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Appunti su roghi e coprifuochi

di Andrea Inglese

1. Il diniego
Il Primo ministro francese, signor Villepin, bell’uomo incravattato, con un’aria calma e concentrata, ha comunicato il 7 novembre, sul primo canale della televisione nazionale, che da ieri notte, in Francia, sarebbe stato reintrodotto il coprifuoco. La sua postura composta, la sua voce senza tremiti e sbalzi, la sua capigliatura argentata, di uomo intraprendente, tutto in lui, immortalato nell’inquadratura televisiva fissa, quasi frontale, rimandava al Daniel Auteuil di Haneke: tutto nel Primo ministro ripeteva quel diniego radicato profondamente, ignaro di sé, e devastante che il francese-francese manifesta di fronte al francese-africano, all’immigrato, al figlio d’immigrati, al figlio del figlio d’immigrati, per una sotterranea fede nel proprio sentimento di superiorità o nella propria missione di civilizzatore.

Villepin come Auteuil in Haneke: la stessa distanza incolmabile, lo stesso essere parte di un quadro immobile, di un’inquadratura identica, che esclude ogni piano-sequenza, ogni svolgimento imprevedibile, ogni passaggio di parola all’altro, ogni intrusione, ogni fluidità. Il non-riconoscimento degli esclusi, fatto figura, incarnato, laddove la parola è indirizzata ai cittadini “veri”, scavalcando silenziosamente la storia delle Francia coloniale, della guerra in Algeria, dell’immigrazione. Come nel personaggio di Haneke, uomo di successo, giornalista televisivo, il contatto con il non francese-francese è compromesso da sempre, in quanto quest’ultimo è portatore di un’ombra, di un sospetto, di un’insufficienza, di una pelle più scura, di una lingua diversa. Il Primo ministro che rassicura il paese decretando lo stato d’emergenza, che promette soluzioni efficaci per il disagio giovanile, questo Primo ministro ribadisce ancora una volta il misconoscimento dell’immigrazione come apporto determinante alla propria identità, ricchezza e grandezza di francese-francese.

2. Taci, so già cosa pensi!
(Perché Haneke? Perché il suo ultimo film parla di questo. Un film che a molti non è piaciuto. Avrebbero voluto un trattamento “esplicito”, dove la storia della rimozione francese del trauma post-coloniale fosse affrontata da uno sguardo complice dell’oppresso. Invece Haneke organizza tutto il film a partire dal punto di vista immobile, difensivo, senza tempo e storia, del protagonista, che non vuole entrare in rapporto con l’immigrato, che lo tiene costantemente a distanza, che pretende di conoscere in anticipo ogni suo pensiero. Quindi non c’è “svolgimento” del tema, ma solo “strappi” e immediate ricuciture, affinché l’immagine della vita rimanga ferma, senza perturbamenti, nella ripetizione dell’identico. Il massacro di quattrocento francesi-mussulmani operato dalla polizia parigina nell’ottobre del 1961 è evocato fuggevolmente in una conversazione privata. Tutto è cloroformizzato, avvolto da una patina che blocca ogni impulso. L’unica emozione che emerge, nel protagonista, è la paura. Paura che si trasforma in rabbia, in aggressione preventiva. E per il resto uno sguardo che non conosce pietà, ripensamenti. Haneke è stato magistrale nel distillare questo sentimento, che appartiene ad una larga parte della classe medio-alta francese. Così è perpetrata l’esclusione: rifiuto di incontrare e di ascoltare, convinzione di sapere in anticipo le intenzioni (malevoli) dell’altro, tentativo di metterlo a tacere con il denaro (l’assistenza) o con le minacce (repressione poliziesca). Questa dinamica attraversa l’intera società francese, e coinvolge la stragrande maggioranza dei più giovani che provengono dalle periferie povere.)

3. La conservazione del dolore
(Quali sono i tempi necessari, affinché una moltitudine che ha subito ingiustizia, consumi fino in fondo il proprio dolore, la propria umiliazione? E per quali canali si trasmette questa sofferenza, quasi che essa debba trasformarsi inevitabilmente in rabbia, senza poter mai annientarsi? Come circola, velenosamente, di generazione in generazione? Costantemente nascosta, trasformata in lavoro e obbedienza, in sopportazione e tenacia, finché non trova più tabù e forme, idee e vincoli, antiche strutture mentali dentro cui riassorbirsi: ed ecco che allora preme, come una sostanza impermeabile, inarginabile, proprio attraverso le membra più giovani, per essere espulsa in forme violente, distruttive.)

4. Corpi estranei
L’attuale governo riesuma, dunque, una legge del 1955, grazie alla quale lo stato francese imponeva lo “stato di emergenza” in Algeria, durante la guerra. Tale testo di legge è stato utilizzato, dopo l’Algeria, una volta soltanto: in Nuova Caledonia, durante gli anni 1984-85. Sottoposte allo “stato d’emergenza”, oggi, non sono più le popolazioni recalcitranti delle colonie, perdute o rimaste. Il coprifuoco investe l’intero territorio francese, da nord a sud, e ha come obiettivo i francesi stessi, anzi dei giovanissimi francesi, con un’età media compresa tra i 14 e i 15 anni. Eppure la sensazione è quella di uno stato alle prese con un corpo estraneo, con una moltitudine misconosciuta che occupa il suo territorio in modo fortuito e ora si manifesta con intollerabile violenza. Di fronte a tale intrusione, la risposta non può che essere una legislazione da guerra coloniale. (C’è poi da confidare che i bagliori della realtà finiscano per sopravanzare le ombre di certe simboliche e inquietanti coincidenze.)

Molte “cités”, come vengono chiamate, hanno la fama di luoghi mitici e terrificanti. Evocano a priori immagini di miseria e violenza, quasi che si trattasse di propaggini del sottosviluppo, insediatesi a tradimento a casa propria in seguito all’esperienza coloniale. Nei centri cittadini, la violenza è tutta mediata e si scarica unicamente sui senza tetto e sui barboni, ma nella forma rassicurante dell’autoemarginazione, della patologia solitaria. Quanto ai giovani incendiari, essi sono, letteralmente, corpi estranei: non hanno visi da francesi, e inoltre non parlano il francese dei francesi. Sono, quindi, anche loro sospetti, ancor prima di incendiare alcunché. Formalmente sono francesi, ne hanno la cittadinanza. Ma i loro padri non lo sono e tanto meno i loro nonni. Le loro famiglie sono povere. Loro hanno studiato poco. Poveri e poco scolarizzati, è sinonimo oggi, in Occidente, di “aggressori potenziali” della brava gente (quella meno povera e un po’ più scolarizzata). Se poi si aggiunge, anche, che alcuni di loro sono di fede musulmana e frequentano qualche moschea, allora il ritratto del nemico si compie e difficilmente può essere scalfito dalle controprove empiriche. (Per la cronaca, bisogna almeno sottolineare che questa volta nessuno ha potuto far leva sull’aggravante religiosa. Anche perché le istituzioni religiose musulmane sono intervenute per riportare l’ordine, senza per altro riscuotere più successo delle istituzioni laiche della Repubblica.)

