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Quattro modi per negare un genocidio: Gaza e la guerra delle parole

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di Riccardo Capoferro

  1. Introduzione

Quando, sia pure di sfuggita, la nostra premier ha chiamato quel che si sta consumando a Gaza “genocidio”– unendosi così ai molti italiani che lo considerano tale (secondo YouTrend il 63%)[1] – l’evidenza è parsa così flagrante da prevalere sulla Realpolitik[2].

Ma l’evidenza non è incontestata. Dal giorno in cui la parola “genocidio” è stata associata ai fatti di Gaza, si è messa in moto una specie di polizia terminologica, che molto alacremente (mentre le bombe continuavano a cadere e i palestinesi a morire) ha inchiodato gli accusatori di Israele alle loro responsabilità semantiche.

“Genocidio”, ci è stato detto, non è la parola giusta, non c’è certezza che di questo si tratti. “Genocidio” è, infatti, una parola politicizzata, polarizzata, permeata di narcisismo etico e ansia di demonizzazione, se non di un vero e proprio sentimento antisemita; spesso, infatti, esprimerebbe la volontà perversa di azzerare la memoria della Shoah accusando lo stato ebraico del crimine dei crimini; sarebbe, dunque, una parola carica di aggressività, che fa degenerare il dibattito, fomentando un muro contro muro politicamente sterile.

Ragionare su questi argomenti, le loro logiche di fondo e i loro aspetti problematici – a cominciare dalla loro inconsistenza giuridica – può essere utile: può servire a chiarire importanti sfumature dell’idea di “genocidio”, a risalire alle sue radici storiche, e a identificare con più chiarezza le situazioni in cui è indispensabile chiamarla in causa. Può offrici, in particolare, l’opportunità di evidenziare un fattore chiave dei processi genocidari: il fattore tempo (la cui importanza è tanto ovvia quanto trascurata).

Quali sono state, dunque, le logiche della negazione? Ne identificherò quattro tipi – che spesso si intrecciano – e di ciascuno mostrerò i risvolti problematici. Prima di iniziare, però, sono necessarie due note di metodo: 1) l’elenco potrebbe essere più lungo, perché idee legate a un certo argomento sono spesso sviluppate e sostenute indipendentemente, ma ho cercato di puntare all’essenziale; 2) le mie considerazioni non si addentreranno nel fondo oscuro della psiche individuale e collettiva, tra le radici profonde della negazione. Dietro al discorso sul “genocidio” a Gaza c’è stato a volte l’onesto desiderio di far ordine; ma il tono più distaccato può nascondere pulsioni viscerali: islamofobia, manie istrioniche da bastian contrario, nazionalismo di ritorno, oppure, più semplicemente, memorie familiari e legami affettivi, se non – e questo merita il più grande rispetto – traumi terribili. Ogni posizione lascia trasparire molto altro, ma va valutata di per sé.

Cominciamo dunque con la prima tipologia, quella giuridicamente più avveduta: i letteralisti.

 

  1. I letteralisti

Secondo alcuni, i fatti di Gaza costituirebbero un crimine di guerra, non, in senso stretto, un genocidio. Mancherebbe, infatti, un intento dichiarato. Non bastano le parole cariche di odio di politici, militari e civili israeliani, a cominciare dalla famosa dichiarazione in cui Netanyahu allude minacciosamente a un passo del Deuteronomio: parole con cui si annuncia una violenza sterminatrice e con cui i palestinesi vengono sviliti e deumanizzati secondo una logica di matrice razzista. Tutto questo non basta: i fatti di Gaza difetterebbero infatti di una caratteristica essenziale inclusa nella convenzione dell’ONU del 1948. A mancare sarebbe un “intento” esplicito: un “dolus specialis” affidato a documenti ufficiali, che possa essere ben accertato in sede legale. Questa posizione fa riferimento letterale alla definizione del ’48: “genocide means any of the following acts committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group”[3].

Il problema dell’intento è stato in effetti sollevato da più parti, anche da esperti di diritto internazionale, che in vista di una sentenza hanno ribadito l’importanza di prove certe. Dato che, come ha ricordato lo storico Omer Bartov, le caratteristiche dei genocidi elencate dalla convenzione sono effettivamente riscontrabili a Gaza, l’accertamento dell’intento sembrerebbe, secondo questo punto di vista, configurarsi come una prova regina[4].

Ma è proprio sul piano giuridico che la posizione letteralista è problematica. Nell’invocare la definizione del ’48 c’è il rischio di dimenticarne la storia e di svincolarla dalle sue applicazioni, che hanno avuto cospicue ricadute sul suo significato, perché il senso di una legge deriva anche dalle interpretazioni e le sentenze che ne hanno rinegoziato i margini. Richiamando le sentenze della Corte internazionale di giustizia, B’Tselem – l’organizzazione israeliana che documenta la violazione dei diritti umani nei territori occupati – ci ha tenuto, non a caso, a evidenziare che l’intento può essere inferito dalla condotta dello stato o delle forze che commettono l’atto criminoso, e non necessariamente deve essere veicolato da un ordine scritto[5]. È poco realistico, del resto, pensare che nel XXI secolo, dopo i lager nazisti, un governo protocolli e pubblicizzi i suoi piani genocidari, riempiendo circolari e veline e distribuendo direttive agli esecutori materiali del massacro.

Se l’intento genocidario c’è si può inferire dai fatti[6]. Si può inferire, per quanto riguarda Gaza, a partire dai dati compatibili con la convenzione del ’48. Non solo dal numero esorbitante di vittime civili tra cui molti bambini; non solo dall’identificazione, permeata di odio simile a quello razziale, dei palestinesi di Gaza in quanto gruppo da annientare; non solo dall’occupazione di Gaza, che gli esponenti della destra messianica vorrebbero ricolonizzare; anche dalla “distruzione sistematica a Gaza delle abitazioni come pure di altre infrastrutture – edifici governativi, ospedali, università, scuole, moschee, siti del patrimonio culturale, impianti di trattamento delle acque, aree agricole e parchi”[7], che rende improbabile la ripresa della vita dei Gazawi sul territorio.

Il caso di Gaza non è assimilabile, certo, a contesti in cui l’intento genocidario è stato espresso più o meno chiaramente (anche se i nazisti, con le loro Endlösung der Judenfrage, Evakuierung nach Osten e Sonderbehandlung erano maestri dell’eufemismo). Richiede un modello di comprensione delle azioni e delle decisioni più flessibile; più adatto, cioè, alle apparenze giuridiche che, dopo il 1945, ogni stato che voglia dirsi “occidentale” è portato a rispettare.

Questo modello si può trovare, più che nella convenzione ONU, nel lavoro che l’ha preparata e di cui essa è in parte il precipitato; lavoro che la riflessione giuridica sul genocidio non ha mancato di elaborare. Si può trovare, cioè, negli scritti del giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, colui che ha coniato la categoria di “genocidio”.

Lemkin dedicò molte energie alla storia dei genocidi. Riteneva infatti che ci fosse un nesso tra l’Olocausto e gli eccidi coloniali e riteneva, soprattutto, che le casistiche genocidarie fossero molteplici. Le sue riflessioni sull’intento sono molto utili. Lemkin pensava che l’intento non dovesse necessariamente essere esplicito, e che potesse anche non tradursi in un’azione diretta.

Il genocidio poteva essere messo in atto anche creando le condizioni affinché si realizzasse. Discutendo le caratteristiche del regime genocidario dei lager, Lemkin scrive che la responsabilità del comandante di un lager per la morte dei prigionieri esisteva anche qualora essa non fosse decretata, ma fosse resa altamente probabile, quindi chiaramente prevedibile, dalle condizioni di vita a cui i prigionieri erano sottoposti. In quel caso, il comandante di un lager era colpevole in quanto “[he] does not object in his mind and agrees with the eventuality of such destruction. In the criminal law of civil law countries such an intent is called ‘dolus eventualis’”[8]. Secondo Lemkin, dunque, l’intento si esplicherebbe non solo nell’eliminazione diretta di un gruppo, ma anche nel “dolus eventualis”; nella creazione di condizioni che possano portare a tale eliminazione.

Concordando con Lemkin[9], molti giuristi contemporanei hanno ripreso la nozione di “dolus eventualis”. Il giurista William A. Schabas – un’autorità in materia – non la chiama direttamente in causa, ma teorizza una casistica equivalente. Per provare le responsabilità di un genocidio, scrive Schabas, “it might be sufficient for the prosecution to demonstrate that the accused was reckless as to the consequences”[10]. Tante singole operazioni militari dalle prevedibili conseguenze genocidarie implicano, di fatto, la consapevolezza dei propri atti.

 

  1. I puristi

I puristi sono coloro che vedono nel genocidio un fine a sé stante, non inquinato da altri fini. Spesso la prospettiva purista è un corollario di quella letteralista e le due sono quasi intercambiabili. Rifacendosi alla convenzione, i puristi sostengono che, oltre a essere esplicito, l’intento debba avere come fine il genocidio stesso.

Mettiamo un caso immaginario. Un malvagio imperatore galattico non tollera più il pianeta X perché pullula di ribelli che danno all’impero filo da torcere; dà quindi ordine di spazzarne via con un gigantesco cannone di antimateria quasi tutta la popolazione e le infrastrutture – case, ospedali, università e templi inclusi. L’ordine, trasmesso oralmente al grande ammiraglio delle forze imperiali di stanza nello spazio prospiciente a X, è “spazzare via il focolaio di ribellione”: sottintende dunque che anche gli innocenti debbano essere eliminati e che occorra fare più vittime possibile dato che X potrebbe produrre nuovi ribelli. Insomma, l’intera popolazione di X, presente e futura, è chiamata in causa, perché evidentemente la “cultura della ribellione” di X dà più di un grattacapo all’impero. Ma secondo il purista l’imperatore e i suoi sottoposti non hanno commesso un genocidio. Dovevano avere come fine il genocidio in sé e dichiararlo a chiare lettere su un comunicato imperiale indirizzato agli operatori del cannone di antimateria.

Questa posizione porta in luce un elemento che spesso sfugge ai dibattiti riguardanti il genocidio: il movente. Non di rado si parla del genocidio come di un gigantesco ingranaggio pluriomicida svincolato da atti pregressi e finalità pratiche, motivato solo da una differenza etnica o razziale. La nazione o il gruppo genocida punterebbe al genocidio stesso.

Ma come la maggior parte dei crimini, il genocidio ha un movente. Anzi, i fatti ci insegnano che nel perpetrare un genocidio si persegue un vantaggio, nonostante questo dato sia spesso stato occultato dalle stesse ideologie usate a sua giustificazione, come le ideologie naziste e coloniali, incentrate sulla difesa della purezza razziale.

Per esempio, tra il 1915 e il 1917, mentre gli armeni venivano sterminati, le loro abitazioni, le loro attività agricole e commerciali, le loro chiese e gli altri loro beni venivano requisiti. Queste proprietà venivano spesso redistribuite a turchi musulmani, alleati curdi o ad altre popolazioni musulmane. Il tutto rientrava in una politica di “turchizzazione” delle province orientali, dove gli armeni avevano vissuto per secoli.

Sebbene tragga linfa da, e si ammanti di giustificazioni ideologiche che esprimono il bisogno di imporre con la violenza un’omogeneità etnica e razziale, il genocidio è stato quasi sempre funzionale all’occupazione di territorio. E nei casi in cui lo “spazio vitale” non sia stato dichiaratamente in gioco, la condotta genocidaria, con tutto il suo apparato di demarcazioni, ha comunque assolto a una funzione. È servita a eliminare o indebolire un gruppo storicamente percepito come antagonistico e in tal modo a rinforzare la coesione materiale e morale del gruppo che l’ha messa in atto e, inscindibilmente, il suo radicamento territoriale. Quest’aspetto si riscontra anche nelle persecuzioni razziali naziste, che come si sa furono in larga misura un fattore di coesione, funzionale a una mobilitazione di massa[11].

L’intento si desume, quindi, non solo dai danni biologici, culturali e infrastrutturali inflitti a una comunità; si desume anche dalla presenza di un movente[12]. Non importa quanto folle tale movente paia: nella follia può esserci del metodo. Le affermazioni deliranti di Hitler nel Mein Kampf e della propaganda nazista descrivono una necessità precisa, anche se non ancora sfociata in un piano di annientamento, e lasciano trasparire una comprensione profonda di cosa muoveva (e muove) le masse, influenzata dalla lettura attenta che Hitler fece di Gustave Le Bon[13].

Come ricorda William A. Schabas, la redazione della convenzione del ’48 fu preceduta da un’intensa riflessione sul movente. Molti stati volevano che il testo della convenzione lo menzionasse esplicitamente. E il movente figura nella definizione di uno dei crimini più vicini al genocidio, la persecuzione, le cui caratteristiche sono descritte nello Statuto di Roma (1998) nel paragrafo successivo a quello dedicato al genocidio[14]. E c’è di più. Sia nelle discussioni che condussero alla convenzione sia nelle riflessioni successive il movente è stato considerato un elemento da includere tra le prove, poiché consente di inferire l’intento genocidario. Scrive Schabas: “evidence of hateful motive will constitute an integral part of the proof of existence of a genocidal policy and therefore of a genocidal intent”[15]. La prova dell’esistenza di un movente che si accompagna a odio costituisce parte integrante della prova dell’esistenza di una politica genocidaria, quindi di un intento genocida.

Insomma, la mens rea e/o il dolus specialis, spesso non manifestati, si desumono dal contesto. Ma secondo i puristi le prove sono irrilevanti: bisogna solo cercare il documento dell’intento genocidario – un documento che ovviamente è impossibile trovare.

 

  1. I decontestualisti

L’importanza del movente ci porta a mettere a fuoco un’ulteriore categoria. Anche questa si sovrappone ai puristi e i letteralisti, ma non si produce in argomenti giuridici, limitandosi a dire che non c’è genocidio in atto, che Israele si sta solo difendendo con il fine del tutto ammissibile di disarmare Hamas, e – a volte – che l’IDF sta facendo tutto ciò che è in suo potere per contenere le vittime civili. Chiameremo i suoi rappresentanti “decontestualisti”.

Allontanando lo sguardo dal contesto in cui gli atti di Israele hanno preso forma, come pure da aspetti macroscopici dello specifico contesto di Gaza, il decontestualista ha creato a proprio uso e consumo un Israele immaginario: attento, professionale, chirurgico, protocollare, asettico, molto “occidentale”, che si limita a esercitare il suo diritto a difendersi. Ha sposato lo slogan israeliano secondo cui l’IDF è l’esercito più morale del mondo. Di fronte all’evidenza i decontestualisti hanno ammesso, in alcuni casi, che Israele ha esagerato, ma per solo colpa dei brutti ceffi al governo e in particolare di Netanyahu (le cui tendenze da autocrate faranno buon gioco quando ci sarà da trovare un capro espiatorio).

I decontestualisti possono essere divisi a loro volta in sottocategorie. C’è il decontestualista che se ne infischia della Storia e valuta gli eventi come se stesse commentando una partita di Champions League (“Hamas ha attaccato e bisogna contrattaccare!”) e quello che conosce la storia, a volte anche molto a fondo, ma ne seleziona larvatamente i dati, assecondando le sue pulsioni e i suoi preconcetti. Questo tipo di decontestualista produce una finta visione d’insieme, perché non lega un processo all’altro e così facendo oscura i pattern criminosi che hanno preparato il terreno per il massacro in atto.

Quali siano i pattern criminosi è quasi superfluo dirlo, perché chiunque si sia interessato alla faccenda ha presente la situazione abominevole dei territori occupati e la traiettoria che se ne evince.

Si tratta – repetita iuvant – di una traiettoria dal marcato carattere coloniale, benché molti decontestualisti lo neghino. In Cisgiordania, infatti, ci sono “i coloni” e gli “insediamenti”, c’è una popolazione locale ridotta a uno stato di subordinazione, e Israele è nato da una migrazione collettiva che ha portato unilateralmente alla nascita di un nuovo stato, all’inizio sponsorizzata – guarda un po’– dalla più grande potenza coloniale del tempo (la Gran Bretagna). Se poi si guarda ai lavori degli studiosi che inquadrano Israele come un’espressione tarda e peculiare di “settler colonialism” (Martin Shaw, Patrick Wolfe, Lorenzo Veracini, Ronit Lentin e altri) emergono altre analogie con il colonialismo da insediamento statunitense o australiano – al quale, va da sé, il caso israeliano non è del tutto assimilabile.

Questa traiettoria si è espressa in un processo di pulizia etnica, una categoria che non ha valore giuridico, ma che descrive efficacemente i processi di occupazione del territorio e le sue derive genocidarie. Per distinguerla bisogna guardare, oltre che alle espulsioni di massa del ’48, a quel che si verifica dal ’67 nei territori occupati.

Come si sa, in Cisgiordania, occupata ma non annessa, è stata messa in atto una distruzione graduale – e per molti versi sadica – della società palestinese, con confische di terreno, vessazioni amministrative, demolizioni, esecuzioni extragiudiziali da parte di soldati dell’IDF, sequestri di persona etichettati come “detenzioni amministrative”, crimini militari non sanzionati, tortura, assalti ai villaggi palestinesi da parte dei coloni, i cui crimini (tra cui l’omicidio) restano per la maggior parte impuniti[16], discriminazioni che negano l’accesso a risorse essenziali come quelle idriche, la costruzione di muri, strade e posti di blocco che ostacolano la vita quotidiana palestinese e strangolano le comunità e, soprattutto, l’aumento e lo sviluppo di insediamenti israeliani. Il paradosso di un’occupazione senza annessione deriva, ovviamente, dalla base etno-nazionalistica dello stato di Israele: dalla concezione dei palestinesi come di un gruppo che non può essere assimilato come tale all’interno della comunità nazionale, quindi deve essere relegato all’interno di un bantustan, rimosso, o eliminato.

Questa traiettoria ha un vettore ideologico e demografico. La destra messianica israeliana sogna da tempo un “grande Israele”, è in crescita demografica e nutre il sogno di ricolonizzare Gaza[17]. Secondo un sondaggio di luglio, il 38.9% degli elettori israeliani sarebbero a favore dell’annessione e della ricolonizzazione di Gaza[18]. Sempre a luglio (il 24) la Knesset ha votato (71 a 13) una risoluzione (non vincolante) per l’annessione della Cisgiordania e una commissione del ministero della difesa ha da poco deliberato l’attuazione del progetto E1, stanziando fondi per la costruzione di nuovi insediamenti che dovrebbero spaccare in due la Cisgiordania e congiungersi a Gerusalemme Est[19]. Nelle ultime settimane, nonostante le proteste delle alte sfere militari e di una parte della società israeliana, Netanyahu ha deciso di occupare Gaza ed è circolata la notizia che stesse cercando paesi disposti ad accoglierne la popolazione.

Inoltre, si distingue una traiettoria dal marcato potenziale genocidario nel modo in cui Israele (potenza occupante) ha gestito, dal 2005, l’assedio di Gaza (territorio occupato): un processo in cui fanno spicco atteggiamenti riconducibili all’odio etnico e razziale – cose su cui i decontestualisti sorvolano o che giustificano. Dopo l’uscita da Gaza Israele ha risposto con ferocia crescente agli attacchi di Hamas, provocati anche da azioni israeliane, rifacendosi sulla popolazione civile, sull’economia e sulle infrastrutture di Gaza.

È uno snodo cruciale di questo processo l’operazione “Piombo fuso” del 2008/2009 – preceduta da “Prime piogge”, “Piogge estive” e “Nuvole d’autunno” e seguita da “Pilastro di difesa” e varie altre. “Piombo fuso” ha reso palpabile la tendenza di Israele all’eccidio su larga scala e il disprezzo istituzionalizzato della vita dei civili, ben rappresentato dall’espressione “falciare il prato”, divenuta comune tra i militari israeliani.

Per giunta, negli stessi anni c’è chi ha cominciato a considerare i civili di Gaza, minorenni e coltivatori di fragole inclusi, come terroristi tout court: l’identificazione è stata promossa, per esempio, da rabbini ultra-nazionalisti, mentre dei civili israeliani guardavano le esplosioni dalle alture come se si trattasse di una partita di cricket[20]. Il ricorso a rappresaglie sproporzionate fece già allora parlare molti osservatori di “genocidio”. (Tra loro c’è l’allora presidente dell’assemblea generale dell’ONU)[21].

A fronte di questi presupposti, e di un bombardamento a tappeto che falcidiava la popolazione civile, non bisognava essere Auguste Dupin per capire a cosa stesse tendendo Israele alla fine del 2023[22]. Ma il decontestualista ci invita, non di rado con tono pacato, a non trarre conclusioni affrettate. “Fermi tutti!” – dice – “non si usi a sproposito il termine genocidio, perché il discorso pubblico va mantenuto a un certo livello”. Anzi, ci rimprovera per la nostra indignazione, per la nostra rabbia, per il nostro moralismo, per la nostra ostentazione di santità, invitandoci, come fa lui, a guardare i fatti – mentre i fatti, purtroppo, lo contraddicono.

 

5.

E poi c’è l’eccezionalista. A questa posizione sono spesso riconducibili commentatori legati in vario modo al mondo ebraico, contrari all’idea che il massacro di Gaza possa essere definito “genocidio”. Benché corredate di dati storici, le idee dell’eccezionalista implicano una visione tendenzialmente antistorica e, molto spesso, una forte preoccupazione identitaria. L’eccezionalista è in genere impermeabile alle istanze progressive del diritto internazionale. Nella speranza di un confronto produttivo può però essere utile portare alla luce le sue logiche e il contesto più ampio del quale sono espressione.

L’eccezionalista ritiene che l’Olocausto sia stato un evento irriducibilmente unico. Non di rado, rifiuta l’idea che possa essere usato come termine di comparazione e possa essere inserito in una famiglia di fenomeni accomunati da presupposti culturali e materiali comprensibili storicamente. Ritiene che solo pochissimi eccidi di massa possano essere definiti genocidi. Tra gli eccezionalisti c’è chi reagisce all’uso anche solo metaforico dell’Olocausto come a un’aggressione antisemita o a una negazione delle sofferenze che il nazismo ha inflitto al popolo ebraico.

Giova ricordare che lo stesso mondo ebraico ha espresso opinioni molto diverse: per esempio il Laboratorio Ebraico Antirazzista, Jewish Voice for Peace e vari altri collettivi stanno denunciando il genocidio a Gaza. E in ambito accademico c’è stata negli ultimi anni una sempre maggiore attenzione al retroterra culturale che accomuna l’Olocausto e i massacri coloniali. L’idea di “memoria multidirezionale”, proposta nel 2009 dal teorico culturale Michael Rothberg (ebreo) mette in rilievo i momenti di memoria congiunta che abbracciano sia l’Olocausto che l’esperienza coloniale, e ha attecchito sia negli studi postcoloniali che nei memory studies[23]. Il lavoro di Rothberg ha del resto preso le mosse da quello di Arendt come da quello dei pionieri del pensiero postcoloniale, che avevano visto con chiarezza le radici coloniali dell’Olocausto[24].

