mi ha regalato questi» disse Charlotte scoprendo le orecchie, ornate da due robusti orecchini dorati.
«Li facesse a me questi regali…».
«Tranquilla, non mi faceva un pensiero da dodici mesi esatti. E solo perché era il mio compleanno».
«Come?» – saltò sulla sedia Monique – «E quando? Che figura!».
«Quando» spiegò Vincent emergendo da uno sbuffo di fumo «hai detto che non volevi più stare con me. Due giorni fa».
«Sei indelicato» lo redarguì Romain.
In quel momento Charlotte notò una figura maschile impegnata in una posa scimmiesca, quasi triviale, a districare il nodo di ormeggio di una piccola imbarcazione, un vero guscio di noce atto a contenere al massimo due individui, anzi al massimo un uomo e una donna, meglio se piccola come lei, o un uomo e un bambino, o una donna e un bambino, o una donna piccola e due bambini molto piccoli – Charlotte si perse nel calcolo come stesse già prospettando un futuro con quell’uomo. Non poteva vederlo chiaramente in viso, eppure era sicura si chiamasse Francesco o Giuseppe, con una barba poseidonica e i capelli raccolti con quell’esattezza disordinata che riesce solo alle genti di mare. Probabilmente non era nemmeno italiano, e probabilmente odorava di zolfo e salsedine, come Caronte; sicuramente, lei non avrebbe mai trovato il coraggio di parlargli. Esaurita questa evasione, Charlotte fece di nuovo il suo ingresso nella conversazione.
«Non fa nulla, Monà Lisà, possiamo festeggiare stasera» disse carezzando le ginocchia di Monique.

*

Quando si risvegliò, le cicale riposavano esauste. Philippe strizzò forte gli occhi, come per dare il ciak alla realtà, e diede un colpo di tosse.
La prima cosa a cui pensò furono i suoi tre figli, Charlotte, Romain e Vincent.
La seconda furono Monique e la sua tristezza.
La terza, che gli mancava e che sarebbe stato meglio smetterla con quella storia di fare l’amore con lei.
Spostò il libro dal petto, accese la televisione e si riaddormentò di nuovo, illuminato dall’estremo colore della luna.

 

5. Un’estate con la Principessa di Clèves

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Immagine di Clelia Le Boeuf

Un’estate con la Principessa di Clèves è un podcast a cura di MARCO VISCARDI, letture di GIULIA MILANESE, sei puntate con ospiti e letture del romanzo alla scoperta di un classico della letteratura francese.

QUINTA PUNTATA
5.”Un’estate con la Principessa di Clèves
L’occhio infranto” con GIUSEPPE MERLINO

Si può seguire il PODCAST su:

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Le altre PUNTATE
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ Il mondo esteriore” con CLAUDIO GIGANTE
2.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Storia di un matrimonio” con PASQUALE PALMIERI
3.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il delirio della distinzione” con EMANUELA SURACE
4.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ La fine delle buone maniere” con VALENTINA STURLI

Il dubbio del talmid

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Immagine di Martina Mattia

di Martina Mattia

Eliezer ben Mordechai, nonostante il freddo pungente tipico delle notti invernali di Amsterdam, continuava ad asciugarsi il sudore dalla fronte. Tale era il tormento che si portava nel cuore.

Proprio lui, nipote del celebre Rav Eliyahu Meir Grodensky, sia benedetta la sua memoria — uno dei grandi sapienti di Lituania, che chiamavano HaGaon, “il Genio”, e rosh yeshivà della Netzach HaTorah di Vilna, cioè capo di una delle accademie rabbiniche più rigorose del suo tempo, maestro severo di generazioni di gedolim, i “grandi”, quelli che avevano la Torah anche nel respiro — proprio lui, suo nipote, stava leggendo il Trattato teologico-politico di Spinoza. Il senso di colpa gli pesava come una pietra sul petto.

Si trovava ad Amsterdam con la benedizione del padre, per proseguire gli studi presso la yeshivah locale, lasciando ad Anversa la famiglia e la comunità litvak che lo aveva cresciuto e che già lo considerava uno tzaddik, un uomo giusto, nei suoi pensieri e nelle sue azioni, esempio di santità umana nel cammino difficile della vita. Una comunità rigida e devota, segnata dall’eredità degli ebrei lituani: uomini temprati dallo studio, ferrei nella legge e nella disciplina del pensiero.

E ora, in preda ai dubbi più tremendi, si trovava a consultare l’opera filosofica di un apostata. Se qualcuno gli avesse raccontato una storia simile anni prima, avrebbe pensato a uno scherzo.

Ogni tanto si fermava a riflettere, seduto nella sua stanza buia, illuminata solo dalla lampada sulla scrivania. Continuava a leggere quel testo profano, dondolandosi avanti e indietro, come d’abitudine sua e di tutti i talmidim, studiosi devoti, immersi nello studio della Torah. Era al capitolo V del Trattato. Sosteneva che la Torah non conduceva alla felicità o alla virtù, ma che fosse solo una legge politica, valida soltanto nel tempo in cui era stata data.

Allora, si chiedeva Eliezer, dopo la distruzione del Secondo Tempio e la dispersione delle tribù, tutto doveva cessare? Niente più mitzvot — quei precetti quotidiani, concreti e spirituali insieme, che fin da bambino gli avevano insegnato a rispettare come fili invisibili che legano l’uomo al Santo Benedetto? La halakhah stessa — il cammino tracciato dai saggi per vivere secondo la volontà divina, fatta di norme, giudizi, discussioni e compassione — diventava forse inutile, mero residuo di un’epoca passata?

Si accarezzò la barba, dubbioso. Quella spiegazione non lo convinceva.

Sì, molto si parlava di salvezza dell’anima, ma non era quello, secondo lui, il cuore della questione. Forse, al tempo di Spinoza, in mezzo a persecuzioni e incertezze, la salvezza era diventata un’ossessione consolatoria.

Ma lui? Eliezer? Non osservava le mitzvot per timore del castigo o per desiderio di ricompensa.

Inoltre, pensava, Spinoza prende tutto troppo alla lettera. Le interpretazioni dei chachamim, i sapienti interpreti delle Scritture, sono ben più sottili.

Eppure, un motivo doveva pur esserci se si era addentrato in quel testo.

Guardò l’orologio: era ormai mezzanotte. Si asciugò il sudore. «Secondo Spinoza, in pratica, sono solo uno schiavo», mormorò tra sé.

Si alzò e aprì la finestra per prendere un po’ d’aria. Mentre guardava il viavai nella strada sottostante, gli tornò alla mente Yacov, un vecchio compagno di studi. Un giorno, Yacov si era presentato in yeshivah vestito come un gentile. Aveva sbattuto un testo della Torah sul tavolo e aveva annunciato:

«Me ne vado! Siete tutti pazzi a vivere come se il mondo là fuori non esistesse. È irragionevole osservare tutte queste prescrizioni… la vita non è già abbastanza complicata? A che serve tutto questo? A che serve davvero?»

Eliezer sentì la testa girare.

Non aveva più senso continuare a leggere. Ma non riusciva nemmeno a dormire. Uscì.

Camminava per le vie luminose di Amsterdam, interrogandosi su come fosse arrivato a quel punto. I dubbi di Yacov erano tornati a tormentarlo negli ultimi mesi, con insistenza crescente. Pregare, leggere la Torah, studiare Talmud e teshuvot non bastava più. Le teshuvot – quelle lettere antiche che i Maestri si scambiavano attraverso i secoli, risposte a domande concrete e metafisiche, su come vivere, su come obbedire, su come restare fedeli e umani – gli apparivano ora come echi lontani, rassicuranti eppure irrisolti. Non erano soltanto pareri giuridici: erano gesti di ritorno, percorsi di teshuvah, perché ogni risposta vera, anche la più arida, è in fondo un movimento dell’anima che cerca la via per tornare a casa. Alla fine, proprio quei dubbi lo spinsero ad accettare la proposta del rabbino di studiare nella yeshivah di Amsterdam: un’occasione per allontanarsi dalle aspettative familiari e comunitarie, e cercare una risposta.

Naturalmente, nessuno conosceva i suoi pensieri. La proposta del rabbino era giunta come una coincidenza provvidenziale, ma anche come una prova. Il rabbino gli parlava con stima, lo vedeva come un giovane brillante e devoto. E lui, Eliezer, si sentiva indegno di tutto ciò. La fiducia degli altri gli pesava addosso come una tristezza muta. Vagava così, senza meta, per le strade affollate della città. Le alte case sembravano sporgersi in avanti, curiose di osservare i passanti. Osservava la gente, cercava di indovinare che storie avessero. Udì risate, vide ubriachi barcollare, amanti litigare.

La fede, sentiva, gli dava una gioia che nessun’altra cosa poteva offrire, anche se spiegare il perché gli era difficile. Anzi, forse era proprio perché non si poteva spiegare. Eppure, anche la filosofia lo affascinava. La ragione gli sussurrava dubbi: perché seguire proprio tutte le mitzvot? La vita non sarebbe forse più semplice? Era davvero libero?

All’improvviso si infilò in un andito buio che lo condusse a una via solitaria lungo uno dei canali.

Lì tutto era silenzioso. Solo qualche passante, ogni tanto. Amsterdam, da quel lato, gli parve malinconica e raccolta. «Essere liberi significa vivere fedelmente la propria verità interiore», pensava Eliezer. «Ma quale verità?»

Continuò a camminare. Poco più avanti, vide una figura maschile seduta su una panchina, lo sguardo rivolto al cielo. Quando si avvicinò, rallentò il passo. Guardandolo di sottecchi, Eliezer notò una cosa curiosa: quell’uomo stava piangendo guardando le stelle. Non sembrava ubriaco né folle, se ne stava semplicemente lì, seduto e inerme, le mani abbandonate sulle ginocchia, e piangeva silenziosamente fissando il firmamento.

Eliezer non poteva conoscere il motivo di quelle lacrime, eppure una fitta gli attraversò il cuore. Si fermò. Quella scena gli riportò alla mente una sera d’infanzia, quando aveva chiesto a suo nonno – Zeyde, come lo chiamavano in yiddish, con quel tono che è insieme rispetto e tenerezza: “Zeyde, der Eybishter è lassù?” Aveva alzato gli occhi, proprio come adesso quell’uomo sconosciuto, verso il cielo che pareva immobile e lontano, e si era chiesto se Dio – der Eybishter, “l’Altissimo” – abitasse davvero tra le stelle.

Che fare? Quell’uomo era solo, e pareva in preda alla più totale disperazione. Poteva davvero tirare dritto, far finta di niente?

No. Eliezer non aveva cuore di ignorare tanta sofferenza. Forse l’uomo aveva bisogno d’aiuto. Si avvicinò piano, con cautela, e gli chiese sommessamente se poteva fare qualcosa, se stesse bene.

L’uomo alzò appena il viso, e con voce roca, quasi profetica, dichiarò: “Sono un apolide del Regno dei Cieli, irriconoscibile agli uomini quanto a Dio! E hanno pure manomesso il mio manoscritto, quei maledetti!”

Alla fioca luce del lampione, Eliezer vide che l’uomo portava una kippà – il piccolo copricapo che gli ebrei osservanti tengono sul capo in segno di rispetto verso Dio. Oy vey, pensò, ecco un altro ebreo in crisi. Provò allora a dirgli con gentilezza: “Buon uomo, si ricordi cosa ha detto lo tzaddik: Ein shum ye’ush ba’olam klal – non c’è assolutamente alcuna disperazione al mondo.” Ma aveva l’impressione che l’uomo non lo stesse nemmeno ascoltando. Parlava come da un altro luogo, da un altro tempo.

Eliezer si sentì impacciato, come uno scolaro davanti a un maestro enigmatico. Non sapeva cosa fosse giusto dire. L’uomo continuò il suo monologo, come se Eliezer fosse solo un albero o un sasso. “Credevo davvero di aver fatto la scelta giusta. Volevo seguire la legge affidata a Moshè Rabbenu.

Cercavo la verità, volevo usare la mia ragione senza rinunciare alla mia identità. Non volevo diventare cieco, volevo restare ebreo – ma anche libero. Così ho cercato di restare nella comunità, ma senza obbedire a tutto. Non riuscivo. Non ci riuscivo!”

Il gelo di quella sera sembrò allora entrargli nelle ossa. Eliezer rabbrividì. C’era qualcosa di inquietante nell’uomo, nel modo in cui parlava, come se si trovasse in due mondi insieme. E lui, Eliezer, come avrebbe potuto aiutarlo, se non sapeva più aiutare nemmeno se stesso?

“Quando non andavo al tempio,” disse ancora l’uomo, “mi mancava. Mi mancava la tefillà, la preghiera del cuore e delle labbra, mi mancavano i canti e il mormorio della congregazione. Eppure… Ero legato al mondo ebraico, ma quando ci vivevo dentro… soffocavo. Dentro ero fuori, e fuori ero dentro. È una condizione tremenda. A volte pensavo di impazzire. Avrei dovuto andarmene per sempre? Ma come si può? E poi, il bivio: la filosofia e la scomunica, oppure il ripudio delle idee e il ritorno, ma sotto castigo.”

Eliezer lo guardava sempre più sconvolto, cercando di cogliere ogni parola. Ma qualcosa, nel profondo, lo inquietava.

L’uomo non proiettava alcuna ombra. Alla luce del lampione, che disegnava chiaramente quella di Eliezer, l’altro non ne aveva. Sgranò gli occhi. Cercò con lo sguardo, si sporse. Nulla. Sto sognando? Sto impazzendo? Il cuore pareva stesse per esplodere nel suo petto.

“E hanno manomesso le mie memorie!” gridò l’uomo. “Avevo lasciato il manoscritto, l’hanno preso e l’hanno storpiato! Quelle canaglie!”

Eliezer trovò appena la forza di chiedere: “Mi scusi… in nome del Signore… mi dica: chi è lei?”

L’uomo si alzò un poco, e con voce indignata rispose: “Uriel! Uriel da Costa! Sono morto in preda alla disperazione prima di trovare pace!”

Eliezer sgranò gli occhi. Un brivido gli salì per la schiena. Uriel scomparve. Così, di colpo. Come dissolto nel vento.

Eliezer rimase a fissare il vuoto, tremante. Recitò d’impulso il primo versetto dello Shemà, la preghiera che proclama l’unità di Dio e segna il cuore della fede ebraica. Si voltò e corse via. Corse fino alle vie affollate, illuminate, dove le voci e i passi degli uomini gli restituivano un po’ di realtà. Si rifugiò tra la gente, ancora scosso. Non ebbe il coraggio di tornare in camera, non voleva rimanere da solo. Continuò a recitare benedizioni a bassa voce, col respiro affannato per la corsa e per lo spavento. Era un’allucinazione? Un sogno? Uno spirito? Quel nome — Uriel da Costa — gli suonava fin troppo familiare. Dove lo aveva letto?

Poi, lentamente, si ricordò. Qualche settimana prima, leggendo la biografia di Spinoza, aveva incontrato quel nome. Uriel da Costa: nato Gabriel, figlio di marrani, proprio come i genitori di Spinoza. Giunto ad Amsterdam per convertirsi all’ebraismo. Un’anima inquieta, divorata dal dubbio. Un uomo che cercava Dio. Poteva forse arrendersi alla teologia cristiana della sostituzione? Sarebbe stato più semplice. Ma no. Rifiutò lo herem, la scomunica. Pagò il prezzo. Si sottomise, un giorno del 1640, davanti a tutta la sinagoga: fu frustato, calpestato dai piedi dei correligionari. E infine, dopo aver scritto le sue memorie, si tolse la vita.

Tornò a galla quella frase udita tanti anni prima, in un beit midrash — la casa dello studio, dove si insegna e si discute la Torah e il Talmud. “Il rigore della Legge dovrebbe essere attenuato per privare Satana del suo nutrimento.” Forse l’aveva detto un chacham — un saggio, un maestro della Tradizione — forse era scritto da qualche parte nel Talmud. Ma in quel momento era come se gli venisse sussurrato accanto all’orecchio.

Gabriel, che aveva lasciato la sua terra per cercare Dio.

Uriel, che aveva cercato se stesso in quella città dove gli edifici sembravano vecchi rabbini chinati leggermente in avanti sui libri.

Quest’anima, fiamma di Dio, divisa fra il legame profondo con l’ebraismo e la razionale ricerca della verità, non resse il dramma della sua condizione, perse ogni speranza e si spense.

Quando l’anima torna a questo mondo è per elevarsi, aveva letto una volta, e così anche le cose, persino quando si ripresentano a un grado inferiore, lo fanno per elevarsi, poiché è desiderio e anelito d’ogni cosa portarsi accosta alla causa prima.

Uriel voleva essere un ebreo, ma non sapeva come fare. Voleva vivere, ma non sapeva neppure far questo.

