Scrittori e scriventi libri. Ragionamento intorno all’idea di ricerca letteraria

Di Andrea Inglese

“Sbarazziamoci di questa nozione di una corrente principale nella storia e rendiamoci conto che stiamo andando in diverse direzioni. Noi stessi. Penso che una cosa ragionevole da fare – se abbandoniamo anche la competizione – è fare cose che nessun altro sta facendo, essendo allo stesso tempo informati, naturalmente, su cosa altri stanno facendo; migliorando le nostre comunicazioni in modo da poter sapere cosa sta accadendo, per poi fare qualcosa di nuovo, a cui nessuno si stava dedicando”.
(John Cage, da Lettera a uno sconosciuto, a cura di Richard Kostelanetz, Socrates, 1996)

Leggo questa frase, come un riferimento di Cage allo spirito avanguardista che ha dominato buona parte dell’estetica occidentale del XX secolo. Questa frase dice: “Possiamo fare ricerca, senza fare avanguardia”.

L’avanguardia ha sempre creduto di poter individuare quelle linee di ricerca, e quelle sole, che potevano legittimare l’esistenza dell’attività artistica. Per l’avanguardia era importante non dire: “questa è arte, questa non è arte”. Questo è l’atteggiamento più tradizionale, conservatore. Questo è l’argomento della Qualità. “C’è arte di Qualità e arte Plebea”. L’avanguardia dice un’altra cosa: “questa è l’unica arte che vale la pena fare, quella non vale più la pena di farla”.

La concezione conservatrice (nostalgica della grande Letteratura, della grande Arte) e l’avanguardia (demolitrice brillante della grande Letteratura e della grande Arte) hanno un punto in comune: la lotta per la conquista del campo, la lotta per l’egemonia. Il presupposto è: non ci sono risorse per tutti, non c’è visibilità per tutti, bisogna posizionarsi strategicamente per avere risorse e visibilità (case editrici e collane prestigiose, commesse pubbliche, gallerie rinomate, ecc.).

Cage fa un passo avanti. È un passo che non è stato ancora compiuto. È un passo che ancora tentiamo di compiere. Non è la democratizzazione dell’arte nel senso di “tutti sono artisti”. È la democratizzazione della ricerca: ogni ricerca è legittima in quanto tale. Nell’ambito della ricerca non vi sono gerarchie. È la democratizzazione della ricerca: ogni ricerca è legittima in quanto tale. Nell’ambito della ricerca non vi sono gerarchie. Non vi è il nuovo e l’obsoleto.

La Ricerca è una categoria insidiosa come la Qualità? (Non bisognerebbe mai, dico mai pronunciare la parola “qualità”, senza immediatamente fornire la serie di criteri che la determinano in un dato oggetto. Ma nessuno lo fa. Perché finché si grida alla Qualità, tutti sono d’accordo. Nessuno osa dire in pubblico che ama la Quantità (“Non m’importa che sia merda, datemene tanta!”). Ma appena uno si mette a disquisire sui criteri che rendono un prodotto di qualità, l’accordo è sfumato, e tutti cominciano a insultarsi.

La Ricerca è una categoria insidiosa finché non si chiarisce di che cosa è ricerca? Ma su questo molti artisti e scrittori hanno le idee chiare. Cage per primo. Per definire di che cosa va in cerca la Ricerca, cito un passaggio di uno scrittore canadese (Québec), Jean Pierre Girard:

“Ciò che possiamo desiderare è che ognuno componga da sé il suo rapporto ai generi, e che ci siano in seguito accessibili dei testi singolari, interi, che stabiliscono l’esistenza di questa equazione sovrana nel mondo: un essere; una voce; un testo.” (da Le tremblé du sens, Montréal, 2005).

Ora, dal mio punto di vista, di lettore e scrittore, di critico e di studioso di letteratura, questa è la condizione che giustifica e soddisfa pienamente l’attività letteraria, degli altri e (idealmente) mia.

Questo io cerco in un libro: la singolarità di un testo, di una voce e di un soggetto (di un punto di vista). Ora chi scrive sa benissimo che la cosa più difficile è trovare questa propria voce. Infatti, non è mai la prima voce quella propria. Come la voce originale non è mai la voce originaria. Nella scrittura si parla all’inizio, sempre, con la voce altrui.

Il grande e il piccolo. Se condividiamo quanto detto fin qui, si ottengono due risultati. Il primo è quello di eliminare il modello agonale di confronto: la mia voce è più legittima della tua (la mia voce è quella della Qualità! La mia voce è quella dell’evoluzione storica!). Il modello conflittuale (lotta per l’egemonia) si attenua dal momento in cui nessuno più è portavoce di istante maggiori. Nessuno ha la voce più grande, nessuno deve fare la voce grossa. Non c’è più neppure bisogno di fare letteratura con la L maiuscola. Come ha scritto in un commento Mattia Paganelli, posso trovare la mia voce (il mio gesto), facendo un acquarello ogni due anni, o costruendo istallazioni badiali ogni mese. Dal punto di vista della legittimità artistica non cambia nulla. Si tratta di due gesti (di due voci) entrambi necessari e quindi paritari.

La letteratura nel senso più pieno è la ricerca della propria voce per produrre un testo singolare.

Qual è il presupposto ideologico che sottende questa posizione? 1) Una conoscenza approfondita del Novecento, dalla parte delle opere e degli scrittori piuttosto che da quella dei puri critici e degli storici della letteratura. 2) L’idea che i criteri che definiscono il gioco letterario si discutano innanzitutto e per lo più nell’ambito della nuda attività letteraria da parte dei soggetti che per primi ne sono coinvolti: gli scrittori. Se ci troviamo d’accordo su questo bene, altrimenti non ci troveremo d’accordo su niente.