L’eccezionalista tende invece a stabilire una distinzione netta tra l’Olocausto e eccidi dilazionati come quelli coloniali, tenendo ben separate le culture della memoria che li riguardano. Spesso interpreta l’uso comparativo dell’Olocausto come un atto di negazionismo. Insiste sulla scala impressionante del fenomeno, sulla sua estensione territoriale, sulla pianificazione che ha richiesto, sull’uso di un sistema industriale per la sua messa in atto, e sul fatto che il suo esito sia stato lo sterminio di massa più che lo sfruttamento.

La posizione eccezionalista presenta forti analogie con i dibattiti storiografici nordamericani degli anni ’90 relativi all’unicità dell’Olocausto, influenzati anche dalla politica delle identità nordamericana. In uno studio del 1993 sul negazionismo, la storica e attivista Deborah Lipstadt – in seguito divenuta United States Special Envoy for Monitoring and Combating Antisemitism – ha sostenuto vigorosamente l’unicità dell’Olocausto. Ci ha tenuto a precisare che il massacro degli armeni, insieme a vari altri – per esempio il genocidio perpetrato da Pol Pot in Cambogia – è stato un fenomeno diverso[25]. (In varie dichiarazioni degli anni successivi ha poi cambiato linea e lo ha senza esitazioni definito un “genocidio”)[26].

Lipstadt è stata a sua volta aspramente criticata[27]. I risvolti problematici della sua posizione emergono con forza nel momento in cui condanna i “relativisti”, cioè chi usa l’Olocausto come termine di paragone, sostenendo che ogni opera di comparazione avrebbe l’effetto di nutrire i sentimenti antisemiti. Comparare l’Olocausto andrebbe di pari passo, secondo Lipstadt, col minimizzarne l’impatto; solleverebbe – a suo dire “logicamente” – una domanda: “Why, then, do we ‘only’ hear about the Holocaust?”, domanda a cui molti, come nella Germania del’33, sarebbero portati a rispondere: “because of the power of the Jews”[28]. In sintesi, la comparazione soffierebbe sul fuoco di un mai sopito antisemitismo.

Ma l’anno in cui lo studio di Lipstadt veniva pubblicato era lo stesso in cui veniva inaugurato lo United States Holocaust Memorial Museum e si compiva il processo che Pankaj Mishra ha definito “americanizzazione” dell’Olocausto. Il quadro è ormai noto. Fino alla fine degli anni ’60, la memoria dell’Olocausto non ha avuto un grosso peso nella vita pubblica americana, anche tra gli stessi ebrei. Ma dopo il 1967 e il 1973 – dopo, cioè, la Guerra dei sei giorni e la Guerra dello Yom Kippur – le cose cambiarono: “la Shoah cominciò a essere ampiamente concepita, sia in Israele che negli Stati Uniti, come l’emblema della vulnerabilità ebraica in un mondo eternamente ostile”[29]. Molti ebrei americani fecero dell’Olocausto un pilastro della propria identità comune, e trovarono nell’etno-nazionalismo israeliano un imprescindibile punto di riferimento. Di pari passo, l’Olocausto si radicò saldamente nella cultura dell’intrattenimento di massa, e la sua memorializzazione cominciò a trovare ampio sostegno politico e istituzionale.

Il caso di Lipstadt esemplifica l’idealizzazione dell’Olocausto come fenomeno al di là della storia. Questa percezione può sfociare in un sentimento tra il difensivo, l’agonistico e il paranoico, oltre che nella tendenza a negare ad altri eccidi di massa, come quello di Gaza, lo status di genocidi. C’è insomma un punto paradossale oltre il quale la difesa strenua dell’unicità dell’Olocausto può segnare la perdita del suo valore in quanto oggetto di conoscenza, evento paradigmatico e agente di cambiamento civile: la perdita delle sue preziose potenzialità memoriali[30].

La posizione eccezionalista nasce in molti casi dall’ansia identitaria – ormai non solo statunitense – di veder riconosciuta la condizione, intergenerazionale e storicamente accertata, di vittima, e si è spesso accompagnata alla difesa a oltranza di Israele. Ma la condizione di vittima non è metastorica. Ogni fatto umano è transitorio, anche se dura da secoli. L’antisemitismo persiste – si vede da certe frasi ripugnanti sui social media – ma è meno diffuso e minaccioso di un tempo. Non c’è presidente americano che non renda conto al suo elettorato ebraico, tanto più perché i fini di buona parte di quell’elettorato sono compatibili con la politica statunitense in medio oriente, della quale Israele è una pedina fondamentale[31].

Nel corso delle piccole guerre per Gaza che hanno attraversato i media e i social media, l’atteggiamento difensivo degli eccezionalisti li ha portati a censurare i cosiddetti “pro-pal” più che lo stato di Israele. Nell’insistenza sul genocidio palestinese hanno visto un rigurgito antisemita, nella condanna di Israele una generalizzazione che polarizza il dibattito e fomenta odio. In parte, la loro risposta è stata esacerbata dalla tendenza di alcune frange pro-Palestina a replicare il lessico politico di Hamas (mossa non produttiva e di fatto inutile). Ma la tendenza degli eccezionalisti a concentrarsi sui “pro-pal” resta espressione di un vizio prospettico: nell’ultimo anno e mezzo è stata Gaza, non Israele, a subire una “minaccia esistenziale”. E se i palestinesi non morissero come mosche e Israele non usasse l’Olocausto per giustificare un eccidio la maggior parte di chi denuncia gli orrori di Gaza si dedicherebbe volentieri ad altro.

 

  1. Il fattore tempo

Nell’enfasi sulle sorti di Gaza e nel silenzio sul 7 ottobre l’eccezionalista avverte un’ostilità preconcetta a Israele, dalla larvata matrice antisemita. Ma il grido di allarme per Gaza ha nella maggior parte dei casi una spiegazione più semplice: gli orrendi fatti del 7 ottobre si sono già consumati, mentre quelli di Gaza sono tuttora in corso.

Le critiche all’uso ampio del concetto di genocidio trascurano il fattore tempo[32]. Negli anni necessari ad accertare legalmente se si sia verificato un genocidio, dei crimini di guerra possono effettivamente sfociare in genocidio, o la scala di un evento genocidario può aumentare in modo vertiginoso. Il genocidio è, infatti, un fenomeno ricorsivo e incrementale. Comporta l’emersione di schemi che tendono a ripetersi, a diffondersi e a rafforzarsi, e comporta un progressivo aumento di scala. Esige, pertanto, una risposta nel momento in cui sta iniziando. Può, in altri termini, delinearsi una fase liminale in cui la condanna e la prevenzione del fenomeno sembrano rendersi urgenti, ma che può al tempo stesso presentare incertezze.

Di fronte a un sospetto, per giunta sancito da un’indagine della corte internazionale di giustizia e dagli organi consultivi dell’ONU, alimentare il dubbio può essere controproducente. Tanto più perché per contrastare un genocidio non si chiama il 113, si chiede ascolto ai governi, non sempre inclini ad ascoltare. L’uso emergenziale della categoria di “genocidio” è inevitabilmente politico, esige una mobilitazione di massa e un innalzamento dei toni. Nei primi mesi dall’inizio della guerra a Gaza, chi ha adottato il termine lo ha usato come una metafora ad alto tasso emotivo, con l’intenzione di lanciare un allarme e denunciare un forte rischio genocidario. Aveva ragione. Mesi dopo, la dinamica genocidaria si è consolidata, diventando chiara per molti altri dei suoi spettatori.

Ma chi più di ogni altro ha avuto le idee chiare sono stati e sono i testimoni del massacro: chi vive sulla sua pelle l’assedio quotidiano di Israele e lo strangolamento dei territori occupati. In un’intervista, il poeta palestinese Mosab Abu Toha, di Gaza, ha ricordato di aver usato la parola “genocidio” già il quinto giorno dall’inizio dei bombardamenti:

I named it a genocide from the first day. I didn’t wait for Amnesty International to call it a genocide, I didn’t wait for B’Tselem […] I knew what a genocide is because I knew what Israel was capable of doing, and they are doing it. When they said we are going to cut off food, medicine, water, these are human animals, you should leave – Netanyahu said on October 12 […] “people of Gaza, you should leave”: you understand that if you don’t leave they are going to say “you see, we told them to leave. We are going to kill them. It means that they are Hamas”.[33]

Mosab Abu Toha sa di cosa parla. Ha perso molti amici e parenti stretti: famiglie intere di più generazioni spazzate via, di cui ha ricostruito gli alberi genealogici. Conosce bene l’odio di un gruppo verso un altro, è stato imprigionato e percosso senza ragione e soggetto a vessazioni amministrative di vario tipo. Sapeva chiaramente quello che sarebbe successo, e il suo allarme è rimasto inascoltato.

Il fattore tempo ha implicazioni anche sul piano della memoria. Accogliere, come fanno molti storici, l’idea che un genocidio sia un fenomeno incrementale, derivante da condizioni strutturali, dalla ricorrenza di determinati pattern in un arco di tempo che può essere protratto, e da uno o più moventi – in particolare l’occupazione di territorio – può nutrire una coscienza più viva del passato e dei suoi tanti orrori. Impone di rendere il tributo della memoria anche ai genocidi coloniali, commessi attraverso guerre a bassa intensità e, come molti storici hanno dimostrato, imparentati all’Olocausto.

Quest’idea ha il pregio di dirci da dove veniamo e dove potremmo dirigerci. Inquadra i genocidi come il grande scheletro nell’armadio dell’umanità, come un orrore pervasivo che solo dopo l’Olocausto è diventato il crimine più terribile, anche se non ancora compreso a fondo, e la cui criminalizzazione fa tutt’uno con la consapevolezza che la civiltà moderna possa lasciar riemergere le micidiali pulsioni del passato e tradurle in azioni ancora più distruttive.

Non va dimenticato, del resto, che la categoria di genocidio è stata anche il prodotto di circostanze storiche, politiche e culturali. È stata frutto di un consenso, legato a una volontà di progresso. In quanto tale, è suscettibile di revisioni, dettate da una nuova consapevolezza. Con ogni probabilità, Gaza cambierà il modo in cui guardiamo al passato. Ed è auspicabile che la sua lezione non debba applicarsi al futuro.

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Note

[1] https://www.repubblica.it/politica/2025/07/26/news/sondaggio_antisemitismo_guerra_israele_palestina-424753192/.

[2] https://www.youtube.com/watch?v=dsWuiP7V8tc.

[3] https://www.un.org/en/genocideprevention/documents/atrocity-crimes/Doc.1_Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide.pdf.

[4] https://www.nytimes.com/2025/07/15/opinion/israel-gaza-holocaust-genocide-palestinians.html.

[5] https://www.btselem.org/sites/default/files/publications/202507_our_genocide_eng.pdf , p.12.

[6] Il problema dell’intento è ovviamente affrontato anche nei rapporti redatti da Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. Si veda in particolare “Situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967”, che oltre a fornire evidenza documentata della presenza di un genocidio definisce la cornice legale del problema. Sull’intento, si vedano in particolare i par. 39-61; https://digitallibrary.un.org/record/4064517?v=pdf#files.

[7] https://www.nytimes.com/2025/07/15/opinion/israel-gaza-holocaust-genocide-palestinians.html.

[8] Raphael Lemkin, “The Concept of Genocide in Sociology”, Raphael Lemkin papers, NYPL, box 2, folder 2. Citato in A. Dirk Moses, “Empire, Colony, Genocide: Keywords and the Philosophy of History”, in A. Dirk Moses (ed.), Empire, Colony, Genocide: Conquest, Occupation and Subaltern Resistance in Word History, Berghan Books, New York, 2009, p. 19.

[9] Sul dibattito relativo al dolus eventualis, si veda Kai Ambos, Treatise on International Criminal Law, Volume II: The Crimes and Sentencing, Oxford University Press, Oxford, 2014, cap. 1.

[10] William A. Schabas, Genocide in International Law: The Crime of Crimes. Third Edition (Cambridge: Cambridge University Press, 2025), p. 215.

[11] “Antisemitic slogans proved the most effective means of inspiring and organizing great masses of people”, scrive Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo.

[12] Al movente dedica ampie considerazioni Francesca Albanese in “Situation of human rights…”: par. 53(a), 68-69, 84.

[13] “La mescolanza del sangue e l’abbassamento del livello razziale che lo accompagna”, leggiamo nel Mein Kampf, “è l’unica e la sola ragione per cui le antiche civiltà scompaiono. Non sono le guerre che vengono perse a rovinare il genere umano, ma la perdita del potere di resistenza, che appartiene soltanto al sangue puro […] se rivediamo tutte le cause del collasso tedesco, quella finale e decisiva è il fallimento nel rendersi conto del problema razziale e, in particolare, la minaccia Ebraica […] La perdita della purezza razziale rovina per sempre le fortune di una razza”. Quando Hitler scrisse queste parole, la “soluzione finale” era di là da venire. Ma delineano sia la logica esplicita sia quella implicita che contribuì, agli occhi della società nazista, a caratterizzare la scomparsa di milioni di persone come un fatto desiderabile.

[14] “Persecution against any identifiable group or collectivity on political, racial, national, ethnic, cultural, religious, gender as defined in paragraph 3, or other grounds that are universally recognized as impermissible under international law”, https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/2024-05/Rome-Statute-eng.pdf, p. 4.

[15] William A. Schabas, Genocide in International Law, p. 277.

[16]https://www.timesofisrael.com/ngo-says-only-6-of-police-probes-of-settler-violence-it-was-party-to-ended-in-chargeshttps://www.icj.org/israel-palestine-authorities-must-end-impunity-for-israeli-settler-violence.

[17] https://www.lastampa.it/esteri/2025/08/07/news/smotrich_repubblica_ebraica_di_israele-15261649/amp/.

[18] https://www.timesofisrael.com/times-of-israel-poll-majority-of-israelis-oppose-annexation-of-gaza-territory.

[19] https://www.theguardian.com/world/2025/aug/14/israel-appears-set-to-approve-controversial-settlement-of-3400-homes-in-west-bank; https://www.timesofisrael.com/e1-settlement-project-widely-condemned-but-is-it-fatal-to-two-state-solution-idea/.

[20] Noam Chomsky, “‘Sterminate tutti i Bruti’: Gaza 2009”, in Noam Chomsky, Ilan Pappé, Ultima fermata Gaza: la guerra senza fine tra Israele e Palestina, Ponte alle Grazie, Milano, 2010, pp. 115-116.

[21] Ilan Pappé, “I campi di sterminio di Gaza (2004-2009)”, in Noam Chomsky, Ilan Pappé, Ultima fermata Gaza, pp. 217-220.

[22] Nell’aprile del 2025 lo storico Paul Rogers ha rilevato che le bombe sganciate su Gaza fino a quel punto equivalevano, in kilotoni, a sei Hiroshima. https://www.bradford.ac.uk/news/archive/2025/gaza-bombing-equivalent-to-six-hiroshimas-says-bradford-world-affairs-expert.php

[23] Michael Rothberg, Multidirectional Memory: Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford University Press, Stanford, 2009.

[24] Può essere utile ricordare che la parola Konzentrationslager entrò in uso in Germania già intorno al 1900 per descrivere i modi di attuazione del genocidio degli Herero e Nama in Africa Tedesca del Sud-Ovest (oggi Namibia).

[25] Nel suo studio infatti lo chiama “massacro”, non genocidio. Le parole di Lipstadt, che hanno suscitato più di una critica, assomigliano a frasi che abbiamo sentito negli ultimi mesi: “The brutal Armenian tragedy, which the perpetrators still refuse to acknowledge adequately, was conducted within the context of a ruthless Turkish policy of expulsion and resettlement. It was terrible and caused horrendous suffering but it was not part of a process of total annihilation of an entire people”, Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory, Free Press, New York, 1993, p. 212.

[26] https://www.historynewsnetwork.org/article/holocaust-scholar-deborah-lipstadt-opposes-genocid; https://x.com/deborahlipstadt/status/1386323965434646528

[27] Si veda per esempio Ward Churchill, A Little Matter of Genocide: Holocaust and Denial in the Americas, 1492 to the Present, City Light Books, San Francisco, 1997, pp. 29-36.

[28] Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust, p. 215.

[29] Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano, 2024, p. 176. Sull’americanizzazione dell’Olocausto vedi, oltre a Mishra, Norman Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi, Roma, 2024.

[30] A questo si unisce l’uso perverso della memoria dell’Olocausto come strumento per la giustificazione delle violenze israeliane. Si veda, in proposito, l’intervento recente di Amos Goldberg: https://zeteo.com/p/holocaust-memory-in-a-time-of-genocide.

[31] La situazione italiana degli ultimi anni ha molti aspetti in comune con quella statunitense: si veda https://www.internazionale.it/notizie/leonardo-bianchi/2025/07/28/alleanza-comunita-ebraiche-estrema-destra.

[32] Evidenziato anche da Francesca Albanese in “Situation of Human Rights”, par. 49 (“Early identification of genocide is crucial to prevent genocide, ensuring that a central tenet of the post-Second World War international legal system is not a dead letter”), 75, 86.

[33] https://www.youtube.com/watch?v=XmVot3SwqBE&t=2835s

Quell’amore lì

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(Da ieri è in libreria il romanzo d’esordio di Linda Farata, autrice che qui su Nazione Indiana abbiamo già conosciuto, in quanto partecipante (e finalista) del concorso “Staffetta Partigiana”. Con vero piacere pubblico un estratto dal romanzo, ringraziando l’editore che ce lo ha concesso. G.B.)

di Linda Farata

Poi le tornò in mente una cosa, una cosa che non le tornava in mente da tempo, o che forse non le era più tornata in mente dalla volta in cui era successa. Era quando il padre aveva comprato la barca a vela, diversi anni prima, quando lei doveva avere sette, massimo otto anni. La teneva nel porto di Livorno, i primi tempi, era lì che l’aveva comprata: un affare concluso tramite un cliente. Voleva prenderci la mano prima di spostarla in Liguria. Era primavera inoltrata, forse maggio, non ancora estate del tutto. Il padre li aveva caricati tutti in macchina la mattina presto di un venerdì – ci volevano almeno tre ore ad arrivare a Livorno, non voleva perder tempo. E c’era qualcosa in lui quel mattino, una certa esuberanza, un’allegrezza così diversa dalla rabbia distante di sempre, che nessuno osò protestare per l’alzataccia o litigare per il posto davanti o lamentarsi per la fame durante il viaggio. Era un’eccitazione contagiosa, quella del padre, e non solo perché rara: nella sua gioia c’era la stessa quantità di energia che c’era nella sua rabbia e nella sua frustrazione. Ciò che normalmente appesantiva in casa – quel senso che fosse perennemente deluso da tutto ciò che veniva detto e fatto intorno a lui – ora alleggeriva l’atmosfera nella macchina, e il vento che entrava dai finestrini abbassati, i raggi del sole che apparivano e scomparivano dietro i filari di alberi, il modo in cui la luce rimbalzava sulla carrozzeria delle poche macchine in circolazione. Ricordava poco del viaggio in barca in sé, solo la faccia seria del fratello quando il padre gli lanciava comandi indecifrabili che suonavano come parolacce. Cazza la randa, batticulo a prua, ormeggio di poppa. Le sue spalle ancora bianche, coperte di nei, piegate su scompartimenti pieni di corde che a lei non lasciavano toccare. Ed era strano il modo remissivo in cui Massimo obbediva agli ordini del padre, il modo in cui chinava appena la testa quando lo riprendeva per aver sbagliato una manovra. Come se la gioia di poco prima avesse avuto l’effetto di ammansirlo. Come se fosse più difficile deluderlo, ora che sembrava contento.

Erano arrivati sull’isola, a Capraia, a pomeriggio inoltrato. Avevano ancora un paio d’ore prima di doversi lavare per la cena, e mentre i genitori prendevano il sole, sdraiati a poppa, Massimo le aveva detto di seguirla. Agnese pensava di sapere quel che sarebbe successo, e avrebbe preferito restare sulla barca ormeggiata a tuffarsi in acqua e risalire su per la scaletta d’acciaio. Ma l’aveva comunque seguito, come aveva sempre fatto. Avevano nuotato fino a una caletta poco distante dalla barca, protetta da un semicerchio di rocce quasi rossicce. Massimo le aveva detto di arrampicarsi sulla parete di roccia, lasciandola andare per prima. Lui stava dietro, ad assicurarsi che non cadesse. Ed era come se Agnese riuscisse a sentire ancora la ruvidezza della pietra, il modo soddisfacente in cui aderiva alla pelle, la mano del fratello che le sorreggeva la schiena aiutandola a salire in alto, sempre più in alto, finché non raggiunsero la cima e in fondo, all’orizzonte, videro il sole riflesso sulla distesa d’acqua, che più che una distesa sembrava una somma di figure geometriche spigolose a tratti blu notte, a tratti trasparenti, a tratti gialle di luce riflessa. Massimo la raggiunse e le disse Hai visto dove ti ho portata, ma lei era agitata perché temeva che avrebbe voluto farlo anche lì, in bilico sulla cima di quella parete rocciosa, invece si era solo seduto con le ginocchia piegate e le braccia abbracciate sopra le gambe, la faccia nel sole, e sembrava che sorridesse. È stato bello, aveva detto allora Agnese, e lui si era voltato a guardarla. È stato bello oggi, il viaggio in barca. Sì, aveva annuito lui, e le aveva fatto un po’ male, perché con la luce obliqua del sole sembrava avesse gli occhi pieni d’acqua, e la guardava in un modo in cui non l’aveva mai guardata prima, come se fosse triste, come se avesse dentro un pozzo di tristezza così fondo che non riusciva a trovarne l’uscita. Non l’aveva mai visto così. L’aveva visto arrabbiato, l’aveva visto infuriato, l’aveva visto anche un pochino triste, ma poco, mai così, mai così pieno di blu e di buio che sembrava confondersi con le profondità del mare dietro di lui. E allora si era messa a piangere, senza riuscire a controllarsi, spaventata da quel buio o forse solo triste anche lei, tristissima come lui, anche se quella giornata era stata così bella, piena della gioia elettrica del padre, con nessuno che litigava, e il vento in barca che le faceva andare i capelli in faccia e a nessuno importava, a nessuno quel giorno era importato niente se non andare veloci sulla superficie dell’acqua, e allora perché piangeva, perché aveva così paura di quella faccia triste che ora si spezzava in due davanti alle sue lacrime, si spezzava come un ciocco di legno sotto il peso di un’ascia, e non ci poteva credere ma Massimo, Massimo piangeva anche lui, con la faccia contorta, raggrinzita, anche lui piangeva ed era una scena assurda, fratello e sorella in bilico sulla roccia, a precipizio sul mare, che facendo attenzione, aggrappandosi alle pietre più grosse, riuscirono a raggiungersi per abbracciarsi, lui col corpo caldo di sole, lei col corpo piccolo di bambina, stretti in un abbraccio pericolante, singhiozzandosi nelle orecchie. Restarono così, con le casse toraciche che tremavano. Restarono così finché Massimo non si staccò, prese Agnese per le spalle e le disse Scusami. Scusami, le disse, e lei non chiese di cosa, perché non ce n’era bisogno, perché aveva sette anni o massimo otto ma non aveva bisogno di chiedere al fratello perché le stesse chiedendo scusa. Poi si erano asciugati le facce e si erano buttati in mare per nascondere le tracce di tutto quello che era appena successo, e da quando avevano rimesso piede sulla penisola, due giorni dopo, poco dopo l’ora di pranzo, tutto era tornato a essere come prima. Il padre era infuriato perché c’era stato un incidente sulla Cisa, alla madre era venuto il malumore dopo aver visto il nome della persona che aveva chiamato il padre la sera prima, Massimo si era richiuso dentro se stesso, non parlava se non per mandare a cagare, e non guardava Agnese in faccia da quando l’aveva fatto e si era messo a piangere. Quella sera, poi, di nuovo a casa, era entrato in camera sua e aveva fatto e preteso tutto ciò che aveva sempre fatto e preteso prima di quel fine settimana di maggio. Questo era tornato in mente ad Agnese, sdraiata sul letto, immersa nel buio d’una stanza che non le apparteneva più.