Martina Mattia (1998), laureata in Lettere (curriculum storico), ha approfondito fin dalla triennale la storia delle religioni e la filosofia della letteratura. Durante la magistrale in Scienze delle religioni ha proseguito le sue ricerche in filosofia della religione, con particolare attenzione alla mistica ebraica, alla questione meridionale e all’intersezione tra antropologia religiosa e percorsi di soggettività. Sta costruendo un portfolio di articoli divulgativi e di ricerca; un suo saggio intitolato Il frutto del libero arbitrio sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista indipendente Interiorume. Dopo anni, è tornata alla scrittura creativa: Il dubbio del talmid è il suo primo racconto narrativo di questa nuova fase.

ScomettIAmo

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di Mattia Azzini

Roberto aspettava al solito angolo, all’ombra di un rovere. Osservava dei bambini che giocavano a calcio nel campetto davanti, sogghignava di tanto in tanto per il loro inesauribile fervore e per i pesanti insulti gratuiti che svolazzavano.

La ghiaia scricchiolò, dietro Roberto comparve Giulio. Sul volto aveva un accenno di sorriso, in mano una tazzina da caffè. Con la mano libera gli diede due pacche sulla spalla; era ancora assorto nella partita.

«La prossima volta vieni con me al Bernabéu» Disse Giulio indicando i bambini.

«Non sono così interessanti le partite che guardi tu» Rispose Roberto.

«Non bevi nulla?»

«Tra un po’ ordino un altro caffè»

Esplosero grida di giubilo che attirarono di nuovo l’attenzione dei due; si sentii un frullare d’ali, dei piccioni fuggirono in cerca di un riparo più tranquillo.

A Giulio scappò una risatina, mentre muoveva la ghiaia con la punta del piede.

«Devi sentire questa Rob, non ci crederai» dando un colpetto sul braccio all’amico «sei pronto?»

«Non dirmi che…» disse Roberto inarcando un sopracciglio.

«No, no… non c’entra Nadia».

Roberto finse di togliersi il sudore dalla fronte mentre Giulio finì il caffè. Accese una sigaretta, aspettando che l’altro riprendesse a parlare.

«Hanno pubblicato un ‘’mio’’ racconto su La biblioteca di Babele» disse Giulio, facendo un vago gesto con la mano mentre pronunciava la parola ‘’mio’’.

Roberto fece roteare gli occhi, poi tornò a guardare i bambini che ora se ne stavano seduti a semicerchio in mezzo al campo. Ora si sentivano solo i rumori quotidiani provenienti dalla strada attigua.

«Non sapevo avessi anche tu aspirazioni letterarie» disse Roberto in tono sarcastico.

«Non ne ho» Ribatté Giulio con assoluta serietà.

«Non sto capendo».

«Diciamo che ho eseguito da committente di racconti… aspetta… ti faccio vedere».

Giulio estrasse il telefono, digitò per qualche secondo, poi lo piazzò sul tavolino. Lo fece scivolare verso l’amico dicendo: «leggi, così capisci».

Sullo schermo era aperto una nota:

Scrivi un racconto di 30000 battute mescolando diversi stili tra: Cortazar, Juan Rulfo, Poe e Calvino. Nel complesso deve risultare un’opera sperimentale e innovatrice, scritta da un autore colto, che possiede una vasta conoscenza dei meccanismi narrativi e una padronanza ineccepibile della lingua Italiana. Dev’essere complesso e enigmatico ma scorrevole.

Temi: il cambiamento climatico, l’avidità e il consumismo.

Genere: deve oscillare dall’horror al grottesco con qualche elemento di umorismo nero. Spargi qua e là qualche citazione colta. Il testo dev’essere il più drammatico possibile.

Usa più registri linguistici possibili.

Inserisci una nutria di ghiaccio come oracolo che gli umani che consultano per tentare di salvarsi da una catastrofe imminente.

Finale: Il racconto deve terminare con un cliffhanger.

Titolo: scegli una locuzione latina pertinente al testo.

 

Roberto posò il telefono, si stropicciò le palpebre per qualche istante. Appoggiò la testa al tronco; guardò sopra di sé, come fosse in cerca di una risposta dalle foglie tremolanti del rovere.

«Sai chi è Juan Rulfo?» Chiese Roberto, volgendo improvvisamente lo sguardo verso l’amico, con un sorriso malizioso.

«Certo che no», rispose l’altro «me l’ha suggerito l’IA».  Disse strizzandogli l’occhio.

Roberto alzò l’indice per chiamare l’attenzione della barista. Lei arrivò con passo cauto, inclinò di poco il mento e attese l’ordinazione.

«Mi porteresti una doppio malto, per favore?» le chiese Roberto.

«Certo» rispose, abbozzando un sorriso.

«Ti ho sconvolto?»  Chiese Giulio, cingendo l’amico per le spalle e scuotendolo.

«Sulla Biblioteca di Babele?» chiese con una nota di incredulità.

«Sì, la conosci… no?»

«Quale scrittore non la conosce?» rispose, cambiando tono di voce.

I due si interruppero per un istante, mentre la ragazza posava il calice traboccante di liquido scuro. Portò via le tazzine; rimasero in silenzio qualche secondo. I bambini avevano riattaccato a schiamazzare, il secondo tempo era iniziato.

«Quindi, sei anche tu uno scrittore ora?» Domandò lisciandosi la barba.

«Uno scrittore, oddio…direi uno tra i più promettenti esordienti», disse a metà tra il trionfante e l’ironico «a quanto dicono i miei acclamatori».

«Se vuoi per il tuo prossimo romanzo ti insegno».

«Non farmi diventare volgare» Rispose Roberto.

«Ora ti faccio diventare volgare», Disse Giulio «Se facessimo una scommessa?»

«Sentiamo».

«Commissiono un altro racconto su due giovani ad un bar che discutono sulle potenzialità creative dell’IA».

«Vai avanti» disse Roberto sporgendosi in avanti.

«I due scommettono sulla pubblicazione di un racconto breve generato da ChatGpt, che ne dici scetticone?»

«Se vinco io ammetti che non era altro che un esperimento» disse, sollevando il calice di birra e dando un colpo secco al tavolino.

«Ah sì? la metti così?» Ribatté Giulio dopo aver applaudito all’amico. «Se vinco io allora, giochi per due settimane assieme a loro» disse indicando i bambini.

«Sei proprio un bastardo» disse Roberto.

Rimase in silenzio qualche secondo, lisciandosi la barba, guardando l’amico con aria meditabonda «ci sto!».

 

(Questo racconto è stato scritto senza il ricorso a ChatGpt o ad altri chatbot)

Una proposta editoriale: Fausto Paolo Filograna

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French six-day rider Edward Hopper, 1937

Cari lettori, autori, editori, questa è un’opera degna di nota. L’anteprima di un romanzo inedito ma non per molto, speriamo. effeffe  

da I primi figli

di

Fausto Paolo Filograna


French six-day rider
Edward Hopper, 1937

La seconda notte che tornavo a Casa di Moglie — che non è ancora la mia Casa, perché Moglie non la voglio ancora vedere troppo, perché di Moglie ho visto abbastanza — la seconda notte ho fatto in autobus tutta la lunga Strada di Casa di Moglie perché doveva in ogni modo dirmi una cosa, mi aveva confidato al telefono.

Ho parcheggiato la mia macchina in stazione, senza la minima calma, e ho preso l’autobus. Ho pensato “bene, è così che uno perde tutta la sua libertà”. Non quando bisogna sapere le cose, ma perché l’autobus ti porta dove vuole lui e non dove vuoi tu.

E di questi tempi non è raro che quasi ogni autobus sia soppresso, quasi ogni taxi sia parcheggiato in un angolo della stazione, ogni strada quasi chiusa, e ogni mappa stracciata, e nessuno si stupisce di niente.

Perché qui non si può parcheggiare da nessuna parte, qui in Città, e se parcheggi male te la portano via, e io so che più ti allontani dalle campagne e più sono degli stronzi, sì, qui in Città, e se parcheggi male qualche testa sudata alla finestra si sporge e ti guarda, e con gli occhi fissi chiama il carro attrezzi, e sono trecento euro, e allora io, anche se piove, ho lasciato la macchina in stazione. Anche se ora ho gli scarponi pieni di fango e di pioggia, che Moglie mi toglierà con violenza, con l’urgenza di chi ha bisogno di dire qualcosa.

Ora io sono sull’autobus, che è l’unico autobus per questa notte, sì, un autobus merdoso, perché da quando dicono che la pioggia incessante e merdosa ha rotto tutte le tubature sotto la Città e l’acqua è ovunque, non c’è che un autobus, questo, e tutti accettano di salirci anche se è in ritardo di ore senza guardare più l’orologio (alcuni hanno addirittura buttato l’orologio) – e anch’io ho aspettato ore e ore, per la precisione – guardano le insegne luminose della banchina degli autobus che annunciano la soppressione di ogni altro autobus tolto questo: del classico 21, del classico 33, del classico 89, e tutti accettano che arbitrariamente possa arrivare qualunque cosa, perché con la rottura delle tubature l’acqua ha cominciato a salire da sotto il terreno – quando a pensarci bene era sempre venuta da sopra.

Questo ha toccato chiunque, ha fottuto le teste. E sebbene “le cause di questo disastro siano evidenti” dice Moglie, “sono allo stesso tempo imperscrutabili per tutti”. Così di questi tempi assurdi e silenziosi la gente teme che da un momento all’altro il sangue non circoli più nelle vene nella solita direzione ma solo in quella opposta, perché la faccenda delle tubature si ripercuote su tutto, e forse l’urgenza di Moglie e della sua bocca dipende proprio da questo, e fuori da Città, si è cominciato a bisbigliare, la gente nasce senza cordone ombelicale davanti a medici assonnati. Come tutti i merdosi passeggeri di questo autobus. “Chi può dirlo”, dicono, di questi tempi non dicono altro.

La cosa normale è il freddo. Anche su questo autobus. Sì, fa freddo come fuori, perché a ogni fermata l’autobus si ferma e apre le porte e il gelo entra dentro, ed è come stare nell’inverno, e io mi devo stringere la giacca, e mi stringo anche le falde della giacca sulle gambe. Sembra che non abbia il tetto, né il telaio, sembra non abbia niente. Così per il freddo uno sta bevendo una birra, qualche posto più avanti, sì, tira su la lattina e poi la tira giù, per riscaldarsi, ha pochi capelli dietro, c’è il riscaldamento che butta aria calda come una bestia che alita, quello lì beve eppure ha freddo, e questo non è buono, no, io penso che è proprio messo male. Sì, più uno ha freddo più è messo male, questo l’ho capito, che il freddo non ha niente a che fare con la pioggia o l’inverno, perché se uno ha un piumino d’estate non significa che ha freddo, significa che è messo molto male. Che è malato, Signore Mio, malato dappertutto, e se dice ho freddo vuole dire solo “sto male”. Ma non voglio pensarci, perché Moglie sta male, nella casa alla fine della lunga Strada di casa di Moglie, che dovrò fare tutta per sapere quello che ha da dirmi e non essere fagocitato dal suo silenzio, che è ben peggio delle sue parole nei miei confronti, non pensarci, mi dico.

Uno che ha freddo così con una birra in mano è uno che si è bruciato, certo, guardalo, e anche io la vorrei quella birra, perché so che un po’ mi scalderebbe, ma io ho già dato, io non bevo più, specialmente dopo che mi sono messo in testa certe cose, ma quello sì è uno che so è bruciato, dentro di lui si è bruciato qualcosa, lui è uno di quelli che non tornerà più come prima, dice Conoscente. Ci sono certi, così, che sono bruciati e non torneranno più come prima, mi disse. Certi, disse, che sono “a pezzi”. E mentre lo dico appaiono delle immagini nella mia testa: io vedo una motozappa che si scalda tantissimo, è quella di Zio, sì, si scalda come non mai, ma va bene, va benissimo di inverno, può arare anche due ettari di terra ghiacciata, scheggiarsi i denti e conficcare schegge di metallo nella terra, dico per la violenza del motore, può abbaiare come un cagnaccio incatenato, ma se si brucia no. No, Mio Signore, se si brucia “è finita”, disse, allora “è un’altra cosa”, non torna mai più come prima, ogni cosa se la bruci non è nemmeno più una motozappa, nemmeno una motozappa rotta, nemmeno quella di Zio, che è l’immagine che mi riempie la testa, e io so che se anche tutto non è una motozappa, penso di sicuro, tutto funziona come una motozappa e niente funziona in altro modo. Io so, so tante cose, Mio Signore. Certi non si aggiustano più. Perché? Perché qualcosa è andato a male dentro di loro e non può più aggiustarsi, mai più, qualunque cosa facciano, e non puoi nemmeno più chiamarli persone, per come la vedo io ora in questo freddo autobus, ma solo bruciati, bisognerebbe quindi cambiargli nome, nome di battesimo, perché ora sono altro, a un certo punto diventano altro, c’è scritto signore o signora sulla carta di identità, come sempre, ma loro sono altro. Sì, “c’è un punto”, dice il bastardo che io chiamo Conoscente. C’è un punto “prima del quale una persona è una persona”, e dopo non più, un punto preciso, precisissimo, un passo, e conviene stargli alla larga; ma c’è chi vive apposta vicino al punto così e così, c’è chi gli piace e un giorno cade, attorno a quel punto preciso, e allora, io lo so, non è più una persona. Specialmente ora che un odore di distruzione circola nell’aria e tutti si domandano perché, dice Moglie.

Ma io ho già dato, e io ho già bevuto troppo e perso troppo e fatto male troppo, tu lo sai, Mio Signore, io non sono nessuno, io, anzi, io sono peggio di nessuno, per questo ti chiedo scusa, ti chiedo perdono per questi pensieri, perché in poco tempo, in un attimo, per così dire, in uno sguardo su quel poveretto la mia grande fede, ovvero la grande casa della mia anima che mi sono costruito cade e io divento cupo, oscuro, che vuol dire che la mia speranza se n’è andata, e con le forze per andare da Moglie devo ricostruirla. Solo un attimo, certo, ora guardami, mi faccio il segno della croce mentre quello solleva ancora la birra. È come il prete che solleva l’ostia, Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome io dico. Fa freddo, Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome. Vedo il suo fiato, che esce e si mischia al fiato che esce dal radiatore sotto i sedili di mezzo dell’autobus, e, Signore mio, non vedo l’ora di stringere il corpo caldo di Moglie, nudi, e che questa strada in mezzo a questi poveri maiali sia breve e breve anche quello che Moglie mi dovrà dire perché comincio a sentire addosso la cupezza di una lunga giornata di pioggia e di rassegnazione.

Acqua, acqua ovunque, piove in queste periferie di Città, penso su tutto il mondo, dappertutto, nelle campagne, sopra le dighe, sopra il mare, sopra gli oceani e il muso dei pesci, sopra i baffi delle bestie rivolti alla notte, sopra i camioncini della spazzatura, acqua su acqua, e qui ci sono solo pozzanghere, segnali stradali piegati, auto grondanti, gocce alle grondaie, piccioni da cui cola la pioggia, acqua nelle buche dell’asfalto, qua in Città, dove quelli che fanno le pulizie passano sempre, e l’acqua li castiga come noi, e loro, sotto il cappuccio nero, abbassano la testa e fanno il loro dovere del cazzo, e li castiga, e castiga i topi, e le formiche, e tutto avviene per il Tuo volere, davanti al quale ogni cosa vale uno. Questa Mio Signore è Città, pioggia e silenzio sono forse rami dello stesso brutto albero che c’è in fondo alla Strada di casa di Moglie.

La notte, penso, quando piove molto, come oggi, siamo tutti come tossici, sì come tossici maledetti che un calcio in culo getta per strada col loro bisogno, ognuno col proprio bisogno, tossici che attraversano la pioggia con la furia, dicevo, del proprio bisogno. E io so qual è il mio bisogno stanotte, il mio bisogno è il calore e il sonno, e forse anche Moglie, in fondo a questa strada, sperando che sia calda questa notte. Tra poco, all’incrocio con la Strada di casa di Moglie l’autobus si fermerà, e io in pochi passi vedrò la sua casa, e nella testa io vedo già tutto, il portone di casa, il campanello perché non ho le chiavi, e anche quando sono con lei, io mi sto immaginando.

Sì, ora che l’autobus è quasi arrivato, nonostante un ritardo sconvolgente, io so a che cosa ho pensato quando Strada di casa di Moglie era finita l’autobus ha girato e sono sceso, io so che il mio bisogno, quando sento il vuoto dentro, è proprio andare a casa di quella che io chiamo Moglie, sì, il bisogno resta così anche se, sempre, sempre lei dà di matto dentro la sua casa – e se non sempre, certo la maggior parte delle volte, e soprattutto la notte, la notte – e quando piove, non sopporta l’odore della pioggia e non sopporta che la si disturbi di notte. Ma io lo so che il mio bisogno è lei e non stare senza di lei, e tutta questa pioggia mi ha fatto venire voglia di starle vicino, sì, perché quando non era matta stavo bene, e so che con urgenza dovrà interrompere i suoi silenzi. Poi, mentre scendevo dall’autobus, la sopresa si è mangiata la scena che mi ero immaginato, quando ho visto davanti a casa la pala dell’escavatore.