Se ci troviamo d’accordo dobbiamo dedurre, che è bene distinguere la letteratura dal libro. La letteratura può o non può essere nel libro. Se Brod avesse distrutto i manoscritti di Kafka, coloro che avevano ascoltato le letture di Kafka avrebbero constatato l’esistenza di un’attività letteraria di straordinaria intensità e originalità mai giunta a diventare libro.

Molta gente è interessata al libro e dice “non bisogna lasciare la letteratura in mano agli scrittori”. E hanno ragione. Gli scrittori sono troppo dentro la loro cosa. Con la letteratura si possono fare tante altre cose. Gli editori dicono: “con la letteratura si possono vendere libri”. L’idea della letteratura, il fatto che ognuno possa avere una propria voce, e che una voce singolare valga la pena di essere ascoltata, tutto ciò piace agli editori, piace ai lettori, piace a coloro che vogliono scrivere i libri.

Questa idea si può lasciare sullo sfondo, e poi con il libro si possono fare tante altre cose. Profitti, per l’editore, successo personale, per chi scrive i libri, svago per chi se li legge. Insomma, molte cose si possono fare, partendo dall’idea di letteratura degli scrittori, ma senza per forza fermarsi ad essa (“fossilizzarsi in essa”, direbbe qualcuno).
Io sarei allora tentato di fare una impopolarissima divisione tra gli scrittori (vedi quanto detto più sopra, Cage, la ricerca, ecc.) e coloro che scrivono libri.

[Arrivato qui, mi rendo conto che il mio discorso opera una semplificazione estrema, come tentando di isolare sperimentalmente, in laboratorio, la quintessenza della ricerca letteraria da tutto ciò che lega l’attività di scrivere al suo esito materiale e pubblico, il libro. Mi rendo conto che la ricerca della voce è intrecciata al mestiere di scrivere i libri, che si tratta probabilmente di due facce della stessa medaglia. Inoltre, l’obiezione più forte a questo modo di vedere le cose mi è venuta da Giacomo Sartori, che in una mail così si esprimeva su questo mio pezzo:

“Mi sembra invece impossibile – anche se forse la distinzione che è alla base è vera – fare un processo alle intenzioni (molte probabilmente inconscie) tra chi mira al “libro” e chi invece no. Perchè appunto c’entrano le condizioni della produzione dei libri, che appunto cambiano, c’entra forse addirittura anche la fortuna (Mozzi tempo fa in una serie di pezzi criticava, e a ragione, le storie letterarie in quanto storie appunto, storie dei “vincitori”, che ignorano tutti i testi che sono stati dimenticati o addirittura non sono stati pubblicati). E poi la realtà, e soprattutto quella psichica, è sempre molto contradditoria, e molti grandi capolavori sono nati propri come libro (la Récherche), e probabilmente invece molte autentiche ricerche non hanno dato nulla. Questo cercare la purezza, ti dirò, mi sembra una cosa molto italiana, retaggio forse di del peso delle ideologie, e di una parallela incapacità a giudicare/valutare i prodotti invece che i producenti.”

Molto probabilmente Sartori ha ragione. Ha ragione, innanzitutto, perché è romanziere. E l’essere romanziere definisce un rapporto al libro, all’editoria e al pubblico molto differente da quello che accade ad un poeta. Ma se io ho torto, torto perché semplifico e generalizzo, porto nel mio discorso una parte di ragione. La mia ragione di poeta. È la poesia sopratutto che continua a difendere l’idea di “un essere, una voce e un testo”. Un’idea forse irrealizzabile, o normativa come le idee kantiane, punti asintotici della condotta umana. La poesia, dunque, per una serie di ragioni connesse alla propria vicenda evolutiva di genere, è più ossessionata di altre forme di scrittura nei confronti di questo ideale della ricerca. Per altro la poesia, forse a ragione di queste sue pretese, è una scrittura senza libro. Non esistono (quasi) più i libri di poesia. Ma non è sulla miseria editoriale delle collane di poesia che ha senso soffermarsi qui.)

(Un’ulteriore obiezione, stavolta interna ad una riflessione sul genere poetico, verrebbe da Guido Mazzoni, quando scrive: “Il rapporto a diverso titolo conflittuale col passato, il decentramento o la chiusura monodica dell’io in se stesso isolano il poeta, col rischio di imprigionarlo in una forma di solitudine privata simile a quella da cui sembrano circondati gli artisti figurativi di oggi, che espongono opere sempre più bizzarre davanti a un pubblico distratto, disinteressato o ironico” (Sulla poesia moderna, Mulino, 2005). Ma il discorso di Mazzoni ci porterebbe troppo lontano, costringendoci a riflettere sui quei presupposti dell’individualismo radicale che abbiamo posto alla base dell’idea di scrittura letteraria di ricerca.)

(Per inciso ulteriore, se qualcuno mi chiedesse: ma tu, poeta o non poeta, come ti posizioni? Io risponderei: come uno che sta ancora cercando la propria voce e che si disinteressa relativamente del libro. D’altra parte scegliere prevalentemente la poesia, significa oggi costringersi a questo. Sono arrivato alla scrittura non attraverso il prestigio del libro, ma attraverso il fascino esercitato dall’idea di ricerca.)

Nonostante queste obiezioni, postuliamo comunque questa distinzione, estendendola a tutto l’universo letterario.Gli scrittori sono quelli che sono innanzitutto preoccupati dal trovare la loro voce, gli altri sono quelli che sono innanzitutto preoccupati di scrivere il nuovo libro. (Si tratta di una gerarchia di priorità, sapendo che la ricerca letteraria, se esiste, esiste attraverso il libro, come artefatto culturale pubblico. E d’altronde, la scrittura di un libro comporta sempre, inevitabilmente, un certo grado di ricerca della propria voce.)

Tra coloro che scrivono libri farei poi una distinzione tra coloro che li sanno scrivere bene e coloro che li scrivono male. Scrivere un libro è un mestiere serio, duro e difficile. Molti vogliono scrivere libri, non tutti li sanno scrivere bene.