In questo caso, però, l’eterno “nemico presunto” si è dato da fare per divenire il “nemico reale”. E ha ottenuto il maggiore riconoscimento che la Francia potesse concedergli: lo stato di emergenza, secondo una legge sperimentata durante la guerra in Algeria. Ora il coprifuoco fornisce all’intervento poliziesco poteri quasi illimitati, che vanno dalle perquisizioni notturne a domicilio alla chiusura dei locali pubblici. D’altra parte, la polizia francese è sempre intervenuta pesantemente nelle periferie e nei confronti degli immigrati, anche in tempi normali. Con l’avvento della destra, e Sarkozy come ministro dell’interno, la repressione poliziesca si è fatta poi più diffusa e indiscriminata. E quando scrivo “indiscriminata”, non lo faccio a caso. Negli ultimi anni, ho visto poliziotti per strada o in metrò accanirsi su ogni sorta di disgraziati, malati psichici compresi. (Sulla strategia poliziesca di Sarkozy, vedi l’articolo di Genna.)

5. Coprifuoco e piani di risanamento
Naturalmente anche il Partito socialista, a denti neanche troppo stretti, appoggia il coprifuoco. A questo livello di scontro, e con il rischio di “contagio” emotivo delle sommosse, nessun politico di peso vuole rinunciare ad un’azione dimostrativa e di forza dello stato. È poi del tutto paradossale che lo stato debba dimostrarsi “forte”, quando l’esplosione delle periferie dimostra proprio che lo stato è, ormai da decenni, estremamente debole nei confronti dei suoi cittadini più esposti al rischio di esclusione sociale. E che continuerà ad essere debole, ne è riprova il fatto stesso dell’introduzione del coprifuoco, come strumento di ristabilimento dell’ordine. La via è già tracciata: stato sociale debole, regime poliziesco duro. Alla fine della corsa, c’è il modello Americano, nella variante Stati Uniti o America Latina: sfaldata la grande classe media, i ricchi da una parte, sotto protezione poliziesca, i poveri dall’altra, in quartieri controllati dalle mafie o dalle bande. E una linea tra l’una e l’altra realtà, che si attraversa, in un senso o nell’altro, solo a rischio della vita.

Ma la destra francese promette, per ora, un’altra cosa. Polizia forte, ma anche intervento forte dello stato. Ed ecco che ovunque, in radio, in TV, sui giornali di sinistra e di destra, si torna a parlare del “grave problema” delle periferie, si arriva a dire, persino, con inattesa audacia, che il modello francese d’integrazione non ha funzionato. Anche perché il penultimo tema del giorno, prima dei roghi di macchine, era in Francia l’idea del curriculum vitae anonimo, ossia una legge per la “discriminazione positiva”, sul modello di quella statunitense.

La sinistra, per prima, si mobilita, ridando voce a pedagoghi, educatori, insegnanti, allenatori sportivi, ecc. La destra a sua volta fa parlare aziende e imprenditori. Si fanno ovunque solenni promesse, si proclama che l’intervento stavolta sarà lungimirante, di lunga durata, sistematico e radicale. Si parla nuovamente di educazione, di formazione, di impiego. Certo, il contagio vandalico è davvero senza precedenti: mai così a lungo, mai così diffuso geograficamente. Però il flusso di buoni propositi assomiglia straordinariamente a tutti quelli che lo hanno preceduto, almeno dagli anni Ottanta in poi. È infatti dal 1977 che si susseguono a ritmo crescente, interrotti e poi accelerati da esplosioni di violenza, piani su piani per risanare le periferie. Lo stato non sembra, quindi, assente, anzi mostra un certo interventismo, e immette gran quantità di denaro nei progetti. Non a caso, in questi giorni, anche persone politicamente insospettabili dicono che “nelle periferie arrivano un sacco di soldi, che i ragazzi possono usufruire gratuitamente di tante strutture e opportunità, che se vogliono possono fare deltaplano senza spendere una lira”. Si propaga così quel sentimento, che le persone di sinistra conoscono bene, in certe situazioni… Il sentimento di essere stati troppo ingenui, troppo idealisti, troppo sognatori, troppo “buoni”. Questo giustificare ad oltranza, questo scusare, questo addossare colpe alla società, scagionando i presunti “emarginati”. E se tutti questi problemi, che lo stato da anni cerca di risolvere inutilmente, venissero in fondo da una generazione malata, definitivamente corrotta, e che non rimane altro che prenderne atto? E condannarla, unendosi finalmente al coro generale che grida “chi rompe paga”?

Nonostante però il deltaplano e i grandi progetti di risanamento, nelle periferie si concentra la popolazione giovanile con il più alto tasso di disoccupazione. E forse, a questi ragazzi, più che i giri in deltaplano, proposti dall’ennesima associazione di quartiere, interessa avere un lavoro, per poter spendere come vogliono i soldi che guadagnano. Il lavoro è l’unica cosa che permetterebbe a queste persone di fare a meno degli educatori e di tutte quelle strutture che sono unilateralmente offerte dallo stato per intrattenerli, controllarli, distrarli dall’unica eventualità che non gli è concessa: decidere come gli altri del loro destino. Ma è possibile, davvero, offrire del lavoro a dei tipi “sospetti”? E poi, anche se fosse, anche se non comparisse il nome arabo sul curriculum, anche se il colloquio d’ingaggio avvenisse con il volto coperto e le mani nei guanti, c’è abbastanza lavoro per tutti? (Pare che di lavoro non ce ne sia abbastanza, eppure molti di quelli che lo hanno, lavorano troppo e lo maledicono. E comunque il capitalismo sta bene e le aziende fanno grassi profitti.)

6. Il fuoco alle spalle
Ma le auto bruciano, e di conseguenza c’è grande agitazione di idee: qualcosa di nuovo, di incisivo, di meno burocratico, di più solidale, verrà trovato. Poi le auto smetteranno di bruciare. Perché le sommosse hanno un inizio e una fine. E tutto ritornerà alla calma. Al piccolo vandalismo scolastico e di condominio. Ai piccoli traffici di quartiere. Ai furtarelli. Alle bocciature. Alle giornate senza scopo. Alla vita normale, insomma.