 

Era grande, per lavori grandi, altissimo, appoggiato su un camion a qualche metro da terra che non potevo vedere che pezzi della casa di Moglie alle sue spalle.

Intorno vedo la lunga rete di metallo a maglie che lo chiude e gira tutto intorno ai lavori come per proteggerlo – ma da cosa? I lavori, sì, tutto montato forse due giorni fa dai lavoratori che si sciacquavano di sicuro nella pioggia per le tubature, sì, e ora la pala e il braccio idraulico sono tutti bagnati e lucidi, scintillano, sotto le luci del supermercato, e la pala è pulitissima, splendente come la fronte di Gesù col suo santo sudore, non avevo mai visto una pala pulita. Dietro, coperta, la piccola Casa di Moglie ai piedi del temporale e di una luna sferzata da venti cittadini, lì, mio Signore, io vorrei arrivare, alla finestrella illuminata dietro cui Moglie starà facendo la matta.

 

Sinceramente non tuo

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Gianni Biondillo intervista Leonardo Colombati

Leonardo Colombati, Sinceramente non tuo, Mondadori, 2022

Il tema è l’amicizia virile. Ma Luca, l’io narrante, e Antonello, l’amico scomparso, sembrano diversissimi. Si può essere amici solo se opposti, tipo Ying e Yang?

Aleksandr Herzen nelle sue memorie si domandava perché concediamo ai ricordi sul primo amore così tanto spazio rispetto a quelli sulla nostra prima amicizia. In effetti, il giorno che scopriamo di non essere soli, ma che al mondo esiste qualcuno con cui parlare, confidarsi, condividere una passione, è un giorno molto più decisivo che quello in cui abbiamo rubato il nostro primo bacio. Non occorre essere simili, per essere amici; e nemmeno diversissimi: basta un solo punto di contatto iniziale (la stessa squadra di calcio, la stessa band preferita, la stessa malattia, lo stesso sogno) ed è fatta.

Sembra che tu ci dica che gli amici che ti ritrovi a vent’anni sono quelli che ti porti dietro per tutta la vita, anche senza averli scelti. Sbaglio?

Io sono una persona fortunata. Ho degli amici che mi sono fatto a quattordici anni e che continuano a essere parte della mia vita; e altri che ho conosciuto a trenta, quarant’anni. Gli amici non capitano, si scelgono; anche se magari ci sembra che a scovarli sia stato il caso. I protagonisti del mio romanzo, Antonello e Luca, hanno bisogno l’uno dell’altro: Antonello, che è un disperato e caotico vitalista, ha bisogno dell’eleganza di Luca – eleganza nel senso hemingwayiano del termine, ovvero “grazia sotto pressione”; mentre Luca non può fare a meno dei disastri di Antonello perché ha il sospetto che lì stia il succo della vita.

Poi c’è il rapporto irrisolto col mondo femminile. Uno è uno sciupafemmine anaffettivo, l’altro un innamorato devoto alla moglie. Entrambi sembrano non aver capito nulla delle donne.

In questo senso, Antonello e Luca sono io. Le donne le amo, le studio, ma mi sembra sempre che di loro mi sfugga qualche dato essenziale. Io, poi, sono un passionale: quando ero sposato ho amato smisuratamente e unicamente mia moglie; nessun tradimento, mai. Da quando sono di nuovo scapolo, invece, sono più simile Luca: non proprio uno sciupafemmine e nemmeno un anaffettivo; più, come dire, irrequieto… Mi chiedo se riuscirò a trovare una donna da amare con l’intensità e l’esclusività di quando amavo mia moglie. Sono ancora in cerca!

La musica, da sempre, è una tua passione, qui è davvero protagonista. Non solo un bordone, ma una scelta narrativa che coinvolge la scrittura.

Da tempo volevo mettere la musica al centro di un mio libro. Musica e letteratura hanno avuto lo stesso impatto decisivo sulla mia formazione. Ci sono stati tempi, quando ero giovane, in cui l’ascolto di un album poteva cambiare il mio modo di guardare il mondo. Le parole di Lou Reed, Paul McCartney, Lucio Dalla, Tom Waits, Bruce Springsteen, Francesco De Gregori, Bob Dylan, Paul Simon, Kate Bush, Michael Stipe, Mike Scott, Tom Barman, Paolo Conte sono state altrettanto importanti di quelle di Omero, Henry Fielding, Jorge Luis Borges, Stendhal, Jane Austen, Mario Soldati, Robert Graves, Tommaso Landolfi, Thomas Pynchon, Lev Tolstoj, Milan Kundera, Saul Bellow, Philip Roth, Philip Larkin e George Steiner.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2022)

4. Un’estate con la Principessa di Clèves

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Immagine di Clelia Le Boeuf

Un’estate con la Principessa di Clèves è un podcast a cura di MARCO VISCARDI, letture di GIULIA MILANESE, sei puntate con ospiti e letture del romanzo alla scoperta di un classico della letteratura francese.

QUARTA PUNTATA
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves
La fine delle buone maniere” con VALENTINA STURLI

Si può seguire il PODCAST su:

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Le altre PUNTATE
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ Il mondo esteriore” con CLAUDIO GIGANTE
2.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Storia di un matrimonio” con PASQUALE PALMIERI
3.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il delirio della distinzione” con EMANUELA SURACE
4.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ La fine delle buone maniere” con VALENTINA STURLI

Le mandorle

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Immagine generata da AI

di Giovanni Palilla

Conta le mandorle, conta, ciò che era amaro e che ti teneva sveglia, contami tra loro a partire dalla notte in cui mi ritrovai a spiegarti, con il sorriso beffardo di chi sa tutto ma con lo sdegno interiore dovuto al giudizio che io avevo per te – sentimento, questo, che tu non potevi vedere, certo, non si possono vedere i sentimenti, ma dovevi pur percepire che c’era qualcosa nella tua persona per cui provavo una profonda repulsione – mi ritrovai a spiegarti cosa fossero le affinità elettive, e me lo chiedesti proprio mentre stavamo per compiere un reato, un duplice reato, a essere precisi: il primo, il furto del manoscritto del professore di lingua tedesca, sottratto di notte all’università dal suo studio, dentro al quale ci eravamo intrufolati proprio come fanno i ladri, i veri ladri, categoria al quale noi non appartenevamo fino a quel momento, categoria al quale io per primo non sarei mai appartenuto se tu non avessi rubato tutta la mia attenzione nelle settimane precedenti; il secondo, atti osceni in luogo pubblico: eri così felice di esserti impadronita del manoscritto, di averla fatta franca (ma non potevi sapere che sarebbero risaliti a te), così accesa che quella fiamma si trasformò in desiderio voluttuoso e volesti prendermi in un angolo di Campo Santa Margherita, non curante di due ragazzi che si fermarono a guardarci per tutto il tempo mentre mi abbracciavi, a cavalcioni su di me, affondando le unghie nella mia schiena, talmente forte che potevo sentirle anche con il cappotto ancora addosso, non mi avevi dato nemmeno il tempo di spogliarmi di qualcosa.

Potrei ricordare tanti avvenimenti risalenti a quei giorni: la cattiveria con cui avevi studiato tutto nei minimi dettagli è sicuramente degna di un romanzo di Carrère; eppure, nella mia mente si fa largo con prepotenza solo il ricordo di te seduta in cucina, il giorno dopo, mentre sbucci le mandorle. Le avevi bollite e adesso, una a una, con la stessa cura con cui pianificavi la rovina della gente, toglievi loro la pellicina con addosso i guanti, perché il contatto con la loro pelle ruvida ti faceva arrossare le mani. Quando mi vedesti, mi accennasti subito un sorriso, togliesti i guanti e mi amasti sopra il tavolo, non curante della tua coinquilina che, nella stanza affianco, sentiva il rumore ritmico e tribale dei nostri corpi che sbattevano l’un l’altro mentre preparava l’esame di Filologia germanica, che avrebbe provato per la seconda volta.

Ricordo di quando dentro il battello fitto di gente, che prendemmo in uno di quei pomeriggi piovosi in cui alle cinque sembra già notte fonda, io che ti sussurravo all’orecchio, ma come fai a vivere in questa città, quasi a volerti convincere ad andartene via o a buttarti dentro il canale, mi mettesti una mano dentro ai pantaloni, eri talmente disinvolta in faccia che nessuno poteva mai sospettare quello che tu stessi facendo in realtà, e non ti fermasti finché non mi sentisti gemere. Ricordo che ti girasti e portandoti un dito dentro alla bocca, leccandolo, dicesti, mh, sa di mandorla amara.

Ricordo di essere entrato in questura e di aver detto, questo video me l’ha mandato il complice, ma vuole restare anonimo. Avevi pianificato tutto, ma non avevi pianificato me: non ti eri accorta che con il cellulare non mi limitavo ad illuminare il tuo crimine, chiaramente sullo schermo si vedeva il volto pieno di disprezzo per il tuo professore mentre aprivi i cassetti per cercare il suo manoscritto che subito dopo mettesti online chissà dove. Eri diventata troppo, e io non ti bastavo mai. Gusto l’amaro che devi aver avuto in bocca nel momento in cui hai appreso come erano riusciti a trovarti. E sì, mi sorprende che tu non sia venuta a cercarmi e a portarmi giù con te in fondo al canale. Leggo il tuo nome sul giornale, poi lo metto via, spengo la sigaretta e mi incammino, ho un appuntamento con mia moglie. Lungo la strada sento in bocca, per tutto il tempo, il sapore della mandorla amara.

Il fabbro di Ortigia

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di Giuseppe Raudino

Il brano che segue è l’incipit di Il fabbro di Ortigia, romanzo di Giuseppe Raudino pubblicato da Bibliotheka Edizioni (2024)

Da libeccio, Ortigia mi appare come una femmina di pietra nuda, accosciata sul fianco dritto in posizione fetale, il dorso a levante, il profilo che si specchia nel porto grande, i capelli umidi che sventolano nel tremolio sciroccoso del porto Lachio.

C’è un punto preciso nel cielo, non troppo alto, cinquecento metri all’incirca, un punto preciso tra gli scogli di Castelluccio e la fortezza del Maniace, più o meno sospeso a mezz’aria sull’arco mediano che attraversa l’imboccatura del porto, dal quale è stata scattata la foto riprodotta sulla cartolina che ora tengo in mano. Deve essere stata presa da un velivolo leggero, come uno degli idrovolanti IMAM che avevamo a bordo dell’incrociatore.

Le cartoline, allora, servivano a rassicurare la famiglia. Le spedivo a casa da ogni porto in cui attraccavamo. Una cartolina con l’indirizzo di Siracusa ma senza testo, senza saluti, senza firma. Se avessi scritto dove mi trovavo avrei rivelato informazioni militari, rischiando la corte marziale. Il nemico stava lì ad ascoltare e avrebbe potuto approfittarne. Così ci dicevano: di stare attenti a ogni piccola informazione, anche insignificante, che potevamo rivelare inavvertitamente e che poteva costarci la pelle. Allora bastava una cartolina in bianco, tanto mia madre sapeva che ero io a spedirla, e da ciò capiva che stavo bene, che ero vivo e dove mi trovavo. Pescara, Napoli, Trieste: il timbro postale o l’illustrazione dicevano tutto.

Mia madre era apprensiva. Le volevo molto bene. Mio padre non aveva mai dato l’impressione di essere preoccupato. Non si preoccupava mai di niente, lui, e così doveva essere anche nei miei riguardi. Mi sapeva imbarcato nella Regia Marina e quello già era un privilegio, rispetto alla truppa, alla fanteria dagli scarponi sgualciti e dai moschetti che si inceppavano e puzzavano di rancio. Mia madre no, lei era sempre in pensiero. Io ero il suo preferito, il figlio più piccolo, quello che aveva desiderato a lungo dopo tante sorelle e qualche monello pestifero. Mi aveva desiderato diverso. Un po’ più chiaro di capelli e carnagione, e con gli occhi azzurri. Avrei dovuto somigliare, nei suoi desideri, a un bambolotto che teneva in soggiorno, riposto con grazia sempre sulla stessa poltrona. Un bambolotto dagli occhi di vetro azzurri, anzi celesti. Quando nacqui, mio padre quasi la rimproverò. Aveva un tono burbero, come sempre, e le disse che l’aver fissato troppo a lungo quel bambolotto tanto strano aveva influenzato il mio aspetto al pari di una magherìa. Ero venuto fuori io, con gli occhi celesti e i capelli biondi, come ci si aspetterebbe da un siciliano che nel sangue, a distanza di ottocento anni, ha ancora qualche traccia ereditata dai Normanni. Ma forse poteva trattarsi anche di qualche gene degli Svevi, ché in Germania non sono certo in pochi ad avere i capelli biondi.

La fortezza che protegge l’ingresso del porto siracusano è del periodo svevo. Me lo raccontò un mio professore, alla scuola d’arte. La fece diventare così come appare oggi l’imperatore Federico II. Dove ti giri giri, ci diceva quel professore, in Ortigia vedi svevi, normanni, angioini, aragonesi, greci, romani, arabi e borboni. In ordine sparso.

Io da bambino non ho mai capito le differenze architettoniche, e neanche ora ci faccio troppo caso. Per me Ortigia è lo scoglio che racchiude tutte queste diversità in modo misterioso, lo scoglio in cui sono nato nel 1921 e dove ho giocato ininterrottamente tutti i pomeriggi nei rioni della Spidduta e della Masciarò.

***

Un giorno ero seduto sul gradone d’ingresso della bottega di mio padre. I Currò erano fabbri ferrai. Anch’io lo sarei diventato, anni dopo, ma quel giorno ero ancora molto piccolo. Forse non avevo nemmeno due anni. Sentivo il martello battere ritmicamente contro qualche lastra poggiata sull’incudine e, negli intervalli, il mantice soffiare contro i tizzoni ardenti per alimentare la fucina. Mia madre si era allontanata per delle compere. Perché riuscisse a fare più in fretta e a portarsi più borse, mi aveva lasciato da mio padre, che mi aveva ordinato di giocare per strada. Forse temeva che un bambino così piccolo potesse ferirsi facilmente tra arnesi incandescenti e acuminati; o forse era solo infastidito nel vedermi gironzolare per la bottega mentre lui e i suoi fratelli stavano lavorando.

Con la fronte sudata e la faccia appena annerita, mi aveva guardato severo. «Tu vai fuori», mi aveva intimato, ma non ti muovere da quella porta, aveva aggiunto indicando l’ingresso. Nella mia vita gli avrei disobbedito qualche volta, in certe occasioni anche con spiccata veemenza, come quel giorno che gli comunicai di volermi arruolare, ma in genere sapevo che era un uomo brusco al quale conveniva ubbidire. Lo avevo capito anche in tenerissima età e quel giorno io mi misi buono buono davanti alla bottega senza muovermi di un passo.

Quando mia madre tornò dal mercato, chiese conto della mia assenza. Mio padre, meravigliato, esplorò ogni angolo della bottega, pensando che fossi entrato senza essere notato. Poi si tolse il grembiule e girò tutti i cortili, tutti i ronchi e tutte le vie limitrofe alla bottega. Chiedeva in giro ma nessuno mi aveva visto. Tutti erano presi ad ascoltare la radio, che parlava di grandi fermenti a Napoli, dove Mussolini, da protagonista sul palco, aveva rilasciato dichiarazioni pesanti: o ci danno il governo o ce lo prendiamo.

La gente, anche nella periferia del Regno – e non esisteva più periferia di Siracusa –, si interrogava sulle sorti del Paese e vociferava delle possibili conseguenze per loro vite, già afflitte da lutti e miseria che la Grande Guerra aveva portato nelle loro famiglie neanche un lustro prima. Mio padre era tornato dal fronte con una rabbia e un disgusto per la guerra, che le parole propagandiste dei fascisti e di d’Annunzio lo mandavano in bestia. Odiava ogni parola di elogio nei riguardi della guerra e del combattimento, perché lui aveva combattuto davvero, obbligato dai regi carabinieri che ti fucilavano alle spalle se provavi a disertare, e che ti facevano fare la stessa fine qualora ti fossi dato latitante e ti avessero trovato e arrestato con l’accusa di renitenza alla leva.

Chi sapeva leggere, raccontava ai propri conoscenti analfabeti come la stampa trattasse l’ascesa dei fasci, e riassumeva le accuse incrociate che fascisti da una parte, e liberali e socialisti dall’altra, si scambiavano con articoli al vetriolo. La tensione si percepiva anche attraverso i resoconti radiofonici che, per quanto addomesticati, lasciavano trasparire la gravità di quello che stava per accadere al Paese. Un cambiamento epocale era alle porte. I siracusani erano tutti intenti a discutere di politica anche se, in concreto, i loro pidocchi sarebbero rimasti attaccati alla stessa miseria, tanto lontana dai centri del potere romani e dai tavoli delle decisioni. Loro discutevano, chi osannando, chi avversando Mussolini, chi bestemmiando grottescamente, chi facendo del sarcasmo sulla minuta statura del re, sia fisica che morale. Potevano permetterselo, potevano chiacchierare con spavalderia e senza ricorrere ai sussurri, perché sapevano che difficilmente le voci della periferia sarebbero state udite da chi aveva il potere di fargliela pagare. O almeno sarebbe stato così per un po’, prima che quelle orecchie indiscrete si fossero intrufolate profondamente nel tessuto sociale di ogni più remoto villaggio, accompagnate dal nerbo di bue e dal nero della camicia.