Aver distinto scrittori e scrittori di libri, significa che i primi sono più importanti, più bravi, degli altri? Che gli uni fanno fino in fondo quello che altri lasciano a metà? No. E qui ancora si tocca un punto fondamentale. Si tratta di due attività che hanno molti punti in comune, ma che per certi versi sono molto differenti. Sono due giochi differenti, o meglio sono due giochi simili con alcune regole differenti. È più importante un giocatore di basket o di pallone? È più bravo un campione di basket o di pallone? È una domanda insensata. Ma non è cosi semplice che un gran giocatore di pallone diventi anche un gran giocatore di basket.

Su questo i più disonesti sono gli editori. E della loro disonestà partecipano molti giornalisti culturali. L’editore ha bisogno di vendere un pallone di calcio come se fosse anche un pallone di basket. Hanno bisogno di vendere buoni libri come se fossero libri singolari (e quindi rari, inusuali, di ricerca…). I critici che si sono esercitati soprattutto nel distinguere coloro che scrivono i libri bene da coloro che li scrivono male, pretendono anche di legiferare nell’ambito della scrittura.

E i lettori? I lettori che non leggono Kafka o Volodine, che non leggono Gadda o Gaddis? I lettori possono fare, evidentemente, quel che gli va con i libri che comprano. Posso ricercare le medesime immagini, le medesime figure. Godersi piccole variazioni sul conosciuto. Possono amare ritrovare, ben descritta ed espressa, una visione del mondo che condividono. Possono andare alla ricerca di un punto di vista e di una voce singolare. Possono anche non leggere, e giocare ai videogiochi.

Allora, va tutto bene? No. Quello che fa incazzare è la disonestà. Noi sappiamo benissimo che gli editori sono interessati soprattutto a coloro che sanno scrivere libri. È evidente: la loro “cosa” è il libro, non la scrittura. Ma in quanto esperti in materia, sanno benissimo che il linguaggio pubblicitario che circonda il libro trae gran parte delle sue risorse dall’esistenza degli scrittori e della loro idea di letteratura. Questo semplice fatto li dovrebbe rendere rispettosi della la possibilità che il gioco della scrittura possa continuare ad esistere, ad essere riconosciuto come tale, assieme e a fianco al gioco del libro. Ma è proprio quello che non avviene. E qui una grande responsabilità ce l’hanno coloro che, nelle pagine culturali, contribuiscono a fare confusione, a parlare di calcio con la terminologia con cui si parla di basket, a presentare un libro scritto male per un libro scritto bene, e un libro scritto bene per un testo singolare.

Da qui nascono tutte le giuste, inevitabili incazzature, e l’esigenza di una “riparazione dei torti”.

Quanto a colui che scrive. Può capitare che in lui conviva lo scrittore e colui che scrive libri. Balzac ne è un caso esemplare. Ma tutta la grande letteratura dell’Ottocento non conosceva questa distinzione. Oggi questa convivenza è resa più difficile. (E bisognerebbe riflettere al perché lo è.) Può capitare che a uno interessi scrivere, ma che ad un certo punto gli convenga scrivere libri, e metta la ricerca della propria voce sullo sfondo, per un periodo o magari per sempre.

Ma anche qui c’è spazio per la disonestà. Lo scrittore che pretende di delegittimare il libro scritto bene è disonesto. Quali superiori motivi dovrebbero restringere l’esistenza del libro alla ricerca letteraria? Lo scrittore che scrive libri e pretende di ricercare ed esprimere la propria singola voce è disonesto. Sta giocando ad un gioco, e vorrebbe attribuirsi le caratteristiche di un altro gioco.

Il successo di un libro (le vendite). Tutto e il contrario di tutto può avere successo: libri di ricerca, libri scritti bene, libri scritti male. Il successo è l’unico criterio, di per sé, che non ci può dire nulla di definitivo. E di conseguenza, l’insuccesso. Quindi nessuno può fregiarsi di collezionare insuccessi proporzionalmente alla sua vocazione di scrittore.

Cha fare? 1
Lottare per un mondo dove l’idea di Cage venisse rispettata, e quindi si distinguessero e valorizzassero nella loro specificità tutti e due i giochi diversi, scrivere per la propria voce, e scrivere per il libro.

Che fare? 2
Da un punto di vista “politico”, coloro che credono nell’equazione: “un essere, una voce, un testo”, difendono un’idea di scrittura più ampia di quelli che sono interessati soprattutto al “libro scritto bene per tutti”. La gerarchia qui non è di ordine estetico: ma appunto politico. La lotta per la propria voce, perché sia possibile ascoltare voci singolari, in arte e letteratura, è sentita come un’urgenza, una priorità nei confronti di un mondo che non rispetta la specificità dei giochi, ma li confonde per assecondare l’unica logica del profitto.

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98 Commenti

  1. Non sorprende che queste osservazioni provengano da un poeta, l’ultima frangia in estinzione che per la ricerca ha conservato ancora un sospiro di speranza. Sarà che i poeti non hanno l’ossessione di vendere, partono già svantaggiati, come nella gara della lumaca e della lepre, e se ne fregano di sapere che alla fine arriveranno primi. I poeti cercano sempre la loro voce, sono voce, senza preoccupazione di cucina ed ingredienti ad hoc per costruire vendite.

    Credo non sia mai stato così facile barare sulla questione “un essere; una voce; un testo” come oggi. Quanti libri sono solo un prodotto costruito a tavolino, non è più nemmeno necessario l’editor che ti consigli: mettici un po’ di noir qui e là, sesso soft ogni venti pagine, un po’ di sangue e trippa. camorra&C con giusta dose di strappacore e lacrime, lo si fa da soli. Si individua il target, si pesano gli ingredienti, , si mescola e via nel forno.