Scriveva Musil, nell’Uomo senza qualità: “perché l’uomo non fa la storia, cioè perché non interviene attivamente nella storia solo come bestia, quand’è ferito, quando ha il fuoco alle spalle; perché insomma, fa la storia solo in caso di estrema necessità?”
Questo è lo scandalo che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, e di cui noi siamo protagonisti come qualsiasi altro. New Orleans è una simpatica città del sud degli Stati Uniti, piena di mattacchioni negri che suonano divinamente: finché un uragano la investe, la allaga e ne svela impudicamente tutte le fragilità, le miserie, le violenze. Allora Gli Stati Uniti (ri)scoprono che ci sono un sacco di poveri, anche dentro i propri confini. E che questi poveri guarda caso sono soprattutto negri. E che forse c’è un nesso tra questi due fatti. E questo nesso ha un nome assai vecchio: razzismo. A ribadirlo ci pensa l’intervento dello stato, che è governato in maggioranza da ricchi e bianchi. L’intervento dello stato significa non salvare le persone povere, ma i beni delle persone meno povere o decisamente ricche, che sono messi in pericolo. Piuttosto che inviare degli uomini che distribuiscano acqua e viveri, e conducano fuori città le persone, lo stato manda poliziotti armati e minacciosi a difendere le merci.

Ma grazie al cataclisma, tutti noi possiamo riflettere di nuovo al problema razziale che gli Stati Uniti non hanno mai risolto. E il governo potrà finalmente decidere di non ricostruire New Orleans nello stesso luogo da cui è stata spazzata via, visto che, per altro, tale eventualità era già stata prevista. Così anche il governo francese di destra, con il fuoco alle spalle e lo stato d’emergenza, potrà pensare in tutta tranquillità a cosa fare per impedire nuove sommosse di periferia. E l’Europa tutta, di soprassalto, potrà dirsi che il patto sociale non è qualcosa di eterno e immutabile, in quanto in ogni momento può essere messo in discussione, e non per futili motivi, ma per sofferenze cumulate giorno per giorno, sotto gli occhi di tutti.

(continua)

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70 Commenti

  1. Un filo rosso collega rappresaglie quotidiane ad eversioni intellettuali.
    Haneke, rappresentando l’angoscia immaginaria, apre vortici sulle paure reali, e dialoga con l’architettura della periferia globale, In cui Fuksas emblematicamente collega la dilatazione di Parigi alla disorganizzazione Romana, ma sopratutto alla attuale conflittualità Bolognese, in cui sicurezza e solidarietà sembrano contrastarsi.
    Pensare l’urbano diventa priorità sociale, e lanciare ponti tra l’arte cinematografica, architettonica, politica, è monito collettivo.
    I confini si sbriciolano su questioni ormai comuni a cui noi tutto dobbiamo porre rimedio.

    Grazie per la testimonianza diretta e il pezzo.
    e grazie a me che ho sollecitato la visione del film.

  2. Mi sembra un tantino grave affermare che la razza “francese-francese” nutra una radicata, devastante e “sotterranea fede nel proprio sentimento di superiorità o nella propria missione di civilizzatore”. L’autore sembra dimostrare una radicata fede nel suo potere di definire un popolo intero con una simile perifrasi della parola imperialismo.

  3. Un tempo, voglio dire prima che l’era della politica si chiudesse e se ne aprisse un’altra che ancora non sappiamo come nominare e della quale non sappiamo nulla, un tempo, dicevo, funzionava così: i partiti politici, le organizzazioni sindacali e di movimento avevano numerosi “sensori” innestati profondamente nelle aree di disagio socio-territoriali, dai quali traevano indicazioni di lavoro e attraverso i quali operavano proselitismo di massa e arruolamento dei quadri di base, aggregazione.
    Tutto ciò al fine di trasformare disagio, emarginazione, sfruttamento, eccetera, in istanze politiche conformate da assumere nella strategia politica nazionale, nella lotta sui luoghi di lavoro, per la casa, eccetera.
    Su questi temi poi fondavano il consenso elettorale.
    Perché tutto questo non c’è più, nemmeno in Francia?

    È la solita domanda: cosa è successo?

  4. Frammentazione, dislocazione, delocazione, precarietà,
    e su tutto il fatto che tempo e spazio non sono piu’ categorie fissabili.
    Da cui la drammatica organizzazione degli spazi e quindi dell’urbano
    e l’impossibile catalogazione temporale degli aspetti vitali: professione, abitazione,relazioni, interessi.
    Mancanza di programmabilità è la naturale conseguenza di tutto cio’. quindi anche la politica come puo’ assurgere a mediatore o baluardo di diritti, quando l’orizzonte sul futuro è ivisibile?

  5. c’è sempre un’alternativa Deborah: far finta di non vedere, non dire nulla che abbia peso, se non quello che hanno già detto i giornali;
    grazie per il refuso, luca…
    tash concordo con l’analisi

  6. Ottima analisi. E credo che la questione della paura così come rappresentata in Haneke sia complementare alla costruzione del film come itinerario dello sguardo, così come l’ho tracciato più sotto. L’Altro è, anzitutto, sguardo. E Haneke mette in scena lo sguardo.
    Come ho appena scritto altrove, a me pare che questa sia hegeliana lotta per il riconoscimento, si chiede il riconoscimento della qualità di soggetto politico, laddove i banditi delle ban-lieues non hanno luogo nella struttura della doxocrazia contemporanea. Sono corpi altri, un corpo estraneo appunto. Il rovescio, l’ombra. Il corpo oscuro, il corpo oscurato, il corpo che rovescia (rovescia sofferenza, dici tu). Si scagliano come pietre contro il pubblico, dacchè ne sono esenti: l’opinione pubblica non li contempla. E dicevo, questo è l’unico modo per fare ‘rischiaramento’: far fuoco.

    (Magda, non sapevo che oltre a essere la ghost-writer di Benigni e Cacciari lo fossi anche dei miei pezzi…)

  7. Non credo, Andrea, che quello che lei abbia scritto nel commento sia l’alternativa alla frase che ho segnalato. Per la verità mi pare non c’entri neppure nulla. Oppure lei oppone l’affermazione che ha fatto al “non dire nulla che abbia peso”? Come se esistesse quello che dice lei e poi, di contro, niente di peso?
    Tra l’altro, credo che accusando una nazione di superiorità presunta stia commettendo l’errore del cane che si morde la coda. Si ritiene in grado di dare un’etichetta così vasta a milioni di abitanti, anzi, alla condizione stessa di appartenere a dei confini geopolitici.
    Non è che le stanno semplicemente un po’ sui coglioni i francesi e usa parole simil-sociologiche per dire cose ‘piene di peso’?

  8. Che poi ci guardo, e mi dico che la c.d. sinistra è potenzialmente litigiosa anche alla base, non solo ai ‘vertici’. Emergono queste due visioni, signor Andrea, ad esempio la mia e la sua (non paragono le mie quattro righe alla sua esposizione più trasparente, e quindi che assume più responsabilità su di sé), emergono queste due visioni che il ‘buono della teoria’ lo condividono, ma poi si spaccano sull’idea di trattare il Diverso. L’altro da me. Per lei, signor Andrea, sembra che il diverso sia solo il povero, il diseredato, l’abitante della banlieu. La percezione e il rispetto dell’alterità, questa grande conquista moderna, non certo greco-romana, non la merita forse chiunque io esperisca come segmento diverso di umanità, eppure continuum?