I siracusani d’Ortigia erano tutti intenti a chiacchierare nei cortili baciati dal sole di fine ottobre e mio padre era intento a cercarmi e non mi trovava.

Terra Colta – romanzo d’esordio di Filippo Pistoia

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La prima e unica indagine del Prof. Salvo Perricone

ANTEFATTO

30 marzo 1947

“Andrea Raia di Casteldaccia, sindacalista, ucciso dai mafiosi locali mandati dai grossi proprietari terrieri fascisti e separatisti nell’agosto del ’44. Agostino D’Alessandria, di Ficarazzi, segretario della camera del lavoro, ucciso a settembre del ’46 per la sua lotta contro la mafia che controlla i pozzi per l’irrigazione. Gaetano Guarino, sindaco socialista di Favara, ucciso a maggio del ’46 dopo appena sessantacinque giorni dalla sua elezione; la sua unica colpa: chiedere a gran voce l’attuazione dei decreti Gullo per la ridistribuzione delle terre incolte. Pino Camilleri, sindaco socialista di Naro. E di recente, negli ultimi mesi, i nostri compagni e amici Accursio Miraglia, a Sciacca, e Pietro Macchiarella, a Ficarazzi, Leonardo Salvia, a Partinico…”.

In trentamila stavano ascoltando, senza fiatare, quel lungo elenco di nomi. Uomini, donne in rigoroso silenzio. Anche i bambini non fiatavano: i neonati erano stati attaccati al seno dalle madri per non farli piangere, i più grandicelli zitti per paura di prendere qualche scappellotto dai padri. Trentamila contadini giunti a Palermo da tutti i paesi della Sicilia occidentale, volti scavati dalla fame, coppole e vestiti logori. Molti di loro con gli occhi pieni di lacrime: i nomi che Li Causi, dal podio, stava elencando, erano stati compagni di tante lotte.

“È a loro che dobbiamo la vittoria di oggi. Al loro sacrificio”.

Un applauso scrosciante sostituì il silenzio.

Salvatore sentì il fragore di quel battere di mani quando era già arrivato al centro dei Quattro Canti. Camminava cercando di non pestare la distesa di merde di cavallo e di mulo che riempiva via Maqueda. La protesta era arrivata in città a dorso di scecco e aveva lasciato un palmo di concime lungo le strade, fin sopra i marciapiedi. Un percorso insidioso, soprattutto per le sue scarpe nuove, comprate, con tanti sacrifici, qualche giorno prima.

Stava tornando alla stazione centrale per prendere l’ultima corriera, quella delle 18, che l’avrebbe riportato a casa. Non vedeva l’ora di raccontare a sua moglie Giovanna, per filo e per segno, tutti i momenti di quella eroica giornata: l’incontro, all’alba, con i compagni davanti alla Casa del Popolo nella piazza del paese, poi il viaggio di andata in corriera in un misto di speranza e di paura per le sorti della manifestazione che da settimane stavano organizzando, l’arrivo a Palermo, il raduno a piazza Indipendenza con i rappresentanti delle centinaia di leghe cooperative nate negli ultimi tre anni, gli stendardi che riempivano l’area, la marcia verso la sede dell’Alto Commissario per la Sicilia, le bandiere rosse dei Fasci Siciliani che, tirate fuori dai loro nascondigli, di nuovo tornavano a sventolare, la delegazione, guidata da Mommo Li Causi che entrava dentro il palazzo, ore e ore di composta attesa e poi infine l’esplosione di applausi quando Li Causi, uscito dall’incontro con l’Alto Commissario, salito su un podio costruito alla buona durante l’attesa, aveva dichiarato vittoria.

Sulla corriera, seduto in disparte, mentre i suoi compagni ridevano e festeggiavano, Salvatore Perricone stava in silenzio, si godeva il paesaggio e la sensazione di soddisfazione che gli riempiva l’anima. La stanchezza per l’interminabile marcia era svanita. Così come erano svanite anche la paura per il futuro incerto e la rabbia contro il gabellotto mafioso al soldo del barone che l’aveva minacciato fino a pochi giorni prima. La gioia per il risultato raggiunto in quella giornata di vittoria del movimento contadino aveva annullato anche il dolore ai piedi per le scarpe nuove.

Sorrideva pensando alle tonnellate di letame che ingombravano le strade di Palermo. E, pieno di letame, oltre alle strade, c’era anche l’Alto Commissario per la Sicilia che adesso doveva per forza applicare i decreti Gullo dopo tre anni dalla loro emanazione. Tre anni in cui il blocco formato da politici, latifondisti e mafiosi aveva spadroneggiato infischiandosene della riforma agraria proposta dal Comitato di Liberazione Nazionale.

Giovanna ci avrebbe creduto? Avrebbe creduto che finalmente, dopo anni di lotte, avrebbero avuto anche loro diritto alla terra?

Sceso dalla corriera si mise a correre verso casa, veloce, incurante dei compaesani che lo chiamavano per avere notizie della marcia. Aprendo la porta trovò un gran casino: i pochi mobili erano riversi a terra, le sedie a gambe all’aria, il tavolo addossato a una parete. Si diresse verso l’unica altra stanza e trovò la moglie in lacrime, sul letto, mezza nuda, con la veste a brandelli.

Salvo non disse niente, le si sedette accanto e la strinse a sé.

“Don Calò fu, con suo figlio e suo compare”.

Furono queste le uniche parole, intervallate da lunghi singhiozzi, che udì da lei per molti e molti giorni.

*

11 maggio 2024

Questa terra, questa sconfinata solitudine schiacciata dal sole, è la Sicilia, che non è soltanto il ridente giardino di aranci, ulivi, fiori che voi conoscete, o credete di conoscere, ma è anche terra nuda e bruciata, muri calcinati di un biancore accecante, uomini ermetici dagli antichi costumi che il forestiero non comprende. Un mondo misterioso e splendido di una tragica ed aspra bellezza…

“Ivan, per favore, metti in pausa”.

La voce fuori campo si interruppe, Salvo accese la luce, un paio dei suoi studenti strinsero gli occhi che ormai si erano abituati al buio della sala.

“Ecco, adesso guardate le prossime scene del film. Immaginate i personaggi con cappelli e vestiti da cowboy. Questo di Pietro Germi è indubbiamente il primo western italiano. Ivan, premi play”.

Le scene di In nome della legge si susseguirono proiettate sullo schermo: i banditi mascherati, l’agguato e l’esecuzione del carrettiere, il furto dei muli. L’antesignano degli spaghetti western di Sergio Leone.

“Ivan, metti di nuovo in pausa. Ecco, state attenti adesso a quello che succede: questa è una delle prime pellicole in cui si comincia a trattare il tema del rapporto tra mafia e latifondismo. Tra un po’ il barone Lo Vasto lo dirà chiaramente che i notabili del tempo facevano affari con i campieri e con i gabellotti che rappresentavano la mafia di allora”.

“Prof, ma così ci sta spoilerando tutto il film”.

La voce arrivò dal centro della sala provocando una risata collettiva.

“Avete ragione! Dai, Ivan, attacca, proverò a non interrompere più”.

Salvo Perricone amava alla follia tutto il cinema neorealista, in particolare adorava i film e i documentari che raccontavano il mondo contadino. E In nome della legge, capolavoro del 1947 di Germi, era uno dei suoi preferiti.

Ci aveva pure scritto un libro su quell’opera.

Poca cosa, comunque, in confronto alle dozzine di saggi che invece aveva dedicato alla storia del movimento contadino e alle lotte popolari dell’Ottocento e del Novecento italiano.

Salvo ci aveva costruito tutto il suo percorso accademico su quel periodo storico: prima da studente, poi da dottorando, dopo da ricercatore. E ora, da professore associato dell’Università di Palermo.

Anni e anni di studi e di meticolosa ricerca storica gli avevano permesso di ingraziarsi il professore Vinciguerra, il titolare della cattedra di Storia contemporanea della sua facoltà. Vinciguerra lo aveva voluto prima come assistente e in seguito come associato, affibbiandogli tutto il lavoro: le lezioni, gli esami, i ricevimenti con gli studenti. Ma Salvo non percepiva tutto questo come sfruttamento, anzi, al contrario, era felice del suo ruolo: amava trasmettere le proprie conoscenze, lo faceva con passione, con dedizione. E gli studenti, a loro volta, lo amavano. Era un giovane professore dai modi poco convenzionali che riusciva a catturare l’attenzione di tutta l’aula, soprattutto l’attenzione delle studentesse e in particolare quella di Agnese, ricercatrice fresca fresca di incarico che lo seguiva in tutte le attività didattiche da lui proposte: gruppi di ricerca, organizzazioni di mostre, rassegne cinematografiche a tema, convegni, lezioni di approfondimento. Agnese aveva una cotta stratosferica per Salvo.

Anche Ivan, l’altro ricercatore, l’aveva. Ma, a differenza di Agnese, Ivan, pigro com’era, non aveva voglia di impegnarsi di più nella sua ricerca per poter trascorrere più tempo con il suo amato professore.

I titoli di coda cominciarono a scorrere sullo schermo dopo la cavalcata del mafioso Don Turi, interpretato da Charles Vanel, e dei suoi uomini.

Salvo Perricone accese le luci in sala. “Allora, che ne pensate? Commenti?”.

Agnese intervenne immediatamente, scatenando la gelosia di Ivan: “È emblematica nel film la figura del giovane magistrato Guido Schiavi. La sua insistente lotta contro l’ingiustizia fa quasi tenerezza. Io la trovo mielosa…”.

L’intervento dal tono cinico di Agnese venne interrotto sul nascere dallo squillo di uno smartphone.

Salvo si guardò attorno irritato: “Per favore! Vi ho sempre chiesto di tenere i cellulari spenti in aula…”.

Si interruppe vedendo Ivan, accanto al proiettore, che gesticolava per attirare la sua attenzione. Il ragazzo indicava con insistenza la valigetta in pelle che il professore teneva sulla cattedra.

Salvo, rosso di vergogna, si scusò con la platea e tirò fuori dalla borsa lo smartphone.

Sullo schermo lesse un nome che lo incupì: Mario Sinna.

*

Salvo chiuse la porta dell’aula alle sue spalle lasciando dentro Agnese che aveva ripreso il suo intervento.

Rispose al telefono con tono infastidito: “Mario, dimmi, che c’è? Sono a lezione. È urgente?”.

“Certo che è urgente. Altrimenti non ti avrei chiamato. Lo so che a quest’ora sei all’università, sono dieci anni che sei sempre lì”.

“Che fa sfotti?”.

“No, assolutamente!”.

Salvo percepì il tono sarcastico dell’amico.

“Dai, non farmi perdere tempo, ho gli studenti che mi aspettano”.

“E mi sa che devono aspettare un po’. Ho bisogno di te. Stamattina abbiamo trovato il cadavere di una persona di novant’anni”.

“E io che c’entro, Mario? Le persone a novant’anni muoiono. È così che va la vita”.

“Sì, solo che questo non è morto per cause naturali. È stato ucciso nel letto mentre dormiva”.

“Oh, cazzo! A quell’età? È stata una rapina?”

“Dentro casa sembra non manchi niente. C’è tutto: soldi, gioielli… No, non si tratta di una rapina”.

“E quindi?”.

Silenzio.

“Mario, scusami, devo continuare a farti io le domande o vuoi finalmente svelarmi il motivo di questa telefonata?”.

Silenzio.

“Ohi, Mario, ci sei ancora? Pronto. Mario?”.

Ancora silenzio.

“Pronto. Ma che fa, è caduta la linea? Mario?”

“Scusa, è che sono rientrato nella stanza da letto. Qui la scena del delitto è assurda. Sembra il set di un film horror. C’è sangue ovunque. Ti ricordi quando eravamo bambini e abbiamo assistito all’omicidio di Nino ’U Summaccu? Ti ricordi quanto sangue c’era sul muro della sala biliardo? Qui ce n’è molto, molto di più! Credimi”.

Salvo si perse nei ricordi: Nino ’U Summaccu era stato il primo della catena di morti ammazzati a Belmonte Mezzagno durante la seconda guerra di mafia dall’81 all’84. Gli avevano sparato in faccia in pieno giorno mentre ancora aveva la stecca in mano dopo un tiro a carambola. Il killer mandato dai corleonesi era fuggito via nello stesso istante in cui Salvo e Mario stavano entrando nella sala. La scena terrificante che si era svelata ai loro occhi non l’avrebbero più scordata.

“Sì, certo che lo ricordo. Hanno sparato in faccia pure a questo novantenne?”.

“L’hanno sgozzato come un animale e con il sangue l’assassino ha scritto una frase sul muro. È per questo motivo che ti ho chiamato. Ho bisogno del tuo aiuto per decifrare la frase”.

“Scusami, Mario, ma non ho capito. E perché telefoni a me? Cos’è, mi hai fatto un contratto da consulente e io non me ne sono accorto? Io mica sono della polizia scientifica!”.

La porta alle sue spalle si aprì, e via via gli studenti cominciarono a uscire. Agnese per ultima.

La ragazza si fermò a pochi passi da lui “Prof, tutto bene? È successo qualcosa di grave?”.

Salvo con un cenno della mano la tranquillizzò: “Tutto bene, grazie. Sono al telefono con un amico”.

Quando Agnese si fu allontanata, riprese la conversazione telefonica: “Mario, scusa, i miei studenti sono appena andati via, li ho salutati”.

“Scusami tu per avere interrotto il tuo lavoro. Mi sei venuto in mente e ti ho chiamato senza pensarci su. Ho bisogno che mi aiuti a capirci qualcosa. In vent’anni di servizio non avevo mai visto niente di simile”.

Il tono del maresciallo Mario Sinna non era spavaldo come al solito. La sua era davvero una richiesta di aiuto.

Salvo si mise in modalità ascolto.

“Con il sangue schizzato dalla giugulare l’assassino ha scritto: …è del sistema e l’ha scritto su un foglio di carta attaccato con lo scotch alla parete. Aspetta che ti leggo il resto: Persuadevo dolcemente i lavoratori morenti di fame che la colpa non è di alcuno… E poi ci sono decine di volantini ciclostilati attaccati in giro per la stanza, volantini comunisti che inneggiano al movimento contadino, alla distribuzione delle terre. Che significa, Salvo?”.

“La frase che mi hai letto è di Nicola Barbato, capopopolo dei Fasci Siciliani dei Lavoratori. È un pezzo del suo discorso al processo dell’aprile 1894 dopo la messa al bando del movimento…”.

“Hai visto che avevo ragione a chiamarti? Lo sapevo che avresti decifrato la frase. È il tuo mondo, questo. A che ora torni in paese? Vorrei mostrarti le foto degli altri reperti trovati a casa del morto”.

“Rientro alle 18. Dove ti raggiungo? Chi è il morto?”.

“È Don Ciccio Passalacqua, il vecchio capomafia in pensione ormai da vent’anni”.

“Cazzo, Don Ciccio? Ma perché non me lo dicevi prima?”.

“Perché se lo avessi fatto, non mi avresti aiutato”.


Filippo Pistoia (Palermo, 1975) da più di vent’anni è manager di progetti culturali in Sicilia. Negli ultimi anni ha concentrato le sue energie sul processo di rivitalizzazione dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo In Terra colta, il suo primo romanzo, ha provato a fondere le sue due principali passioni: le lotte contadine del Novecento e il noir mediterraneo.

 

 

3. Un’estate con la Principessa di Clèves

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Immagine di Clelia Le Boeuf

Un’estate con la Principessa di Clèves è un podcast a cura di MARCO VISCARDI, letture di GIULIA MILANESE, sei puntate con ospiti e letture del romanzo alla scoperta di un classico della letteratura francese.