    Quando Cage parlava di migliorare le comunicazioni, intendeva qualcosa che non esiste più, lo scambio, la sinergia, fra i diversi settori artistici, pittura, musica, letteratura, cinema, teatro, danza, come crogiuolo di esperienze. La possibilità di tastare il polso al nuovo e di afferrare gli elettroni vibranti di qualcosa che è nell’aria. Una cosa vivace e vitale. Oggi rarissima. E non si sarebbe mai immaginato che proprio adesso che le comunicazione è diventata in un click così veloce e democratica, sia invece così piccola, bassa e banalizzante.
    E se, forse, per ricercare toccasse invece isolarsi, spegnere gli elettrodomestici della parola e scavarsi dentro in sacrosanto eremitaggio. Dov’è oggi la ricerca nella letteratura, tolta la piccola isola dei poeti? La ricerca linguistica, lo scardinamento della struttura della trama?
    Uno scrive noir e via trecento epigoni, di precari e via altri a surfare l’onda. Che tristezza.

  2. @inglese

    “La lotta per la propria voce, perché sia possibile ascoltare voci singolari, in arte e letteratura, è sentita come un’urgenza, una priorità nei confronti di un mondo che non rispetta la specificità dei giochi, ma li confonde per assecondare l’unica logica del profitto”.

    sarà, ma mi sembra che la “avanguardia” (come concetto) da cui ti allontanavi all’inizio del post cacciandola dalla porta, così finisca per rientare dalla finestra…

    e secondo me, spezzando e invertendo di segno la tautologia, questo non è un male nel confrontarsi con l’idea di letteratura (e di critica, di editoria, di mercato, di lettori, di idee, di società) che si ha in mente.

    è un modo di rivendicare un ‘campo’, uno spazio, una postazione per fare battaglie di idee. quindi, alla fine legittimi la natura più profonda di ogni avanguardia, a prescindere inizialmente dalla ricostruzione storica o dal giudizio di valore sulle sue manifestazioni pratiche e sui suoi frutti (avanguardie storiche, neoavanguardia, surrealismo, dada, ecc….).

    l’avanguardia presuppone come è ovvio il concetto di ‘gruppo’ (e quindi di egemonia). oggi potremmo dire di condivisione e di una dimensione comunitaria, collettiva, delle idee.

    per chiarire: per me l’ ‘avanguardia’ va intesa semplificando come battaglia di idee di un gruppo o di una rivista omogenei, che in corso d’opera sperimenta, ricerca, trova una via precisa per la sua ‘poetica’ condivisa. ha in mente, infine, una idea di letteratura, di metodo, di ‘mondo’: ha in mente e rivendica delle ‘priorità’, come tu stesso dici.

    e da questo punto di vista, in italia, si potrebbe dire che l’avanguardia non è stata solo il gruppo ’63, ma anche ‘officina’ e lo sperimentalismo che ne seguì (fino a volponi, o a pagliarani…). o altre riviste ed esperienze, di valore diseguale, scemando via via verso il postmoderno (’70-’80).

    sono esperienze, sul piano sia critico che letterario, creativo, in cui appunto c’è un gruppo, un incontro plurale, sempre in fieri e ‘cantiere aperto’, ma che ‘prende posizione’, assume delle priorità per cui esistere, si scontra, si confronta. già pagando lo scotto di costituire un valore ‘alternativo’ al mercato e al profitto, pagando le conseguenze del proprio posizionarsi ai margini, ma contro, l’ideologia dominante. quanto più è diseguale o compromissorio il gruppo, più alto sarà il rischio di ‘vendere’, forse sì, ma non di ‘imporre’ le proprie idee o priorità. poi le riviste finiscono, si sa, anche male. restano come lavoro incompiuto, interrotto quando ancora in corso, lacunoso. ma come lavoro chiaro, come progetto. come un plastico.

    con l’ampliare o il rivedere o l’attualizzare il concetto di ‘avanguardia’, insomma, mi sembra che si potrebbe eliminare il difetto ottico che emerge (ancora) dal tuo post denso e stratificato. quello dell’epochè, della sospensione fenomenologica (del ‘giudizio’), del ‘lavoro in corso’. questo su un piano critico, di come s’intende il lavoro critico (potrei sintetizzare con lo slogan: rivista d’avanguardia o rivista ‘generalista’?).

    invece, sul piano letterario, quello di ‘lavoro in corso’ (della ‘ricerca della propria voce’) è al centro ad esempio della poetica, del farsi poesia di un grande poeta del secondo ‘900 italiano (che sulla ‘quantità’ di libri, a vedere bene, è proprio ‘scarso’ ed esile), e cioè vittorio sereni. forse su questo siamo d’accordo. la sua è sempre e concretamente una poesia che si fa (non solo nel senso di raboni). e sappiamo quanto proprio la fenomenologia conti sulla sua formazione e ‘ideologia poetica’.

    ma è anche, chiaramente, il paradigma dell’intellettuale isolato, della voce singola (l’individualità di cui parli tu). attento alle cose, al mondo, alla realtà, alla cultura, ai libri degli altri, ma incapace di fare ‘lavoro critico’ e creativo in gruppo, condividendo un progetto. invischiato con la sua solitudine nella crisi o nelle trasformazioni sociali e culturali che, alla fine, lo investono per travolgerlo. anche su un piano solo esistenziale. per sereni, poi… : si può pensare alla sua attività parallela (e sofferta) di ‘funzionario’ editoriale, impiegato nella catena di comando del mercato librario (lui però, almeno, non era precario).

    la grande possibilità, per chiudere perchè devo andare, è il gruppo (l’idea di avanguardia). si può scegliere o meno di volerlo essere.

    comunque questa di guglielmi, alla fine, è una catena di frasi azzeccata, credo, per il tuo post….:

    ‘E il rifiutarsi della poesia alle immagini conchiuse di mondo – il suo insistere ai margini dei sistemi comunicativi – sarà un modo di rivendicare il negativo, l’ambiguo, l’assenza di finalità. Poiché nessun ordine la richiede, la poesia sarà l’ironia della cultura. Essa farà valere il possibile contro il necessario. Non annuncerà più nessuna totalità, ma proprio il tramonto di ogni totalità. E anziché essere depositaria di valori ideali (di cui permanga dubbia la realizzazione), al mercato porterà il paradosso di un valore antieconomico’.