©Jamie Graham

Linda Farata, Quell’amore lì, Bompiani, 2025

© 2025 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 30159 Firenze – Italia
Via G.B. Pirelli 30 – 20124 Milano – Italia

Les nouveaux réalistes: Lorenzo Mineo

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Con la testa sott’acqua

Di

Lorenzo Mineo

Me ne stavo a bordo piscina, nella casa di campagna della mia amica Marta, con le gambe a mollo e la leggera sensazione di trovarmi fuori posto. A dir la verità avrei voluto essere al mare, forse perché sono nato in una città di mare e in vacanza non sopporto di stare altrove. O forse sono solo una di quelle persone che preferisce il mare quando sta in piscina, il riso quando mangia la pasta, il treno quando prende l’aereo, eccetera eccetera.
Non era un’estate come tutte le altre. Era l’estate della laurea, e questo faceva una bella differenza. Nel giro di qualche mese, Bruno si sarebbe ritirato dal negozio e avrebbe deciso se venderlo o lasciarlo a me.  Sperava che mi sarei fatto le ossa lavorando con lui per un po’. Appena sarei stato pronto, avrebbe lasciato a me la proprietà, proprio come suo padre aveva fatto con lui, e il padre di suo padre ancora prima.

Certo, avrei potuto rifiutare… chiudere la storia di famiglia e tanti saluti al negozio.

In pratica, alla fine delle vacanze mi aspettava una scelta, la cui importanza era direttamente proporzionale alla mia impreparazione a prenderla: avrei raccolto l’eredità di tre generazioni o avrei cercato un’altra strada? Se la prima opzione non mi fosse parsa particolarmente interessante, la seconda mi avrebbe lasciato in uno stato di paralisi e indecisione cronica. Quella mattina, dicevo, me ne stavo a bordo piscina, ma avvertivo piuttosto di essere seduto sulla bocca di un fiume. Era un fiume di cui avevo sempre conosciuto il corso e fino a quel momento non avevo dovuto far altro che seguire la corrente. Soltanto che adesso stava per sfociare in acque incognite. Sapevo di dover intervenire, decidere IO verso quale sbocco orientarlo. E forse, a pensarci bene, a farmi sentire fuori posto non era tanto il desiderio di essere al mare, quanto la paura di ritrovarmici dentro senza aver ancora imparato a nuotare.

Comunque, stavo rimuginando su tutto questo, quando uno SPLASH in lontananza aveva interrotto i miei pensieri. Immersa nell’azzurro, avevo riconosciuto Marta avvicinarsi dall’altro capo della piscina, per poi riemergermi accanto al grido di «UN MINUTO E SEDICI SECONDI!», accompagnato da uno sguardo fisso sull’orologio subacqueo.
«A che pensi?» aveva detto, venendosi a sedere.

«A niente.» avevo risposto, non proprio sicuro di saperle spiegare la metafora del fiume e tutto il resto.
«Dai Massimo, non dire cazzate!» aveva detto dandomi una leggera spinta sul braccio. «Se non avessi niente a cui pensare non te ne staresti immobile alle 7 del mattino a fissare l’acqua mentre sei in piena vacanza.»
Non ci avevo messo molto a confessare. L’insistenza di Marta riusciva sempre a far vacillare le mie resistenze.
«È che mi sento confuso. Ora che è finita l’università devo fare una scelta. Mio padre mi ha chiesto se voglio andare a lavorare con lui, nel negozio di famiglia. Potrei fare carriera, seguire le sue orme.»
Avevo lasciato cadere un piede nella piscina, producendo un piccolo tonfo.

«Ma non so se mi va» avevo concluso, sentendo montare in me il rifiuto di diventare come l’acqua che si spostava sotto il mio peso: privo di forma, disposto ad assumere quella che mi veniva imposta dall’esterno.
«Non sai se ti va o semplicemente sai già che non ti va?» aveva chiesto Marta con l’aria diffidente di chi non si accontenta di risposte generiche.

«Tu mi conosci.» avevo detto. «Ho studiato economia solo perché mi sembrava la più semplice tra le lauree che la mia famiglia considerava accettabili. E adesso, anche se non me ne frega niente del negozio, è una scelta che mi rassicura. Dovrei soltanto seguire un percorso già tracciato, come ho sempre fatto. Così posso continuare a non chiedermi cosa voglio diventare.»

Marta aveva sorriso (un sorriso di sufficienza, di quelli che si rivolgono a chi si pone problemi inesistenti? O un sorriso intenerito, di chi mostra empatia per le fragilità degli altri?) e sfiorandomi il ginocchio con la mano ancora gocciolante, aveva detto:

«Diventare, diventare, diventare. A me sembra che la maggior parte delle persone alla nostra età si ponga le domande sbagliate. Cose tipo pagarsi gli studi, trovarsi un lavoro decente per arrivare a fine mese.»
Aveva emesso un lungo sospiro. «Se c’è una cosa che mi spaventa nella vita, è il pensiero di non trovare mai un grande amore. Non mi importa di nient’altro.»

Diceva così, le gambe a mollo nella piscina, gli occhialini da nuoto ancora addosso che le coprivano gli zigomi sporgenti, il costume nero aderente che accentuava i lineamenti rigidi del corpo.
Forse neanch’io mi preoccuperei di trovare un lavoro se avessi una piscina così, pensavo. Forse cercare l’amore è un lusso per ricchi, la gente comune vive quello che le capita e nulla più.
«Forse non potremmo semplicemente farci un bagno e goderci le vacanze?» avevo detto, improvvisamente spaventato dal circolo vizioso di domande esistenziali innescato da Marta.

Così a fare SPLASH ero stato io stavolta, aspettandomi di essere seguito.

E invece Marta non si muoveva. Restava accovacciata a bordo piscina, nella stessa posizione fetale in cui mi aveva trovato.

Stavo già prendendo il largo, quando la voce insistente della mia amica mi fermò dopo appena due bracciate.
«Guarda che non te la cavi così, Massimo. Ti ho appena svelato la mia più grande paura. Adesso tocca a te»
Era piuttosto tipica di Marta, questa brama febbrile di andare al dunque senza lasciar nulla di inevaso. A dir la verità era una caratteristica della nuova Marta: quella che aveva imparato ad andare all’arrembaggio della vita, invece di restare sempre in attesa. Da qualche anno aveva perso quell’insicurezza costante che ci accomunava ai tempi del liceo, che ci portava a indugiare su ogni scelta: dai vestiti da indossare fino ai ragazzi/ragazze da frequentare. Questa sorta di indecisione perenne era stata l’affinità che ci aveva spinto a corteggiarci timidamente tra i banchi di scuola, in un tempo lontano che a ripensarci sembrava la vita di un altro. Alla fine, da buoni indecisi, non eravamo mai arrivati a nessuna conclusione, se non quella che potevamo soltanto essere amici, se non altro per aver trascinato troppo a lungo il nostro flirt adolescenziale.
In ogni caso, era stato all’università che qualcosa in lei era cambiato. Sembrava più risoluta, nel ritmo dinamico della sua vita, scandito dalle nottate sui libri, dal nuoto cinque giorni a settimana, ma anche dalle albe passate a fare serata e dalla sua totale noncuranza del giudizio altrui. Forse era stato lo studio della filosofia ad aiutarla a superare le vecchie incertezze, dandole una certa inclinazione nel coniugare pensiero e azione. Forse era semplicemente cresciuta. E adesso, Marta la filosofa, Marta l’adulta, mi sfidava a viso aperto, chiedendomi di affrontare le mie paure con la sua stessa determinazione.

Cos’era a spaventarmi sopra ogni altra cosa? La domanda si presentava ai miei occhi in tutta la sua spietata concretezza. Così, non avevo trovato nulla di meglio che provare a schivarla: avevo preso fiato per andare sott’acqua e restarci il più a lungo possibile. Dovrebbe funzionare in questo modo anche nella vita di tutti i giorni, credo. Dovrebbe esistere il diritto a starsene con la testa sott’acqua ad ogni domanda indesiderata, ogni appuntamento con le nostre paure e responsabilità.

In apnea, mi sembrò per un momento che il mondo in superficie si fosse dissolto, un po’ come le bolle che risalivano a galla al ritmo lento del mio respiro. Da quella distanza anche la domanda di Marta sembrava meno spaventosa. Provai a concentrarmi, mettere in fila le mie paure più recondite. Eppure, nella mia mente c’era spazio soltanto per una sequenza sparsa di ricordi, riaffiorati confusamente, senza che potessi controllarli davvero: la campanella dell’uscita di scuola del martedì, il giorno della settimana in cui veniva a prendermi mia nonna; la prima volta che Bruno mi fece fare il giro del negozio, e mi chiesi come facesse a resistere tutto il giorno tra l’odore di ruggine e il rumore dei pacchi sbattuti sul pavimento; il viale di pini dove abitavo da bambino, sfondo del mio primo bacio, poi interrotto dal tremolio della gamba che aveva spaventato la ragazza; gli scherzi telefonici alle medie con Giulio e quella volta che stavamo per essere sospesi, ansimanti per ore nello studio del vicepreside; la prima volta che vidi Marta in classe, e per attaccare bottone le chiesi in prestito un temperamatite.

Che restava di tutto ciò, mentre la mia vita era a un passo dal prendere una nuova direzione? Ecco la mia grande paura, a un tratto mi sembrò di averla davanti agli occhi: che tutti questi ricordi si sgretolassero senza possibilità di recupero, schiacciati da un futuro dove ogni cosa era destinata all’oblio. Ma che potevo fare per evitarlo?
Sarei rimasto per chissà quanto tempo in questo stato meditativo, se non fosse terminata la mia resistenza all’apnea. Dandomi una spinta dal fondale, ero riemerso in superficie, col fiatone e una faccia impallidita che aveva portato Marta a ridermi in faccia al grido di «Madonna che pippa, 40 secondi!», perdendo in un colpo solo tutto il suo aplomb da filosofa.

Certo, avevo appreso con un certo disappunto di aver resistito appena 40 secondi invece dei lunghi minuti percepiti, ma quel fiatone era valso a qualcosa: ero emerso dall’acqua con una nuova consapevolezza.
«La mia paura più grande è dimenticare il mio passato!», avevo detto con voce sicura e una punta di euforia per aver trovato una risposta che mi pareva di discreto spessore. Con mia grande delusione, Marta aveva sbuffato (uno sbuffo annoiato, di quelli che riserviamo agli argomenti privi di interesse? O uno sbuffo irritato, di quelli che rivogliamo soltanto alle persone con cui vale la pena arrabbiarsi?). Poi, scuotendo la testa, aveva detto:

«Sei proprio come tutti gli uomini, un eterno bambino che si rifiuta di crescere.», rivelando in un attimo tutta la banalità della mia risposta, che poco prima m’era parsa tanto profonda.

«Il passato è passato, Massimo. Dimmi piuttosto, cosa pensi di fare per apprezzare il tuo presente, invece di crogiolarti nella nostalgia come fai sempre.» mi aveva incalzato la mia amica. Era così che funzionava con lei: proprio quando credevi che il dibattito fosse finito, lo rilanciava raddoppiandone la complessità.
«Di sicuro passare una vita dietro un bancone a fare calcoli senza importanza non mi aiuterà ad apprezzarlo» avevo risposto di getto, con una prontezza che mi aveva sorpreso. Ma Marta non sembrava ancora soddisfatta.
«Non ti ho chiesto cosa pensi di non fare. Ti ho chiesto cosa pensi di FA-RE.»

Aveva scandito in sillabe la parola fare, come a non volermi lasciare scampo.
Non ero pronto a una domanda così netta. Mi faceva sentire impotente: uno stupido corpo galleggiante alle prese con problemi più grandi di sé. Stavo per andare ancora sott’acqua, ma d’un tratto Marta aveva deciso di trattenermi, stringendomi forte il braccio.

Restai in superficie per un po’, spiazzato dal suo gesto. Girai di scatto la testa per sfuggire al suo sguardo inquisitorio.
Oltre il muretto, un panorama di alberi e cespugli si allungava per miglia sull’orizzonte, producendo uno strano contrasto visivo con la piscina artificiale da cui l’osservavo. Mi sembrò d’un tratto che tutta quella vegetazione a perdita d’occhio assomigliasse alla lunga distesa di tempo che mi si prospettava davanti dopo la laurea, ancora piena di possibilità e transizioni, lontana da direzioni definitive

.Distolsi lo sguardo dal verde e mi voltai verso Marta. Era davvero così importante trovare la risposta  giusta? A pensarci bene, quando era era stato il suo momento di confessare le sue paure più intime, era stata lei a scacciare via quella preoccupazione per il futuro che adesso mi gettava addosso con tanta insistenza. Forse non era davvero così risoluta come credevo. Forse sperava di avere da me risposte che anche lei non trovava.
Risalii a bordo piscina e mi sedetti accanto a Marta. Dopo quell’immersione, avevo come la sensazione che fosse un’altra. Anzi, che fosse la stessa di un tempo: come se avessi ritrovato in lei quelle fragilità e insicurezze dei tempi di scuola. Neanche mi ero accorto che nel frattempo si era tolta gli occhialini. Adesso i suoi occhi blu esaltavano i tratti affusolati del volto. Il costume nero le aderiva perfettamente, facendo emergere le linee toniche del suo fisico. D’un tratto, mi sembrava bellissima. Mi faceva venire voglia di chiederle un temperamatite. O di fare finalmente qualcosa in più.

Con un velo di rossore sulle guance, Marta sembrava accorgersi di una luce insolita nel mio sguardo, mentre mi avvicinavo a lei, con la sua domanda che ancora mi rimbombava ancora in testa.

«Cosa fare, cosa fare, cosa fare. A me sembra che la maggior parte delle persone alla nostra età si ponga le domande sbagliate. Secondo me conta soprattutto insieme a chi si fanno le cose».
Dicevo così, appoggiandole sul ginocchio la mano ancora gocciolante.

Da “NZ”

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[E’ da poco uscito nz di Antonio Syxty, per l’editore ikonaLiber, nelle collana diretta da Marco Giovenale sulle scritture di ricerca. Di questo testo incollocabile, eterogeneo, attraversato da immagini, grafici, disegni, collages, diamo su NI un estratto “compatibile” con la formattazione web. a. i.]

di Antonio Syxty

 

Appunti non sostanziali circa il luogo dove è avvenuta l’azione (con la donna)

 

una donna racconta la propria trasformazione in soggetto

un altro soggetto osserva incuriosito

è un soggetto con un attaccamento morboso alla realtà

è la realtà intorno alla realtà

è intorno al soggetto (che diventa oggetto)

e il soggetto è oggetto (del nuovo soggetto)

e il soggetto è conscio del proprio essere osservato (oggetto)

 

il soggetto è voyeur

è voyeurismo altrui è ancora voyeurismo

 

è il creatore di fantasie è un essere impenetrabile

 

e inizia il processo che porterà la protagonista allo svelamento

è la protagonista (in cerca)

 

è una propria identità lacerata dal giudizio della realtà

e dai bisogni dell’altro

 

può ricomporsi tramite l’azione

può ricomporsi tramite un sostituto contemporaneo dell’essere può ricomporsi e il suo gesto sarà il più estremo

può ricomporsi e il suo gesto sarà il più disperato

 

a)

confermare al mondo la propria identità

confermare al mondo il soggetto dell’azione

la comparsa del Presentatore

l’intervento della figura del Presentatore banalizzerà la scelta della protagonista

ma l’intervento della figura del Presentatore richiamerà all’inutilità della propria scelta

 

b)

l’azione si divide in 5 sequenze:

 

1°) da un video, la protagonista osserva se stessa sul set cantare imitando Marilyn Monroe (atto I)

dopo la canzone racconta di aver incontrato il cow-boy

(atto II) confessa il piacere nell’osservare Roslyn[1] provato durante l’infanzia

 

2°) ora sul set si trova un uomo, che osserva la protagonista mentre si muove, mentre anche lui si muove (e non si capisce perché lo fa) infine ascolta la donna raccontare il proprio essersi sentita sempre più osservata, senza più nessuna capacità di nascondere niente all’occhio esterno (scena senza numerazione)

 

3°) la protagonista, seduta a un tavolo, racconta all’uomo che ha davanti (è un altro uomo?) di sentirsi minacciata da un uomo che la vuole, e che con il suo amore la mette in pericolo

 

4°) (nel video) la protagonista recita il monologo della propria abnegazione, mentre sul set la donna, (che è un’altra donna?) in ansia, si nutre a una tavola imbandita (scena 5) (mancano le scene da 1 a 4)

 

5°) la protagonista ora si è calmata (anche se non ha mai dato segno di nervosismo) mentre una voce fuori campo racconta il suo ricomporsi tramite un gesto di Gaylord[2] (scena 6)

Interviene il Presentatore a schernirla (scena 7).

[1] si riferisce al personaggio della bella e ingenua Roslyn, nel film “The Misfits” di John Huston del 1961 con Marilyn Monroe. Roslyn è da poco divorziata e per mezzo dell’amica lsabelle stringe amicizia con due uomini: Gay, un cow boy anche lui divorziato, e Guido, meccanico e aviatore.

 

Il finale rimane aperto


 

(echo 60GTU5153545869.1)

Avevo undici anni e volevo avere sempre il controllo. L’eccitazione di avere potere su qualcuno. Quando giocavo, volevo essere il capo, la padrona. Anche nell’amore ho dominato. Non era la dominazione a eccitarmi. Da bambina pensavo spesso di essere invisibile…

 

(echo 60GTU5153545869.2)

Non mi interessava spiare. Mi piaceva nascondermi e rubare solo i riflessi delle situazioni. Volevo essere invisibile.

 

(echo 60GTU5153545869.3)

Una notte sentii rumori in cucina. Sempre presa dai miei sogni di invisibilità mi accostai alla porta e riconobbi le voci di mio padre e di mia madre. Entrai. Mio padre, nudo, era disteso sul tavolo, e mia madre si strusciava su di lui. Passò un po’ prima che si accorgessero della mia presenza e per me fu come precipitare in una vertigine. Poi mia madre mi vide e furono urla e schiaffi. Fui punita severamente. Non avevano capito. A me non interessava cosa stessero facendo, mi era del tutto indifferente.

 

(echo 60GTU5153545869.4)

Mangiare+camminare+parlare+ridere-+picchiare+uccidere+

dormire.

I gesti, qualsiasi gesto, erano la mia ossessione. Volevo guardare, essere l’occhio sempre presente, ma non coinvolto.

Anni dopo mimetizzai il mio vizio. Passavo il tempo nelle stazioni, nei mercati, in metropolitana, osservavo i volti, i corpi, le scie, i ritmi. Volevo scoprire il mistero dei ritmi del mondo.

 

(echo 60GTU5153545869.5)

Anche nell’amore pretendevo di guardare. I miei amanti dovevano fare l’amore da soli, davanti a me, come se non ci fossi stata. Solo così riuscivo a ottenere il piacere.

 

(echo 60GTU5153545869.6)

Poi qualcosa cambiò. Avvenne lentamente, inesorabilmente. Ogni giorno sentivo dentro un sottile disagio. Avevo nidi di ragno nella spina dorsale. Piano piano, mi accorsi che il mio piacere stava scomparendo.

 

(echo 60GTU5153545869.7)

Una vaga angoscia, ogni mattina di più. E finalmente, come un grosso mattone in una vetrata, capii cosa stava succedendo:

MI GUARDAVANO TUTTI!

Potevo vedere i loro occhi, e l’angoscia di quegli sguardi.

 

(echo 60GTU5153545869.8)

Ora, a distanza di tempo quando sono sola, a casa, nel letto, in bagno mi sento osservata. Provo nausea per questo.

Una nausea che rende impossibili anche i pensieri.

Anche i pensieri sono osservati, rivoltati, controllati. Sono diventata l’oggetto del controllo.

 

Il ponte, i fiori, il barcaiolo


Il mio cuore il mio stomaco il mio utero il mio cervello erano attraversati dagli sguardi.

e la nausea cresce.

è il respiro,

è qualcuno mi osserva,

(mi osserva in modo nuovo).

 

I miei liquidi interni, i succhi, gli umori, le sinapsi, le ovaie e le pareti della mia vagina sono visibili all’occhio, all’essenza dello sguardo che mi penetra tra le gambe, mi rivolta, mi spezza

 

e non posso fermarlo.

io l’ho creato in questi anni

quando si spandeva da me ritornando entità…

 

nel gesto che diventa sostanza

 

è l’atto che vive di vita proprio

è l’urlo che si crea

 

e mi strapperò gli occhi

e li getterò lontano

e sradicherò il cuore

e lo divorerò

e finalmente l’occhio si bagnerà

 

e mi vuole uccidere

 

e mi ha portato dei fiori  (Sette rose rosse).

 

mi ha detto: per te

proprio così: per te

 

e ho avuto paura (che cosa vuole da me?)

ieri sera l’ho incontrato lo incontro spesso era sul ponte.

tornavo a casa faccio sempre la stessa strada

 

e lui era lì

con i fiori in mano

e sorrideva

 

sono per te, mi ha detto

 

e ho guardato giù dal ponte: l’acqua era immobile

 

è apparsa una barca e ho visto il barcaiolo.

non poteva farlo mi ha detto il barcaiolo

(so che non poteva farlo)

 

dice di amarmi non capisco vuole il mio corpo vuole toccarmi mi ucciderà

 

e mi ha seguito lungo la strada oltre il ponte.

 

e mi minaccia

e non sono scappata

e non mi sono messa a correre.