  9. @ Marco Rovelli e altri
    Mi piace molto il termine “doxocrazia”, perché si avvicina di più al tipo di “democrazia” nel quale attualmente viviamo, dove occorre modellare ove possibile l’opinione pubblica, e spesso inseguirla nei suoi vacui e spesso insensati ondeggiamenti (per es.: cosa è cambiato nella politica di Bush rispetto a due anni fa, da farlo “scendere” così tanto nei sondaggi, che una persona ragionevole non fosse capace di vedere anche “prima?).
    Dal convincimento ragionevole al convincimento emozionale e mediatico, d’accordo: ormai certi elementi di analisi sono largamente condivisi.
    È l’analisi dei protagonisti dei fatti di banlieue che invece non mi convince: chi sono i casseurs?.
    Li si dipinge come degli emarginati, esclusi, descolarizzati, disoccupati, eccetera, ed è vero.
    Ma non basta a spiegare tutto quello che succede: a me sembra piuttosto una rivolta generazionale decentralizzata e di subculture locali, mi sembra non una cosa disperata, ma ludica, mi sembra una volontà di affermazione di presenza, sulla scena della polis, uno strappare rispetto a suon di incendi, mi sembra una cosa di orgoglio, una cosa situazionista, che scardina ogni ragionevole analisi che spiazza ogni fichetteria istituzionalizzata, che fa incazzare chiunque per la sua effettiva stranezza.
    Quello che non mi sembra ci sia è una richiesta di integrazione e di lavoro.
    Nelle foto ho piuttosto intravisto dei giovani dandies di nuovo formato, dove il termine dandy ha il significato complesso legato all’indifferenza e alla gratuità dell’atto: come se dalle banlieues stia soffiando il vento di un nuovo trend di massa, metropolitano e sur-moderno.
    Eccetera.
    Sui francesi, che amo, sono d’accordo con Andrea.

  10. Marco: avevo postato circa 1mese fa qui da qualche parte una frase cosi:
    “avete visto Haneke?
    voglio i vostri commenti”
    dopodichè è apparso il pezzo Tuo sul film di cui ti ringrazio.

    ma io sono una ghost writer involontaria! nel senso che i contenuti me li sottraggono indebitamente!

    Sono monitorata , per questo, tipo criminale.

    ad Andrea Anglosassone avrei un desiderio da esprimere.

  11. certo che è una festa sociale, tash, concordo. è il distruttivismo del baccanale, l’emergere caotico contro l’apollineo, contro il razionale, il codificato.
    solo che c’è una parte di questa orgia mediatica che dota chi sta a ‘lato’, chi sta ai margini (sociali, architettonici, semiotici) di una sorta di autenticità, di una carica umana verace che il borghese “fichetto” e “istituzionalizzato” ha perduto.
    quella di decentrare lo sguardo è stata una conquista fondamentale, che ha scardinato l’etnocentrismo, ma ora pare si stia finendo nel c.d. “relativismo acritico”: a creare cioè il paradosso di mettere a centro ciò che prima era a lato, solo per scaricare la coscienza storica di un’europa predatrice e asservitrice.

  12. Sono d’accordo, non basta a spiegare. Del resto, dalle nostre postazioni, non riusciremo a spiegare. A me sembra una cosa insieme disperata e ludica. Una riarticolazione della presenza, come dici tu. E’ una questione di rappresentazione: ci si rappresenta come irrappresentabile. Si distrugge, si scappa. Non rimane nessuno, con cui dialogare. Dicevo che il nucleo della questione è a mio parere, prima che una richiesta di integrazione e lavoro, una richiesta di riconoscimento: essere riconosciuti in quanto soggetto politico. Sì, ma in quanto soggetto nuovo, che sfugge alle regole classiche della rappresentazione politica. Ed è questo che, per adesso, ‘rompe’.

    (Magda, io non avevo letto il tuo appello, ma adesso ho capito: sei l’ipostasi del General Intellect!)

  13. *OT*

    Mah Marco, non so una volta te lo racconto poi tu ci scrivi un libro.
    Esiste una rappresentazione virtuale della “signora” , fantasticata rispetto alla reale e dipinta in modi singolari che rispecchiano le volontà dei di volta in volta interpretanti.
    Esempio: Salvatores nel suo ultimo film, Quo Vadis Baby, che non ho visto di proposito, cita molto bene questa rappresentazione caricaturizzandola.
    La”signora” è si persona predisposta alle indagini, alla compagnia, ma non è alcolizzata, è vero che non ha obiettivi, e che ha casi di suicidi familiari.
    Poi il tutto si conclude sempre con un messaggio trasversale tipo una morale indirizzata sempre a lei.

    un mondo di lucida follia dove si alternano funzioni di autore, musa, vittima, cavia, mentore, destinataria di cure.

    *OT*

  14. Ci sono almeno tre o quattro linee di discorso in questo (ottimo) testo. Troppe per seguirle tutte fino in fondo.

    Vorrei dire solo due cose, una molto concisa: creare nuovo lavoro non è facile.

    L’altra: c’è qualcosa di più oscuro che andrebbe indagato nei rapporti tra gli europei e i loro nuovi e sempre più numerosi emigranti. L’ America è nata su un terrorio già abitato ma con una debole identità e privo di un’ idea forte di nazione (la nazione indiana, tanto per intenderci, non era organizzata). Dunque i problemi dell’immigrazione, sia quella naturale che sia quella forzata (i neri), e dell’emarginazione sono più facilmente leggibili in termini economici e razzistici perché il paese, pur con tutti i suoi difetti è davvero multietnico e multiculturale.

    Ma noi (italiani francesi tedeschi inglesi – loro con qualche atout in più per l’uso sofisticato del loro passato coloniale- ecc.) non abbiamo quella storia.
    Per paesi come i nostri, che si sono fatti reciprocamente la guerra per secoli potenziando un’idea di popolo, nazione, territorio, patria, forte e tendenzialmente esclusiva, questi non sono problemi che si possono risolvere con atti di forza e di imposizione, perché prima o poi, anche se sopra ci si mette un coperchio a pressione, la pentola salta.