TERZA PUNTATA
3.”Un’estate con la Principessa di Clèves
Il delirio della distinzione” con EMANUELA SURACE

Si può seguire il PODCAST su:

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Le altre PUNTATE
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il mondo esteriore” con CLAUDIO GIGANTE
2.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Storia di un matrimonio” con PASQUALE PALMIERI
3.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il delirio della distinzione” con EMANUELA SURACE

4.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ La fine delle buone maniere” con VALENTINA STURLI
5.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “L’occhio infranto” con GIUSEPPE MERLINO

Viaggiare in versi con poete di inizio Novecento

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di Anna Toscano

In un piccolo libricino di liriche di Wislawa Szymborska, uscito per Adelphi nel 2012 col titolo Basta così nella traduzione di Silvano de Fanti, è contenuta la poesia “La Mappa”, a ben guardare questo testo chiude proprio la silloge come una sorta di lascito. “La Mappa”, infatti, ci parla di luoghi vicini e lontani che possiamo osservare chini su un tavolo: lei piatta, la mappa, parla di montagne e fiumi, di alture e pianure, alberi e vulcani. Dice tutto la mappa, con rigore e disciplina, ma anche nasconde molto ed è per questo che ci sfida a guadare meglio, a grattare la superficie, a togliere le bugie che racconta come fossero briciole su una tovaglia. “Fosse comuni e improvvise rovine / sono assenti in questo quadro”. Wislawa Szymborska ci invita a grattare la mappa dei luoghi per guardare oltre, allo stesso modo guardiamo lo spazio bianco che racchiude sulla pagina una poesia: la poesia come un luogo, che dice e che tace. D’altronde Szymborska dal cassetto della propria scrivania, luogo pieno di magie, alla stazione della città di N., in cui non giungerà mai, è una poetessa del dove, una poetessa con una forte dimensione spazio-temporale.

Le mappe dicono e non dicono, permettono di tracciare percorsi, di far sentire i suoni dei luoghi, di scavalcare confini, di immaginare posti impossibili come la luna, di disegnare traiettorie portando con sé pietre nelle tasche. Alcune poete hanno fatto questo a inizio del secolo scorso, hanno messo in versi i territori che attraversavano e composto guide in rima, mischiando l’ordine razionale al caos fantastico, come le mappe.

In questi giorni rivede la luce un libro dimenticato da decenni, si intitola Parigi, a cura di Nicoletta Asciuto, pubblicato da Interno Poesia. La sua autrice, Hope Mirrlees, nata sul finire dell’Ottocento in Inghilterra, studiosa, traduttrice, scrittrice e poeta, frequenta, tra Londra e Parigi, gli intellettuali della sua epoca e con loro si confronta e si misura seppur con la sua indole ribelle e riservata al contempo. Parigi è un poema modernista dedicato alla capitale francese, in 445 versi con citazioni in francese, greco, latino e russo, in cui Ovidio e Rue du Bac possono incontrarsi sulla stessa pagina. La prima edizione di questo poema viene pubblicata dalla Hogarth Press: Virginia e Leonard Woolf sono fortemente attratti dalla sperimentazione linguistica e grafica dell’allora sconosciuta Mirrlees. Ne stampano 175 copie nel 1920. Nei decenni successivi il mondo anglosassone ha alcune volte dimostrato interesse per questa autrice, con una ristampa nel 1973 e una nel 2007, diversi articoli e studi: ma è solo negli ultimi anni che Mirrlees sta uscendo dalla polvere dell’oblio grazie anche al suo romanzo fantasy, Lud nella nebbia, che rivive in questi mesi in nuove ristampe, come quella italiana per Cliquot. L’edizione di Interno Poesia ci porta con Parigi, dopo oltre un secolo, un’opera viva e vivace, talvolta ruvida e sarcastica, in cui una poeta di inizio Novecento riversa tutta la sprezzante libertà che chiede alla sua vita.

Giudicata spesso bizzarra e poco socievole, rispolverando questo libro, alla luce della sua vita e delle altre sue opere in prosa e in poesia, si scopre una donna forte e poco incline ai compromessi sia nella vita sia nella scrittura. Al netto dei pettegolezzi, che spesso si rivelano maldicenze, sulla sua vita sentimentale, sulle sue relazioni con altre donne, sulle sue frequentazioni, e libera dai luoghi comuni, Mirrlees si rivela oggi come una grande studiosa e un’autrice visionaria. La sua Parigi, uscita due anni prima di The Waste Land di T. S. Eliot, diviene la nostra Parigi, e verso dopo verso assistiamo alla messa in scena di questo luogo partendo dalla mappa e grattando grattando si assiste a una proiezione di immagini e pensieri: dalla città eterna per bellezza e arte fino alle zone di morte: “Della storia d’amor perduta / vergata da qualche Ovidio, schiavo riluttante / nel Paese delle Favole, nessuno ne conosce il nome; era il segreto della corporazione dei pittori italiani. / Passarono la loro vita ad illustrarla….”.

Negli stessi anni un’altra poeta scrive in versi il proprio “Baedeker”, una guida di viaggio dolorosa e allucinata quanto magica. È Mina Loy, anche lei inglese nasce a fine Ottocento, e in The Lost Lunar Baedeker mette in versi la sua vita alla ricerca di una identità, prendendo avvio da una scrittura che nasce dal suo modo di guardare, ascoltare, il mondo e sé stessa. Ripubblicato in Italia da Rina Edizioni nel 2022, riporta alla luce il lavoro di una artista che con decenni di anticipo ha visto ogni cosa: grazie alla sua sensibilità ha visto la frantumazione del corpo, la fine della servitù dell’immaginario, lavorando con un corpo, il suo, che è un corpo del post umanesimo che va oltre a identità, generi e ruoli. The Lost Lunar Baedeker raccoglie versi che vanno dal 1914 agli anni Cinquanta del secolo scorso e traccia la mappa della sua esistenza attraverso città, paesi, superando l’inferno per arrivare sulla luna. Come per Szymborska e Mirrlees, Loy gratta la mappa, attraversa con la sua scrittura il sentimento di inappartenenza che la angustia per vedere cosa ci sia sotto. Donna che non cerca il consenso con la sua opera, anzi graffia la superficie, si scontra su molte cose nel suo cammino senza mai tirarsi indietro: donna tradita, umiliata, schernita, richiusa, dimenticata, rinasce ogni volta grazie alla sua scrittura e alle sue opere d’arte. Sono versi nei cui luoghi stazionano personaggi reali o di carta, artisti, passanti lungo la strada o vecchine alla finestra. Come nella sua vita, anche in poesia le partenze sono molte, partenze dopo una caduta, dopo una reclusione, partenze per ricominciare – “Sono il centro / Di un cerchio di dolore / Che eccede i propri limiti in ogni direzione” – la scrittura come ago e filo per suturare i pezzi di una vita che non combaciano più. Ma Loy, come Mirrlees e molte altre, non intraprende queste partenze e questi percorsi solo per sé, a suo uso, ma per parlare alle altre donne in una comunanza di lotta e speranza. Non possiamo parlare ancora di sorellanza, ma certamente di ricerca di una unione anche solo di sguardi per salvarsi: “Gli occhi di un migliaio di donne / Inchiodati sull’irrealizzabile / Cospargono la toeletta della cartomante / Scheggiano marmo di Carrara / Su cui sparpaglia / Le colorate mappe del destino / Nell’angolo di una poco propizia camera da letto […]”.

Parigi e The Lost Lunar Baedeker sono anche mappe del corpo in quanto le loro autrici ci hanno riversato loro stesse attraverso la scrittura, quel corpo che loro avevano inteso in anticipo come territorio di battaglia e di arte. Lo stesso corpo, come le mappe, lo hanno graffiato per vedere cosa ci fosse sotto. Talvolta il corpo si è rivelato composto da pezzi di pietra che si frantumano in mille pezzi e allora ognuno va raccolto, messo in tasca – “Pietre per le mie tasche”, scrive anni dopo Karen Press. Un corpo pagliaccio, un corpo mutante, un corpo che sceglie scrive Mina Loy: “[…] Siamo pagliacci sacri / che si nutrono di vento e stelle / e delle polverose pasture della miseria / Le nostre volontà si modellano / sopra bizzarre discipline / al di là delle vostre leggi / Potete partorirci / o sposarci / le possibilità della vostra carne / non sono il nostro destino-“ […].

Ciò che non cambia è la volontà di cambiare

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di e con

Rosaria Capacchione

I fatti

Confermate in Appello le condanne per le minacce rivolte in aula a Napoli, nel 2008, durante il processo ‘Spartacus’, a Rosaria Capacchione e Roberto Saviano. Con la sentenza emessa nel pomeriggio del 14 luglio 2025 dai giudici della Prima sezione della Corte di Appello di Roma è stata ribadita la decisione di primo grado del 24 maggio 2021 che ha riconosciuto le minacce aggravate dal metodo mafioso condannando il boss del clan dei Casalesi Francesco Bidognetti a un anno e sei mesi e l’avvocato Michele Santonastaso a un anno e due mesi.

«questa sentenza è un punto fermo. Sono diciassette anni e mezzo di vita passati a pensare a quel documento letto in aula, al significato, alle ripercussioni. È un pezzo di vita, un pezzo di vita importante che ha condizionato l’esistenza professionale». Ha commentato Rosaria Capacchione.

La conversazione

a cura di effeffe

Con Rosaria Capacchione ci siamo ritrovati dopo qualche anno di latitanza fisica ma non affettiva, e in occasione della sentenza in appello pronunciata relativamente alle minacce del clan dei Casalesi a lei e Roberto Saviano, le ho chiesto di condividere su Nazione Indiana il suo pensiero su quanto appena accaduto.

Rosaria, innanzitutto come va?

In piena afa, non mi sposto. Certo la condanna è stata confermata in appello ma come sai c’è sempre la Cassazione.

Mi dici la prima cosa che hai pensato?

Menomale, Santonastaso, l’avvocato e il boss che fa il boss avevano tentato l’impossibile per non arrivare alla sentenza. Per quattro volte è stato rinviato in appello perché non si trovava il modo di notificare l’atto all’avvocato, pare in Croazia o Serbia e il penultimo per un problema di salute sopraggiunto poche ore prima della convocazione. Estenuante, ti assicuro, percorrere avanti e indietro Caserta Roma per rimanere due minuti, il tempo che ci voleva per comunicare il rinvio del processo. Per diciassette anni, capisci. E sentenziare che quello che pareva tra virgolette una minaccia era effettivamente una minaccia. Come per tutte le questioni di lana caprina, gli avvocati difensori che si sono avvicendati contestavano ogni cosa quando poi tutto il mondo giudiziario, la Stampa che ovviamente aveva dato credito a quelle minacce, più di una semplice allusione, non aveva avuto il minimo dubbio sulla pericolosità di quell’azione. Certo è un verdetto che non cambia nulla dal punto di vista della pena almeno per quanto riguarda Bidognetti, di cui nessuno mette in discussione la mafiosità visto che è in carcere da trentadue anni con a carico più ergastoli passati in definitiva. La vera novità riguarda il suo avvocato se la cassazione dovesse confermare la sentenza.

Mi puoi dire perché?

Vedi, minacce ai giornalisti di inchiesta o a chiunque si fosse messo di traverso nei loschi affari della camorra, ci sono sempre state, ma si trattava sempre di episodi  personali e, in qualche modo, in ordine sparso. Querele temerarie, diffide pretestuose, cose che, lo sappiamo bene, fanno parte del gioco e non necessariamente pericolose per la vita.

Insomma Rosaria altro che nulla di nuovo dal fronte dei giornalisti. E tu cosa hai provato?

Allora, sgomento, non più la semplice paura a cui ero stata abituata. Era come se si fosse passato a un livello superiore con il coinvolgimento direi ideologico dell’avvocato con un clan che aveva già fatto le sue prove di fuoco con stragi e rappresaglie. Il 13 marzo c’erano state le minacce e in aprile, con l’evasione di Setola, sarebbe cominciata la campagna di delitti con tutte le categorie coinvolte, dagli imprenditori che avevano denunciato la Camorra ai collaboratori di giustizia.

Rosaria, mi ha molto commosso la reazione di Roberto Saviano in tribunale, le sue lacrime mi hanno scosso come può soltanto il pianto di un amico fraterno.

Ci siamo salutati in tribunale per pochi minuti. Da un certo punto di vista le nostre reazioni non sono state le stesse per una semplice questione generazionale. La mia generazione ha un approccio diverso con la realtà, per esempio è poco avvezza ad esprimere i propri sentimenti. Detto questo, come dimenticare, non riconoscere a Gomorra di avermi salvato la vita. Furono proprio quei riflettori dell’attenzione del paese su quello che accadeva nella nostra regione a far sì che la Camorra non eseguisse il suo solito copione. Riflettori che come sai io non ho mai inseguito da semplice cronista quale sono sempre stata, attenta a raccontare soltanto i fatti, giorno per giorno, nella loro cruda e nuda verità.

Ricordo bene quella tua angoscia quando nonostante fossi già sotto protezione, ti erano entrati in casa mettendo tutto a soqquadro.

Sai, prima della pubblicazione di Gomorra la criminalità organizzata la raccontavo sul Mattino quotidianamente e per quanto il Mattino di allora, negli anni ottanta vendesse centinaia di migliaia di copie, di fatto rimaneva un giornale essenzialmente regionale. Con  Gomorra si tracciava un bilancio di tutti quei “quotidiani” in una sola narrazione, così non solo l’Italia ma il mondo venne a conoscenza di quanto accadeva da decenni sul nostro territorio. “Per colpa tua ora ci conoscono dappertutto” era l’accusa a Saviano. Davvero imperdonabile!”

Che cosa ti ha spinto a essere cronista?

Fiducia nella stampa e nel giornalismo come mezzo per cambiare le cose. Con una tale diffusione in Campania tanta gente leggeva i miei articoli, come quando m’ero occupata dello smaltimento dei rifiuti e tantissimi giovani cominciarono a mandarmi articoli e  foto polaroid che raccontavano di bufale falcidiate dai rifiuti tossici. Una mobilitazione vera e propria che certo aveva la spontaneità di quando si è giovani ma che allo stesso tempo testimoniava il desiderio di smuovere le acque e non scomparire in quella palude.

E ora? Ciò che non cambia è la volontà di cambiare, ti ricordi la scritta di vernice rossa sul nostro liceo, il Diaz di Caserta?

Vero allora, vero ora. Ecco, prendi l’aeroporto di Grazzanise. I figli di Sandokan, a Casale ( qui l’articolo di pochi giorni fa scritto da Rosaria) avrebbero potuto scegliersi un destino diverso da quello del padre, no?

“Ivanhoe Schiavone, il quarto dei sette figli del boss, l’unico dei maschi ancora in libertà, recentamente accusato di riciclaggio e tentata estorsione con le aggravanti delle finalità e del metodo mafiosi.”

E invece no. La saga della palude continua, tutto si ripete, di padre in figlio, da più generazioni fatalmente. Alessio de Falco, nipote di Vincenzo morto ammazzato nel ’91, avrebbe potuto scegliersi una strada diversa, no? Perfino il soprannome del nonno Vincenzo, mai conosciuto, si è ripreso il nipote, ‘o fuggiasche.

Torniamo al tuo libro, in parte nato anche qui su Nazione Indiana.

Sono passati diciassette anni dalla sua pubblicazione. Un po’ datato, ma di certo non superato. Sui Casalesi di allora non c’era nulla, e praticamente da allora nulla è cambiato nella sostanza.

A cosa ti andrebbe di dedicare una lunga narrazione, ora?

Dopo tutte le esperienze fatte sicuramente c’è un mondo a parte che vorrei raccontare ed è quello delle donne, tutte le donne che vivono nei mondi di Camorra. Se entri in una chiesa da quelle parti vedi ancora donne sedute da un lato e gli uomini dall’altro. Comunità in cui una giovane vedova doveva per forza sposarsi il cognato, e questo a prescindere dalle dinamiche camorristiche che si alimentano di questo immaginario e di certo non ne è all’origine. E tu povero cristo ti ritrovi con moglie vedova e amante ufficiale. Nella mia vita da cronista ne ho intervistate tantissime, mogli, figlie, sorelle, racconti privati che farebbero rabbrividire chiunque si reclami cittadino di un mondo civile. Il vuoto non esiste in natura, ma in una comunità esiste perfino e, aggiungo soprattutto, quando quel vuoto non è lo Stato a riempirlo ma la camorra. Guarda le vicende di Caivano, un contesto degradato dalle fondamenta e da cui il fatto orribile di cronaca emerge come la punta di un iceberg.

Forse per capire meglio quel contesto bisognerebbe scomodare René Girard, e la sua idea di capro espiatorio e violenza, in una dinamica costante di persecutori e vittime.

Vittime della camorra sono le donne, le spose bambine e ti faccio due esempi. Anna Carrino moglie di Bidognetti, “incontrata” a tredici anni, o Rita De Crescenzo madre a dodici anni,  il figlio avuto da un uomo dei clan. Questi sono fatti, inopinabili perché successi e che succedono anche ora che stiamo parlando. E succedono alle donne.

Numeri immaginari

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[È uscito per Tetra il racconto Numeri immaginari di Ezio Sinigaglia. Ne propongo un estratto. ot]

di Ezio Sinigaglia

Quando ritorna, sospingendo il carrello con le coppe, il secchiello del ghiaccio, la bottiglia, il salame affettato, il parmigiano a scaglie, il pane di giornata, Verbis trova Mirko che si dondola sul dondolo, estasiato, ad occhi chiusi. Però li spalanca al primo tintinnio: due occhi oblunghi, che alla luce del giorno hanno il colore della sabbia, o della lana di cammello, e adesso, nell’ombra del terrazzo, sembrano scuri scuri, palpitanti di riflessi come il mare notturno. Due occhi languidi, assetati. E se fosse davvero? No, non ci credo. Non devo crederci. Per nessun motivo. No, sarebbe un errore ridicolo, da principianti.