 

è per questo che ho paura

è perché sono tentata di non correre

è così

e può farmi quello che vuole

 

credo che mi piaccia

 

il verde è il colore dominante

è parte nel mio cervello

il verde e poi il rosso

il verde si sta allontanando e diventa blu

 

è il giallo a vivere mentre il rosso si sovrappone

 

è il verde che si allontana ora (verso i confini di quello che)

 

è il blu negli occhi

è il blu e poi il giallo

il rosso li segue e lascia uno spazio vuoto

 

entra in campo il bianco

è il bianco che ora è il bianco

 

il blu e il giallo seguiti dal rosso hanno abbandonato lo spazio

 

lo spazio è stato sgombrato da ogni possibile blu e giallo e rosso rimane il bianco

 

è qualcosa senza nome senza confine che cresce

 

è tutta la stanza

oltre la stanza

oltre la donna (soggetto)

è oltre se stessa nella stanza

 

non è cosciente

è un soggetto che  si allontana verso una somma

 

fugge

fugge davanti a ciò che vede il soggetto

 

è il soggetto che  si rifugia

è il soggetto che si rifugia in un gesto

 

è il Soggetto che diventa Presentatore e poi Assassino


 

[sequenza]

 

è un Assassino che compie 11 gesti

è un Assassino che compie 41 gesti

 

il Soggetto osserva la pistola

il Presentatore presenta la pistola

 

1 rispondere: è il coltello o la pistola?

2 rispondere: è il delitto?

3 rispondere: è il gesto?

 

è il Presentatore che fa un giro di giostra

è il Soggetto che si sente colpevole

è l’Assassino che assassina

 

è un frammento

è una bottiglia mezza vuota

è l’ora: 11 e 41

 

è la donna che beve.

è la donna che uccide.

 

è il Presentatore:

 

Ladies and Gentlemen il gioco si fa duro!

 

(rivolto al Soggetto, con finta compassione)

(enfatizza)

Piccola sensibile creatura, vittima di un mondo arido e crudele…

Credi di essere vera e unica sofferente?

Lo spettacolo è solo all’inizio, e devi portare a spasso le tue idee e magari anche crederci!

Sarebbe più divertente se ballassi un tango.

Sarebbe più divertente se facessi vedere le cosce!

 

The lady is a tramp!

 

Oh, baby, sei così finta da poter esistere veramente. Facci impazzire! Yeah!

Sorridi e piangi e sbatti il culo in faccia al mondo e il mondo ti sorriderà. Siamo noi a crearti.

 

(al pubblico, con le braccia aperte)

 

Grazie a tutti

lo spettacolo delle vostre vite vere è per noi un divertimento nelle sere d’estate

Perciò spara, baby, loro sono più finti di noi…

 

Spara Baby! Spara!

 

(ora però si spengono le luci e tutto viene annegato nel buio, perché niente ha dato un senso agli avvenimenti)

 

Spara Baby!

Spara!

 

(end credits?)

 

THE CAMERA FOLLOWS the car as it moves through the gaudy streets of the border town on its way to the frontier…

As the LAST TITLE FADES OUT — the car comes to a halt at a red light and MIKE and SUSAN are seen arm in arm, coming round the corner and strolling toward:

BORDER CHEK POINT.

 

[ . . . ]

 

Mike gets in behind the wheel next to Susan. The CAMERA CRANE BACK as the car starts up the honky-tonk street.

CAMERA CONTINUES TO CRANE BACK AND UP, showing the dead bodies of Quinlan and Menzies and finally, in the f.g., the street shows “Bienvenido Amigos”

The car can be HEARD racing toward the airport as we– FADE OUT

[2] Interpretato da Clark Gable, sempre nello stesso film.

Tigri e specchi. Su Silverfuture di Alice Spano

2
ph. Daniel Boudinet, "Sculpture dans un parc", 1977

 

ph. Daniel Boudinet, “Sculpture dans un parc”, 1977

 

di Ornella Tajani

Leggendo Silverfuture di Alice Spano («Quanti» Einaudi, 2025) mi risuonavano in mente dei versi strepitosi di Patrizia Cavalli, ormai un po’ inflazionati dai social: «A me è maggio che mi rovina/e anche settembre, queste due sentinelle/dell’estate: promessa e nostalgia». Forse perché il racconto di Spano inizia proprio in estate, un frangente temporale separato dalla quotidianità: nella stagione extra-ordinaria non è dato sapere se ciò che accade investirà poi anche la vita normale, regolare, quella in cui restiamo concentrati sul da farsi più che sullo scorrere dei giorni. Cavalli ce lo ricorda sottolineando quanta smania abbiamo, ad ogni primavera, di spezzare il ritmo abituale delle cose, quanta promessa di felicità ci afferra verso maggio all’idea che ogni rivoluzione sia in fondo possibile; il tempo dei bilanci e dei rimpianti arriverà quando nell’aria fluttuano le foglie, diceva un altro poeta.
Nel testo di Spano l’estate berlinese si rivela effettivamente rivoluzionaria e apre le sue danze con l’apparizione della Tigre: all’interno del bar il cui nome dà il titolo al racconto,

[…] ferma per un attimo sulla soglia del bagno, una donna mi fissa ed è rossa – anche nel semibuio rosseggiante del locale io vedo che la sua pelle del collo e del viso è rossa come dopo una corsa, dopo una giornata di sole; ha i capelli quasi a zero, schiariti fino al bianco, gli occhi neri, vedo il nero dei suoi vestiti e il rosso inatteso della sua pelle e passando accanto al mio tavolino continua a guardarmi, sembra proprio che mi guardi mentre mi supera per andare verso il bancone, cammina a falcate lunghissime con gambe lunghissime; i suoi fianchi ondeggiano, penso che è bellissima, penso che non somiglia a nessuno, a niente, forse somiglia a una tigre – fasciato di nero il suo corpo è forte, largo in certi punti, sottile in certi punti, è un corpo di chi usa il corpo, di chi corre, pedala, solleva, balla, prende, salta, nuota – scopa, penso – e mentre attraversa la stanza la Tigre con i fianchi tocca lo schienale di una sedia, una persona, un tavolino, un bicchiere traballa, ma non è lei che urta le cose, sono le cose che la vogliono toccare.

Come si chiami la tigre non si saprà mai: la protagonista dice solo, verso la fine, che il suo nome, lungi da un ruggito, è «corto e dolce, un pigolio». La sua descrizione è però molto concreta e mescola il dato oggettivo, esteriore, alla proiezione che subito scaturisce nella mente di chi l’osserva; l’entrata in scena ha un che di cinematografico, la sua immagine si impone.
Nella bella introduzione al dossier sulla rappresentazione del desiderio lesbico nella narrativa italiana tra gli anni ’30 e gli anni ‘60, apparso su allegoria 88, Cristina Savettieri apre il suo discorso citando il Self-Portrait di Armen Susan Ordjanian, che campeggia anche sulla copertina della rivista:

L’immagine dell’autrice riflessa nello specchio, in corrispondenza del sesso, costituisce a suo avviso «una potente riflessione visuale sulla soggettività femminile, sul corpo in quanto corpo sessuato, sul pensarsi e “vedersi” come donne a partire dalla relazione con il proprio sé incarnato e situato». Savettieri ricorda come questa fotografia fosse già stata evocata da Daniela Brogi nella sua recensione al Portrait d’une jeune fille en feu, il film di Céline Sciamma in cui la pittrice, la modella e lo specchio venivano ulteriormente rimescolati per mostrare «un guardarsi e percepirsi nel mondo che solo nella relazione con l’altra, nel corpo sessuato dell’altra, può compiersi» (ancora Savettieri): nel film la pittrice Marianne, al momento di ritrarre il corpo nudo di Héloïse, appoggiava uno specchietto sul sesso dell’amante in modo da poter dare alla figura pittorica i propri tratti; le due donne si fondevano nell’incontro e nell’immagine, ma in tale fusione si riconoscevano e rappresentavano anche come singolarità.
Sono elementi che dialogano con il racconto di Spano, a partire da un ritratto che acquisisce una doppia valenza. La protagonista càpita a Berlino a casa di un amico fotografo. Nelle prime pagine descrive questo ambiente: appeso alle pareti c’è lo scatto di una ragazza che sta sfilandosi il maglione, il volto coperto, còlto un attimo prima di svelare la propria identità; è una fotografia che la narratrice apprezza sin da subito e che addirittura acquisterà per portarla con sé prima di lasciare l’appartamento e andar a vivere con la Tigre. L’indizio prolettico è evidente: un’altra figura femminile sta per entrare in scena, e la sua apparizione costituirà anche, per chi racconta, una forma di scoperta del sé, un’autorivelazione.
Al Silverfuture, infatti – un posto pieno di specchiere, «specchi in cornice e mosaici di specchietti sulle discoball», che di nuovo rimandano al Self-portrait –, comincia l’amore tra l’io narrante e la ragazza austriaca che somiglia a una tigre. Mi è tornato allora in mente Tigre adorata di Patrizia Zappa Mulas, racconto uscito per nottetempo nel 2006, che altrettanto cominciava in un bar (il caffè Di Marzio a Roma) e narrava un amore lesbico per un personaggio associato all’immagine di una tigre. Pochi elementi e forse pretestuosi, questi, per mettere in dialogo i due testi: eppure il tentativo è seducente, perché si tratta di due racconti singoli, entrambi molto belli, che rivelano, mi pare, uno scarto nella rappresentazione del personaggio lesbico.
Proviamo ad accostare l’apparizione della tigre di Spano, vista poco fa, alla descrizione della protagonista di Tigre adorata:

Da ragazza era stata uno splendore. Uno splendido ragazzo, direi. Alta, florida e con un ovale caravaggesco impossibile da dimenticare. La carnagione perfetta, il taglio d’occhi orientale, lo sguardo dorato – la sua bellezza metteva quasi soggezione. Faceva innamorare maschi e femmine indifferentemente. In quel periodo era l’assistente – e la complice – di Mario Schifano: affrontava con lui grandi tele coi colori acrilici, manovrava i video, gli stava accanto giorno e notte con una devozione da Sancho Panza che non toglieva niente al suo fascino di ragazzo divino. Già allora nascondeva il seno dentro larghe camicie infilate nei jeans e indossava scarpe inglesi coi lacci. Avevo notato che abbottonava il cappotto verso destra come gli uomini, e usava solo biancheria maschile. Aveva un modo speciale di camminare, con la mollezza del maschio sensuale sempre un po’ affaticato e ricettivo di ogni sorta di umore nell’aria.
Si chiamava Annalisa.

Più avanti:

A parlare non era lei ma il personaggio che interpretava, il maschio d’esperienza che è tenuto alla galanteria, vi è quasi costretto. La vidi improvvisamente sotto quella luce, come un dongiovanni invecchiato precocemente ma ancora capace di tutto, anche di rinunciare.

Colpisce subito questa rappresentazione della lesbica come uomo mancato: l’abbigliamento, il modo di camminare, i gesti; le formule «splendido ragazzo», «maschio sensuale», «maschio d’esperienza». Il fatto che il personaggio porti un nome così delicatamente femminile – Annalisa – non fa che evidenziare, per contrasto, la sua maschilità recitata, un po’ protonovecentesca: vengono in mente fotografie del bar lesbico Le Monocle di Parigi a inizio secolo, o certi scatti di Colette in abiti da uomo (la stessa autrice è peraltro citata dalla protagonista del racconto, che a un certo punto s’incapriccia «per un’aristocratica parigina che era stata l’amica della figlia di Colette»).
L’eccentricità della protagonista di Zappa Mulas è ribadita anche nell’andamento della storia d’amore di Annalisa con Costanza Shuster, un’attrice ebrea emigrata in Italia: è lei la piccola tigre che la conquisterà, trasformandosi in una moglie devota che cerca nella partner «un marito» (in corsivo nel testo). Così, i ruoli di uomo e donna, canonizzati dal sistema patriarcale, restano intatti persino all’interno della relazione lesbica, una relazione che si propone come necessariamente deviata, al di fuori della norma – e quindi inevitabilmente destinata a finir male. Si tratta di una storia non raccontata in prima persona, ma proposta in forma di confessione: sul modello classico della Manon Lescaut di Prévost, una narratrice di primo grado raccoglie la testimonianza di Annalisa, narratrice di secondo grado.
In Spano invece non c’è intermediazione, l’io agisce in prima persona; anche l’incipit è caratterizzato dall’immediatezza:

In quei primissimi tempi, quando ancora non abitavo stabilmente a Berlino, io e la Tigre facevamo lunghe telefonate in cui ci raccontavamo le nostre vite prima di conoscerci, prima di quella vita vera che era appena cominciata.

Silverfuture mira dunque a mostrarci la «vita vera», una storia d’amore bella come tante, vissuta intensamente, finita per motivi che non è dato sapere perché non interessa sapere. Il primo incontro avviene in un bar perché a questo spazio, che è al contempo «immagine del reale, ma anche potente luogo dell’immaginario», è dedicata la serie di «Quanti» Einaudi, come recita la presentazione editoriale. Nel ritrovo gay di Berlino in cui la protagonista un po’ disorientata ordina un gin tonic, si guarda intorno, di tanto in tanto tasta gli oggetti che ha in borsa per darsi sicurezza mentre dentro le sta montando «un’inquietudine da sala d’aspetto, la sensazione che tra poco sarebbe toccato a me», comincia la sua relazione con la Tigre, che proverà per lei un amore simile a

un monolite inscalfibile, ottuso, sordo, ignaro, ignorante – un amore che diceva sì, sempre sì, mai forse, mai non lo so, mai vediamo, parliamone, potrebbe essere. Perché è così che fa la realtà – è così che fa l’amore: si staglia e dice sì, è questo: questo è.

Così vediamo le due donne uscire insieme, convivere, amarsi, viaggiare, litigare. Poi un giorno succede «quello che succede sempre»: qualcosa s’incrina irrimediabilmente. Le protagoniste si rivedono un numero imprecisato di anni dopo, stavolta in un bar di Roma; indossano ancora oggetti appartenenti alla loro vita comune, che costituiscono una strana forma di eredità materiale della relazione: vestiti e accessori conosciuti, regalati, prestati. Oggetti che trapassano il tempo e sono lì a testimoniare la verità di ciò che è stato: una relazione, un capitolo della vita di un individuo – una stagione, certo più lunga di un’estate, ma pur sempre una stagione. Sta a chi legge – a chi vive – stabilire quanto questa avrà cambiato il corso degli eventi: è solo una questione di percezione, cioè di narrazione.

 

I poeti appartati: Francesco Mola

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Due poesie

di

Francesco Mola

Il bicchiere capovolto sul tavolo
cattura la luce
e la scompone sulle piastrelle
in mille frammenti d’ambra.
La voce del vicino
parla a ritmo serrato
di modelli matematici binari
deragliati oltre la parete.
Il frigorifero
come un orso polare ferito
ogni tanto singhiozza.
Anche oggi qualcosa resta fuori:
le scorte di kefir ai frutti di bosco,
la vanità laccata di una mela
da gettare via
insieme alla parola sospesa.
È qui che si versa la sostanza:
nell’intervallo di un gesto tra l’acqua
e il bicchiere.

*

Strette mortifere di cosce e destini
pensate per lunghe agonie
dove persino l’universo va a fondo
senza nemmeno trattenere il fiato.
Immortale.
Come l’essere verbo,
l’esistere
(oltre le categorie, i predicati nominali)
nell’armonia imperfetta delle forme,
nostro malgrado

 

 

 

 

Dai fiumi al mare, per la Global Sumud Flotilla

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DAI FIUMI AL MARE, 31 agosto 2025

Pistoia sostiene la Sumud Global Flotilla

Fra sabato 30 agosto e giovedì 4 settembre varie imbarcazioni della coalizione Sumud Global Flotilla lasceranno i porti del Mediterraneo, partendo da Genova, da Barcellona, dalla Sicilia e dalla Tunisia e facendo rotta verso Gaza per rompere l’assedio e portare soccorsi al popolo palestinese. Percorreranno le antiche vie del Mediterraneo verso la libertà della Palestina in nome di un’umanità solidale e libera che si riappropria della vita collettiva. L’acqua appartiene a tutti i popoli senza distinzioni, è il bene primario e la nostra speranza. Da Pistoia vogliamo aderire e sostenere il viaggio con la manifestazione Dai Fiumi al Mare, un evento itinerante che si svolgerà nella giornata di domenica 31 agosto. Ci ritroveremo alle 10.30 al Parco della Rana; poi seguiremo una via d’acqua lungo il torrente Brana, alternando letture e parole, fino alla fontana di Piazza della Resistenza dove agiteremo teli blu e bandiere della Palestina evocando l’acqua che deve tornare come la vita nella vasca vuota del parco, nelle coscienze europee e in Palestina. Nei giorni seguenti inizieremo una staffetta online di letture su instagram per accompagnare tutti i naviganti della coalizione ed essere emotivamente con loro. Chiunque voi siate vi aspettiamo.

Aderiscono e promuovono l’iniziativa: ARCI PISTOIA, CGIL PRATO-PISTOIA, ANPI PISTOIA, LIBERA PISTOIA, PAX CHRISTI PISTOIA, COORDINAMENTO SCUOLE PER LA PALESTINA, COMITATO PER LA PALESTINA, COBAS PISTOIA, NON UNA DI MENO PISTOIA, EMERGENCY PISTOIA, RAGGIO DI LUCE, BOTTEGA DEL MONDO L’ACQUACHETA, CNGEI PISTOIA, AGESCI PISTOIA, HABITUS PRATO. (Adesioni in continuo aggiornamento.)

Quando Dio entra in gioco

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di Claude Petrognani

Il brano che segue è tratto dal saggio “Quando Dio entra in gioco” dell’antropologo Claude Petrognani, recentemente pubblicato da Rogas Edizioni, che ringraziamo della disponibilità

Siamo pronti finalmente a “scendere in campo”.
Ci siamo, per così dire, “riscaldati” per la (nostra) “partita” – di vita -, introducendo – così come fa un bravo “allenatore” – le nozioni principali riguardo al nostro “protagonista”: il Brasile. Nel gioco metaforico delle parti, abbiamo cercato di alternare la “tattica” (lo sguardo “da lontano”) – alcuni aspetti teorici riguardo la relazione che i brasiliani intrattengono con i loro “dei” – e la “pratica” (lo sguardo “da vicino”) – alcuni aspetti “etnografici” di questa intricata relazione-. Abbiamo constatato, dunque, che per ragioni storiche, sociologiche, antropologiche, il Brasile si caratterizza come un paese “laico” e ad “alto contenuto” di “religiosità”. Tutto – o quasi – è permeato da un’aura “sacra”: la politica, il Parlamento, la Costituzione, la scuola, la vita di tutti i giorni, la socializzazione, lo sport (il calcio). Nelle mie ricerche ho cercato di mostrare che quest’aspetto di complementarità e d’intersezione tra sfera “religiosa” e “secolare” – personificato dal “Dio” sincretico dei brasiliani – è una “chiave” di lettura  – ermeneutica, simbolica, di significazione – “ buona da pensare” per “accostarsi” – un po’ – all’ethos religioso  – e secolare – dei brasiliani.
Sempre nel gioco delle analogie, abbiamo, successivamente, elencato le principali caratteristiche di questi “giocatori” che “entreranno” sul “terreno di gioco” “socio-religioso” e mostrato, inoltre, in che modo si “esibiscano” – nello sport e nella vita- : l’“(iper)-visibilità” “neo-pentecostale”, l’“indifferenza” – “diffusa” – “cattolica” e l’“invisibilità” “afro-brasiliana”.
In questa terza parte del nostro itinerario, cercheremo di capire – rimbalzando ancora una volta tra “calcio”, “religione” e “società” (e vice-versa) – in che modo queste “personalità” “religiose” e “secolari”, apparentemente così diverse ed in competizione, riescano, il “giorno della partita”, ad “incorporare” – e qui “entra in gioco” il “talento culturale” di cui parlava Turner (1993) –  lo “spirito” “sincretico” del “Dio” del pallone -e della vita-.

Il rituale del “fechamento” dei calciatori brasiliani

Immergiamoci subito all’interno dello spogliatoio dello Sport Club Internacional de Porto Alegre[1].

“Fermento, confusione, voci che si sovrappongono. Il silenzio “assordante” che regnava nello spogliatoio viene “spezzato”. C’è quel cigolio “arrugginito” di un tacchetto di ferro che si ostina a non avvitarsi, c’è la voce forte, autoritaria, del mister che ricorda le ultime disposizioni, ci sono le preghiere dei giocatori … “porto sempre con me la foto di Nostra Signora Aparecida, due o tre baci prima di giocare…”; “io sono evangelico, chiudo gli occhi, mi concentro, recito alcuni versicoli della Bibbia”; “io accendo delle candele per pregare il mio orixá, axé” … I preparativi fervono.  Si preparano meticolosamente “fiumi” di bende e fasciature, si “accarezzano” le scarpe, le si “parla”, le si “coccola” come fosse l’oggetti più prezioso (ed in effetti, lo sono!); i parastinchi, pezzi di corazza, pronti per essere indossati. I giocatori sono pronti. Lo spogliatoio ribolle di energia, di “sacro”. L’altare rigorosamente allestito dal magazziniere sprigiona spiritualità da tutti i pori, candele, immagini di santi e orixás si mescolano, mescolandosi e sovrapponendosi come fosse una grande festa sincretica. Tutto è pronto, manca poco, 5 minuti e si entra!
A quel punto Carlos, l’allenatore, Marco il coordinatore, il magazziniere Eduardo, lo staff, i giocatori si riunisco al centro dello spogliatoio. Formano un circolo, si danno la mano. Anch’io partecipo. Mi sento un corpo estraneo, tuttavia, ascolto le indicazioni e mi preparo al grande rituale ecumenico. Marco mi ha avvisato categoricamente di non “spezzare” il circolo affinché la “trasmissione di energie” possa confluire da una mano all’altro, da un corpo all’altro. Obbedisco. Stringo le mani di due ragazzi, li osservo. Prende la parola il leader. Usa parole forti, cariche di significato: “Dio” ripete “è la nostra forza”. Il circolo si carica di “intensità”, “eccitazione”. A quel punto, a pieni polmoni e all’unisono, ecco l’irruzione del “trascendente”, ciò che più caratterizza il rituale dei calciatori brasiliani:
“PadrenostrocheseineicielisiasantificatoiltuonomevengailtuoregnosiafattalatuavolontàcomeincielocosìinterradaccioggiilnostropanequotidianoerimettianoiinostridebiticomeanchenoilirimettiamoainostridebitorienonabbandonarciallatentazionemaliberarcidalmaleAmen”
Si tratta – per rendere l’idea della performance la preghiera dev’essere letta in un solo respiro – del momento più sublime e importante del rituale: il Padre nostro, preghiera di matrice cattolica, è gridato ad alta voce, tutto d’un fiato. Io non prego, rispetto il rituale. Osservo i ragazzi, sguardo al cielo, pregare “ognuno a modo loro” questo repertorio. Dopodiché, il circolo si spezza. L’effervescenza collettiva è percettibile. I ragazzi, come fossero in “trance[2]”, cominciano a saltellare qua e là, disordinatamente, dandosi dei colpetti sulle spalle e gridando di forma incontrollata. Il circolo, poco dopo, si ricompone e l’ordine viene ristabilito. Il gruppo questa volta è ridotto agli 11 “eletti” che scenderanno in campo. Si guardano, mano nella mano, intonando a gran voce il Club che rappresentano: 1,2,3, Inter, Inter, Inter …”.

[1]  L’originale si trova in Petrognani (2016).