  3. non ho ancora letto il post, ma non riesco a contenermi davanti alla Lettera di Cage: il non-libro totale del XX secolo! (e mi fermo, mi lego le mani e non le lavo)

  4. Andrea, questo pezzo va meditato bene. Grazie. Lancio al volo un paio di considerazioni non del tutto pertinenti:

    a) “Che fare 2”: a un’idea più ampia di leteratura cor-risponde un’idea più elitaria di pubblico, al limite estremo di sinoglo a singolo. Che ne è della letteratura come partimonio comune condiviso? Che ne è dei libri come veicoli culturali? Simpatia e vicinanza alle voci singolari non so se bastano a far intendere la letteratura.

    b) la ricerca di “una voce, un testo” che sia anche quella di “un essere” filosoficamente la vedo molto vicina a Nancy (penso a Essere singolare plurale), molto fine Novecento. Confusione filosofica essere/essente (sarà being? Cage scrive in inglese? perdona il calembour).

    b2) Universale-singolare vs differenza-e-ripetizione ecc ecc. – Siamo al tramonto un’epoca di sperimentazione filosofica (o filosofologica) selvaggia, elitaria e antiautoritaria, che ha portato frutti meravigliosi (penso all’antipsichiatria) e ma cha anche levato punti di riferimento importanti (penso all’anima ridotta a mente, ad esempio), ma siamo ancora lontani dal mistero dell’Uno, chiuso contemporaneamente su un altro fronte nei dogmatismi. Questo ha a che fare con la letteratura – diversamente in poesia e in prosa -, che parla sempre della singolarità che si dischiude. Su cosa e con che esiti, beh… difficile dirlo.

    c) c’è il commiato alla battaglia per l’egemonia, e questo può essere un bene. Ma chi farà l’archeologia di queste mille voci solitarie, fra cent’anni? La posizione di Cage è facile, in quanto Cage è già ascoltato. oserei che, molto spesso, le avanguardie durano mediamente il tempo in cui alcuni personaggi emergono, se ne staccano, le negano o le superano e passano il tempo a fare dei distinguo tra loro e il gruppo. (C’è qualche testo sulla sociologia delle avanguardie? Segnalatemelo, se lo conscete)

    c2) chi farà l’archeologia… sto con Mozzi qui. E con te sulla polemica contro recensori, critici ed editori.

    d) le macchine culturali (il libro come veicolo, l’editore come produttore, il blog come conventicola o come strillo anarchico, l’autore come forzato della scrittura, la tv come formattatore… elenco aperto) hanno un peso importante ma relativo, quanto alla cultura e all’educazione che hanno come fonte la letteratura. Penso a G. Steiner qui http://www.ilprimoamore.com/testo_191.html per esempio. Penso al fascino ambiguo di De Sade o di Celine, per esempio.

    d2) l’autore come forzato della scrittura (un libro all’anno sotto contratto ecc ecc) è un elemento interessante, ma né buono né cattivo né neutrale. La scrittura forzata ci ha dato schifezze e capolavori. L’autore come semidio intoccabile anche. Difficile pre-dire gli esiti centrifughi di queste ruote per criceti.

    Mi fermo, ma ci penso… Perdonate la dispersione,

    P

  5. a arte-misia: solo un appunto: la letteratura di genere non la considero come il bau bau, il nemico della ricerca; vorrei che ci fosse solo pieno riconoscimento delle specificità: alcuni fanno “questo”, altri fanno “quello”; invece spesso c’è un gioco reciproco di delegittimazione

    a db: facciamo un elenco degli scrittori nonlibro del Novecento, e dei musicisti nondisco, e degli artisti nonquadro? sarà che avranno poi ragioni gli editori, le case discografiche e i collezionisti, eppure il novecento cosa sarebbe senza tutta questa nonopera (ma senza esagerare, non sono un blanchotiano…)

    a fabio, grazie innanzitutto per la citazione azzeccatissima di guido guglielmi, uno dei migliori critici letterari che il paese abbia avuto

    a paolo: una tra le tante domande importanti che solleva: chi farà l’archeologia? “Questo” è il problema.

  6. Il mio amico Gabriele Pepe ha trovato la propria voce.
    EPIDEMIA
    La mia casa è infetta

    Parete calcinata

    Mattone pizzicato

    Fazioso e condannato.

    La mia casa è chiusa. Chiusa alla magia

    Chiusa al destino all’ospite inatteso

    Al portico al vetro

    A lampade nel retro.

    La mia casa è demenza

    Roipnol eroico dell’invadenza

    Clonazione del reale

    L’odore penetrante

    Sparato dalle fiale

    Soggetta alla carogna

    Seguace del rimorso

    Epidemia scommessa

    Di grazia e di conforto

  7. fabio scrive:
    “la grande possibilità, per chiudere perchè devo andare, è il gruppo (l’idea di avanguardia). si può scegliere o meno di volerlo essere.”

    penso che si possa uscire dalla dicotomia “gruppo d’avanguardia” / “scrittore isolato”, e che la frase di Cage indichi questa possibilità: gruppo frastagliato, con possibilità di confronto aperto e rigoroso, senza pretesa di egemonia; e quindi saltare anche l’alternativa rivista d’avanguardia e rivista generalista; potrebbero esserci riviste, o blog, in cui diversi “giochi letterari” possono paritariamente stare assieme; senza pero’ mescolare le carte; senza avere la prospettiva della quarta di copertina o del trailer (?) cinematografico, per la quale ogni ultimo libro, ogni ultimo film, sono “nuovi”, “straordinari”, di “ricerca”, “per tutti”, e altri paradossi simili.

    ps ringrazio alex broggi, che mi fece conoscere la citaz. di Cage

  8. Caro Andrea,

    sono io che ti ringrazio,

    questo tuo intervento è di quelli che “fanno bene” :-)

    (e credo che anche John sarebbe stato d’accordo con te, su molte cose).