Ah, che bellezza qui! Si sta d’incanto!

Sì, eh?

È incredibile, sa?

Che cosa?

Come due appartamenti.

Già, è vero.

Uno sopra l’altro.

Sì.

Perfettamente uguali nel taglio dello spazio.

Proprio identici.

Possano sembrare così diversi!

Lo sembrano?

No! Lo sono!

Le potremmo definire.

Come?

Le divergenze parallele.

Veramente! È una definizione formidabile.

Oh, via.

Però stasera.

Sì?

Ecco, se posso dire.

Puoi dire tutto quello che ti salta in mente.

Allora.

Sì?

Be’, stasera c’è una convergenza.

Fra gli appartamenti?

No, be’.

Fra gli appartati?

Ecco, sì, proprio!

E ride. Lieto, argentino. L’ironia del professore, così fine, lo delizia. Ride, riverso sul suo dondolo, e il dondolo si scuote. Le conseguenze sismiche di questo moto, adesso, per fortuna, si producono nell’ombra. Manifestazioni visibili, nessuna. Però Mirko si culla, appena appena, con lente oscillazioni irregolari, ed ogni ondeggiamento porta in su le ginocchia, in su e in avanti, le ginocchia nude, in piena luce. Belle ginocchia, e belle gambe, e cosce, per quel che se ne vede. Tutto fasciato nella guaina liscia, tesa, elastica che è la pelle dei vent’anni. Che non fa pieghe, ma è sempre increspata da una brezza inquieta. Che, d’estate, si fa d’oro. Pelli che sono trabocchetti per lo sguardo, vere bucce di banana. Si fanno scivolate insidiosissime, tremendi capitomboli. Bisogna stare all’erta.

Verbis deve entrare nella sfera dell’aroma pungente di basilico, per porgere la coppa. Mirko si dà una spinta un po’ più forte, per prendere la coppa. E lo splendore liscio delle ginocchia sfiora per un attimo la piega dei calzoni. Quelli del professore. Un tessuto leggerissimo, anche questo, benché non sia cotone. L’ardore della pelle dei vent’anni lascia come un alone sulla stoffa, che lo assorbe, lo filtra, lo trasmette alla pelle dei cinquanta.

 

Romanzo olandese

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di Guido Festinese

“Che ci faccio io qui? Che ci fa uno come me davanti al Mare del Nord? Forse si sceglie l’Olanda per una sorta di compensazione, per un desiderio di vertigine di pianura. Altrimenti non ci si arriva per caso in cima a un molo”: così si trova scritto a pagina duecentoventiquattro di Romanzo olandese/ Una trilogia, il nuovo sorprendente libro di Marino Magliani (Scritturapura, 2025), un nome che è spesso tornato su queste pagine. Magliani, da quattro decenni residente in Olanda, in una terra che guarda il male gelido fatta di dune sabbiose, di chiuse, di canali infiniti e simmetrici che non fanno capire se lì inizia il mare o lì finisce nel matrimonio forzato con le acque dolce, per le terre di Rembrandt ha un’ossessione che è diventata, spesso, letteratura.
Lì s’è fermato, dopo aver girato per il mondo tra i continenti facendo molti mestieri: marinaio, contadino, operaio, per diventare poi traduttore e scrittore a tempo pieno. Quando non scrive romanzi storici di cruda efficacia con una scrittura avvolgente, ultimo fra questi Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma Editore, 2021), ambientato nel suo Ponente ligure in età napoleonica, Magliani ripercorre, con acribia descrittiva, un punto interrogativo che resta sempre lì, a chiudere il conto finale: la propria cartografia interiore che si dilata, esonda, incorpora inevitabilmente la cartografia reale dei luoghi, trovando sempre misteriose corrispondenze tra la Liguria della sua infanzia e la linea dell’orizzonte olandese affacciata sul Nord d’Europa.
I suoi libri in questo senso assomigliano alle superfici apparentemente statiche degli stagni sparsi tra le chiuse nordiche: una situazione apparente di immobilità che nasconde invece, appena sotto la patina superficiale, un tumulto emotivo di vita insanabile. Una sorta di pendolarismo dell’anima guidato da due forze complementari, la ferita della separazione dalla propria terra d’origine scabra, umida, assestata su una faticosa verticalità, una vallata chiusa e ostica alle spalle di Imperia, e l’aver scovato una sorta di freddo ma ospitale secondo luogo dell’anima nella cruda orizzontalità olandese. Con il contrappasso continuo della nostalgia attizzata da entrambi i luoghi, all’infinito: uno lo specchio dell’altro. Un cerchio emotivo che non può che perpetuare la propria corsa all’infinito attorno a un centro che non c’è.
Romanzo olandese è uno strano libro, va detto, e proprio per questo affascinante, tanto da richiedere una lettura, per così dire, in una sorta di souplesse, lasciandosi cullare dalle continue divagazioni che dilatano e rimpolpano un’ossatura, una travatura di base che è quella appena descritta, maturata in un quarantennio di riflessioni annotate, lasciate maturare, sviluppate in altri racconti brevi, intercettate e trascritte da nuovi punti d’osservazione. In questo senso lo scrittore e traduttore, per riprendere recenti calzanti parole usate in altro contesto da Massimo Raffaeli “Ha la necessaria monotonia degli scrittori veri, i quali insistono sulla propria materia senza illudersi di poterla mai esaurire”.
E dunque qui si legge un primo tratto di romanzo, La talpa, che è una sorta di metafisico thriller, un viaggio quasi iniziatico faticoso e scomodo nelle immense viscere ipogee di Amsterdam, per ricavarne, poi, una necessitata fuga nelle valli ligure, dopo aver diviso il proprio tempo sotterraneo con figure sfuggenti che nascondono segreti.
Poi arriva un secondo romanzo nel romanzo, Le vetrate di Rembrandt, e qui la geografia fisica delle case abbarbicate alla sabbia e affacciate sul Mare del Nord, distrutte e ricostruite ogni quarant’anni, diventa geografia umana: quello svelarsi senza pudori degli olandesi, in nome di una trasparenza interiore ed esteriore figlia ed erede del calvinismo puro e duro.
Infine Biografia di un paesaggio anfibio, ricognizione nella ragnatela dei canali che è, poi, una ricerca di vita pulsante in tutto quanto appare come anonimo, ripetitivo e immoto.

 

 

Moscografie

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Da Sulla sovradeterminazione delle mosche

di Anna Papa

Un sistema di violenza reiterata la vuole morta a tutti costi perché presaga della loro morte perché dominatrice delle.

L’ossessione che la mosca produce si manifesta a periodi alterni, l’oculista ha scritto il referto:

visione di corpi mobili (mosche volanti)

Durante la visita ha detto loro — specificando — che quello che vedono non corrisponde a oggetti insetti a corpi di mosche reali ma a visioni dovute da età stress o miopia: i dispositivi che usano di certo non prestano aiuto, anzi.

* * *

Mentre alza il braccio per mettere fine alla mosca lei blocca il tempo e visualizza al rallentatore.
Il braccio in realtà è velocissimo fa tutto per farla finire non sa del potere che recepisce veloce le immagini gli impulsi le braccia la volontà di eliminazione.
Le braccia non sanno spiegarsi come la piccolezza di lei possa riuscire a elaborare i segnali pare fino a sei volte rispetto.

È una proporzione decisamente più grande di quello che pensano non se lo aspettano dicono di potercela fare.

Vantano un genocidio di mosche e non sanno cosa potrebbe

è questo il segreto, questa la forza a bloccare.

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(illustrazioni di Silvia Tebaldi)

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Da Trittico monologante della mosca parassita

di Silvia Tebaldi

E disse Y: Andate moltiplicatevi
popolate la terra in volo e voci
in cielo in aria in acqua siate uova
e insetti cioè angeli in camuffa
in mundo sublunari – ovvero un mondo
pieno di stronzi, disse Y, non solum metaforici –
siate insette legione enthoma somite
tropi e figure siate
troni e dominazioni –
così almeno capimmo, e Y soggiunse:
La carne il marcio i fossi celebrate
imbuto funnel cluster del dicibile
magnificat duale e non-duale
siate ronzio siate rizoma disse

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‘Parola che non vola’, microappunto su Moscografie di Anna Papa e Silvia Tebaldi (Manufatti poetici, Zacinto 2025)

di Stefania Zampiga

in oscillamenti, fra i ragionamenti. i punti, di posizionamenti. ‘La mosca è imprevedibile bisogna studiarla per bene fa giri che fanno qualcosa in direzioni inspiegabili’. i segni, il corpo, ‘muove le zampe le unisce le sfrega’. spazio, tempo. qui. distrazioni. corpi delle distrazioni. distrazioni dei corpi. ciò che non. ciò che ‘una mano-paletta’ spesso vorrebbe…
qui, più cose si lasciano volare fra tautologie, dubbi, altro. nell’intreccio di spiazzamenti. cosmici e intimi. speculativi, speculari. ‘La mosca ci guarda guarda la mosca che ci sta guardando…’ di microsecondi sposta sul reale, per finta o per vero, mappature accennate. si posa su tanto, inietta contagi, lo scritto. quello che con la lingua. e quello che non. per esempio. la solennità dell’indicativo (di solito una veste per le varie verità scientifiche/filosofiche/religiose et al) e un lessico minimale, l’opposto della specializzazione. citazioni. visive e non. in continui spostamenti non assertivi fra voci e linguaggi, sul punto di ricevere il sempre presente ‘farla finita’. più percezioni dell’instabile, a partire dal suo ‘fastidio’: ’ Succede quindi che in certi momenti … si abiti il nulla in uno stato che è addirittura peggiore del niente…’. molteplici percezioni della violenza, dietro l’instabile. gli usi arbitrari che ben conosciamo, le eliminazioni: ‘Un sistema di violenza reiterata la vuole morta a tutti costi perché presaga della loro morte…’.

⇨ 2. Un’estate con la Principessa di Clèves

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Immagine di Clelia Le Boeuf

Un’estate con la Principessa di Clèves è un podcast a cura di MARCO VISCARDI, letture di GIULIA MILANESE, sei puntate con ospiti e letture del romanzo alla scoperta di un classico della letteratura francese.

SECONDA PUNTATA
2.”Un’estate con la Principessa di Clèves
Storia di un matrimonio” con PASQUALE PALMIERI

Si può seguire il PODCAST su:

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Le altre PUNTATE
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il mondo esteriore” con CLAUDIO GIGANTE
2.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Storia di un matrimonio” con PASQUALE PALMIERI
3.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il delirio della distinzione” con EMANUELA SURACE

4.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ La fine delle buone maniere” con VALENTINA STURLI
5.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “L’occhio infranto” con GIUSEPPE MERLINO

La mummia

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Immagine generata da AI

di Silvano Panella

Il tempio emerge dalle sabbie maestoso e in rovina. Il caldo, il vento, il tempo hanno scheggiato, spaccato, levigato le pietre. La sabbia del deserto tende a nascondere il basamento. Mi chiedo a quale profondità arrivi e se sotto ci sia altra sabbia oppure la roccia. Sì, immagino che a un certo punto ci sia la roccia, ma quanta sabbia c’è tra noi e la roccia? Entro nel tempio provvisto di una torcia elettrica e di una conoscenza parziale, frammentaria. L’acustica che trovo all’interno è diversa rispetto a quella di qualsiasi altro luogo chiuso. Chissà se è per via del miscuglio di suoni e rumori accumulatisi fino a oggi – deve essere rimasto un brusio di fondo che interferisce con i nuovi suoni, i nuovi rumori.

I geroglifici circondano, imprigionano, spiegano le scene pittoriche di persone, animali, oggetti d’uso. Lo stile bidimensionale non è un limite, ha la precisa funzione di schiaffare i soggetti sulla superficie, imprigionarli a vista, ricchi di dettagli – volti, musi, vestiti, pellicce, artigli, gioielli. Raggiungo la mia guida e i giovani studiosi, si trovano tutti nella sala predisposta per la visita alle mummie animali. Non badano alla mia tardiva apparizione, sono affascinati dalle mummie. In questo tempio le mummie erano di passaggio per essere collocate nelle tombe, oggi sono di passaggio il periodo di una mostra. Mi chiedo se gli antichi egizi avessero previsto questa ostensione. Dopotutto, le mummie animali sono più belle delle mummie umane. Sì, sono proprio deliziose, fanno tenerezza, ci suggeriscono che gli antichi egizi tenessero molto ai loro cani, ai loro gatti, li mummificavano per continuare a tenerli vicini da vivi e per essere sepolti vicini da morti, per vivere insieme nell’aldilà. E tenevano molto anche agli altri animali – ci sono mummie di coccodrilli, tori, pesci, uccelli, c’è la mummia di un cucciolo di leone.

Questi bendaggi stretti stretti, come se gli animali fossero degli infermi ai quali badare, stretti stretti per non far deformare i corpi, per non lasciarli scappare, per fissarli a tre dimensioni nell’eternità. Le mummie, opere d’arte composte in prevalenza di materiale biologico, animali fissati nel pieno della loro bellezza anziché lasciati deperire in vita. I volti ridipinti sulle bende, una fantasia ocra che stride con la rigidità dei corpi, espressioni imbronciate per l’eternità. Questo stridore mette allegria. E poi, a rompere l’incanto macabro, una daga.

Uno dei giovani studiosi solleva la daga, una spada corta magnificamente conservata ed esposta su un plinto. Sulla targa è scritto che la daga fu lasciata qui dai romani, che a loro volta l’avevano sottratta ai daci durante una battaglia. La daga fu rinvenuta nel tempio durante gli scavi archeologici. Si sospetta appartenesse a un soldato romano di guardia. La targa non azzarda ipotesi sul perché il soldato romano l’abbia lasciata – la sabbia filtrata attraverso le sette soglie del tempio seppellì la spada pian piano. I giovani studiosi sorridono alla bravata del loro compagno, il quale sghignazza e perde la concentrazione, la daga male impugnata scivola a terra e provoca un rumore metallico che rimbomba più volte, spaventando tutti. Di nuovo i sorrisi quando un altro giovane studioso raccoglie la daga, la punta solca il pavimento di pietra e sabbia, stride, il giovane alza la daga, anziché brandirla sembra che il suo scopo sia di tenerla in equilibrio. Ci riesce. Non che sia difficile, sono sicuro che la spada non sia pesante, tuttavia questi giovani sono delicati, parlano tra loro e splendono di stupore, gli abiti color pastello. La guida ordina di mettere a posto la daga, i suoi strilli sono tardivi e inopportuni, dissacrazioni del luogo. I giovani si mostrano contriti e sistemano la daga dov’era. Il capo chino, le scuse. Riprendiamo il giro.

Le mummie dei cani, occhi cerchiati e vigili, corpi compattati in un lungo collo, le zampe non visibili. Le mummie dei gatti sono simili alle mummie dei cani ma la differenza sostanziale sta nei volti, più beffardi. Le mummie dei coccodrilli, affusolate in un eterno a pelo d’acqua, giacciono su spessi panni ingialliti, non so se coevi e previsti o se dovuti alla sensibilità del curatore museale. Le mummie dei tori sono enormi, più di quelle dei coccodrilli, e suggeriscono quiete. Le mummie dei pesci sono poste in scatole a forma di pesce, le scaglie policromi, la fattura fortemente stilizzata, l’espressione irosa – poiché tolti dall’acqua? Le mummie degli uccelli, coricate supine, simili a sarcofagi, fanno davvero pensare all’ipotesi del risveglio. Solitaria, la mummia del cucciolo di leone è diversa dalle altre. Stretta nelle bende, priva di pitture e di aggiustamenti posticci. È il corpo e basta. Fa venir voglia di sbendarla – infatti il vetro protettivo è blindato, infatti i giovani studiosi, io, la guida stessa cerchiamo eventuali spiracoli tra la teca e il plinto, cerchiamo la serratura, eccola qui, complicata assai. Immagino che, una volta sbendata, la creatura si palesi nelle sue fattezze originarie. La creatura. Doveva avere pochi mesi, morta e poi salvata dagli sciacalli, dalla decomposizione, dall’oblio. È commestibile?

I giovani ostentano pose meditabonde, cercano più o meno sul serio di rispondere alla domanda posta da uno di loro. Spensieratezza goliardica, il sapere a uso di padroni vivaci – l’intuito non ancora imbrigliato. La guida ci precede di fuori, nel portico. Le colonne ipostili, lotiformi, rompono di tratto in tratto la luce del Sole accecante, impastata di biancore e di sabbia. Le mummie degli animali si trovano al riparo dal trascorrere del giorno, dalle tempeste di sabbia, dalle rare piogge, dal vento, dall’umidità, dalle escursioni termiche. Anche se non ci fossero le teche di vetro, sarebbe da considerarsi un confine inesplicabile il loro bendaggio?