[2] Come ha correttamente rimarcato Barba (2007, p.23) “il concetto di trance è un concetto mutato dalle religioni che prevedono la “possessione”, ovvero la discesa di un’entità nel corpo di un fedele (…) in più nelle religioni di possessione, lo stato di “trance” è un comportamento culturalmente appreso, come ben detto da Bastide (1979)”.
Quando parlo di “trance”, dunque, sono cosciente di “forzare” un concetto “complesso” del mondo delle religioni che prevedono la possessione. Nel contesto “metafisico” del “fechamento”, con questa espressione intendo enfatizzare un momento molto particolare del “rituale” che si caratterizza, per analogia, corrispondenza e a livello di performance teatrale (Schechner, 2011), con quello in cui l’adepto delle religioni afro-brasiliane e neo-pentecostali entra in “trance”.

 

I poeti appartati: Anna Santoro

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Anna Santoro, la scrittura come atto politico del femminile

di

Nadia Cavalera

 

Nella scrittura di Anna Santoro – poeta, narratrice, teorica e instancabile tessitrice di reti culturali – si avverte tutta la forza di una voce che non ha mai smesso di essere dissonante rispetto ai canoni dominanti, e sempre in consonanza profonda con il pensiero femminista. Ma non un femminismo astratto o dogmatico: quello di Santoro è un lavoro lento, concreto, che da decenni incide il reale con le sue domande radicali sulla parola, sul corpo, sulla memoria delle donne e sulla necessità di riscrivere la storia culturale a partire da ciò che è stato rimosso.

Un lavoro il cui percorso affonda le radici nella sua biografia intellettuale e militante: dagli anni Sessanta delle occupazioni e dei gruppi extraparlamentari fino alla fondazione de L’Araba Felice, associazione culturale nata nel 1984 a Napoli, vera fucina di sperimentazioni poetiche, di ricerca sulle scrittrici del passato, di performance vocali e progetti di lettura. Un laboratorio vivente dove la poesia si è fatta gesto, la voce si è fatta corpo, la scrittura si è fatta poiein, forma di vita e di resistenza.

Non si può leggere Santoro prescindendo da questa storia: la sua parola nasce dalla convinzione che il linguaggio – se abitato criticamente, se attraversato dalla soggettività femminile – possa ancora oggi generare spostamenti reali. Che evoca chiaramente nella forma dei suoi versi, inquieta, talora prostrata, non irregimentata, deviante, sempre razionale nelle sue stilizzazioni e contratture aperte, e irruente nei suoi neologismi di parole che si accavallano per l’urgenza del dire. Ed è proprio questo il dono più grande della sua opera: ricordarci che scrivere, per una donna, è sempre anche riscriversi, rompere il silenzio, affermare una presenza irriducibile.

Ne è conferma l’ultima sua raccolta di poesie dal 2017al 2024, Echi di slittamenti (forse) irreversibili (Puntoacapo 2025), dove Anna Santoro costruisce una parola poetica che non si accontenta di nominare il mondo, ma lo attraversa – con lo sguardo, con il corpo, con la memoria, con la lingua. La scrittura nasce da un’urgenza insieme sensoriale e storica, capace di farsi luogo di resistenza etica, politica e femminile.

Ognuna delle cinque sezioni della raccolta – scandita da titoli densi di implicazioni – segna una soglia esperienziale, una diversa declinazione di ciò che significa vivere dentro il tempo, nel corpo e nella storia, tra le fenditure di ciò che si perde e di ciò che resta.

Il libro si apre con una dichiarazione di principio percettiva e ontologica: prima sono gli occhi. È da lì che parte la conoscenza, è da lì che si offre e si riceve la vita, in tutta la sua densità. Il corpo si fa centro della soggettività poetica:

«Se il mio corpo è io / se ciò che guardo / annuso e tocco / assaporo e ascolto / è sempre io».

Non c’è distanza tra la vista e l’essere: lo sguardo è identità, è esposizione. Gli occhi sono memoria, ma anche apertura radicale verso l’altro e il mondo. La poesia nasce come testimonianza incarnata, rifiuto di ogni neutralità: vedere è prendersi carico, è resistere al silenzio e all’indifferenza.
Ma lo sguardo non basta. Nella sezione successiva – Mordo questa storia – la poesia si fa più esplicitamente militante e storica, nella ricerca di luce: «Mordo questa storia e aggiungo o strappo pezzi / a comporre il puzzle per un disegno di eventuale verità».
Non è solo osservazione, è intervento, masticazione della realtà, atto fisico e simbolico insieme. La Storia diventa corpo da affrontare, da interrogare, da ferire con la parola:
«Ci trovammo in una Storia che / non ammetteva evoluzioni e / non lo capimmo / adolescenti / Solo più tardi assistemmo al sole / in piena notte colpire montagne di / lampadine rotte».

Il linguaggio franto e visionario disegna la frustrazione di una generazione, lo spaesamento di fronte al fallimento delle promesse collettive. Ma la voce non si rassegna: morde per cercare senso, per ridare corpo alle genealogie negate, alle lotte oscurate, alle presenze marginalizzate. Santoro scrive dentro la storia, e con ciò sceglie una posizione.

Questa tensione tra personale e politica si concentra in modo più intimo nella sezione Vita che scortichi, dove la vita, «vita maligna», è vissuta come esperienza a pelle viva, come successione di colpi che lasciano il segno. La scrittura qui è testimonianza della fatica del vivere («I giorni scavano radici / le notti riempiono le / buche di ricordi», soprattutto nella sua declinazione femminile: la cura, la rinuncia, la sopportazione, ma anche la dignità mai abdicata.

La poesia si fa carne che sente, respiro che persiste nonostante tutto, corpo che non si sottrae alla propria esposizione. Non ci sono ornamenti, solo una verità quotidiana, dolorosa e irriducibile.

Con Non è pranzo di gala, Santoro rivendica apertamente il carattere scomodo e necessario della parola poetica. Riprendendo ironicamente la celebre frase maoista (“La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra), denuncia ogni illusione estetica: la poesia – come la rivoluzione – non può essere gentile, né elegante, né indolore. Deve sporcarsi, disobbedire, urtare.
Il tono si fa qui sarcastico, rabbioso, lucido: la poeta guarda al presente con disincanto ma senza resa, restituendo la frantumazione morale di una società votata al cinismo e alla disuguaglianza. La scrittura diventa spazio critico, urlo misurato contro le storture del potere, contro l’appiattimento dell’etica, contro la spettacolarizzazione della violenza. Mentre persiste intatto l’amore per il creato: «ancora m’innamoro della vita», «incantata mi perdo nel- / l’acqua e nel pensare».

Più rarefatta, e elegiaca la sezione Puntuale ti presenti. Dove il dolore non cede mai al lirismo facile. Il “tu” che arriva, puntuale, è la morte, il lutto, ma anche il tempo che porta via, che sottrae.

La parola poetica si piega a questa assenza, la abita, ne fa spazio della memoria e della fedeltà. Non si cerca consolazione: si accetta la mancanza e la si trascrive. Si tratta di scrivere nel vuoto, ma senza mai abbandonare la dignità del gesto.  Anche quando tutto si svuota, resta il rito della parola, come atto minimo di permanenza. Anche futura: «E chissà dove andrà questa testa / così piena / dove riprenderanno vita le / visioni / che lì sono catturate / come si manifesterà la mia allegria».

A suggellare la raccolta con una estrema concentrazione l’appendice con i Landays e gli Haiku. I Landays, distici brevi e mordenti nati nella tradizione pashtun femminile, si trasformano in epigrammi di resistenza, laceranti e orgogliosi:

«rossa una mano sul fianco / bianca stupivi di tanta ferocia».

Due soli versi per dire corpo, stupore, sangue, violenza. Due versi per dire il mondo.

Gli Haiku, invece, rovesciano l’energia in una sospensione contemplativa:

«Sul mio viso vento e pioggia / sogno calore e riposo / scrutando la notte».

La poesia diventa qui soffio, paesaggio interiore riflesso nella natura, ma non smette di interrogare la realtà. È uno sguardo silenzioso e vigile, che raccoglie la fugacità delle cose per offrirle, senza commento, al pensiero. Di chi ancora conosce l’incanto della vita.

Ricordi (in italiano) di Stéphane Bouquet #1

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di Andrea Inglese

Stéphane Bouquet, poeta francese, è morto alla fine di agosto. Aveva 57 anni e come ogni persona morta troppo presto, ingiustamente e irragionevolmente presto, lascia chi lo ama, chi gli è amico, chi l’ha conosciuto e stimato, sopraffatto da un profondo senso d’incredulità. Per quanto riguarda gli artisti, aggiungiamo noi stessi ingiustizia a ingiustizia: ci sembra ancora più crudele sottrarre alla vita qualcuno che vi era legato da una perenne e intensa necessità di creazione. Questo era il caso di Stéphane Bouquet: qualcuno che senza nessuna eccentricità esibita, era capace di attrarre ogni particola della sua esperienza del mondo, per farne qualcosa d’altro: un cristallo di parole, una serie di gesti, uno svolgimento libero di pensieri.

Ho conosciuto Stéphane Bouquet nel 2008 o 2009. I miei ricordi sono sempre lacunosi e i miei archivi fotografici o d’altro genere molto confusi. Ma eravamo invitati a un seminario di traduzione collettiva in Slovenia, con altri poeti e poetesse di varia origine (Slovenia, Stati Uniti, Serbia, Finlandia, ecc.). Ho scoperto in quell’occasione il Bouquet poeta e anche traduttore. Come traduttore, Bouquet è noto soprattutto per le sue traduzioni dall’inglese, di autori statunitensi come Peter Gizzi. Ma io ho avuto la fortuna di conoscere anche il traduttore dall’italiano (traduttore perché lettore di autori italiani, Pasolini e Penna in modo particolare). Bouquet è noto anche per essere stato ballerino, attore, sceneggiatore e critico cinematografico, drammaturgo. Bouquet è stato tante cose, ma per me essenzialmente un poeta ammirevole, con un talento sicuro e fuori dal comune, e un generoso traduttore. Nel corso della nostra amicizia l’interesse per il lavoro poetico prendeva spesso la forma di progetti di traduzione reciproca. Negli anni, ho avuto modo di confrontarmi con diversi testi di Stéphane. Il primo che presento è un testo saggistico, di un saggismo pochissimo accademico, ma estremamente colto e brillante. In un post successivo, presenterò soprattutto materiale poetici da me tradotti. Come ho detto, però, si trattava di un dialogo, ossia di letture-traduzioni incrociate. E, tra le altre cose, ho avuto la fortuna di avere un mio libro tradotto in francese da lui: Lettres à la Réinsertion Culturelle du Chômeur uscito nel 2013 per l’editore NOUS.

Vorrei dedicare questi scorci in italiano della poesia di Stéphane ad Alessio, suo sposo.

[La foto di S. B. è stata scattata da me in Slovenia 15 o 16 anni fa.]

*

Popolo, paraculo, poesia.[1]

 

Di Stéphane Bouquet

Traduzione di Andrea Inglese

 

In Who is me, sottotitolato in forma di risposta immediata: Poeta delle ceneri = sono un poeta delle ceneri, Pier Paolo Pasolini spiega come è diventato marxista: tutto comincia con lui, ancora giovane poeta, seduto in riva agli stagni, sole e foschia latina, canneti, mentre i figli dei contadini – hanno la sua età o sono appena più giovani – si bagnano innocentemente. Nudi, suppongo. E poi mettono un fazzoletto rosso al collo e marciano fino in città, e il poeta delle ceneri li accompagna: è accaduto, tutta la coscienza politica lo ha investito, ci sono degli umiliati, marcia con loro, è marxista.

È poco probabile che Curzio Malaparte avesse di mira Pasolini quando scrisse i capitoli 4 & 5 de La pelle. Nel 1949, Pasolini ancora non aveva pubblicato molto. Ma erano persone come lui a costituirne il bersaglio polemico: persone come lui che seguivano il ridere di ragazzi e lo trasformavano in politica. Malaparte, con il gusto apocalittico che lo caratterizza, descrive in modo brillante questa scena: siamo nel 1943, gli Alleati sono appena sbarcati in Sicilia, decine e decine d’invertiti attraversano, nel freddo e nel pericolo, le linee tedesche, camminano nella neve profonda e sotto gli obici – per raggiungere la freschezza, l’odore di cucciolo dell’esercito americano.

Bloccati per mesi nel sud d’Italia, approfittano della miseria, scopano con i poveri, diventano comunisti. Non è certamente la verità fattuale, ma à una sorta di verità teorica. Se ciò non è accaduto, è comunque il sogno degli invertiti. Sul nesso preciso tra comunismo e omosessualità, la posizione di Malaparte è abbastanza instabile nel corso di questi due capitoli. A volte, suppone che il comunismo sia una semplice maschera: “chiamano comunismo il loro marxismo omosessuale”. Certo, non gli fa piacere. Malaparte teme che un “Piano Quinquennale dell’Omosessualità” stia operando per scalzare le basi liberali dell’Europa. Ma altrove si rivela molto più intuitivo: percepisce che l’inversione sessuale potrebbe essere “un’iniziazione indispensabile alle idee comuniste” oppure chiede al giovane e (ci garantisce) magnificente principe convertito a Marx con il quale conversa, “Lei crede che divenire pederasta è un modo come un altro di diventare comunista?” Malaparte intuisce che l’erotico e il politico sono spazi comunicanti, e che non ci sia una decisione politica che non sia anche una decisione erotica – e all’opposto. Malaparte non ci crede – come quando si dice, sbalorditi dall’enormità della cosa, non ci credo –, non ci vuole credere, trova che non sia serio e basta, ma ha colto qualcosa di potente: un legame strano tra l’omosessualità e l’interesse per il popolo. Un legame che chiama sofferenza, salvo che non sono sicuro che la parola sofferenza sia la più appropriata.

Nella sua Ode a Walt Whitman, scritta nel 1929-30, rimasta inedita durante la sua vita, Lorca sembra inizialmente venire in soccorso di Malaparte. Immagina un gruppo di finocchi (maricas) mentre picchiano un uomo che è l’incarnazione per eccellenza della virilità, qualcosa come l’esercito del cotone pulito americano, per cui: movenze gattesche, ondulazioni, miagolii, raggiri, tremiti: gran spettacolo nevrastenico delle checche. La stessa generale effeminatezza che si trova nella Pelle. Ci si vergogna un po’ di osservarle mentre si contorcono sul marciapiede. Eppure tutto si complica, quando ci si rende conto che il principio virile dell’Ode, quello su cui si avventano i maricas, si chiama Walt Whitman, che è un altro nome dell’essere frocio. Ho letto almeno 56 volte la poesia di Lorca e non sono sicuro di averla capita. Secondo la mia attuale ipotesi, Whitman incarna questa omosessualità che si situa, cito, “tra le montagne di carbone, i manifesti pubblicitari e le ferrovie.” In poche parole, con gli operai in una città dove chi non lavora si vede garantito la cassa da morto. A questi operai, Whitman-secondo-Lorca offre il potere trasformativo, metamorfico, della poesia: e diventa fiume e diventa argilla e neve e gazzella. Si muta in paesaggio grandioso per accoglierli. È la Promessa – che Lorca chiama “il regno della spiga” dove, immagino, ogni fame cessa di esistere. Grazie alla poesia, in quel paradiso della poesia è ovunque pieno di ogni cosa: miele & latte, miracoli & abbondanza. Ma nulla è semplice, perché proprio questi operai – ci avverte Lorca all’inizio della poesia – non sembrano davvero correre dietro a questo tipo di scenario: “nessuno voleva essere il fiume” e “nessuno amava le grandi foglie” e “nessuno la lingua azzurra della spiaggia.” Cosicché ci si trova, alla fine della poesia, di fronte a un triangolo inconciliabile e tragico: i maricas che sono l’omosessualità come desiderio morboso e sconvolto; Whitman che è l’omosessualità come poesia, molto più nobile della precedente perché non si contenta d’infilarsi, appena può, tra “le gambe dei camionisti”, ma cambia letteralmente il mondo; e infine gli operai che in ogni caso se ne fregano. La situazione non ha via d’uscita. “Duerme, no queda nada / Dormi, non resta nulla” è l’ultimo consiglio di Lorca a Whitman. L’ipotesi di un’alleanza puramente poetica con gli operai è vana.

Siamo ancora nel 1929-30. In una lettera che invia da La Avana – la sua famiglia possedeva una casa di vacanza su una piccola isola vicino a Cuba – Hart Crane è di una franchezza disarmante. Traduco: “Forse tu hai fatto esperienza del fascino singolare di una lunga conversazione con delle señoritas con solamente dodici parole in comune per riuscire a capirvi. Alludo a A…, giovane marinaio cubano… che ho incontrato una sera presso l’Alhambra, nel Giardino centrale. Immacolato, ardente e delicatamente riservato – ho imparato molto sull’amore, cose che non sapevo esistessero. Che relazioni delicate possono fiorire tra gli umili! Su questo è difficile esagerare”. Bisognerebbe, immagino, andare a La Avana per comprendere il vento dolce che prende corpo, anche, in queste frasi. Bisognerebbe frequentare questo giardino che ancora deve esistere come prima, con forse lo stesso identico marinaio. Crane fu tutta la sua breve vita troppo apolitico e la sua poesia troppo enfatica, ampollosa, lambiccata – mi dispiace dirlo così – perché la constatazione innocente di questa lettera trovi una reale eco nelle sue poesie, salvo una sola volta e poi basta. La poesia s’intitola Episode of Hands, e poiché credo che non sia mai stato tradotta, eccola:

 

Episodio delle mani

 

L’interesse inatteso lo fece arrossire.

All’improvviso parve dimenticare il dolore, –

acconsentì, – e tese

un dito tra gli altri.

 

Il taglio sanguinava e una freccia di sole

scintillava e spariva tra le ruote,

cadeva luminosa, calda, dentro la ferita.

 

E mentre le dita del figlio del padrone della fabbrica

Che conosceva una presa per i libri e per il tennis

E un’altra per l’acciaio e il cuoio

Mentre le sue dita secche, ossute, avvolgevano la garza

Intorno al letto spesso della ferita

Le sue proprie mani gli sembrarono

Delle ali di farfalla

Guizzanti nella luce sui campi d’estate.

 

I calli e le croste – numerosi nella mano

ampia e profonda posata nella sua – sembravano belli,

erano come le tracce di un gioco di pony selvaggi, –

ciuffi di verde nuovo che rompono una zolla dura.

 

E i frastuoni della fabbrica e i pensieri della fabbrica

Furono allontanati da lui grazie a questa mano più grande

Più calma posata nella sua e illuminata dal sole

E quando il nodo della fasciatura fu stretto

I due uomini si sorrisero con lo sguardo.[2]

 

Hart Crane era figlio di un proprietario di fabbrica. Questa è forse una poesia autobiografica, ma ciò non ha importanza. Vi si percepisce la medesima potenza di metamorfosi già all’opera in Lorca. Poiché il figlio del padrone si prende cura dell’operaio, la fabbrica si annulla ed emergono i segni della natura: pony, farfalle, ciuffi d’erba. Come spesso nella poesia lirica, la natura è felicità e libertà selvagge, le farfalle svolazzano di più, i pony saltellano di più, sono essenzialmente e necessariamente belli. Quindi questa sollecitudine dell’uno per l’altro, del padrone a venire per l’operaio che gli è venuto, apre il campo delle metamorfosi. In questo, nulla è cambiato da Ovidio: la poesia produce miracoli. Metamorfosi e metafora sono, certamente, la stessa cosa in due strati differenti della realtà: è la potenza della liberazione dell’amore, del desiderio, del nome che si vuole e che è un gesto d’unione, di comunismo se vogliamo, nel momento in cui il comunismo diventa l’evidenza stessa del nostro essere assieme, assieme nel linguaggio (metafora) e nel mondo (metamorfosi). Nella poesia di Crane, la metamorfosi è evidentemente sessuale, altrimenti perché la ferita sarebbe trattata, metaforicamente, come un letto spesso, profondo? E quindi la via d’uscita è carnale. Si curano o si carezzano. In ogni caso, è la stessa cosa: la parola italiana carezza e la parola inglese care (curare, preoccuparsi) nascono dal medesimo bisogno avido. Do you care for peanuts? Chiedono gli steward sugli aerei. Sì, certo. Ma in questa storia di mani la cosa più interessante da constatare è una sorta di confusione estrema dei pronomi personali: a forza d’indecisioni e d’imprecisioni volontarie, non si è mai completamente sicuri di sapere a quale “lui” questo o quello accade: i pony, le farfalle, l’esplosione dell’erba. Come se fosse una poesia di amore grammaticale. Lui (l’operaio) e lui (il padrone) sono in fondo ormai identici: hanno lo stesso pronome. Non c’è che un solo soggetto privo di differenza. Per via dell’indeterminazione grammaticale, l’immediata fraternità delle persone.

Luis Cernuda ricorre al medesimo stratagemma di livellamento sintattico. Siamo ancora nel 1930. In Spagna, i ribelli si organizzano per far cadere la Monarchia e instaurare la Repubblica. Cernuda si sente abbastanza investito dalla febbre generale, abbastanza desideroso di rivoluzione totale per osare di colpo scrivere Los Placeres prohibidos, osare dettagliare i piaceri (che gli sono) vietati. Scrive, drogato dalla speranza politica, dall’energia rivoluzionaria, e allora ricorre, almeno un poco, alla grammatica repubblicana. Cerca delle espressioni della nuova fratellanza. No decia palabras è il titolo di una delle poesie della raccolta, che vuol dire indifferentemente: non avevo parole / non c’erano parole. La poesia seguente: estaba tendido / ero disteso /era disteso. Ecc. Cernuda utilizza in abbondanza questa confusione comoda in spagnolo. All’imperfetto, la prima e la terza persona singolare sono identiche. Esperaba solo / aspettava da solo / aspettavo da solo. Di colpo, è una dichiarazione d’uguaglianza: iguales, iguales, iguales ripete tre volte in io lui non abbiamo più parole. E cosa rimane a un poeta senza parole? La risposta di Cernuda: lo stesso gioco, semplicemente, delle ombre fragili nella vecchia edera – lo stesso sollievo d’erba, di radure, di merli, di gabbiani, di fiori, presso cui viene a distendersi non altri che l’io-lui. La natura isolata e se possibile non imperfetta dove – con l’operaio ugualmente senza parole, ugualmente calpestato – baciarsi non è un problema.