  15. OT Il tuo discorso non l’ho mica capito bene. La parola chiave mi parrebbe ‘paranoia’, ma fammi capire…
    (Haneke l’ho incontrato come si incontrano i film, avevo visto La pianista, qualcuno me ne aveva parlato, gran film, poi ho letto la Jelinek, bel libro, ma meno intenso, poi ho saputo che è uscito un altro film e sono andato… Perché, cosa ti aspettavi?…)

  16. a deborah, ho scritto:
    “tutto nel Primo ministro ripeteva quel diniego radicato profondamente, ignaro di sé, e devastante che il francese-francese manifesta di fronte al francese-africano,”
    e, più sotto,
    “Haneke è stato magistrale nel distillare questo sentimento, che appartiene ad una larga parte della classe medio-alta francese.”
    La prima frase è generalizzante, la seconda – in cui si ripete il medesimo concetto -, è limitante. Ed è certo, la seconda più “corrispondente” al vero. Fai bene a segnalare il rischio di un contro-razzismo, nel mio discorso. E allora esplicito: non ogni francese-francese percepisce cosi il francese-africano. Ma c’è un’intera storia in questo senso, c’è un intero immaginario prodottosi ai tempi dell’Algeria, o riattivato da quella guerra. E questo immaginario non è mai morto, e lo Stato, con misure come il coprifuoco, lo riattiva e conferma. Io vivo a Parigi, alcune cose le sento, altre ho finito per capirle. E la mia compagna è un francese-africana… qualcosa in merito credo di poterla dire, anche se non è un discorso che ti fa piacere ascoltare. Anche ad alcuni italiani, non piace sentirsi dire che in Italia ci sono molti razzisti. Che molti italiani sono razzisti. Bé, io lo dico lo stesso, e tutte le volte che ne ho l’occasione. Perché è vero.
    Infine: tu hai preso una mia analisi di un “sentimento”, che è anche legata ad una storia d’imperialismo, per una mia affermazione sulla condotta imperialistica della Francia odierna. (Condotta che, ormai, è quasi sempre più velleitaria che reale.) Io parlo di un sentimento: e questo mi sembra chiaro.
    Infine, questa tua frase: “Non è che le stanno semplicemente un po’ sui coglioni i francesi e usa parole simil-sociologiche per dire cose ‘piene di peso’?” è scema, e spero che tu ne sia consapevole. (Mi rendo conto ora che usavi il Lei, troppo tardi…)

    Quanto a magda, marco r., e tash hanno toccato punti importanti, che cerco a mio modo di evidenziare nel seguito di queste rifllessioni, come dice Temp, molto (e consapevolmente) sparse.

  17. @Andrea,
    Vorrei sottoporTi una considerazione riguardo un eventuale accorgimento tecnico:
    Il tuo pezzo è molto articolato e argomentato ed è ideale se pensato per la carta stampata.
    Sarebbe possibile secondo te, una trasposizione pensata al virtuale, in cui la sintesi di parole possa consentire una maggior snellezza nei contenuti e quindi abbassare la soglia temporale di concentrazione del lettore?
    una sintesi qualitativa che mantenga pero’ intatta la completezza di significato:-) quindi non semplici tagli.

    @Marco
    azzeriamo.:-)

  18. Nonostante la lucidità dell’analisi avverto una lacuna. Non mi lascia sereno.
    Tutti hanno posto nei vari quadri presentati. Ognuno trova il suo corrispondente nelle sequenze del film di Haneke.
    Auteuil – Villepin
    La famiglia di immigrati – la “feccia” delle cités
    Il non-riconoscimento/diniego – la violenza incontrollata e incontrollabile.

    Ecco allora mancarmi un tassello, un personaggio chiave. Haneke lo ha tratteggiato vagamente, e noi non riusciamo a vederlo chiaramente.
    Sto parlando del figlio di Auteuil. Un giovane francese francese. Col viso da francese, che parla la lingua francese, con cittadinanza e “fede” da francese.
    E’ talmente fedele a se stesso che non le vede nessuno, neppure i genitori. Si limitano a portarlo in piscina, dove gli insegnano a mettere la testa sott’acqua. Una protezione che sa di annegamento.
    Personalmente non mi interessa interloquire con Villepin, è evidentemente decesso, chiuso in una stanza buia e senza luce, vede solo incendi. Coprifuoco.
    Così Auteuil, vede solo il colore rosso acceso. Non riesce proprio a vedere il figlio, l’unica luce.
    Anche Auteuil è decesso da tempo. Una coperta pesante quanto una bara.
    Non noi. Noi non possiamo/dobbiamo permettercelo!
    Tuttavia nemmeno noi vediamo il figlio di Auteuil. Dov’è ? E con esso i tanti giovani figli francesi di Villepin. Dove sono.. unici, effettivi corpi estranei. Luci.
    Ecco allora i “miei” protagonisti, coloro con i quali vorrei interloquire davvero. Dai quali attendo il “fare storia”.
    Non vorrei morissero assieme ai padri.

    Scusate, non conosco affatto la realtà parigina e scrivo per confrontare una personale riflessione.

  19. @Caludio mi hai fatto venire un flash:
    ricordi il film di Manoel de Oliveira “film parlato”?
    E’ un notevole aggancio al sincretismo linguistico rapportato alla metafora del viaggio nel tempo della protagonista e la figlia.
    Fortemente simbolico in quel caso il finale tragico dove solo la piccola per rincorrere una bambola dimenticata, muore.
    Quasi come nel mito di Proserpina a ricordare che voltandosi indietro ci si trasforma in statue di sale.
    In quel caso ho interpretato la bamina come il futuro, il futuro della cultura occidentale destinato a morire, la morte della nostra cultura anche linguistica.
    per inciso, molto significativo che ognuno comprenda la lingua dell’altro pur non parlandola, inizio di sincretismo.
    Azzardo una traspozione su Haneke e dico che il figlio-futuro vive una vita autonoma, quasi autistica, allontanata dall’ossessione genitoriale, metafora di implosione culturale, e tenta la fuga, il futuro rifugge legittimamente da questo stato entropico e, la piscina, simbolo di lavacro e rinascita potrebbe essere circolare e funzionale a tutto cio’.
    chiusura del cerchio?

  20. Mi spaice Magda non conosco il film che richiami, comunque ho compreso il pensiero.
    “una vita autonoma, quasi autistica.. metafora di implosione culturale, che rifugge il futuro” ..che non accetta la responsabilità del fare storia, aggiungo io. Questo il mio autentico timore.

    p.s. A scanso di equivoci: nel precedente messaggio ho scritto ripetutamente Auteuil riferendomi al personaggio da lui intepretato nel film. Scusate la svista.

  21. Che cosa è successo? chiede qualcuno..che cosa è successo non lo so, perchè “un tempo” non c’ ero, “quel ” tempo non l’ ho mai conosciuto. So solo che quando ne sento parlare avverto uno scarto insanabile fra quello che sento o leggo e l’ immagine che ho io della “situazione” (e scusate le virgolette). Forse chi scrive ha nostalgia di un tempo in cui un’ idea, un’ istanza potevano raccogliere persone e spingerle a lavorare insieme, verso un obiettivo comune. Oggi i rimasugli di quelle esperienze annaspano inseguendo una realtà che loro in primis dovrebbero analizzare e proporre in modo critico a chi è nei guai fino al collo, e non ha tempo nè spazio, anche mentali, intellettuali, per guardare troppo oltre i propri confini FISICI. Che cosa è successo? Siamo stati scompaginati, come gruppo, come classe e ora ci stiamo allontanando anche in un senso più neutro di COMUNITA’. Mi sbaglio di molto se dico che i casseurs di questi giorni, una volta calmatasi la rivolta, torneranno a scannarsi fra loro?