Imperscrutabili volubilità psichiche del genere umano

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di Luigi De Luca

Potrebbe sembrare il nome di un bambino, perché si ignora una verità sacrosanta: quando è la campagna a invecchiare gli uomini finisce col rimpicciolirli, li rende minuti, e per questo, specie nei paesi più piccoli – dove campagna e pastorizia ancora oggi giocano un ruolo importante – porta alla produzione spontanea di soprannomi vari, in riferimento alla statura, o alle origini, o a un tratto caratteriale. (Pensate che in questo paese ci vive uno che viene chiamato Diavolo, perché si dice che in gioventù fosse un vero demonio, che andasse spaventando chiunque con i suoi scherzi del diavolo, e per questo ancora oggi, nonostante oggi sia un onestissimo signore, egli manco si gira se non lo si chiama col suo nomignolo: Diavolo.) Invece Luca nacque e veniva chiamato Luchetto, divenne adulto come Luca, divenne Luchino, e ora invece, da quando le rughe sul suo volto sembrano sfumature a matita, tutti lo conoscono come Luchettino, dall’unione di Luchino e di Luchetto, perché di fantasia in questi paesi ve n’è troppa, ma la si usa con moderazione. Ma quel che a noi qui riguarda, a essere onesti, non è la storia del suo nome, o di come veniva chiamato, o di come egli nacque e con chi crebbe, e di chi si innamorò e di quanti figli e nipoti ebbe. Ci riguarda solo la storia delle convinzioni assurde e buffe che lo perseguitarono finché rimase in vita. Luchettino aveva dovuto divenire egli stesso il bastone della sua vecchiaia, perché il bastone vero l’aveva perduto qualche decennio prima. Era un uomo nato dalla terra, proprio come nasce una melanzana, o una carota, o le patate. È più possibile che lui fosse uscito fuori dalla terra umida piuttosto che dalla vagina di sua mamma. Si svegliava alle 4 del mattino e andava nei campi con papà e nonno, fino all’orario di inizio della scuola. Perché Luchettino non aveva mancato il treno dell’istruzione, quello che in quegli anni dal nord Italia si dirigeva al sud. A scuola ci andava sporco di terra, e tutte quelle maestre settentrionali, che con quel treno erano arrivate cariche di pregiudizi e di vane speranze, non nascondevano mai le loro facce scandalizzate.

Ma la maestra più generosa con Luchettino fu la campagna. Ma avevamo anche detto che di come crebbe Luchettino poco ci riguarda. Però, forse, ormai, ci riguarda come Luchettino si presentò all’appuntamento con la morte, e con quali paradossali convincimenti egli spirò il suo ultimo alito caldo. Perché lo esalò abbracciato al suo trattore, che gli era finito addosso durante il suo ultimo lavoro presso la terra che l’aveva partorito 88 anni prima. Eh sì, a 88 anni, quasi 89, non aveva ancora smesso di condurre quel mezzo pesante su terreni scoscesi, e quell’ultima volta, in un qualche assurdo modo, il trattore si era capovolto e lui vi era finito sotto, schiacciato, con la faccia a baciare la rorida terra, e il suo volto fu anch’esso rorido di morte e di bianco aspetto. Ma c’è in paese chi si disse convinto di aver visto sul suo volto un potenziale sorriso.

Ma tutti in paese sapevano che il ferroso Luchettino aveva perso la testa, e che pure per questo era finito sotto il trattore a quel modo.

Tutti raccontano, perché poi si sa come si spostano di bocca in bocca i racconti curiosi, quando si mise a dire che guardando una sfera di sole vi aveva visto uno stormo di moscerini neri che muovendosi armoniosamente avevano disegnato alla sua vista un futuro nefasto per il mondo. E che gli vai a dire a un vecchio, seppur rispettato in tutto il paese, che annuncia future sciagure? Niente, che gli dici. Lo compatisci, ne racconti in giro, ma alla fine non puoi che dire: «Poveretto, e pure Luchettino se n’è andato col cervello». E questa e altre convinzioni simili le andava dicendo in giro tra le strettoie e le aperture sconnesse del paese. Ma erano ben altre le convinzioni più assurde e pericolose. Perché fino a quando anticipi il futuro, a pochi importa; quando invece vai a toccare personalmente gli altri, a qualcuno importa, ovvero proprio a quelli che vai a toccare. E per quanto tu venga compatito per via della demenza senile, quelli che vengono toccati si urtano, e non poco. È così che funziona.

Come quando chiamò i carabinieri, tutti quelli che incontrava per strada, tutti i compagni del tressette, e li fece venire davanti al palazzo Vignagrande. A tutti i presenti che in ossequioso rispetto attendevano di sapere il perché di quel richiamo e di tutte quelle insistenze (sia chiaro, le genti sapevano già che Luchettino aveva perduto la testa, ma andarono comunque e non vi so dire il perché) e come se stesse facendo un’arringa disse:

«Pasqualina, la più piccola, quella che va all’Università; poi Giuseppe Vignagrande, Pino, il papà di Pasqualina; Bene. Stamattina, papà e figlia sono usciti di casa alle 8 e 35, e vedendomi, che sapete voi, quanti bei saluti affettuosi che m’hanno fatto: la nipote giusto un saluto sorridente; mentre con Pino ci siamo messi a parlare, un poco. Le dittu che il tempo è sempre brutto, e che i pedi d’alivu mia su carichi ma non tiagnu a nessunu c’ha mi aiuta ari coglia. Chissu. Ora, vi dico… nel corso della mattinata sono stato qui, seduto su quella panchina. Sono rientrati tutti e due, ma a orari diversi, e tutti e due non mi hanno salutato nemmeno. Come se io su quella panchina manco ci fossi, come se non mi vedessero, o come se io fossi un perfetto estraneo per loro. E mi pare più vera l’ultima cosa, visto che pare che voi mi vedete, e mi potete toccare, e non mi sono fatto mica invisibile, ma sono fatto ancora di carne di ossa e di pelle. Pasqualina è rientrata in casa senza guardare cosa avesse davanti, perché la testa ce l’aveva ficcata nel telefono. Pino mi ha pure guardato, solo per un attimo però, e io non mi sono alzato per andargli incontro, ma non mi ha riconosciuto».

Diversi dei presenti, chi con la voce, chi con le mani o cono lo sguardo, domandarono:

«E quindi?»

«Ah non capite? Non capite? Non mi sono spiegato. Allora, prima mi conoscevano e poi no», disse Luchettino guardando quei volti ignari al suo sguardo e finanche stupidi ai suoi occhi, ma che erano solo occhi consapevoli, ma che pazientemente aspettavano, quasi a volere stare al gioco. Perciò lui riprese:

«L’hanno cangiati…»

E tutti rimanemmo a guardarlo. E chi prima e chi poi iniziò a pensare a come andarsene senza troppo offendere Luchettino, o a come intervenire per placare le sue convinzioni. Eh sì, e ne era convinto da tempo. Era certo che qualcuno o qualcosa stesse provvedendo a sostituire con dei cloni gli abitanti del paese.

Ma non tutti avevano la stessa pazienza con il vecchio. E questo venne accertato un altro giorno, quando un mattino Luchettino si levò, di primissima mattina come al suo solito, fece colazione come al suo solito: bicchiere del suo vino al posto del latte, una fetta di pane con su del formaggio nostrano al posto dei biscotti, e un peperoncino rosso a cornetto al posto dello zucchero. Dava sempre un morso al pane e formaggio e un morso al peperoncino, ammorbidiva con un sorso di vino, e mandava giù come se non avesse gustato nulla. E sia chiaro fin dal principio, il vino doveva essere rigorosamente quello suo, perché guai a presentargli un bicchiere di vino che non fosse suo, o peggio, non sia mai, un vino comprato al supermercato. E quella mattina andò poi a prepararsi e a vestirsi elegante, e uscì di casa lasciando all’ingresso la sua ombra profumata di dopobarba muschiato. Doveva andare agli uffici comunali, per sbrigare quelle solite rogne burocratiche che nessuno vorrebbe vedere elencate in un’opera di narrativa. E poi quello che doveva fare lo sapeva solo lui. Io ero solo uno spettatore non pagante di quello che sarebbe stato di lì a breve un buffo e triste spettacolo di inumana umanità. Si fermò dieci minuti, o forse quindici pure, guardando l’ufficio. Poi vi entrò e scomparve dalla mia vista, ma decisi di attendere, perché sentivo che sarebbe accaduto qualcosa. E infatti. Ero disoccupato in quel periodo, e pigliavo gli aiuti dallo Stato, aiuti che di lì a poco avrebbero eliminato per sempre e quindi mi sarei ritrovato presto disoccupato e senza una paga, ma questa è un’altra storia. Avevo un sacco di tempo libero, comunque, e le mattine me ne andavo presto in giro per raccogliere idee in giro che poi avrei buttato sui miei fogli. Non passarono più di venti minuti d’orologio, perché ce l’avevo sottocchio, e un funzionario dell’ufficio venne fuori portando Luchettino dal collo della giacca come se fosse un sacco della spazzatura, e strisciava i piedi per terra il povero vecchio, perché il funzionario, omaccione quale era, quasi quasi riusciva a sollevare quel peso piuma di Luchettino. Per fortuna il tizio ebbe la compiacenza, almeno, di non scaraventarlo per terra, ma lo quasi adagiò fuori, e io andai subito a soccorrerlo. Insomma, per farla breve, Luchettino era entrato nell’ufficio e si era messo ad accusare a quello e a quell’altro che erano i cloni esatti dei veri loro. Si è messo a chiedere loro da dove provenissero, come venivano create queste copie così simili agli originali.

«Sì, perché voi brutte copie finte imparate tutto, anche gli atteggiamenti. Ma ancora di quelli che avete sostituito non avete imparato tutto alla perfezione. Potete essere pure uguali, ma non identici. Potete farla a tutti, ma non a noi vecchi. È chiaro? Tu non sei quello che eri… lo capisci o no?»

Questo è quanto aveva detto a quello lì che è un impiegato in quell’ufficio, che di cognome fa Nossignore, se non mi sbaglio, che qualche tempo dopo questo Nossignore andò a raccontarlo a tutto il paese, e questo è ciò che mi è pervenuto, e lo riporto qui. E raccontò pure che Lucchettino si era messo a guardare in faccia un’altra impiegata e con le sue mani ossute le aveva tirato le guance come se fosse sua nipote per cercare tracce di inverosomiglianza. E racconta che le aveva pure detto una cosa del genere:

«Tu un si tu… si n’atra. Tu un si chiu chira ca eri. Mo’ si n’atra. T’hanno cangiatu», disse in dialetto, perché preso da troppa, eccessiva, foga, e poi l’hanno sbattuto fuori come raccontavo poc’anzi.

Lo feci sedere sulla panchina e io mi sedetti accanto a lui e chiamai la figlia, perché a quel punto non se ne poteva più, anche perché io qui ho raccontato alcuni fatti che lui commise, ma ne fece di ogni. E fino a quel mattino il paese aveva custodito Luchettino, ma ora non se ne poteva più. E decisi che avrei parlato con la figlia e l’avrei convinta a prendersi maggiore cura del padre, perché il paese era stanco di prendersene cura. Eravamo seduta sulla panchina di fronte al comune e il suo edificio si staglia in alto squadrato e fascista, quasi come se fosse gigantesco, ma in verità è la prospettiva che gioca un furbo tiro allo sguardo, perché la piazza è in pendenza e la panchina è in fondo a questa, mentre l’edificio comunale è in alto. Comprai una bottiglietta d’acqua frizzante al bar alle nostre spalle – il bar dove i dipendenti del comune passano gran parte delle loro pregne mattinate lavorative – bar che tutti in paese chiamano semplicemente bar del comune. Mentre sollevava la bottiglia e permetteva al sole di penetrarla coi suoi raggi ebbi il tempo di osservare il suo profilo ruvido, la sua pelle che sembrava cuoio, era un essere intristito dal tempo, ma anche da quella malinconia che coglie uomini e donne all’approssimarsi di una certa età. Attendemmo insieme l’arrivo della figlia. E fu durante quell’attesa che mi domandò, ancora nel nostro dialetto, perché Luchettino calmo parlava un italiano aggiustato nel tempo da tante buone letture, invece Luchettino arrabbiato parlava il dialetto acquisito fin dall’infanzia e arricchito nel tempo dalla campagna, da quella terra stessa umida che così come fa nascere pomodori, zucchine, melanzane, fa nascere pure quelle parole che hanno il gusto del luogo che le ospita e che le utilizza. La lingua, ma ancor di più il proprio dialetto, è ciò che ci fa sentire veramente a casa. Immaginiamo di partire per anni, di rientrare poi in quel nostro nido d’infanzia e scoprire che non tutti i vecchi sono morti e non si parla più il dialetto, scommetto che si fa fatica a sentirsi veramente a casa. Cosa sarebbe il natale senza la strina; cosa sarebbe l’autunno senza i ruseddre; cosa sarebbe l’uomo senza la propria casa, senza le proprie tradizioni. Perché se il più grande bene è viaggiare e aprire la mente all’altro, l’altrettanto più grande bene è la conservazione del proprio posto nel mondo.

Comunque, senza guardarmi in faccia mi disse:

«Ma cumu va ca a tia ancora un t’hanno cangiatu?»

E gli ho risposto davvero, cercando di immaginare le sue domande non come se fossero il prodotto di un vecchio in demenza senile, ma come se fossero il prodotto del più grande filosofo del nostro tempo, o meglio: il prodotto della saggezza che nasce dalla follia, perché forse c’è più conoscenza nella demenza, o è nella demenza che si riscopre il vero genio.

Gli ho detto:

«Forse sono ancora io perché ho trent’anni, tanti studi alle spalle, tanti viaggi in giro per il mondo, e ancora non ho nessuna collocazione nel mondo. Ancora non sono definito, so chi sono ma non so dove devo stare. Forse è il posto in cui svolgi il tuo ruolo sociale che attua la sostituzione. Esempio: i politici fino a quando non sono al governo sembrano dei grandi politici, perché quando non sono al comando sono realmente loro, quando poi vi salgono vengono cambiati con i loro cloni, ma è il luogo stesso che attua la sostituzione. Scommetto che gli impiegati precari del comune sono ancora loro…»

Io non so se gli piacque quella risposta perché non mi disse niente e la sua faccia non mutò espressione, rimase rigida e triste. La figlia arrivò qualche minuto dopo. Quel che so è che a me piace questa risposta, ma non dovrebbe piacermi. La figlia di Luchettino avrà sessant’anni, lavora fuori in città, è un’avvocatessa molto brava e stimata. Chissà se lei è ancora lei.

Parlare o tacere su Gaza. Scrittori e artisti alla prova del genocidio

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Di Andrea Inglese

 

Quando quello che sta succedendo sarà abbastanza lontano nel tempo, tutti si chiederanno sbigottiti come mai si è permesso che accadesse.

Omar El Akkad

 

Gaza è crollata sulle norme di un diritto internazionale costruito pazientemente per scongiurare la ripetizione delle barbarie della Seconda Guerra mondiale.

Jean-Pierre Filiu

 

Le corporazioni di artisti, scrittori, docenti universitari: un caso di studio

Il comportamento intellettuale che le corporazioni di artisti, letterati e professori universitari, in occidente, hanno avuto in seguito al 7 ottobre di fronte allo sterminio della popolazione palestinese di Gaza costituisce e costituirà un caso di studio sociologico per le generazioni future. Nella gerarchia dell’infamante accusa di complicità al genocidio[1] dei palestinesi queste corporazioni si situano al terzo posto per grado di responsabilità. Il primo posto lo occupano solidamente la maggior parte dei governi occidentali e le istituzioni internazionali come l’Unione Europea. Qui c’è poco da studiare: la loro consapevole e volontaria inerzia è sotto gli occhi di tutti, così come le loro responsabilità morali e politiche. Al secondo posto vi è la categoria dei giornalisti e degli opinionisti (occidentali)[2]. Molti di loro collaborano attivamente o hanno collaborato almeno fino a date recenti, a rendere plausibile la propaganda del governo israeliano. Altri, una minoranza, hanno deciso abbastanza presto di farsi canale di diffusione dei giornalisti palestinesi, gli unici a cui era consentito essere testimoni, a rischio della loro vita, dei massacri e delle distruzioni di Gaza. Infine, al terzo posto, i portavoce di una sedicente “coscienza critica” o dei sedicenti valori dell’”umanità”: artisti, scrittori, studiosi. Più questi portavoce si trovavano prossimi o interni a una zona di “ufficialità”, meno, nella maggior parte dei casi, si sono espressi chiaramente e tempestivamente in pubblico. Per parte mia, ho guardato a questo fenomeno con un misto di disincanto e d’incredulità. Ciò che conoscevo della storia europea, e del ruolo che le cerchie artistiche e intellettuali vi hanno giocato, mi portava ad attendermi un certo comportamento, ma nello stesso tempo lo osservavo incredulo. Come ora osservo incredulo il mutamento di tendenza, palpabilissimo sui social network.