La poesia L’Orecchiabile (un titolo italiano e la sua tribù di traduzioni francesi possibili: Le Facile à retenir, Le Mémorisable, L’air qui demeure dans l’oreille, Le Chantonnant, Persistance du chantonnement, ecc.) Pasolini, intorno al 1970, oppone in essa due ritmi poetici : da un lato, il “veloce e saltellante” che è il ritmo della borghesia, il ritmo della spesa veloce, noncurante, leggera, senza importanza, come il denaro jazz, di cui resterà sempre abbastanza e, dall’altro lato, il tempo della “melodia” fatta di cose assolutamente semplici, assolutamente a portata di tutti e naturali e gratuite: “Piova e vento, qualche fior bianco”, quindi ancora la natura come soluzione e che, ovviamente, è il solo bene poetico del popolo. Le melodie le cantano i popoli, le cantano da qualche parte, nelle stradine di Roma. Bè, forse: semplicità del mormorio naturale su delle labbra graffiate. Ma ancora più importante è l’impatto di questi due ritmi di classe sul cazzo dei poeti: il rapido e saltellante umilia il cazzo; la melodia, invece, è il luogo dove il cazzo “faceva morire di malinconia”. Di certo, la formulazione è un po’ misteriosa: chi è, di preciso, che muore? Chi ha il potere di uccidere il cazzo melodioso? E forse si tratta soltanto di leggere: io, per causa sua – lui e il suo viso e il suo canticchiare mentre lavora tranquillamente, teneramente, ma con le sue mani sporche d’olio per motori o di cera per le scarpe, e non potrei mai abitare le stesse sillabe del suo canto e venir pronunciato dallo stesso cruccio della sua voce, da cui una malinconia terrificante, suicidale, che mi provoca il cazzo desideroso, il mio. La poesia termina con questa frase ripetuta tre volte: il corpo è col popolo. Pasolini, con i suoi ritmi di classe, aggiunge un passo ulteriore all’intuizione di Malaparte: ogni decisione letteraria è, essa stessa, una decisione politica, e quindi transitivamente, una decisione erotica.

Costantino Cavafis, anche lui malinconico inveterato, amava utilizzare delle antiche parole ereditate dall’epoca ellenistica o dal greco bizantino, ma temeva che più nessuno, salvo lui, le comprendesse. Allora andava sulle banchine del porto d’Alessandria, dicono, e chiedeva agli scaricatori greci, greco-egiziani, se le capivano. E se i giovani sudati – la canicola, il peso delle casse, il vento insufficiente, gli ordini impietosi dei caposquadra: più veloce – la capivano, la parola era convalidata, poteva conservare il suo rango nella poesia. Immagino Cavafis che annota i sì e i no, e immagino lo sguardo esitante, le sopracciglia disegnate dei portuali che pensano: ancora questo pazzo! È una leggenda fondata? Non lo so. Cavafis non era comunista, e non lo sarebbe stato per tutto l’oro del mondo. Ma aveva bisogno dell’accordo del popolo e di commerciare con lui. Chiedere a dei volti grondanti di sudore di contrassegnare le sue parole era una soluzione, ma Cavafis non è idiota, di certo non era quella la soluzione migliore. Da borghese convinto, Cavafis trova che la migliore forma di commercio sia la prostituzione: non ha torto. All’opposto dell’idealista Lorca, che dice nella sua Ode di bere “con disgusto l’acqua della prostituzione”, Cavafis non ha mai un giudizio fuori posto sulla prostituzione. Egli sa molto bene che, in un angolo d’ombra della banchina, un tallero o due saranno più efficaci della più limata poesia – anche se con parole che puoi capire – per raggiungere la delicatezza della tue mani.

Christopher Isherwood sarebbe probabilmente d’accordo. A Berlino, all’inizio degli anni Trenta, andava a letto soprattutto con poveri che erano legione: prostitute occasionali, spazzini, il proletariato in stracci di allora – vedi l’autobiografia. Dice che si sentiva più a suo agio perché non andava a letto con qualcuno della sua stessa classe, del suo stesso paese, della sua stessa coscienza o morale. Grazie ai poveri si allontanava da se stesso e soprattutto dagli altri se stessi in lui, si liberava da tutti i giudizio e, per esempio, della voce tribunalesca di sua madre. In contropartita, con i soldi che dava loro, Christopher offriva ai suoi amanti indigenti un po’ più di agiatezza: dei giorni di carne, delle camice senza buchi e forse persino calde. Era un commercio, come dev’esserlo ogni buon commercio, a doppio senso come. Al frivolo egoista Isherwood questo bastava. Auden, che era innamorato e geloso di Christopher – e ciò lo giustifica ampiamente – lo criticò per la sua scarsa inclinazione ad offrire agli amanti qualcosa di diverso dal denaro: mettiamo un’educazione, una coscienza, una voce e, persino meglio, un altro mondo. Nel 1936, in Spain, Auden fornisce il suo personale credo. È vero che negherà questa poesia più tardi, ma poco importa, perché ciò è dovuto ad altre ragioni: di colpo Auden diventa baciapile. Spain è divisa in tre tempi secondo un messianismo amoroso del futuro: “Ieri, l’installazione delle dinamo e delle turbine / La costruzione delle ferrovie nei deserti coloniali”, ieri, quindi, l’edificazione del capitalismo. Oggi, la lotta dei poveri che rivendicano e reclamano: “…O, mostraci / Storia, l’operatore / L’organizzatore…” E Domani! Domani, l’organizzatore sarà presente, il poeta. “Domani, la riscoperta dell’amore romantico,” e questa strofa:

 

Domani per i giovani poeti che esplodono come bombe,

Le passeggiate al lago, le settimane di comunione perfetta;

Domani, le gare in bicicletta

Attraverso i sobborghi nelle sere estive. Ma oggi la lotta.[3]

 

È di Lorca o Crane o Pasolini o Cernuda, il sogno del poeta quale operatore del cambiamento, il poeta che si fa bomba positiva all’opposto di quelle devastatrici che piovono allora sulla Spagna. Pasolini anche, ad esempio, sognava di produrre bombe. Alla fine di una poesia tarda, dove si presenta come qualcuno in cerca d’impiego, lui, PPP, il poeta ormai senza vocazione ma ancora interamente dedito alla vita, si propone di produrre delle poesie su ordinazione, ossia, dice lui: “ordigni”, “anche esplosivi”. In queste bombe poetico-positive, che trasformeranno & faranno belle le cose, faranno saltare lo stesso paesaggio agreste, utopico, arcadico, lo stesso locus amoenus, di qualsiasi sogno elementare: laghi, nuotate, mani intrecciate, periferie che sono regno esclusivo degli operai, gridi d’uccelli, l’estrema dolcezza dell’erba, la tua sporcizia superiore questa sera, l’affanno in cima alle colline dopo gare virili in bicicletta, un grido come “ho vinto”, qualsiasi terreno di calcio, un grido come “coraggio, siamo quasi arrivati”, un abbellimento del reale provocato dall’ipotesi amorosa, una comunione consacrata alle nostre bocche.

(Certamente vi è una preistoria di questo sogno agreste. Mentre Karl Marx lavora per terminare Il Capitale, verso il 1870 Arthur Rimbaud ha le sue illuminazioni. Non credo che scriva una sola volta la parola comunismo, ma pronuncia così tante volte la parola speranza – la parola amore. Ma consacra righe su righe alla Democrazia e all’Unitevi. Tra le forme di questo amore ritroviamo il volto rivoluzionario della fraternità – “cuore mio, è certo, sono fratelli” è uno slogan di riconoscimento pieno di sollievo – e si ritrova anche la costante preoccupazione d’inventare un buon paesaggio per i lavoratori, un paesaggio di calore appropriato e di luce amichevole. Bonne pensée du matin (Buon pensiero del mattino), ad esempio, è un’aurora di schiuma e di mare costruita per loro, con spiagge previste per i loro corpi molto tempo prima delle vacanza pagate. Da un lato, dunque, loro che sono nell’“immenso cantiere” – loro: questi “Operai affascinanti”: O maiuscola e bellezza delle loro braccia in camicia –; dall’altro, il poeta che invia loro il suo pensiero buono, che augura loro l’indispensabile “acquavite”: lo scenario è simultaneamente di mare e di alcol, l’orizzonte insaziabile, il carburante della vita vivente. Ma il poeta, direttamente, non porta loro nulla, li guarda da lontano, li invidia e li desidera da lontano, e chiede a Venere di distribuire loro la bevanda magica. Vai Venere, vai ad incontrarli: abbandona i tuoi tradizionali “pastori” e preferisci per una volta gli operai. Egli delega il proprio potere a qualcuno più intrepido ed efficace. Così, mentre Marx esplora ancora l’equazione DMD’, il poeta s’ingrazia gli operai (almeno lo desidera) attraverso la promessa dell’amore e di una trasformazione paradisiaca del paesaggio. “In attesa del bagno in mare, a mezzogiorno”: così l’ultimo verso, così la molto banale promessa di rivoluzione felice a venire: Così fu anche la promessa di Lorca. Così è il sole rinfrescato sui nostri corpi accaldati.

La mano amica che Rimbaud tende e cerca dappertutto, quella che Hart Crane cura dolcemente, sotto i raggi intimi del sole, nella corte rumorosa della fabbrica, appare spesso nelle poesie di Walt Whitman: è vagante, la lascia vagare apposta, bisogna prenderla, raccoglierla, tenerla con sé, contro di sé. Sono io, dice lei, diventiamo nostra, diventiamo noi. Nella sezione 6 di A Song of Occupations, stavo per scrivere nel salmo 6, dove il poeta evangelico loda i mestieri del mondo, le occupazioni, dice: “i gusti popolari e i mestieri hanno la precedenza nelle poesie o ovunque”. Un o inclusivo: nelle poesie in particolare, e ovunque in generale. Nella gerarchia del mondo, ci sono prima di tutto i mestieri delle persone e la poesia non può (non può e non vuole) non esserne testimone. E, alla fine del medesimo salmo, ecco il suo programma politico-religioso: ho l’intenzione di tendere loro la mano. Walt Whitman indubbiamente appartiene a questa preistoria che cerca di fare dell’invenzione del desiderio per gli operai, dell’amore per la loro barba nascente, della mano nella mano che abbiamo con loro, un operatore di eguaglianza nella poesia e nella società.)

Dunque: bisogna lavorare a trasformare linguisticamente il mondo di coloro che si desiderano o pagarsi delle puttane, e modificare economicamente delle vite, le loro vite, anche se marginalmente: pare che sia una questione centrale della poesia. Forse la sola questione davvero poetica. Jack Spicer, molto spesso, tenta di risolvere la questione ponendo un’uguaglianza, un’identità. Ama chiamare “puttane” le sue poesie. L’attività linguistica per Spicer potrebbe essere anche un’attività monetaria. In una lettera postuma a Lorca, a Lorca defunto intendo dire, a Lorca che non è più che un vento d’acacia in bocca, Spicer suggerisce che le cose nella poesia – le cose liriche della poesia, i gabbiani, il vigore dell’oceano, il pesce – non sono in definitiva che degli oggetti di scambio, “moneta piuttosto che oggetti”. Da scambiare con: sorrisi, rumori di conversazione, gambe intrecciate nei bar notturni di North Beach, San Fracisco, là dove lui vive. Nell’economia di Spicer, le poesie sono quindi una moneta di scambio: producono soldi o conversazione. Spicer animava dei concorsi di poesia orale nei bar dove passava le serate e tutti – tutti coloro venivano chiamati con il pronome “il” – potevano venire e inventare live. A cosa serviva questo? A portare clienti e a reinventare una città. In Un manuale di poesia dice che il suo obiettivo è di creare una città, o piuttosto una città-stato, qualcosa di più di una semplice città, una città organizzata politicamente, con le nostre conversazioni, e che è dovere della poesia di raccoglierle queste conversazioni. Spicer certamente aveva letto Marx come è provato dai suoi Tre saggi marxisti, tre saggi di qualche verso. Nel primo, intitolato “Omosessualità e marxismo”, Spicer arriva alla conclusione seguente: “Se noi lasciamo fiorire il nostro amore in un’autentica rivoluzione, noi rimarremo sepolti dall’offerta di letti.” Offer for beds: c’è un’offerta e una domanda – la domanda è la poesia: i poeti sono quelli che reclamano, che ti & vi reclamano con grande strepito, la poesia è solamente e interamente domanda. L’offerta verrà dalla rivoluzione.

Si trova sull’altra costa degli Stati Uniti. Si chiama Frank O’Hara ed è il contemporaneo quasi perfetto di Spicer, gli stessi paraggi di nascita e morte. Nel suo manifesto Personism – che è il solo a firmare – ma uno=tutti – ricorda per prima cosa un punto di definizione essenziale: lo scopo di qualunque poesia è di scopare. Cosa che conferma subito Spicer, sull’altra costa, nella temperatura costante di San Francisco, mormorando alla musa maliziosa della poesia: “Parla finché vuoi, mio cuore, ma dopo filiamo a letto.” Lo ripetono infatti tutti i poeti, e già Ovidio non faceva che ripeterlo, perché si tratta di una verità di fondo, o perché è il punto di partenza di qualsiasi poesia. Poi O’Hara tratta degli identificatori formali del personismo, di come si scrive in stile personista e di come si diventa membri del movimento, e spiega: “Per quel che riguarda la taglia e altre questioni tecniche, è sufficiente il senso comune: se si comprano dei pantaloni, si vuole che siano abbastanza aderenti perché tutti abbiano voglia di venire a letto con noi.” È chiaro: comune e tutti quanti e andare a letto: la poesia tende al dono di sé, del proprio corpo, a tutti gli altri. È prostituzione in un’accezione ampia del termine. La poesia ha per vocazione di essere tra due persone, piuttosto che tra due pagine. È una prostituzione. Che differenza, allora, con Spicer? “Del tutto modestamente, confesso che ciò potrebbe essere la fine della letteratura così come la conosciamo.” E altrove, in una delle sue Odi: “l’unica verità è faccia a faccia, la poesia le cui parole diventano la tua bocca.” Frank O’Hara è senza dubbio più incline a rinunciare alla poesia che il suo contemporaneo Spicer. Va fino all’idea estrema che una poesia si realizza in un “ah sei tu!”, qualsiasi tu ovviamente, tonnellate di tu. Il personismo si realizza quando non c’è più bisogno di scrivere. È accaduto, si è finiti a letto assieme. Il mondo è davvero cambiato.

*

[1] peuple pédé poème è il titolo originale del saggio incluso in La cité de paroles, éditions Corti, 2018. La versione italiana, più corta di quella in volume, è apparsa per la prima volta in “Nuovi argomenti”, nel dicembre del 2014. E poi in versione completa in “L’Ulisse”, numero 22 – Ottobre 2019: Lirica & Società / Poesia & Politica.

[2] Hart Crane, Episode of Hands: The unexpected interest made him flush./Suddenly he seemed to forget the pain,-/ Consented,-and held out/One finger from the others.//The gash was bleeding, and a shaft of sun/That glittered in and out among the wheels,/Fell lightly, warmly, down into the wound.//And as the fingers of the factory owner’s son,/That knew a grip for books and tennis/As well as one for iron and leather,-/As his taut, spare fingers wound the gauze/Around the thick bed of the wound,/His own hands seemed to him/Like wings of butterflies/Flickering in the sunlight over summer fields.//The knots and notches,- many in the wide/Deep hand that lay in his,-seemed beautiful./They were like the marks of wild ponies’ play,-/Bunches of new green breaking a hard turf. //And factory sounds and factory thoughts/Were banished from him by that larger, quieter hand/That lay in his with the sun upon it/And as the bandage knot was tightened/The two men smiled into each other’s eyes. Traduzione italiana mia [Nota del traduttore].

[3] Wystan Hugh Auden, Spain: (…)//To-morrow for the young the poets exploding like bombs,/The walks by the lake, the weeks of perfect communion;/To-morrow the bicycle races/Through the suburbs on summer evenings. But to-day the struggle.// Traduzione mia. (Nota del traduttore)

In guerra non mi cercate

1

di Giuseppe Acconcia

Questo volume antologico riunisce i versi di alcuni tra i più significativi poeti arabi contemporanei, che hanno contribuito ad animare i dibattiti politico-culturali innescati dalle rivolte scoppiate alla fine del 2010.
Il libro offre una prima mappatura della nuova espressione poetica rappresentativa di questa delicata fase della storia del mondo arabo.
Non si limita ai Paesi investiti dall’ondata rivoluzionaria, ma adotta una prospettiva più ampia, considerata la portata transnazionale di gran parte dei processi di trasformazione e dei conflitti in corso nella regione.
In guerra non mi cercate. Poesia araba delle rivoluzioni e oltre riconosce l’indubbio valore testimoniale di opere legate alla scintilla rivoluzionaria e alle sue ripercussioni, ma suggerisce anche l’intento di superare il discorso meramente politico, aprendosi alle molteplici prospettive ed estetiche che rendono il paesaggio poetico arabo attuale sempre più variegato e suggestivo.

La libertà dell’animo tradita: un dialogo con Schiller

6

di Lorenzo Graziani

 

Molti filosofi contemporanei si sono interrogati sulle ragioni del nostro strano comportamento nei confronti delle opere d’arte che suscitano emozioni negative come tristezza, rabbia o paura. Se nella vita quotidiana tendiamo a evitare queste emozioni, perché invece le cerchiamo nell’arte?[1] Questa apparente contraddizione è stata chiamata paradosso della tragedia – una formula che dice molto più sulla nostra difficoltà a capire il tragico che sul tragico stesso. Forse è davvero arduo spiegare il fascino di opere soltanto tristi o spaventose senza invocare una presunta attrazione per il negativo.[2] Ma nel caso della tragedia – almeno un tempo – il fascino nasceva altrove. Perché un’opera sia davvero tragica, infatti, non basta che rappresenti un’umanità sofferente: deve anche offrire un guadagno cognitivo sul dolore.

Questo processo, probabilmente, era piuttosto evidente per i Greci, tanto da non richiedere ulteriori spiegazioni. La nozione stessa di catarsi pone ancora oggi non pochi problemi interpretativi, forse proprio perché Aristotele le dedica solo poche e rapide parole, dando evidentemente per scontata una dinamica che per lui e i suoi contemporanei doveva risultare immediata. Iniziava a non essere più così evidente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, periodo in cui gli scritti di Hölderlin e Schiller tornano più volte proprio su questo tema. Ma quella fu anche l’ultima stagione in cui quello che sarà poi chiamato paradosso della tragedia è stato affrontato in termini propriamente tragici.

 

Tragico è l’uomo libero

È proprio Schiller, in due brevi ma densissimi testi – Sul patetico e Sul sublime – a offrirci forse la riflessione più lucida su questo tema. L’artista tragico utilizza il pathos per suscitare nel pubblico un sentimento sublime, una “sintesi tra un senso di pena […] e un senso di letizia”.[3] Poiché un medesimo oggetto non può provocare emozioni opposte, Schiller interpreta questa ambivalenza come la prova dell’esistenza, in noi, di due nature distinte: una sensibile e una razionale. La prima è legata all’istinto e alla “necessità fisica”, mentre la seconda ci distingue dagli animali e mostra la nostra capacità di elevarci al di sopra del piano sensibile. Quando tutto scorre serenamente e il mondo ci premia con il benessere, la componente razionale rimane invisibile. È solo nella sofferenza, quando la parte sensibile vacilla, che la parte razionale può emergere in tutta la sua forza. Così, nel sentimento sublime che nasce dal patetico, è la nostra natura sensibile a provare un senso di pena, mentre quella razionale sperimenta un senso di letizia, perché si riconosce capace di dominare l’istinto e di non lasciarsene sopraffare.

L’eroe tragico, infatti, non è colui che si lascia travolgere dagli eventi, ma colui che accoglie il proprio destino con dignità. Se, al culmine del dolore, resta fedele a ciò in cui crede, la sua condotta diventa prova concreta dell’indipendenza dell’essere umano dalla necessità materiale: il fatto che la natura colpisca i nostri corpi non ci costringe ad abdicare ai nostri principi. Ecco, dunque, la radice della nostra ambivalenza emotiva di fronte alla tragedia: essa rappresenta un’umanità ferita, ma attraversata da una forza che ne rivela la libertà – una libertà che nasce dal fatto che l’uomo, pur essendo parte della natura, non è interamente determinato dalle sue leggi.

Questo, tuttavia, non significa che l’eroe tragico debba essere considerato una figura “buona” nel senso comune del termine. La sua grandezza non sta nella bontà morale delle sue azioni, ma nel fatto che, opponendosi agli impulsi e alle leggi della natura sensibile, egli dimostra la libertà dell’essere umano. In tal senso, il pathos tragico non è morale in sé, ma è ciò che permette all’essere umano di riconoscere dentro di sé la possibilità di agire seguendo una legge interiore, diversa da quella imposta dall’esterno o dall’istinto. Medea, per esempio, compie un atto terribile uccidendo i suoi figli per vendicarsi di Giasone. Tuttavia, proprio perché sacrifica la propria natura di madre, la sua azione assume una forma di grandezza tragica. Non conta tanto che l’azione sia giusta o sbagliata, ma che attraverso il dolore l’essere umano riesca a staccarsi dalla sua parte sensibile, per lasciare emergere una volontà indipendente. In questo modo, la sofferenza tragica diventa la condizione per la nascita di una vera moralità.

La funzione educativa dell’arte tragica – su cui insiste Schiller – non risiede dunque nel proporci il buon esempio, ma nel renderci sensibili alla possibilità che il buon esempio esista: possibilità fondata, come egli scrive, “sull’interesse della fantasia che un’azione giusta sia possibile, vale a dire che nessuna sensazione, per quanto possente, soffochi la libertà dell’animo”.[4] Ed è proprio a questo che serve il patetico: a far emergere, attraverso la sofferenza provocata da una sventura immaginaria, la natura razionale dell’essere umano. A differenza del dolore reale, che spesso ci coglie impreparati e ci annienta, la “sventura artificiale” della tragedia ci trova vigili, nella pienezza delle nostre facoltà interiori. Grazie a questa finzione, il nostro spirito può esercitare la propria autonomia, reagendo non con disperazione, ma con forza, per affermare la sua piena indipendenza. L’arte tragica, dunque, attraverso una simbolica “inoculazione del destino inevitabile”,[5] ci addestra a fronteggiarlo e prepara l’animo a resistere anche quando la sofferenza sarà autentica. Il patetico, dunque, non è un cedimento all’emozione, ma un allenamento dell’anima alla libertà.

Attraverso il dolore, nella tragedia, si apre uno spazio di consapevolezza che nutre il senso di ciò che l’essere umano può diventare. Ma questa consapevolezza non si raggiunge opponendosi realisticamente alla natura, cioè cercando di dominarla con la forza, bensì idealisticamente. Questo accade – secondo Schiller – quando l’essere umano “si separa dalla natura”,[6] annullando da un punto di vista concettuale la violenza che essa può recargli: la accetta, senza che per questo la sua parte razionale venga piegata.

 

Il mondo calcola, l’uomo sparisce

Forse, sebbene immersi in tempi tragici (i sintomi ci sono tutti: dalla ricerca spasmodica di un capro espiatorio allo spirito profetico diffuso), non sappiamo più pensare tragicamente perché abbiamo rinunciato alla possibilità di annullare concettualmente la violenza della natura. Al suo posto abbiamo scelto la via della reazione concreta, un realismo che non cerca catarsi ma controllo, che riconosce come unici strumenti di salvezza la scienza e la tecnica.