  22. Io continuo a galleggiare sul linguaggio cinematografico e proseguo il discorso seguendo flussi di parole-senso o meta-immagini che racchiudono possibili chiavi di lettura.
    Claudio e chi vuole seguire:richiamo l’autarchia, l’implosione, l’entropia che Haneke raffigura nel figlio del protagonista, un ‘isolamento salutare, quasi terapeutico, simbolizzato nel nostro futuro e ricollegato al film “il fantastico mondo di Amelie” dove l’autismo diviene forma di difesa da un sociale inconprensibile e invasivo.
    Ma di piu’: l’autismo diviene tutela di istanza primordiale, esigenza salvifica e vitale: il sogno.
    Amelie, attraverso il sogno, il gioco, sopravvive alle brutture incombenti sull’esistenza, e mantenendosi AliceWonderland, conserva il suo slancio primordiale alla vita.
    Il gioco, il sogno, come ambito eminentemente taumaturgico.
    E’ curioso che siano tutti francesi questi autori.
    Cosa voglio dire, estendendo il concetto al piano sociale, voglio dire che forse attraverso questi messaggi lanciati nella bottiglia cinematografica possiamo cogliere spunti sinergici applicabili al sociale.
    Quanto spazio hanno gli immigrati in Francia per coltivare la propria cultura, il proprio modus vivendi, il propio telos, insomma la radice della loro civiltà?
    e quanto questa inibizione, alienazione, puo’ influire sull’aggressività consenguente?
    Che a Parigi s’incendino in un mese tutti i palazzi accoglienti immigrati non sembra un segnale di integrazione riuscita.
    E che muoiano bambini poi…..torniamo al futuro imploso….inibito alla meta.
    Tutto quadra. Tutto torna.
    anche se alle 4 di mattina.

  23. Un bell’articolo, dall’eloquenza e sicurezza quasi maestose. Mi rimane una curiosità: secondo l’esperto di immagine e di sguardi Andrea Inglese, quale postura avrebbe dovuto più correttamente assumere Villepin? Doveva presentarsi davanti allo schermo spettinato, con i segni dell’insonnia? Doveva implorare tremante il perdono per lo Stato e per Sarkozy, o magari per l’Occidente intero?

  24. @ Andrea Bellissimo pezzo
    @Jacopo Si scannano fra loro da sempre. Si scansano da noi. Si scrannano tra noi e loro. Guy Debord vedeva nei blousons noirs ciò che non c’era. Michel Foucault vide negli ayatollah ciò che non c’era. Ci piacerebbe e ci è capitato di vedere nella banda della magliana (romanzo criminale) ciò che non c’era. Nelle periferie francesi non ci sono i diavoli- magari!- solo l’inferno. Ho insegnato per dieci anni a Mantes la Jolie (trad la bella amante). La Val fourrée e in particolare il quartier des ecrivains è il luogo più allucinante che possa esistere. Da una palazzina in Rue Camus un tipo sparò a pallettoni uccidendo due tre zonards che parlavano a voce troppo alto. Ad uno l’avevano legato ai binari e la locomotiva gli portò via le gambe. Non provo simpatia per il Lumpenproletariat, non penso ad una reincarnazione del politico in quelli che hanno accoltellato Robertino Saviano quest’estate. Un giorno mi ricordo che mezzo addormentato scesi alla fermata prima, Mantes la Ville. Nelle periferie francesi le città sono divise come le lavagne delle scuole in buoni e cattivi. Anche a Caserta, Rione Tescione, popolare e parco gabriella ultra residenziale si guardavano in cagnesco. Mantes la ville era quella buona e la jolie la cattiva, più o meno.In prossimità della stazione ci sono gli ospedali e così mentre cercavo di capire come fare per arrivare a mantes la Jolie un arabo mi si è avvicinato e mi ha chiesto una sigaretta. Gliel’ho data, mi ha guardato e poi mi ha detto. Parfois je me demande pourquoi je suis arabe.(trd. Ci sono delle volte in cui mi chiedo perchè sono arabo”. Bofonchiai qualche risposta “anch’io, sapete:::” e lui mi chiese da accendere. Si fa un tiro di sigaretta e poi ripete : Parfois je me demande pourquoi je suis arabe..” L’ho visto allontanarsi ripetendo la stessa frase. Confesso che era quel “a volte” che mi colpiva e che mi avvicinava a quell’interlocutore appena uscito dal manicomio giusto di fronte. Era quel lasso temporale che me lo faceva sentire al cuore del problema. Non “l’arabe”, il “parfois”. E a volte capita che l’Inferno alzi le fiamme dei propri quartieri. Come per segnalare agli altri quelli dell’altra parte che stanno esagerando. Forse per fare luce sulle loro miserie.
    effeffe
    ps
    scusate la lunghezza del commento

  25. Villepin non poteva che assumere la postura che ha assunto, ma poteva rivolgersi diversamente ai suoi interlocutori, che sono anche i molti abitanti delle banlieus, in gran parte immigrati o figli di immigrati, e dire: “noi francesi dobbiamo moltissimo all’immigrazione, il paese deve tantissimo a questa gente, e non è riuscito, per tanti motivi, ad restituire in opportunità quanto ha preso in lavoro e sacrifici …” e poi poteva dire tutto il resto, quello che ci si attende da un primo ministro… Dire una cosa cosi, e la classe dirigente francese-francese si farabbere probabilmente ammazzare piuttosto che dirla, avrebbo voluto dire “rompere la postura”, e fare un atto davvero “politico”. Una frase cosi, alcuni milioni di francesi-X (aggiungetevi l’elemento extrafrancese che gradite) la attendono da anni.

    magda: una volta parliamo o riparliamo dello scrivere, dello scrivere in rete, dello scrivere chiaro, delle scrivere veloce; diversamente da cosi io non riesco, ma magari è un mio limite.

  26. Mhm, rileggendomi vedo che il mio complimento poteva suonare ironico e la domanda provocatoria. Meglio precisare che non è così: la stima per l’autore è scontata e l’osservazione che ho posto marginale. Interessante anche il commento di ff. Probabilmente non aggiungerò altro perché la complessità della questione mi sopraffà, e sparerei solo cazzate emotive.

  27. No Andrea, io non faccio complimenti a vuoto. Te li meriti.
    Ma c’è uno scarto notevole percettivo e una capacità diversa nel trattenere i segni che è il vero limite della rete.
    L’eclettismo e l’ampiezza argomentativa sono sempre un grande dono. anzi una grande conquista da ammirare e stimare.

    Ti stiro e ammiro :-)

  28. grazie della stirata: ma soprattutto vieni il 26 per Deleuze, anche se non c’è Franzini, e porta tutta la famiglia, che i nonni vanno pazzi per l’antiEdipo…

  29. Evidentemente scrivevamo in contemporanea dato che la risposta è giunta prima della mia puntualizzazione … ok, adesso il discorso mi è più chiaro.