 

La ragioni del silenzio

Perché – ci si chiede spesso negli ultimi tempi soprattutto sui social – gli scrittori, gli artisti, gli intellettuali (non si usa quasi più), i docenti universitari non parlano di Gaza, non prendono posizione su Gaza, non si esprimono contro la politica Israeliana, non denunciano il genocidio? Un genocidio in atto o, per i più prudenti, il rischio di genocidio in atto, dovrebbe riguardare tutti coloro che hanno l’occasione di prendere la parola in pubblico. Soprattutto se appartengono a paesi, i cui responsabili politici potrebbero intervenire sulla situazione, facendo pressione su Israele, bloccando la vendita di armi, ecc. Soprattutto se in qualche momento della loro vita pubblica o persino privata si sono dichiarati sensibili a questioni come il rispetto degli esseri umani in quanto tali, indipendentemente dalla loro origine etnica o dalle loro pratiche religiose o dalle scelte politiche, ecc. Ci sono, in teoria almeno, diverse ragioni perché gli scrittori, artisti, ecc. “progressisti”, avrebbero dovuto reagire pubblicamente, o almeno sulle loro bacheche social, di fronte a quanto abbiamo visto accadere a Gaza già nei mesi immediatamente seguenti al 7 ottobre. Dico, in teoria, perché da un po’ di anni a questa parte, e specialmente negli ultimi due anni, tutte le convinzioni, le opinioni sul mondo, che i “progressisti” avevano sono state messe a dura prova. I progressisti, infatti, hanno costruito le loro idee non su ingenue concezioni del mondo, ma su principi che si trovano anche alla base delle carte istituzionali dei paesi a cui appartengono, alla base di valori trasmessi dai loro sistemi pubblici d’istruzione, alla base delle istituzioni nazionali e internazionali che, soprattutto in occidente, rivendicano orgogliosamente una loro diversità, se non superiorità, rispetto a principi che agiscono in altre culture, in altri paesi, in altri regimi non-occidentali. Ebbene, un movimento profondo che tocca simultaneamente le mentalità dei cittadini occidentali come le loro istituzioni, le forme del discorso come le forme di vita, ha creato una divergenza sempre più evidente tra quello che i regimi politici e istituzionali fanno, da un lato, e quello che, fino a un po’ di tempo fa, avrebbero dovuto fare, in quanto eredi di tutta una serie di principi “progressisti”[3]. Un marxista ribatterà: “Ma questa divergenza c’è sempre stata!” È probabilmente vero, anche perché i principi “progressisti” di un marxista non sono gli stessi di un socialdemocratico, ecc. Ma la novità di questa fase storica, è che la divergenza non avviene in seno a concezioni concorrenti di un modello sociale, ma proprio all’interno del DNA progressista comune a tutto il mondo cosiddetto occidentale (e si consideri l’arco che va dal Nord America al Giappone), almeno dal dopoguerra in poi.

Questa divergenza, per chi ne ha preso consapevolezza, dovrebbe di conseguenza riguardare anche le modalità di comportamento di quella provincia ristretta, ma non irrilevante, costituita dalle cerchie di artisti, scrittori, ecc., nei vari paesi occidentali. Anche qui le tendenze di fondo si sono fatte sentire. Anche qui “l’incrollabilità” di determinati principi è divenuta molto relativa: più del principio conta il consenso, conta la fluttuante opinione pubblica, che incide sul pubblico di questi stessi artisti e scrittori. Sono universi di valore divergenti, funzionanti secondo logiche diverse, che sono giunti violentemente a confronto. È più urgente difendere il rispetto della persona umana o il consenso del pubblico nei confronti della propria opera, eventualmente del proprio “brand” autoriale? Credo che potremmo azzardarci a formulare una legge non gloriosa, ma abbastanza realistica: “più il capitale d’interesse e simpatia del pubblico” è grande per un autore – e, quindi, più le sue prese di posizione pubbliche hanno visibilità –, meno questo autore si sentirà autorizzato a rischiare una perdita di questo capitale, formulando posizioni di minoranza, facilmente contestabili rispetto alle tendenze dell’opinione pubblica. I principi che riguardano il rispetto della persona umana sono senza dubbio condivisibili, ma oggi persino il presidente della superpotenza mondiale li mette in discussione. Quindi perché mai la responsabilità di difenderli dovrebbe ricadere sulle fragili spalle dell’autore, che si è guadagnato con grande fatica un capitale di consenso tra i lettori? Logiche neoliberiste di incremento del capitale simbolico e logiche umanistiche di difesa di “astratti” valori universali si combattono, con esiti che possono andare dal tiepido compromesso alla resa più incondizionata di fronte alla concretezza dei vantaggi forniti dalla preservazione del consenso.

Ma se anche ci basiamo, con occhio sociologico e retrospettivo, sul comportamento di artisti, scrittori, intellettuali nel corso del Novecento, non c’è nessuna ragione per pensare che queste cerchie della società, di fronte a scelte personali difficili, siano più propense a prendere rischi rispetto ad altre cerchie sociali. Anzi, ogniqualvolta queste persone, in virtù delle loro competenze e talenti, hanno acquisito ruoli eminenti (“ufficiali”), appare più evidente la loro incapacità di metterli in pericolo. Più sono celebri e inseriti nelle diverse istituzioni culturali, più autori, artisti e intellettuali hanno qualcosa da perdere, andando contro le opinioni della maggioranza o di governi poco democratici se non apertamente autoritari. Quindi il loro “conformismo” ha fatto scuola. È un dato, purtroppo largamente acquisito, che si è ampiamente verificato anche oggi in occasione del conflitto tra Israele e la popolazione palestinese. Conflitto che, nato come reazione a un terribile attacco terroristico, si è poi trasformato in una rappresaglia militare contro una popolazione intera, e ha proseguito in questa direzione, imboccando la strada macabra e infame di uno sterminio di popolo.

Insomma, io stesso in gioventù, leggendo Sartre, Fanon, Anders, Fortini, ci ho creduto. Ma non ci credo più da un pezzo: artisti, intellettuali, accademici, scrittori non sono di per sé la coscienza di un bel nulla, certamente non della società. Sono, semmai, soggetti più di altre categorie sociali, al conformismo, con tutto quel condimento d’ipocrisia e viltà che esso si porta dietro. Questo non è un fatto di cui scandalizzarsi – lo sapevamo –, ma un dato di cui ancora una volta prendere atto.

 

Per chi era inevitabile parlare

Quanto scritto fino a ora, non vuole però sostenere che tutti gli scrittori e artisti sono conformisti, né che la loro voce è irrilevante. In Occidente, dagli Stati Uniti all’Europa, e persino all’interno di Israele, si sono levate tempestivamente voci per denunciare quello che stava accadendo a Gaza, per situarlo in un preciso contesto storico, per mostrare come esso contrastasse con la maggior parte dei principi che dovrebbero cementare le nostre società. Queste voci costituivano, però, nel coro mediatico, una minoranza, e in molti casi hanno subito attacchi molto forti, anche perché giungevano da persone interne a una certa “ufficialità”. Assieme a queste voci si sono fatte sentire, accompagnate da azioni di vario tipo (manifestazioni, presidi, occupazioni), quelle di coloro che non avevano né arte né parte: gli studenti liceali e soprattutto universitari. E in modo inequivocabile gli studenti senza arte né parte, con la loro voce anonima, hanno dato una lezione ai loro padri, alle grandi firme del mondo accademico. “Ma come – dicevano questi studenti – ci avete rintronato le orecchie dalle scuole elementari con i valori della pace, dell’uguaglianza, della democrazia, dell’autonomia dei popoli, della pericolosità del razzismo, della sacralità dei diritti umani, e ora di fronte a bombardamenti di case, luoghi religiosi, scuole, università, ospedali, campi profughi, civili, fate finta di niente? Dite che tutto questo è legittimo, tollerabile?”

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Provo a parlare ora al di fuori della “generalità”, per aggiungere una riflessione che tenga conto anche della mia diretta esperienza personale. Io faccio parte di quelli che hanno sentito l’esigenza di parlare molto presto di quanto si stava delineando all’orizzonte di Gaza, in seguito al 7 ottobre. Ho deciso di farlo pubblicamente, nel modo più inequivocabile possibile, ossia su un blog pubblico, e non solo sulla mia bacheca social. Non faccio parte di nessun ufficialità letteraria, pur essendo scrittore, né di nessuna ufficialità accademica, pur essendo un ricercatore (senza cattedra). Quindi non ho meriti particolari per averlo fatto. Insomma, non mi muovevo in una zona di “grande visibilità”. L’unico merito che rivendico è quello della coerenza. Sono uno scrittore che sostiene l’importanza di una visione politica sul mondo, anche se questo non si traduce per forza in qualche forma riconoscibile di letteratura impegnata, e quindi era inevitabile che quanto stava succedendo a Gaza m’interpellasse, e mettesse in secondo piano progetti e scritture “letterarie”. Con questo non intendo dire che la scrittura letteraria dovrebbe tacere di fronte al genocidio di Gaza; dico solo che, per me, era inevitabile scrivere su Gaza, perché c’era qualcosa di abnorme in corso. E siccome la scrittura è per me una forma di esplorazione, di ricerca (anche documentaria) e di tentativo di comprensione, era necessario farlo, per uscire dalla paralisi intellettuale e dall’effetto oscurante della propaganda mediatica.

La difficoltà di scrivere su quanto stava accadendo a Gaza, già nelle settimane seguenti al 7 ottobre, credo che sia dipesa innanzitutto dall’impossibilità di abbordare il discorso su un piano esclusivamente umanitario. Qualcuno ha anche tentato di farlo, ma con scarsa efficacia analitica. Il conflitto tra Israele e Gaza esigeva, come esige tutt’ora, di essere affrontato attraverso una prospettiva politica, ossia di parte. Questa prospettiva non implica la negazione dei principi “progressisti” di cui ho parlato precedentemente, né di quelli del diritto internazionale, che quei principi tentano di rendere concreti nella realtà. La prospettiva politica semplicemente richiede la consapevolezza di entrare in un dibattito in cui, pur non essendo né palestinesi né israeliani né membri delle due diaspore (nel mio caso), quello che si dice, prende partito inevitabilmente, e si presta quindi alla contestazione e all’attacco di uno dei soggetti in causa. Accettare di parlare in una prospettiva politica significa perdere la neutralità, che un giudice super partes potrebbe avere, e significa perdere quel consenso che una semplice difesa di un astratto principio morale garantirebbe. E non solo l’autore di un tale discorso si rende vulnerabile rispetto a contestazioni e attacchi di qualcheduna della parti coinvolte nello scontro, ma anche si espone al proprio errore, insito in ogni risposta politica.

Nel primo pezzo che ho dedicato, qui su Nazione Indiana, agli eventi di Gaza (16 ottobre 2023), scrivevo, ad esempio, questa frase: “Israele potrebbe al limite ammazzare tutti i membri di Hamas, e con essi un numero enorme di “vittime collaterali” innocenti, ma non potrà comunque sterminare tutti i palestinesi. Questo gli stessi cittadini israeliani (la maggior parte di essi) alla fine non lo permetterebbero”. Non so cosa significhi “alla fine”, ma è chiaro come sia stato ingenuo e poco realistico. Per più di un anno e mezzo, solo una minoranza coraggiosa di israeliani si è opposta veramente alla politica di sterminio che il governo ha reso sempre più evidente con il passare di mesi e la crescita delle vittime civili.

Vengo ora alle conclusioni. Scrivere pubblicamente contro un’opinione di maggioranza, e in un contesto di propaganda bellica, comporta sempre dei rischi per chi lo fa. Ma questi rischi sono proporzionali alla visibilità, all’ufficialità di chi scrive. La bancarotta morale e politica degli Stati Uniti, dell’Europa e di tutto l’Occidente è non solo palese, ma irreversibile. In questa bancarotta, sono coinvolti anche i settori culturali, oltreché quelli politici e giornalistici. Per quanto riguarda artisti, scrittori, studiosi, più vergognosi sono stati i silenzi, le prudenze, i ritardi, di coloro che, in tempi ordinari, rivendicano una visione politica della scrittura o, comunque, si rifanno spesso ai principi “progressisti”, largamente condivisi. Non biasimo né gli scrittori impolitici né quelli radicalmente pessimisti, che non credono nei principi “progressisti”, senza per questo aderire a qualche forma di fascismo o di ideologia reazionaria. Il loro silenzio, condivisibile o no, è quanto meno coerente. Lo è molto di meno quello di coloro che amano parlare di “morale”, “umanità”, “bellezza”, ecc., o di temi più politici come “uguaglianza”, “classe”, “femminismo”, “ecologia”, ecc.

È molto interessante, infine, da un punto di vista sociologico, vedere l’evoluzione delle opinioni e dei comportamenti intellettuali di maggioranza. A partire da quando, la gente, sui social, comincia davvero a interessarsi al destino dei Palestinesi e alle malefatte dell’esercito israeliano? A partire da quale momento, da quale sommovimento collettivo in parte inconsapevole si mettono like su certi interventi e si condividono certi articoli?

Sarebbe interessante studiare le bacheche di scrittori e scrittrici “ufficiali”, ma anche di quelli più “politici”, per vedere come il discorso “social” è progressivamente evoluto. Io ho fatto una piccola ricognizione sulla mia bacheca Facebook, per quel poco che un tale conteggio abbia di significativo.

Il mio primo articolo sulla vicenda è del 17 ottobre, e nasce come risposta a un articolo di Paolo Giordano apparso il 9 ottobre sul “Corriere della Sera”. S’intitola La tentazione di decontestualizzare e il dovere della narrazione. Sul conflitto tra Israele e Hamas. Giordano, dalla sua posizione “ufficiale” di romanziere popolare e di editorialista del “Corriere”, fornisce un tipico tassello al discorso di propaganda: la strage di civili realizzata da Hamas è il colmo dell’orrore, e non ha alcun senso inserirla in un contesto storico-politico. (Più di un anno dopo, ho ritrovato la firma dello stesso Giordano sotto un appello formulato da Paola Caridi e altri, dal titolo “L’ultimo Giorno di Gaza 9 maggio – L’Europa contro il Genocidio”. Cambiare idea e posizione è spesso un buon segno, ma chissà se, nel caso di Giordano, ciò si è accompagnato a un’autocritica pubblica.)

Comunque, pubblicato sulla mia bacheca FB, il post riceve 39 like e 10 condivisioni. Un’adesione stranamente generosa, rispetto ad altri articoli miei linkati nei mesi successivi. 15 dicembre 2023, condivido un importante articolo di Mediapart sulle caratteristiche specifiche del colonialismo israeliano, un articolo che raccoglie testimonianze di vari specialisti, e che presenta la questione come sottoposta a dibattito; come al solito accompagno l’articolo con un commento per contestualizzare, e con la traduzione di un passaggio: nessun like. 8 dicembre 2023, condivido un mio lungo articolo apparso su NI intitolato La trappola e il diniego: riflessioni a margine della guerra; 6 like. 1 maggio 2024, condivido un altro mio intervento La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca; 4 like. 17 dicembre 2024, è la volta di Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler;16 like e 1 condivisione. In tutt’altro contesto di “dibattito social”, uno dei miei ultimi post molto informativi sulla questione (l’annuncio di Macron di riconoscere la Palestina come Stato di fronte all’ONU) ha ricevuto 104 like e 10 condivisioni.

Certo, sappiamo ormai che Facebook in particolare ha operato fino a una certa data lo shadowban, ossia una politica di moderazione non esplicita, diretta a rendere meno visibili certi contenuti. Ma trovo comunque interessante riflettere sul modo in cui la “bolla” culturale (scrittori, artisti, ecc.) ha funzionato durante tutti questi mesi, e in termini non solo di consapevoli scelte individuali, ma anche di meccanismi collettivi meno evidenti.

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Immagine interna: manifestazione di studenti a Philadelphia per il cessate il fuoco.

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NOTE

[1] Questo discorso avrebbe senso anche se sostituissimo il termine “genocidio” con “massacri a tappeto” e “crimini contro l’umanità”. Io per primo, senza mai denigrarne l’uso, sono stato riluttante a impiegarlo nel suo senso “giuridico”, per semplice rispetto nei confronti della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa da parte dei nazifascisti. Dopo che il parlamento israeliano ha votato a fine ottobre (2024) le leggi per smantellare le attività dell’UNRWA a Gaza, cominciando a strangolare il già limitato arrivo di cibo, medicinali e acqua, ne faccio uso convintamente.

[2] Si potrebbe benissimo fare un discorso sull’inerzia e il cinismo del mondo arabo, ma non ne faccio parte e lascio a chi lo conosce meglio di me questo compito.

[3] Ho parlato di questo movimento di fondo, che giunge a compimento con l’era Trump 2, attraverso le analisi realizzate già venticinque anni fa da uno studioso di formazione marxista come Giovanni Arrighi: Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo | NAZIONE INDIANA