Mi viene in mente Leibniz. Era convinto che Dio, nella sua infinita bontà, avesse creato il mondo calcolando la miglior combinazione possibile, e che molte delle contese umane derivassero solo dalla nostra incapacità di cogliere il piano matematico divino. Non c’è bisogno di ammazzarsi: il mondo è matematica, basta sedersi a un tavolo e “calcolare”. Ma l’arretratezza delle tecnologie e l’ottusità dei suoi contemporanei gli impedivano di dimostrarlo. Sognava il giorno in cui l’umanità avrebbe compreso che bastava calcolare per far regnare l’armonia.[7]

La sua sfortuna? Avere avuto ragione sul mondo, ma torto su Dio. Perché oggi viviamo davvero in un mondo immerso nel calcolo. Solo che Dio è morto. E così abbiamo un mondo che ci promette immortalità sintetiche, visto che le azioni di quelle autentiche sono in ribasso da un pezzo. Un mondo in cui chi svolge “attività tecnicamente inutili” viene – come già scriveva Jaspers quasi ottant’anni fa – “annientato senza pietà”.[8]

La meccanizzazione dell’esistenza, con la crescente pervasività della tecnica, ci ha aperto possibilità incalcolabili. Ci ha fatto sentire più forti, offrendo strumenti sempre più efficaci contro la violenza della natura. Ma non nel senso tragico, idealistico, di chi si eleva sopra la propria natura sensibile – bensì come organismi integrati nel e potenziati dal mondo stesso. È così andata perduta quella che potremmo chiamare la gratuità inesorabile con cui, nella tragedia, il destino colpisce l’eroe: una forza cieca e impersonale che si abbatte su di lui senza offrire alcuna spiegazione, sfuggendo a ogni pretesa di giustizia umana. Una realtà che si impone com’è, che va accettata con dignità, ma senza consolazioni. Al posto di questa visione tragica, nella modernità la vita si è trasformata in un’attesa continua, quasi burocratica, che il senso – anche se momentaneamente assente – debba prima o poi manifestarsi: come se ogni dolore, ogni perdita, fossero in debito di giustificazione o di riscatto.

Questa rimozione del tragico ha coinciso con una crescente intolleranza verso ogni valore che non si traduca in utilità pratica. Viviamo in un’epoca che ha fatto del progresso l’unico orizzonte possibile e che relega la finitezza umana a un fastidioso inciampo da superare. In questo contesto, il limite – ciò che nella tragedia imponeva misura e destino – viene percepito non come una realtà da comprendere, ma come un ostacolo da rimuovere. È su questo sfondo che si è radicato il mito di un progresso senza limiti, alimentato dallo sviluppo tecnologico e intrecciato con i grandi processi di quello che qualcuno ha chiamato Antropocene: dalla conquista dello spazio alla globalizzazione, dalla democrazia di massa alla digitalizzazione. In un mondo dove tutto appare migliorabile, ottimizzabile, potenzialmente eterno, la morte stessa assume i tratti di un’anomalia assurda e la coscienza moderna smarrisce progressivamente la percezione del limite. E quando il limite scompare, si diffonde l’illusione che ogni domanda sia destinata ad avere prima o poi una risposta.

Che cosa si è perso lungo il cammino? Si è dimenticato che un approccio puramente tecnico-scientifico – tutto rivolto a opporre una contro-forza alla natura – non basta. Non basta a rivelare all’uomo ciò che lo rende davvero umano. Perché l’uomo è sì un essere naturale, ma non del tutto determinato dalla natura. Aspira alla libertà, una libertà che nessuna legge fisica può spiegare. Schiacciami, natura – ma non sarò mai tuo.

Questa libertà non è data una volta per tutte. È un ideale, qualcosa a cui si tende ogni volta che ci si oppone a ciò che ci inchioda alla necessità: l’istinto, la funzione, il calcolo. L’eroe tragico – lo abbiamo detto – non è buono: è libero. È grande non perché fa il bene, ma perché si stacca dalla sua natura sensibile e, affrontando il dolore, dispiega la sua volontà che lo solleva dalle ristrettezze del normale senso del sé. La sua libertà si rivela proprio là dove non c’è alcun vantaggio, alcuna utilità. Ciò che è davvero libero, infatti, non è utile, né produttivo, né funzionale. E proprio per questo è libero. Non risponde a un comando. Non serve a nulla e non serve nessuno. È fine a sé stesso, eccedenza pura, gesto che non ha bisogno di giustificazione. Vive nel gioco, nell’ozio, nell’arte – in quelle attività che non sono obbligate e che, proprio per questo, ci rivelano che cosa può un essere umano quando non è ridotto a pura funzione.

L’uomo reale, però, non è mai completamente libero. Come scrive nelle lettere sull’Educazione estetica dell’uomo, la libertà è una “consegna della ragione”:[9] un orizzonte verso cui tendere per realizzare pienamente la propria umanità. Nella realtà, l’essere umano è vincolato a un sostrato materiale e solo entro quei limiti può esercitare la propria autonomia, cercando in essi quella forma di eccedenza che resiste alla riduzione all’utile. Là dove, invece, si illude di raggiungere la libertà soltanto attraverso i mezzi della tecnica, si condanna. Perché la tecnica non conosce l’inutile. Respinge ciò che non produce effetti misurabili e non contempla che una sconfitta materiale possa rivelare una superiorità interiore. Ma senza l’inutile – senza quella distanza da sé che solo la sofferenza tragica può aprire – l’uomo smette di essere fine a sé stesso. Diventa funzione. L’illusione di emanciparsi dalla natura con la potenza della tecnica finisce allora per renderci suoi schiavi. Ciò che doveva liberarci ci piega, ci assorbe, ci svuota. Per dirlo ancora con le parole di Schiller:

Una durata sconfinata dell’esistenza e del benessere, solo per amore dell’esistenza e del benessere, è puramente un ideale del desiderio, quindi un’esigenza che può essere posta soltanto da un’animalità che tende all’assoluto. Senza guadagnar nulla alla propria umanità […] perde la felice limitatezza dell’animale, di fronte al quale vanta ora soltanto il poco invidiabile privilegio di sprecare, per l’aspirazione a ciò che è lontano, il possesso del presente, pur senza mai cercare in tutta l’immensa lontananza nient’altro che il presente.[10]

La scienza e la tecnica, insomma, possono colmare il vuoto interstellare, ma non quello esistenziale. Come ci ricorda lo storico francese Pierre Legendre, tutto parte da una domanda fondamentale: “perché vivere?”.[11] Una domanda che tutti gli uomini si pongono – e hanno il diritto di porsi – nel momento in cui entrano nell’esistenza. Le risposte razionali che proviamo a dare a questa domanda, per quanto necessarie, non riescono mai davvero a chiuderla del tutto. Rimane un resto ineliminabile. E se questo resto non trovasse uno sbocco nei sogni, nelle immagini, nelle opere d’arte, rischierebbe di travolgere l’intera esperienza umana.

Se l’unico modo per opporsi alla violenza della natura è contrapporle una forza altrettanto reale, allora tutto viene riportato sullo stesso piano: anche il male finisce per essere spiegato, giustificato, dominato. Se ogni cosa, in linea di principio, può essere ricondotta a una spiegazione naturalistica, allora il mistero svanisce. E senza mistero – afferma Legendre – “la tragedia è liquidata”.[12] La modernità ha prodotto un’umanità che, in un mondo dove l’Altrove è stato sostituito dalla tecnica e dalla “ragion di mercatura”, pretende risposte sempre più chiare, rapide, rassicuranti, per spiegare ciò che non comprende. Ma l’attesa di una risposta che non arriva genera frustrazione. E una volta rimossa, poiché inaccettabile, la gratuità inesorabile dell’accadere, resta solo l’aggressività.

Ecco perché le narrazioni cospirative hanno così successo oggi. Queste storie mettono in scena conflitti che sembrano tragici, ma che sono privi di autentica complessità. Il male, in questo contesto, non è qualcosa da interrogare, ma solo da smascherare: sempre spiegabile, sempre localizzabile, sempre attribuito a un colpevole.

L’Abisso viene negato. E, negandolo, gli apriamo la porta. Così, nel mondo occidentalizzato e ottimizzato, la vittima sacrificale non è più il capro espiatorio. È l’umanità stessa.

*

NOTE

[1] L’inizio del dibattito contemporaneo sull’argomento può essere fatto risalire all’articolo di Susan Feagin, The Pleasure of Tragedy, in “American Philosophical Quarterly”, 20, 1983, pp. 95-105.

[2] Daniel Fessler e colleghi definiscono così il “bias di negatività” riscontrato nella psicologia umana: “rispetto agli eventi positivi, gli eventi negativi catturano più prontamente l’attenzione, sono immagazzinati più facilmente nella memoria […] e producono maggiore slancio motivazionale” (Daniel Fessler et al., Negatively-Biased Credulity and the Cultural Evolution of Beliefs, in “Plos One”, 9, 2014. doi.org/10.1371/journal.pone.0095167).

[3] Friedrich Schiller, Sul sublime, in Del sublime, a cura di Luigi Reitani, Abscondita, Milano 2017, p. 71.

[4] Id., Sul patetico, in Del sublime, cit., p. 62.

[5] Id., Sul sublime, cit., p. 80.

[6] Ivi, p. 68.

[7] Si veda Gottfried Wilhelm Leibniz, Dissertatio de arte combinatoria (1666).

[8] Karl Jaspers, Origine e senso della storia, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 137.

[9] Friedrich Schiller, L’educazione estetica dell’uomo. Una serie di lettere, a cura di Guido Boffi, Bompiani, Milano 2021, p. 185.

[10] Ivi, pp. 261-3.

[11] Pierre Legendre, La fabbrica dell’uomo occidentale seguito da l’uomo come assassino, a cura di Massimo Rizzante, Mimesis, Milano-Udine 2025, p. 27.

[12] Ivi, p. 51.

Venice 4 Palestine : occhi su Gaza al Festival di Venezia

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STOP AL GENOCIDIO – PALESTINA LIBERA!

MANIFESTAZIONE 30 AGOSTO ore 17.00 

Santa Maria Elisabetta – Lido Venezia 

Il genocidio è sotto gli occhi di tutte e tutti. L’esercito israeliano a  Gaza massacra la popolazione civile palestinese, prendendo di mira ospedali, campi profughi, punti di distribuzione del cibo e dell’acqua, scuole, università, chiese e moschee. 

La negazione degli aiuti umanitari, dell’acqua e del cibo sono una strategia del genocidio, portata avanti con la complicità degli U.S.A. e dei governi europei, compreso il nostro che continua a sostenere Israele economicamente, politicamente e diplomaticamente, continuando a fornire armi e mantenendo gli accordi commerciali. 

Inoltre con il perseguimento del sistema di apartheid e pulizia etnica portata avanti dall’esercito israeliano e dai coloni armati nella Cisgiordania occupata, l’uccisione programmata di giornalisti e medici, il sequestro di navi come la Freedom Flotilla, ed ora l’annuncio ufficiale dell’occupazione di Gaza fatto da Netanyahu, l’escalation di violenza sembra non avere fine. Israele sta annientando Gaza e la Palestina: ogni limite è stato superato. Le atrocità vanno fermate!

Nel momento in cui gli occhi del mondo saranno puntati su Venezia e la Mostra del Cinema, abbiamo il dovere di far sentire la voce di tutte le persone che si indignano e si ribellano: puntiamo allora i riflettori della Mostra sulla Palestina.

Non vogliamo più sentirci impotenti, Israele va fermato!


Seguono le adesioni di moltissime associazioni e professioniste/i del cinema e dell’audiovisivo, tra cui Matteo Garrone, A firmarla, fra gli altri, Marco Bellocchio, Laura Morante, Abel Ferrara, Alba e Alice Rohrwacher, Toni e Peppe Servillo, Matteo Garrone, Valeria Golino, Moni Ovadia, Michael Moore, Annie Ernaux, etc, etc.

Alex Langer, militante di dialogo

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di Goffredo Fofi

Quello che segue è uno dei capitoli (“Dialoghi”) del testo di Goffredo Fofi contenuto nel volume – da lui curato – dedicato a Alex Langer, “Ciò che era giusto. Eredità e memoria di Alexander Langer“; il volume, pubblicato da Alphabeta Verlag – che ringraziamo della disponibilità – in occasione del trentennale della scomparsa dell’attivista altoatesino, contiene anche diversi suoi testi inediti.

Il 3 luglio 1995, esattamente trent’anni fa, Alex Langer si tolse la vita nei dintorni di Firenze. Rimane, la sua, una delle più luminose figure di militante negli anni sessanta e seguenti. Capitini non amava la parola “militante”, che rimandava al sostantivo “militare”; preferiva parlare di “persuaso”, nel significato che dava al termine un giovane e geniale filosofo goriziano, morto anch’egli suicida nel 1910 a soli ventitré anni, dopo aver scritto uno dei testi fondamentali della filosofia del Novecento, La persuasione e la rettorica.[1] Per intenderci: un persuaso era stato, secondo lui, Socrate, mentre un “retore” Aristotele; di Socrate ce ne sono ben pochi nella storia del pensiero e delle azioni umane con esso coerenti (tra loro vi fu Gesù il Nazareno), mentre i retori sono milioni, le università ne sono piene e ogni anno ne sfornano a migliaia.

Alex è stato uno dei più limpidi esempi di “persuaso” che abbia avuto la fortuna di conoscere. Era nato a Vipiteno (Alto Adige, o meglio Sudtirolo) nel 1946, si è sempre mosso con grande agilità tra due lingue e due culture, e per tutta la vita ha continuato a far da “ponte” tra parti e identità che si fronteggiavano, nella sua terra come in altre – in particolare, lo abbiamo visto, nelle lotte intestine alla Jugoslavia in sfacelo tra nazionalità, appartenenze religiose, visioni politiche. Il suo scritto più amato e ricordato, tra i tanti bellissimi che ci ha lasciato, raccolti ormai in agili libri, è una “lettera a San Cristoforo” del 1990 che andrebbe studiata nelle scuole: una cristallina riflessione sul dilemma ecologico che oggi particolarmente ci angoscia di fronte a disastri che abbiamo già vissuto e che con la nostra egoistica disattenzione abbiamo contribuito a provocare, e ai tanti che ancora si annunciano.
Così si conclude lo scritto:

Ci vorrà una spinta positiva, più simile a quella che ti fece cercare una vita e un senso diverso e più alto da quello della tua precedente esistenza di forza e di gloria. La tua rinuncia alla forza e la tua decisione di metterti al servizio del bambino ci offre una bella parabola della “conversione ecologica” oggi necessaria.[2]

In quella parola, “conversione”, è mirabilmente condensato il retroterra culturale e spirituale di Alex, il senso cristiano che permeava il suo impegno politico, la sua “missione”. Il dialogo tra parti divise dalla lingua e dalla storia, dalla bandiera e dalla religione, dalla condizione economica e dalle convinzioni politiche, è alla base di ogni civile convivenza, ma Alex vi aggiungeva l’indispensabilità del dialogo con la natura, con le altre “creature”, col vivente tutto, continuando a cercarlo e praticarlo momento per momento, fino a morire delle tante tensioni cui quest’azione, continuamente frustrata dalla politica e dagli interessi particolari, provocava. E uomo di dialogo ha voluto esserlo sempre, da italiano di confine e tra due lingue, da cattolico amico dei protestanti, da borghese dentro le lotte sociali antiborghesi, da pacifista ostinato in un contesto bellicoso, in un mondo – i movimenti politici giovanili degli anni sessanta e seguenti – nel quale era attiva solo una fragile minoranza che si dichiarava cristiana. E trovandosi vicino, a Firenze, ai più tenaci e radicali dei “disobbedienti”, come don Lorenzo Milani e padre Ernesto Balducci; aderendo, in Alto Adige e in Europa, al grande e purtroppo effimero movimento dei Verdi; incontrando più volte e mantenendo un dialogo fecondo con Ivan Illich. In Italia da militante di Lotta continua, ma anche da insegnante capace di stabilire con i suoi allievi un dialogo stimolante e intensissimo, e nella ex Jugoslavia, ma anche in Israele, praticò lo sforzo, quasi sempre frustrante, di un dialogo il più concreto possibile tra le parti. Senza mai abbandonare le sue convinzioni ecologiste, insieme ad altri dette vita, per esempio, alla Fiera delle Utopie concrete in Umbria, un’occasione di incontro e di confronto fra esperienze e progetti diversi al fine di promuovere la conversione ecologica e la cultura della convivenza. A differenza di quanto ho potuto notare in tanti altri leader, non ho mai visto Alex essere arrogante con i suoi interlocutori; l’ho sempre visto esercitare un dialogo caparbio ma chiaro, rispettoso delle altrui convinzioni ma ben saldo in quelle che si era costruito nella pratica sociale e politica, mosso costantemente da un’intima persuasione umana, politica e religiosa.

Chi l’ha conosciuto sente oggi più che mai la sua mancanza, e non può non rileggere senza commuoversi le sue ultime parole, la sua lettera di congedo dal mondo: «I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più».

Aveva chiesto troppo alle sue forze, alla sua capacità di resistenza? O siamo noi che l’abbiamo lasciato troppo solo, non gli siamo stati vicini abbastanza, abbiamo chiesto troppo poco a noi stessi? Noi che continuiamo a chiedere troppo poco a noi stessi e ai nostri amici?

[1] C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2021 [1922].

[2] A. Langer, Caro San Cristoforo, in “Lettera 2000”, febbraio-marzo 1990; Il viaggiatore leggero, Scritti 1961-1995, a cura di E. Rabini, A. Sofri, Sellerio, Palermo 2011 [1995], pp. 405-410.

 

NdR Nazione Indiana ha pubblicato l’estate scorsa [qui] un ricordo di Alex Langer di Marco Boato.

A proposito dell’altro volume uscito di recente su Langer, “Continuate in ciò che è giustodi Alessandro Raveggi (Bompiani), che ha avuto ampia eco sulla stampa e sulla rete, ci sembra interessante rimandare anche alla lettera [qui] indirizzata all’autore dallo scrittore e critico altoatesino Stefano Zangrando, apparsa sul magazine bolzanino “Salto”.

L’omaggio di Davide Orecchio a Goffredo Fofi, mancato in concomitanza con l’uscita del volume da lui curato, si può leggere [qui].

 

 

Pelle su pelle

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di Federica Rigliani

Ci trovammo il tardo pomeriggio di un’estate agli sgoccioli, noi due. Su una spiaggia deserta e
sotto un cielo violaceo. Col borsone a farmi da cuscino e la sabbia fredda tra le dita dei piedi,
leggevo un romanzo; gli angoli delle pagine stretti tra due mollette per capelli perché non le
chiudesse il vento. Fu l’aria a portarmi l’afrore che emanavi. Svettavi sulla battigia tra due lame
azzurre: quella tersa del cielo e quella fluttuante dell’oceano, dorata solo lì, nel punto dove il sole
stava per tuffarsi.
Apparivi e scomparivi oltre i lembi del mio lungo abito bianco: nascondevano e svelavano i tuoi
tendini in rilievo, i muscoli densi, gli arti esili eppure robusti.
Eri forma fatta perfezione, gentilezza che aspettava di tuonare.
E nel fissare la tua regalità, risentii a una a una le parole di mio padre.
Avevano tutte la sua voce.

Non muoverti, sussurrò il giorno che caddi male.
Cavalcavo da anni, ma la pioggia ci colse di sorpresa e i cavalli mantennero la calma finché non
arrivò un temporale. Terrorizzata dallo sfolgorio dei lampi Perla nitrì di un grido quasi umano e,
indomabile, dopo aver sgroppato in avanti mi disarcionò. Respira, disse babbo riempiendosi i
polmoni, era in sella a Sauro e senza togliermi gli occhi di dosso mi invitava a imitarlo. Stai ferma,
disse allo schianto di un nuovo tuono, quando Perla si sollevò grattando con le zampe l’aria sulla
mia testa.
Rimase impennata davanti a me per un tempo sospeso: le mammelle oscillavano dal ventre,
solcato da un reticolo di vene prominenti, e le cinghie di cuoio scricchiolavano mentre il sottopancia
si allentava. Una statua a mezz’aria, fin quando gli zoccoli anteriori affondarono nella terra
melmosa schizzandomi il viso di fango, e le fibbie cedettero. Poi, scartando a sinistra, sparì al
galoppo tra il verde scuro degli alberi. Non avevo mai visto tanta eleganza maestosa e selvaggia.
Babbo mi caricò su Sauro e mi tenne stretta davanti a sé, tra cosce e braccia, mentre governava
con difficoltà il cavallo. Mi ero slogata una caviglia. Me la fasciò sotto la tettoia di un’area
attrezzata, dove trovammo riparo fino a quando le nuvole si alleggerirono e si fecero biancastre e
dove, non so come, tornò Perla. Ora era calma e aveva il dorso lucido d’acqua. La accarezzai, mi
rimase il pelo bagnato sulla mano, il suo odore forte, la voglia di montarla.

Pelle su pelle era da sempre una mia fantasia. Arrivava dai libri sugli indiani d’America e
celebrava il contatto ancestrale tra l’uomo e l’animale, consacrato dal soffio del Grande Spirito che
fonde in un unico equilibrio il tutto vivo. Erano stati un regalo di mio padre. Me li leggeva prima
che imparassi a farlo da sola e da ragazzina mi portava al maneggio. Risalivamo al trotto le colline
tra cipressi puntuti e fieno dorato, cavalcavamo sull’erba medica che si stendeva tutt’intorno,
gridavamo al vento. Io ero squaw dai nomi di Luna; lui Geronimo, Toro Seduto, il figlio di un
Grande Capo. Immaginavamo bisonti pascolare nella pianura, li cacciavamo con giudizio e dopo
averli uccisi rendevamo grazie a Manitù per il loro sacrificio. Poi tornavamo alle stalle, riponevamo
le selle, strigliavamo i cavalli.
Quel pomeriggio di fine estate, il formicolio che mi attraversò rinverdì il mio sogno solitario e le
parole di mio padre aprirono il sentiero delle possibilità. Oltre la paura delle prime volte.

Io sono come sono perché lui era come era.
Con la testa di pietra difendo l’anarchia che mi ha trasmesso.
Forse, anche per questo sono sola.
Non temere i pericoli, fanno parte del gioco della vita, diceva. Perché l’insidia è ovunque e anche
nella monotonia si può essere imprudenti: potevo aprirmi la testa scivolando in doccia o essere
investita sulle strisce pedonali mentre andavo a scuola. Quindi, mi invitava a sfidare la mia
curiosità, ché osare sfora i limiti, e farlo può schiudere sorprese meravigliose quanto ali di farfalla.