  30. Magda, “richiamo l’autarchia, l’implosione, l’entropia che Haneke raffigura nel figlio del protagonista, un ‘isolamento salutare, quasi terapeutico […] dove l’autismo diviene forma di difesa da un sociale inconprensibile e invasivo.[…] l’autismo diviene tutela di istanza primordiale, esigenza salvifica e vitale: il sogno. Il gioco, il sogno, come ambito eminentemente taumaturgico.”
    Non riesco a condividere questa impostazione. L’isolamento è una fuga, l’autismo una sconfitta. Non si tratta di difesa naturale, ma di irresponsabilità, incapacità di assumere su di se il corso della storia.
    *Non credo sia “curioso che siano tutti francesi questi autori”. Francia e Germania sono i due paesi europei chiamati ad affrontare prima di altri e seriamente “situazioni” di natura etnica.
    *Discutere sulla postura e sulle parole di Villepin è a mio avviso inutile.
    Responsabilizzare la società civile, l’opinione pubblica, le nuove generazioni. Questo è da fare. Lasciamo Villepin nella cantina del Novecento, se ne abbiamo le forze.

  31. Claudio, uso istanze emotive date daell’evocazione del film e ne traggo spunti sul reale come moniti per correzioni.
    L’ autismo sviluppato da certuni artisti si è dimostrato vitale per la loro tutela e salvezza.
    E’ uno sguardo che anzichè cogliere il patologico, lo giustifica, celebra e sublima.
    Mi riferisco, per esempio alla funzione della cultura e dell’arte come aggregante e mediatrice sopratutto in situazioni di conflitto.
    un cuscinetto ammortizzante frizioni interetniche, interculturali, interclassiste.

    Un esempio: i disagiati mentali che sulla rambla di Barcellona diventano artisti di strada creando spettacolo e intrattenimento.
    il Fado portoghese che esprime una categoria del sentire nazionale, la saudagi per loro, la depressione per noi, diviene simbolo unitario, vessillo di patria.

    Insomma vedo tante applicazioni dell’arte in funzione mediatrice sociale.

    Grazie Andrea dell’invito, Mui Obrigada

  32. Magda, che “L’ autismo sviluppato da certuni artisti si è dimostrato vitale per la loro tutela e salvezza.” è fuori dubbio. La “funzione della cultura e dell’arte come aggregante e mediatrice sopratutto in situazioni di conflitto.
    un cuscinetto ammortizzante frizioni interetniche, interculturali, interclassiste.” è anch’essa fuori discussione.
    Il fatto è che al momento non abbiamo tutto questo, altrimenti saremmo a cavallo! Abbiamo una giovane maggioranza bianca e ignorante, che ha fondamentalmente paura e non riesce vivere se non un irresponsabile silenzio timoroso. E’ questa inoperosità culturale-artistica-intellettuale che mi scoraggia e spaventa.

    (Spero non avere frainteso il tuo pensiero, dimmi tu)

  33. Vorrei che ti spiegassi un po’ meglio, Claudio. “Responsabilizzare la società civile” mi sembra un po’ vago, e poi non capisco cosa intendi con “giovane maggioranza bianca” (giovane?) …

  34. pace andrea, e in bocca al lupo per tutto. a risentirci.

    non volevo dirglielo perché le poteva parere ruffiano, un modo per controbilanciare le mie argomentazioni, ma ha una bella scrittura.

  35. Si Claudio hai capito bene. per giovane maggiornaza bianca intendi che l’occidente è giovane rispetto all’oriente?
    l’inoperosità è data dall’implosione nostra culturale e , paradossalmente siamo noi che potremmo salvarci alltraverso la loro Pulsione rabbiosa ed esotica.
    Siamo noi il terzo mondo, gli extracomunitari, gli extracivili, gli extraculturali.
    Siamo carne morente, umanità putrefatta, cultura moribonda.

  36. ah ma allora questo fetore che sento
    sono io che sto morendo!
    cambiero’ il colore del capello
    perchè è impossibile il cervello.
    bionda….. che sta bene su’ rotonda.

  37. Beh, scherzi a parte, penso che complessivamente non siamo mai stati sani, pasciuti, puliti e colti come oggi. La decadenza implica uno stato precedente migliore, che non credo possa essere individuato, almeno se rifiutiamo di restringere la nostra attenzione alle piccole élite ferocemente installate in cima alla società.

  38. Per esempio, non credo che lo stato di denutrizione, sporcizia e “alienazione” sociale di questi giovani rivoltosi sia paragonabile a quelli dei rivoltosi del 1789.

  39. Non so se Claudio si riferisce agli “altri” giovani (preadolescenti e adolescenti inclusi) francesi, quelli francesi-francesi e bianchi e “scolarizzati” con successo. Anche io vorrei saperne di più.
    Così come mi piacerebbe sapere di più della scuola francese e del suo modello di integrazione/assimilazione.

  40. “…noi che potremmo salvarci attraverso la loro Pulsione rabbiosa ed esotica…”

    Magda, mi ricordi un po’ D’Annunzio che passa dai banchi della Destra a quelli della Sinistra gridando: “Vado verso la vitaaa!” :-)

  41. In effetti migro da Gabriele ad Eleonora, tra lo chef e il souffle’, tra mantide e coniglio, tra eccitazione e sbadiglio.
    Fortuna esiste la schizofrenia totale.

  42. Cito alcuni passi del testo di Francesco Pacifico (Il futuro di un paese) letto su questo stesso sito.
    “L’internetcafè sotto casa mia è pieno giorno e notte di ragazzi bianchi tra i dieci e i trent’anni che combattono in rete in giochi multiplayer di guerra. […]
    Nel quartiere universitario gli studenti dell’Ecole Normale, e tutti gli altri delle università intorno, tirano avanti senza fare una piega, da giorni. Gli esami non finiscono mai e l’aria febbrile che hanno tutti, correndo da una lezione all’altra, frugando fra i cataloghi delle biblioteche, è sempre la stessa di prima. L’esperienza di diventare classe dirigente, qui, è tutta una questione di astrazione: l’impegno accademico estremo e ipercompetitivo fin dal liceo li abitua a vivere in un mondo ristretto e autoreferenziale.”
    Pacifico (che ringrazio per il bell’articolo) si chiede: “Ma se i giovani sono il futuro di un paese e parte di questo futuro è nel mio internet cafè e parte in periferia, dov’è in questo momento il vero futuro della Francia?
    Nell’articolo di Inglese, così come nei vari articoli apparsi in questi giorni sui vari quotidiani nazionali, non si fa che parlare in modo un poco stereotipato di corpi estranei, riferendosi agli emarginati, alle popolazioni delle periferie urbane.
    Parlando di una giovane maggioranza bianca ignorante (colta, eventualmente, ma ignorante..), che non riesce a rapportarsi ad una realtà in movimento, se non alienandosi in un timoroso silenzio (mondi ristretti ed autoreferenziali), volevo evidenziare quello che secondo me è l’effettivo corpo estraneo della situazione. Quel settore della società francese che Emma definisce provocatoriamente “altri” giovani (bianchi, francesi, scolarizzati), la quale ai miei occhi, proprio in questi giorni ha l’occasione di dare un spallata al secolo scorso, con i loro padri ed i loro errori. Ammutolendo con un urlo il “silenzio imbarazzato della Parigi bianca ed ex colonialista”, ma che di fatto fatica a trovare un orientamente (almeno questa è la mia percezione). In questo senso ho parlato di una irresponsabilità o incapacità di assumere su di se il corso della storia. Responsabilizzare la società civile significa darle la possibilità di prendere coscienza di questa apatia generazionale, e dei problemi ch’essa contiene ed esprime.