    Ti mando altre tre citazioni cageane, per me importanti, da pensare, e – scusandomi di non potermi diffondere in un confronto/dialogo più ampio e soddisfacente con gli altri intervenuti – ti/vi saluto:

    “Noi non abbiamo soltanto un modo di vivere che tutti dovrebbero seguire. Dovremmo avere tutta una varietà di modi e poi dovremmo avere anche la possibilità di altri modi ancora, rispetto a quelli che pensavamo, in modo tale che ognuno possa vivere come intende vivere, invece che come altri pensano che debba vivere. Dovrebbe vivere come ha bisogno di vivere.”

    “La gente tende a farsi delle idee di ciò che ritiene interessante, e sarà un numero di cose molto limitato perché l’immaginazione delle persone è pigra ed esse preferiscono fare poche cose piuttosto che molte e si accontentano di farne una sola per un tempo straordinariamente lungo.”

    “Ogni volta che uno parla nozionisticamente, con esattezza, su come qualche cosa andrebbe fatto, tu ascoltalo, se puoi, col massimo interesse, sapendo che il suo discorso descrive un’unica linea in una sfera di attività potenzialmente illimitate, che ognuna delle misure che lui ti dà esiste entro un campo spalancato all’esplorazione.”

    [J.C.]

  9. bel pezzo, andrea
    qualche parola in liberta:
    sulla qualità e le sue battaglie di gusto egemonico: “il giudizio di valore letterario è per il critico come la carota per l’asino” (freye)
    (e tuttavia, non si dimentichi che egemonia non ha a che fare solo con conquista, ma anche con verità: conquista del campo ottenuta dicendo la sua verità. “Come” rinunciamo alla verità?)

    concordo su voce+singolarità+testo (e qui il proprio e l’altrui forse si fondono nel singolare che è l’anti-spontaneo ma non per questo del tutto volontario, o “in possesso”: l’attore in campo dipende dall’invisibile – per lo stesso attore – servo di scena, colui che non visto apparecchia ciò che si mostra)

    anche se il problema si pone di nuovo: quando una voce è singolare? (quando un testo è di qualità? la verità rientra dalla finestra. Sto leggendo il testo di deleuze sulla piega e il barocco: nell’opera letteraria come piegatura di piegatura – e nelle analisi di Sini sulla genealogia della verità – forse c’è una risposta)

    a “democrazia” poi sostituirei libertà, meno impegnativo (democrazia implica il voto e la maggioranza, nonché lo stato… tutte robe scabrose :) )

  10. @ Fabio e Andrea, su Guglielmi – è una strana vecchia storia questa della presa di distanza della parola poetica dall’ordine costituito, in fuga “ai margini”.
    La parola poetica è in fuga, anche mentre corteggia il potere o lo respinge (… fa un corteggiamento ritroso, dopotutto), mi piacerebbe dire. Dante, Virgilio, Milton, Goethe, D’Annunzio, Neruda. Fuggono inseguendo un ordine non costituito (c’è un frammento in cui D’Annunzio lo chiama ordine lirico, mi pare…) e che potrebbe farsi ma non è mai fatto, un ordine che intende il caos, il molteplice, l’abissale ecc ecc, che riescono ad afferrare solo in parte. Anche quando ci danno una grossa sistemata, non la prendono poi troppo sul serio. Evitano così (tengono a distanza) la preghiera o l’adulazione.
    Questo è il tramonto della totalità, o il suo annuncio? Di sicuro è la negazione essenziale della possibilità di totalizzazione e del totalitarismo. Questo è rinunciare al deposito di valori ideali di dubbia realizzazione? Certo non è rinunciare agli ideali.
    Resta il problema dell’intendere, e delle orecchie per intendere. Della lettura che non è liturgia della parola unica, del lettore che non è mai solo pubblico-tele-spettatore, ma può divenire partecipe di una consonanza, mai di un’identità.

  11. l’avanguardia a ben gurdare è esistita come fenomeno per gli altri. chi fa ricerca fa quello che sente di fare e non chiede il permesso a nessuno. caro andrea hai colto nel segno: cage ne è l’emblema. per un superamento dei suoi maestri bisognava rendere più acuto e in qualche modo quasi irriconoscibile la strada già tracciata dagli altri (vedi shomberg). ma lì, in quello sforzo di superamento, credo ci fosse anche moltissimo scavo archeologico. chi scava ricerca. la ricerca è nello scavo. mutuare una voce, prenderla in prestito, non serve a nessuno. nelle arti plastiche penso a lucio fontana: assimilava alcune istanze futuriste eternando il gesto più dell’opera senza lasciarsi arretrare.

    non sono però convinto dell’aspetto “politico” che dai alle tue riflessioni. mi rendo conto che hai un’idea raffinata e intensa della politica (e la politica come difesa della specificità dal mero profitto, dal mercato), ma utilizzare questo termine, questa parola ambigua, di bocca in bocca condivisa e non più condivisibile, è rischioso. il tuo lavoro è innanzitutto impolitico. differente. allora il tuo impegno sarà veramente politico… allora, liberata dai piani di affrontamento politico, dalla logica che comunque e sempre sottende di amico-nemico, anche una poesia d’amore diventerà politica…

  12. “senza pero’ mescolare le carte”

    @inglese

    per chiarezza, in concreto.