Però mi ha insegnato a ponderare l’impulso, valutare i rischi e mettere radici salde al mio ardire.
Come il giorno che mi ha calato con un piccolo canotto in una chiesa romanica sprofondata su una
sorgente. La navata destra poggiava sbieca sul terrapieno che l’aveva ingoiata, e la cornice di quella
che era stata una vetrata rimaneva a livello del prato, sbarrata da una X di un nastro rosso e bianco
che oltrepassammo mano nella mano. Seduti sull’erba, piedi penzoloni, quasi toccavamo l’acqua di
quella piscina cristallina, un mondo ondulante e sommerso che restituiva luccichii cangianti sulla
volta di tufo calcareo, integra e rimbombante di suoni per me misteriosi, quasi arcani. Avevo dieci
anni.
Nulla potettero gli ori e gli argenti appesi al collo e vinti a rana, a dorso e a stile libero nelle mie
competizioni Regionali, babbo assicurò il canotto a una fune e sentenziò Giubbotto salvagente e
niente bagno
. Poi diede metri alla corda e quella sguisciò come una biscia dalle sue dita.
Sentivo lo scafo diventare freddo sulle gambe mentre scivolava in acqua senza lasciare scie,
rallentavo lo sguardo e trattenevo ogni dettaglio perché non mi sfuggisse la più piccola bellezza,
intorno e sotto di me.
L’eco dello sciabordio sulle pareti si diffondeva come respiro vibrante delle pietre, ravvivate da
lame luccicanti che fendevano la penombra per inabissarsi tra le alghe verde malva. Licheni sulfurei
di ogni forma sporgevano a grappoli dal muschio amaranto, ricoprivano in parte le pareti e ne
ammorbidivano le spigolosità. Su qualche Ex Voto ancora cementato, i ringraziamenti e il tipo di
grazia ricevuta; quelli sommersi erano spaccati in più parti con le scritte interrotte, accanto a lucidi
ciottoli bianchi, grigi, a tratti verdognoli, che si intervallavano ad antichi mosaici cosmateschi.
Bolle sorgive dalle rime della terra li plissettavano in un gioco di luminescenze, risalivano l’acqua
arricciate in un gorgoglio muto che ribolliva in superficie, mi esplodevano silenziose tra le dita per
dilatarsi in leggere e sempre più ampie increspature.
Immagini che lo stupore di allora rende ancora vive, regali rubati al no del diniego.
Quando babbo ha lasciato per sempre la mia mano, ho continuato a vedere le sue orme appaiate
alle mie nei crocevia delle incertezze: rifletto prima di osare e azzardo solo se cosciente delle
risposte da opporre all’imprevisto. Decisa e fiera. Come mi voleva lui di fronte alle sfide.
E ora, la mia sfida eri tu.
Lasciai cadere l’abito, tolsi le mutandine, disfeci lo chignon sfilando il puntale d’osso affilato, che
cadendo si conficcò nelle piccole dune adombrate a mo’ di meridiana. Pregavo che non te ne
andassi mentre schivavo conchiglie e ossi di seppia per evitare il più lieve dei rumori: i lunghi
capelli al vento, la brezza tra i ricci corti del pube, i capezzoli grinzosi come olive nere secche.
Ti raggiunsi con l’ansia in gola.
La mandai giù insieme alla saliva.
Con l’acqua alle caviglie sondammo occhi negli occhi la distanza che ci separava, tu scrollavi un
sopracciglio nel tentativo di scacciare una mosca, io mi guardavo riflessa nelle tue pupille verticali,
caverne d’ebano spalancate sulla mia immobilità. La tua criniera sventolava nella stessa direzione
delle mie ciocche libere, di un castano leggermente più chiaro dei tuoi crini. Quando la mosca si
posò sulla vena che discendeva verticale il tuo muso, dilatasti le narici con uno sbruffo infastidito.
Quello fu il mio la.
Un passo avanti e a braccia tese accolsi nelle mani le rientranze ossute delle tue guance,
gocciolavo dalle ascelle con un odore acre. Poi appoggiai la fronte sulla tua. Per rassicurarti. Per
rassicurarmi.
Schioccai la lingua e riempitimi i palmi della compattezza del tuo fianco, marrone come il fieno
più scuro, conficcai le unghie nel garrese bollente, rafforzai la presa, spinsi sulla sabbia come molla
e scivolai in una caduta goffa. Una volta e un’altra ancora.
A qualcosa dovevano pur servire le conoscenze di amazzone in erba che avevo, me lo chiedevo
mentre tu, docile e calmo, accoglievi con sguardo bonario ogni mio tentativo. Fino al salto decisivo,
quando senza bardature e finimenti mi pizzicasti i glutei, sui quali mi spostavo in cerca di
equilibrio, e le labbra tra le gambe. Ti strinsi tra le cosce in una morsa e mi inondasti di calore irto, un solletico sconosciuto che accolsi con stupore. Eri la mia sella e la tua pelle pulsava sulla mia.
Niente staffe. Niente morso. Ora dovevo fidarmi di me.
Sibilai shhh coi seni premuti sul tuo collo, intrecciai alle dita i crini più lunghi e venni su nell’aria.
Tirai a me il braccio destro, voltasti il muso da quel lato; provai a sinistra, rispondesti. Allora
deglutii e, gonfiato il petto, ti spronai con due leggeri colpi di tallone.
Fendesti al trotto la linea d’acqua e sabbia che sposava il mare alla costa, uno dietro l’altro
affondavi gli zoccoli ferrati nello sciabordio blu e bianco delle onde. Sorridevo al piacere del tuo
massaggio ispido e mi modellavo come terra bagnata sul tuo dorso morbido e legnoso. Le spalle in
un su e giù dinoccolato e le ginocchia nella stretta di un’andatura dolce che presto non mi bastò:
volevo sbattere con vigore le mie pieghe sulle tue. Quindi strizzai gli occhi, bussai così forte tra
ventre e fianco che ti infilai i calcagni tra le costole, e al grido Op! cedemmo al galoppo come
freccia allo schioccar dell’arco.
Gli stabilimenti balneari, smontati in assi di legno accatastate, facevano da cornice a deboli luci in
lontananza, e del sole, inabissato sotto un’aureola argentata, non rimaneva che un fulgore oltre
l’indaco scuro, solcato all’orizzonte da grandi navi e, sotto costa, da piccole imbarcazioni accese
dalle lampare dei pescatori. Entravamo nella notte che si avvicinava spaccando il vento e le onde:
deflagravano in mille gocce al tuo passaggio, esplodevano con bagliori grigio acciaio, incendiavano
l’acqua, mi riconsegnavano a pioggia l’oceano sulla bocca e sul corpo ramato. E goccia dopo
goccia, mi impastavo a te.
Non so dire quando il mio odore segreto si mescolò al tuo di paglia e di stalla, di stabbio e di
fango melmoso. Forse fu quando si amalgamarono i sudori, e io, inerme, assecondai l’eccitazione
selvaggia che mi colse. Battevo forte su di te. In levare perdevo aderenza e una freschezza invisibile
addolciva l’attrito tra le cosce, poi tornavo a combaciare col tuo caldo in un singulto. Un altro. Un
altro ancora. Vestita d’aria penetravo il soffio di Manitù e il suo tutto vivo, con la pelle indolenzita
da un diletto carnale rude e meravigliosamente brutale. Risucchiate dal tuo dorso e schiuse come
corolle, le labbra gridavano tumide e irrorate.
Socchiusi più volte gli occhi. Più volte ansimai. Finché, ormai molle, resi tumultuoso il
godimento, cedetti allo spasmo, strozzai un grido e il sale mio divenne tuo.

Europa, ti vedo

1

Di Francesca Matteoni

 

Dalla Limentra

Vedo da un sasso Europa
che si sfilaccia,
vacca sfinita, nuvola, traccia
sospinta oltre il suo senso di terra.
Suburra che spurga dai confini –

erano popoli altri, destini
erano lingue, culture, animali, erano
ombrose radure, rivi di storie –

le potevamo ascoltare
nei sogni lenti dei viaggiatori, nel fiotto
sgorgante dei mari che migrano
s’insabbiano, poi migrano ancora
sui dorsi sconvolti delle balene
o di quel bestiame più strano di non morti
di zaini sfibrati di deserti
tutti accalcati e senza vele,
smangiati dal sale nei porti.

Stridono senza respiro le tue molte occasioni –
capitali, compromessi, massacri coloniali di espansioni.
Scrosti dal sonno il muschio
e dalle case gli interni, li sventri –

biblioteche, cortili, scuole, ospedali
un suolo sfregiato d’arsenali.
E rogge, bacini, fiumana di pianto o vasche
per acqua piovana che scende
di polvere che esplode la polvere
la distende.

Il tuo latte bovino una reliquia nella bocca
mai nata di un bambino, una sbarra infilzata nel cranio
di un canarino, una farina di sterco
di figlia carbonizzata nell’accampamento.

Esportano ancora col rogo il dio
del tuo sacramento, chiamando terrore
il lamento di chi si divincola al giogo.

Eri un rito di unione interspecie, di isole, olivi
pace e scogli di sole per i naviganti –
commercio di spezie e alfabeti.
Ora muggisci ai bivi delle tue leggi eleganti
snoccioli gli appellativi dei cieli
che sgravano armi, volti le teste
in cortese dissidio
quando sversi pietà come un genocidio.

Una promessa di libri, cammino, mezzo
secolo della mia vita o della tua stessa, Europa
cumulonembo a occidente, ti vedo
su questa crepa
di torrente
su questo luogo d’acqua e alta valle
fessura non coltivata, accompagnata a morire
dai tuoi soliti legislatori, che spregiano ma stingono
nei ritornati fiori (erbe palustri fra i piedi
faggete, castagni, abetaie e perfino
la cascia selvaggia) –

nei boschi impoveriti di frutti e lamponi
perché vengono meno gli umani coi loro nervi di piante
i loro organi di cave montane, di resti
d’ossame e cinghiali, di ramaglia che si accatasta
al fuoco invernale e la nebbia
sfiata il suo tempo, sovrasta.

Una poiana passando ti schianta
sul biacco verdastro, schivo, tralcio
vivo che scatta, si interra nel buio
prima che il legno apra l’occhio della civetta.
Cadi e traspari in un pegno sui corpi ambrati
in questo giorno di tutte le estati, in questo vincolo
di sangue che l’onda non lava, non scava
a nuova esistenza, non ricresce
ti lascia sbranare nella tua convinzione.

Scivolo dentro un paese di cui ignori
il nome. A notte la nuvola è pozza poi vena –
sgoccia non vista la sua cantilena alle genti.
Beve con tutti i suoi denti una faina –
ignora il memoriale delle menzogne, le prospettive
carogne, l’illusione di intero continentale.
Pura e indisposta a salire a le stelle
si sazia, infoltisce la coda, ricorda
la preda in un fremito
sotto la pelle. Si sciacqua. Si sperde.

 

18 -20 agosto 2025, Fabbriche di Treppio, Limentra – Pistoia

 

 

Note

La poesia si ispira al mito greco secondo il quale Zeus prese la forma di toro per rapire la principessa fenicia Europa e condurla sull’isola di Creta. Buona parte della Fenicia corrispondeva all’attuale Libano e ai territori palestinesi. Nella poesia è Europa a essere vista come una nuvola che ha forma di mucca, di madre bovina.

I tuoi soliti legislatori… il riferimento è al recente Piano Nazionale per le Zone Interne approvato dal governo Meloni, dove si legge: “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza, ma devono essere accompagnate in un percorso sincronizzato di declino e invecchiamento”.

Pura e indisposta a salire a le stelle è una rielaborazione in chiave “fainesca” del verso di chiusura del Purgatorio, dove Dante scrive: Puro e disposto a salire a le stelle.

Il trattamento del silenzio

3

Gianni Biondillo intervista Gian Andrea Cerone

Gian Andrea Cerone, Il trattamento del silenzio, Guanda, 2023

Dopo il successo del tuo primo giallo, dopo un anno, sei già in libreria. Lo stavi scrivendo prima ancora di sapere come sarebbe andato Le notti senza sonno?

È così. Qualcuno potrebbe chiamarla fiducia cieca o fede incrollabile, una cosa molto calvinista. Ma la realtà è più semplice. Mi ero appassionato alla scrittura e mi interessava proseguire le avventure del precedente romanzo. Come mio primo lettore, ero curioso.

L’Unità Analisi del Crimine Violento, più che una squadra sembra una famiglia. Che in questo episodio si sta disgregando. C’è chi se ne va, chi arriva.

Il trattamento del silenzio parte da una situazione scomoda per la famiglia della squadra. Il commissario Mandelli è uomo da tempi lunghi, non a caso ama la storia e ha un’infinita storia d’amore con sua moglie. Quindi sfugge al tempo stretto e sincopato delle indagini rifugiandosi in Università. Marica Ambrosio è alle prese con i rimorsi maturati nel primo romanzo. Casalegno, abbandonato in compagnia delle sue fragilità personali, deve occuparsi del terribile caso che gli viene affidato. Alcuni torneranno, altri se ne andranno, come nella vita. Qualcun altro arriverà. Ad esempio un’affascinante poliziotta valtellinese capace di dare più di una scossa emotiva ai nuovi colleghi.

Il libro si apre con una scena crudele, macabra. E c’è un libro segreto che scompare.

Direi volutamente gotica. Ma tutto il romanzo è una sorta di feuilleton travestito da noir moderno immerso nella Milano attuale. I crimini si prestano al racconto della vendetta famigliare, della violenza nei confronti delle donne e dell’inganno più subdolo. L’antico libro che scompare – una cinquecentina il cui titolo e autore sono veri – nasconde tra le sue pagine il segreto del titolo e la chiave per risolvere il mistero.

A questa storia se ne affianca un’altra non meno inquietante. Ce vuoi parlare, senza anticipare troppo della trama?

È una storia incidentale che coinvolge e sconvolge Mandelli, un pretesto per raccontare gli intrighi criminali che, insieme alla pioggia, inzuppano Milano. Un redde rationem per il suo tentativo di voler evadere dalla routine investigativa.

Quasi seicento pagine, e il precedente non è da meno. Sei un grafomane impenitente?

Percepisco la sofferenza dello scrittore nella tua domanda. Per ora è così, credo sia la misura corretta per raccontare trame complesse, ma non escludo futuri formati ridotti.

(pubblicato precedentemente su Cooperazione, nel 2023)

I pezzi mancanti I-XV

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di Marco Balducci

Un estratto inedito da I pezzi mancanti I-XV di Marco Balducci.

I – IV

i pezzi mancanti:
non è precisato il numero, né la posizione. Si
possono fare tentativi, ipotizzando insiemi
complessi, spostare di posto dati conosciuti,
reinterpretandoli. Ricominciare da zero. Non
dare nulla per acquisito. Diversamente
provare a essere un altro: usare un’ altra
logica o nessuna logica, indifferente a ciò che
adesso, sotto ogni aspetto, appare senza
alcuna importanza

srotolare
la carta igienica, pulirsi, fare il punto: ridere
come un demente. Sbadigliare. Il peso netto
si ottiene sottraendo la tara, che può
coincidere con il peso lordo. Inutile denu-
darsi, osservarsi allo specchio: con la testa
sotto il getto dell’acqua fredda i pensieri
tornano all’ombra di viali alberati, in estate

scivolare avanti
in una frana di detriti di intenzioni disgre-
gate, per l’impossibilità di fermarsi, per la
spinta inerziale della massa risultante… A
parole ricostruire le cause: parole che vanno
a fondo, rallentando i riflessi, spiegando
l’attrito dell’aria e il silenzio inconcludente

al mattino
il letto galleggia su un mare calmo. Nell’aria
calda uccelli volano alti, con strida di
richiamo. Dalla strada arriva lo sbattere
ripetuto del compattatore e la successiva ri-
partenza. Cerchi concentrici che si ingran-
discono, che si riformano, si riformeranno

V – VIII

nei fatti, nelle concrezioni
affondare la mano, il braccio fino al gomito,
non rinunciare, saldarsi alle linee in mo-
vimento, alle luci delle gallerie che scorrono
in serie veloci, alle voci che tornano in
mente. Resistere al gioco delle associazioni,
distogliendo lo sguardo: trovare oltre i
margini del foglio le parole che occorrono

interrompersi di continuo
distolti, dissipati… fuori piove. Leggere la
stessa frase più volte senza capire. È tardi, (è
sempre tardi). Alzarsi per inerzia, mossi dalla
molla di un automatismo. I fogli bianchi:
sono vuoti che attirano, ondeggiano sotto uno
sguardo attonito. Rendersi conto. Aspettare
che qualcuno prenda il tuo posto

nelle sovrapposizioni
si determinano vuoti, pieni solidificati, ve-
lature di densità variabili. Sulle guance si
apprezza il peso della materia, il cambio di
temperatura nelle trasmutazioni chimiche.
Nasi, zigomi e menti emergono da calchi
disciolti di tempi incompiuti per combaciare
nella memoria di incanti reiterati ad arte

Elogio estivo della ‘realtà’ nordcoreana

0

di Leonardo Canella

0. i vermi più lunghi del mondo vivono nello stomaco dei nordcoreani. Quando il Dudy dottore mi ha detto guarda che i  vermi più lunghi del mondo vivono nello stomaco dei nordcoreani io non ci volevo credere. Io ho quattordici barattoli  di vermi in salotto. Il barattolo dei vermi che misurano meno di  un centimetro sono vicino alla pianta dello schisto. Gli altri,   dipende. Quando il Dudy dottore mi ha detto guarda che i vermi   più lunghi del mondo vivono nello stomaco dei nordcoreani ho   cominciato a cercare un barattolo nuovo.

1. cosce lucidoleose nel piatto (grosse grosse) patatine croccanti grosse grosse pure loro barattolo ketchup rossoplasticoso come piace a te. C’è pure l’hamburger se non vuoi il pollo. E la maionese pure lei. Coca-cola, grazie! Quando ho fame guardo i video sulla Corea del Nord. La sera, su YouTube. La Polly non cucina per la storia dei quattordici barattoli di vermi in salotto. E i barattoli dei fagioli Budget sono finiti.

2. cosce lucidoleose grosse grosse patatine croccanti coca-cola, grazie…Su YouTube. In Corea del Nord trovi le cosce lucidoleose su un piatto…bellissime. Anche la coca-cola, ti dicevo. TUTTO in vetrina. E in vetrina ci sono foto. SOLTANTO. Ci sono le foto in vetrina, ti ho detto, e tu vedi cosce lucidoleose grosse grosse patatine croccanti grosse grosse pure loro coca-cola (grazie!). Così ho capito perché i vermi più lunghi del mondo vivono nello stomaco dei nordcoreani come mi ha detto il Dudy dottore (cfr.supra). Al telefono, prima di dormire.

3. dietro non c’è niente. Però ci sono le foto in vetrina e tu c’hai il verme più lungo del mondo nello stomaco. Il Dudy dottore dice che c’abbiamo tutti il verme più lungo nello stomaco quando siamo sui social che ci sono le cosce di pollo lucidoleose grosse grosse eccetera eccetera. In foto, in vetrina (coca-cola, grazie!). Dudy dottore molto filosofico, ho pensato. Siamo tutti nordcoreani, dice.

4. ho cercato così un barattolo nuovo per il verme più lungo del mondo. Io ho quattordici barattoli di vermi in salotto, ti dicevo. Il barattolo coi vermi che misurano meno di un centimetro sai già dove trovarlo. Gli altri, dipende. Ho chiesto se qualcuno ha il barattolo adatto per il verme più lungo del mondo. Sui social. Mi ha risposto Canella. Devi mettere il verme più lungo del mondo dentro una nughetta, mi ha detto. Così ho messo il verme più lungo del mondo qui dentro.

5. che il verme qui dentro dice che adesso ci avrebbe anche lui delle belle riflessioni filosofiche per questo Elogio estivo della ‘realtà’ nordcoreana. Come il Dudy dottore, filosofico pure lui (cfr.supra). La Polly non cucina per la storia dei quattordici barattoli di vermi in salotto, lo sai. E i barattoli dei fagioli Budget sono finiti. L’ho detto, mi pare. Però non ti ho detto che il verme più lungo del mondo guarda le cosce di pollo lucidoleose grosse grosse pure lui. La sera, su YouTube. Coca-cola, grazie!, dice.

6. Un’estate con la Principessa di Clèves

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Immagine di Clelia Le Boeuf

Un’estate con la Principessa di Clèves è un podcast a cura di MARCO VISCARDI, letture di GIULIA MILANESE, sei puntate con ospiti e letture del romanzo alla scoperta di un classico della letteratura francese.

SESTA PUNTATA
6.”Un’estate con la Principessa di Clèves
La fine. I Pirenei.” con MATTEO PALUMBO

Si può seguire il PODCAST su:

⇨ Youtube

⇨ SPOTIFY

⇨ PocketCasts

Le altre PUNTATE
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il mondo esteriore” con CLAUDIO GIGANTE
2.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Storia di un matrimonio” con PASQUALE PALMIERI
3.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il delirio della distinzione” con EMANUELA SURACE

4.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ La fine delle buone maniere” con VALENTINA STURLI
5.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “L’occhio infranto” con GIUSEPPE MERLINO

La radura

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Immagine generata da AI

di Martina Ciullo

Inizia così: siete vicini a una radura, per niente diversa dalle solite radure di cui si legge nei racconti, anzi pressoché identica, solo che in questa radura un neonato sta piangendo. Grida acute di gattino cieco che è rimasto senza latte. Non lo vedete, lo sentite e basta, e questo accade perché la radura, da brava radura, appunto, è impervia da raggiugere. La boscaglia fitta che le sta intorno prova a impedirvi di inerpicarvi fino a lì. La cinge dolcemente con del filo spinato impenetrabile.

Ma il neonato strilla come se voi foste la sua unica possibilità, e quindi decidete di farvi pungere gli occhi dagli arbusti e le braccia dalle spine dei rovi e le gambe dalle ortiche pur arrivare nel mezzo.

Purtroppo quando arrivate è tardi, tardissimo, così tardi che è già buio pesto e nessun neonato piange più. Inoltre la radura non è una semplice radura, si perde a vista d’occhio e sconforta come il mare quando lo si scruta durante una traversata in barca a vela.

Nelle orecchie però avete ancora quel pianto di gola. Come potreste fare per ritrovarlo? Decidete di cantare. Cantate forte, fortissimo, sperando di svegliarlo. Il neonato non si sveglia. Non emette fiato, sembra quasi non esistere più.

Allora vi sdraiate nella radura e il fischio di un civetta vi accoglie nel mondo che non speravate nemmeno esistesse. Ci entrate in modo facile, solo chiudendo gli occhi, che una volta riaperti siete ciechi ai sensi normali.

Ora vedete il bambino, è un uomo indefinibile e senza età, l’idea platonica dell’uomo, la categoria kantiana dell’uomo, la foto che ci sarebbe in un dizionario illustrato alla voce uomo. Piange forte, la voce da neonato che esce dalla gola coperta dai peli della barba. Sei tu?, gli chiedete. E lui piange più forte. Lo prendete per un sì.

Quando vi avvicinate a lui, la radura prende vita, avanza fino a divorarvi ma non sentite dolore, siete solo tornati nella vita di prima, la vita in cui non vi accorgete mai di nulla, la vita in cui state seduti sull’autobus con la testa a ciondoloni e un uomo vi tocca la spalla per capire se va tutto bene o se siete morto. Voi vi tirate su, un filo di bava che cola, e fate sì con la testa.

Quando arriva la vostra fermata, scendete.

Non c’è Piazzale Flaminio davanti a voi, ma una fitta boscaglia che vi impedisce di arrivare a casa vostra. Fate il possibile per scavarvi una strada, ma risulta impossibile arrivare nel mezzo. Provate a ripetizione finché il pianto insistente di un bambino vi disturba.

Siete nella stanza di vostro figlio, ora, e meditate di fermarlo mettendogli un cuscino in faccia. Quando vostra moglie rincasa e chiede dov’è il bambino, voi, sinceri, chiedete: che bambino?