    Perdonate la verbosità e la limitatezza stilistica

  43. Il tuo discorso mi sembra molto interessante, Claudio.
    Il mio “altri” non era provocatorio. Però anche io mi chiedo quanta rabbia sia rivolta direttamente al governo / alle istituzioni e quanta derivi dalla constatazione – furiosa ma impotente – della propria irriducibile e “orribile” diversità. Diversità innanzitutto rispetto ai coetanei privilegiati, quelli che vanno nelle scuole migliori, quelli che hanno famiglie borghesi, quelli che diventeranno classe dirigente.
    Non so se i giovani bianchi e privilegiati hanno i coetanei francesi-africani in cima ai loro pensieri. Non so se sono semplicemente “apatici”.

  44. mi rivolgo soprattutto a claudio:
    ma sei sicuro che l’approccio etnico sia quello giusto?
    L’insurrezione parigina sei sicuro che sia tutta “nera”?
    Non è che dando per scontato che lo scontro sia stato solo etnico (e non di classe) fai il dscorso che Nicolas Sarkozy vuole si faccia.
    Inizialmente è successo tutto per l’uccisione di due ragazzi di origine nordafricana, ma quella è stata solo la scintilla che a fatto incendiare una marginaltà insopportable, ma la marginalità non è etnica è di classe, i ricchi di origine nord africana (saranno più o meno discriminati, ma sono molti in francia), non erano certo nelle strade e neppure i loro figli, è più facile che ci fossero invece molti giovani “bianchi” altrettanto emarginati, dicoccupati e disperati.

  45. le due cose sono una: la discriminazione di classe ha un veicolo privilegiato: il razzismo; è sempre stato cosi, da quando esiste il colonialismo, e cosi è nel mondo post-coloniale (vedi, per l’ennesima volta, Wallerstein, in “Il capitalismo storico”… se ritrovo il benedetto pezzo, lo incollo cosi almeno diamo qualcosa per acquisito…

  46. non so francesco se si possono fare paragoni con il passato.
    I neocon americani a commento di quello succede in francia hanno detto subito che si tratta di una guerra di civiltà, e i discorsi del ministro degli interni (che charamene ha aperto la campagna elettorale) sembra siano diretti non a dei francesi ma a dei terroristi stranieri, io non mi voglio piegare a questa logica perchè è infingarda e chiaramente interessata come quasi tutto quello che ci viene detto in questi ultimi anni.
    Prima o poi il fenomeno verrà esaminato con maggiore attenzione, ma per ora io andrei cauta a dare spiegazioni troppo scontate su scontri etnici.
    Non so come mai ma la cosa per ora non mi torna del tutto.
    georgia

  47. Georgia, le sensazioni forse sono troppo poco. Io per esempio ho una sensazione opposta alla tua. Cioè sono convinta che il solo dato “economico” non basti.
    Con questo non credo di essere per un approccio “etnico”.
    Ma quella richiesta elementare di “rispetto” – espressa da 15-18nni – mi sembra molto diversa da una richiesta di (o da una protesta violenta per il) lavoro stabile.
    Ho letto l’articolo di Zygmunt Bauman sul tuo blog.
    È illuminante, ma non mi pare sminuire l’importanza di fattori non strettamente economici. O meglio, l’analisi riguarda ciò che l’economia attuale e la globalizzazione producono nella politica degli stati, nella psicologia e nei comportamenti individuali e collettivi.
    Il “nemico interno” è più credibile se è anche un po’ colorato.

  48. emma se mi dimostri che fra i guastatori c’era un solo nemico colorato ricco (o anche solo avvocato, ingegnere geometra, medico, o guarda, anche solo uno studente vicino alla laurea di simili università) ti do ragione;-).
    Però se tale individuo esiste che non sia della destra del ministro degli interni (altriment non vale ;-).
    Altrimenti il fattore etnico è solo … un “effetto collaterale”.
    Perchè ci sia un nemico interno etnico non bastano i poveri o i provocatori, o le denunce dei neocon, altrimenti è solo un volgarissimo problema di classe o di strategia marziale.
    Se poi tu, come il minstro degl interni consideri il povero solo come un “nemico interno”, beh allora … anche Sarkozy può essere considerato un nemico interno.
    Ma ragionando così non se ne uscirà mai se non con una guerra modiale (che sembra proprio sia quello che molti vogliono nella destra mondiale, sia fra quelli a favore dell’america che quelli contro), beh speriamo solo che ci si ravveda prima della catastrofe.

  49. emma io leggo i pezzi :-) altrimenti perchè mai posterei quelli e non altri?
    ma poi non è detto che non possa pensare con la mia testa (spesso sbagliando naturalmente), lo scritto di Bauman, di grande intelligenza e interesse come sempre, è generalizzato e soprattutto è preso da un libro pubblcato in Italia nel 2004.

  50. aggiungo che il povero è sempre, da che mondo è mondo, considerato un “nemico interno” (altrimenti non sarebbe così povero), se governa la destra questo fenomeno è ancora più crudele e senza ammrtizzatori sociali.
    Però, al momento, sembra venire considerato, da alcuni (leggi minstro degli ntern francese ma onsolo), come un nemico “interno” da combattere come un nemico “esterno”, è a questo “conformismo marziale” che non voglio prestarmi.
    Tutto questo naturalmente verrebbe capovolto se dovesse risultare che il tutto sia stato (inizialmente poi naturalmente si è svilppato autonomamente) creato ad arte, cosa che per ora non è da escludere.

  51. Il “nemico interno” è nel pezzo di Bauman: tutto qui.
    Leggo solo ora che mi associ a Sarkozy.
    Bene. Non mi impressiono. Mi limito a immaginarti come una Giovanna d’Arco, diciamo una Giovanna d’Arco MOLTO approssimativa.

  52. ma per carita dai emma … figuriamoci se ti associo a sarkozy, tra l’altro ti stimo pure, cosa che non potrei mai affermare per sarkozi :-).
    E la velocita di questa macchina che alle volte fa degenerare la discussione più di quello che uno vorrebbe.
    Io leggo le cose che posto, ma certo questo non impedisce a me (e a tutti) di essere approssimativa, che vuoi farci, nessuno è perfetto (frase di un famoso film) poi magari, a volte, si migliora anche … speriamo capiti pure a me.
    Giovanna d’arco però no, per favore, …. ci vedo più sarkozi come giovanna d’arco e, direi, neppure tanto approsimativo;-)
    con simpatia geo

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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