    si fa ricerca letteraria (prendo per buono il tuo termine, assecondo le tue ‘scelte’ linguistiche), in opposizione o in funzione critica verso l’esistente?

    per confrontarsi, conoscere, mappare, criticare ed eventualmente lavorare sul livello pre-ideologico del senso comune, e poi su quello ideologico della “egemonia” (e dei linguaggi egemonici)? per la libertà, s’intende (che è ‘il’ problema, l’utopia).

    dentro, ‘nonostante’ il mercato (i ‘poteri’?)? fuori o ai margini del mercato, cercando però di realizzare strutture alternative quanto più reticolate e senza steccati possibile, condivise, nelle quali il lettore è ‘attivo’?

    ma, ti chiedo soprattutto, tra le ‘priorità’ di questa ricerca letteraria c’è quella di voler essere anche ‘pratica sociale’, ‘testualità forte’, discorso sul ‘potere’ e contro il ‘potere’ (l’esistente)?

    oppure, magari perchè oggi questo passa il convento…., si intende, intendi la ‘ricerca’ letteraria, se posso, in chiave solo culturalistica?

    come dire, per il momento è utile non arretrare ma attestarsi nel ragionare e lavorare insieme, o individualmente, su questa ricerca in corso, sui suoi presupposti teorici e metodologici. ma in una logica tutta interna al discorso letterario, o quantomeno culturale: con la priorità di scalfire gli stereotipi e le logiche (ordinate, razionali, perchè economiche) del mercato editoriale. lottare contro la ‘confusione’ seminata ad arte dalla ‘disonestà’ (lucida, lungimirante) degli editori. strappare la maschera al volto del sistema culturale e alle logiche del profitto (i generi, la ‘novità’, eccetera). perchè mi sembra che su questo converga, alla fine, come proposta e obiettvo critico, il tuo discorso.

    così facendo, io credo che IL problema della ‘ricerca’ letteraria, d’avanguardia o dello scrittore isolato, in poesia o nel romanzo, sia (come sempre) evitato o soltanto sfiorato.

    è il rapporto dello scrittore (o del gruppo di scrittori) versus i ‘poteri’, il potere (donde la ‘libertà’…). metti gli anni ’70. come oggi, sebbene tra mille differenze e trasformazioni, si perdevano non solo riferimenti politici certi e condivisi; s’instaurava non solo quella dispersione culturale di cui parli anche tu, frutto della compiuta razionalizzazione economica dell’industria culturale; non solo emergeva il mercato, a scapito del pubblico e del lettore ‘attivo’ (un ‘pubblico distratto, interclassista’, tuonava uno); ma soprattutto si perdevano quasi per sempre esperienze collettive, gruppi di ricerca, riviste, che facevano ‘in comune’ la ‘mediazione’ del lavoro critico rispetto al sistema culturale egemone: lo scrittore italiano diventa solo, isolato, fa ricerca letteraria individualmente. diventa ‘artigiano’ delle forme e delle scritture, rivendica solo, per l’appunto, il suo ‘mestiere’ di scrittore (di ricerca).

    ma come si relaziona al ‘nuovo’ potere (ieri come oggi)? lo co-gestisce, se ne è consapevole e scaltro; ne è utilizzato, magari inconsapevolmente; lo utilizza, se è ‘organico’ alle sue strutture e alla sua ideologia; ne è ignorato, se ‘fa male’.

    in gruppo, una cosa da fare, chè di certo è più praticabile e ‘utile’ farla in gruppo, è proprio quella di mettere in discussione sempre e comunque il proprio ‘rapporto’ con il ‘potere’. integralmente: da quando si scrive a quando si pensa alla distribuzione di ciò che si scrive.

    insomma la ricerca letteraria, bene.
    ma il (resto del) ‘mondo non scritto’…?

    saluti, f.

  13. In estate avanzata, l’erba non conviene tagliarla troppo bassa. Adesso bisogna iniziare a lasciarla crescere. L’editoria ha pessimi giardinieri e vecchie questioni in catalogo. Quando il virur muterà, i diritti di autore moriranno, la distribuzione finirà di distribuire e l’editoria sarà quello che riuscirà ad essere. Gli scrittori continueranno a scrivere gratis, e quasi gratis si leggerà. I libri continueranno ad esserci, ma sponsorizati da una pubblicità sempre più attenta. Con l’avvento dell’energia elettrica, continuare a credere nel futuro dei candelabri e solo stupido. Quando questo avverrà e tra breve, si stamperanno in casa i libri, e gli scrittori ritorneranno a scrivere, pace fatta.

  14. Permettimi Andrea: trovo il tuo post molto “restaurativo” … E me lo dimostra l’uso acritico che fai di Cage … Armando Gentilucci, compositore e militante, ha più volte sottolineato la funzione negativa avuta da Cage nella “ricerca” musicale (“esotismo gratuito e ideologicamente colonialistico” lo definisce nel volume “Oltre l’avanguardia. Invito al molteplice”, Ricordi Ed.), le cui composizioni non a caso sfociano in una aleatorietà che è “rinuncia a intervenire sulle cose, sulla e nella storia”, un’arte tutta sul significante, e per di più “non intimidatoria nei confronti del fruitore comune” (ancora Gentilucci) … Ed è proprio qui la differenza tra l’avanguardia e la semplice ricerca: l’avanguardia non è consolante, non appaga, rompe, sta fuori dal gioco e mette in campo la sua vocazione politica; la ricerca può anche essere così, ma corre il rischio di essere soltanto un abbellimento della barbarie (ed è la critica mossa da Gentilucci a Cage) … Certo, così dicendo sto ancora dentro quello che tu chiamo “modello agonale” … Ma se togli il conflitto, che resta? Resta lo pseudo-democraticismo del “siamo tutti uguali” … Che è una illusione, una colossale palla, non foss’altro perché io posso stabilire che tra due “voci uniche”, poniamo tra Emilio Villa e Mario Luzi, quella meglio adatta a esprimere un secco NO alla barbarie è la prima … Ciò non vuol dire impedire alla seconda di esprimersi; vuol semplicemente dire che, nel momento che porto avanti una certa “idea” di arte (una mia “tendenza”, per stare su Benjamin), le gerarchie le faccio e le faccio non per arrivare primo o escludere l’altro, ma perché una strada porta alla costruzione di ulteriori tasselli, l’altra chiude le strade possibili … Trovo per di più questo invito ad accantonare il conflitto tra le estetiche molto consolante: addomestica ciò che dovrebbe aprire contraddizioni, e soprattutto rende sterile – e direi “vittimario” – l’agire stesso dell’arte … Insomma, non tutti i dispositivi formali possono aprire percorso di distanziamento dall’obbrobrio dell’epoca: se si tratta di aprire un varco nella norma, per lo meno per rompere il consenso con l’ordine esistente, allora scegliere tra le mille formalizzazioni possibili (e porsi anche antagonisticamente rispetto certune) è cosa sensata … Altrimenti, davvero, è il trionfo del peggior postmodernismo, dove tutto si tiene e ogni forma ha il suo senso … Ossia, per ripetermi, siamo nella “restaurazione” che non è però quella di Moresco, ma quella di cui parla Alain Badiou in un testo del 1999 (ora in “Il secolo”, Feltrinelli Ed.): accantonati il “lancio di dadi” e la “crudeltà” come scommessa sul mondo, come passione del reale (e il reale “è antagonismo”), resta la realtà come “opinione”, in cui la cittadinanza di tutte le posizioni in campo nasconde la sottomissione …

    Volodja

  15. a davide e a fabio

    davide vede come un rischio di mettere “politica” nella scrittura; fabio teme che la scrittura non sia “abbastanza politica”; semplifico molto, ma il succo è questo; è una questione importante;

    allora ci sono delle scritture interamente politiche, scritture di testimonianza, ad esempio: il libro di Roberto Saviano “Gomorra”, fa parte di queste scritture; “Gomorra” è distribuito come se fosse un libro tra gli altri, ma è una bomba; se quello che li c’è scritto fosse assunto fino in fondo, domani dovrebbero saltare tutte le vetrine di armani versace, e company, solo per fare un esempio;

    ma quando io parlo di scrittura come ricerca di una voce propria non mi pongo il problema del potere; è una questione che va da sé; in passato tendevo a “ideologizzare” maggiormente il gesto dello scrittore e dell’artista: “decondizionare” i modi stereotipati di vedere il mondo. Certo, possiamo intendere cosi le cose. Ma non per forza. Non per forza la performance “punk” è più “ricerca” dell’acquarello. In definitiva, è difficile leggere Beckett, Danilo Kis, Gherasim Luca, andando subito a cercarci la “fibra” politica.

    Possiamo scrivere sulla “Gomorra” mondiale, la criminalità integrata al capitalismo. Possiamo scrivere anche di una “Gomorra” familiare, tra un uomo e una donna, due fratelli…

    Difendere la ricerca della propria voce, al di fuori del mestiere di scrivere e dei suoi imperativi (pubblico, chiarezza, vendibilità), è già a mio vedere un atto che ha conseguenze “politiche”.

  16. a volodja
    non ho la pretesa di rispondere a tutte le obiezioni, che mi sembrano legittime; mi sembra più interessante leggerle e capire altri punti di vista;
    ma chiariamo almeno una cosa: a me interessa poco, oggi, il conflitto tra le estetiche; mentre mi interessa, sempre, inevitabilmente, il conflitto politico, di analisi della realtà e denuncia della barbarie. Come altre persone qui in NI (e altri lo fanno altrove), per me è indispensabile proporre una riflessione sulle rivolte delle periferie francesi e presentare i testi di un giovane poeta. E ti assicuro che questo atteggiamento non è cosi diffuso, parlo almeno nell’odierno mondo della poesia.
    Cio’ verso cui sono scettico è l’idea che l’impegno “politico” debba tradursi per forza, e evidentemente, nel lavoro letterario o artistico.
    Gli enunciati letterari hanno forza, se la memoria terminologica non m’inganna, perlocutoria, ossia agiscono sul ricevente, ma in modo più costante, più di lunga durata, più imprevedibilmente e sottilmente, di quanto mai farà un enunciato politico.

    Il problema non è Villa o Luzi. Il problema veramente “politico” è editoriale, giornalistico e di critica. Cioè Villa non c’è: non esistono i suoi libri, nessuno ne parla (parlava), i critici facevano altro.

  17. Grossomodo son d’accordo con il post.

    I due che fare mi sembrano invece da un lato ridondanti, dall’altro mere dichiarazioni d’intenti, piuttosto astratte.

    Ridondanti perché chi pratica la scrittura già mette in opera il che fare, soprattutto il primo.

    Mere dichiarazioni d’intenti perché non vedo i termini di questa “lotta politica”. In cosa consisterebbe?

    Nuove case editrici? Obbligo alle grandi case di aprire una collana di ricerca accanto alle collane di fiction? Sedi in cui si afferma la “differenza”?

    A meno che non si tratti di continuare a far polemica, io naturalmente ci sto, ma non è un nuovo che fare, è sempre quello glorioso e vecchio.

  18. @inglese

    ‘Il problema veramente “politico” è editoriale, giornalistico e di critica’.

    appunto.

    finiamola col credere che chi ti richiama, nel rispetto e la stima per le tue idee, sul punto dell’a-conflittualità, dell’a-politicità, della non-contraddizione o non-contrapposizione del lavoro critico, se ne stia, attardato, su posizioni rozzamente ideologiche che credono alla politicità solo contenutistica della letteratura, senza mediazioni e arricchimenti (come l’omologia lukacsiano-goldmanniana o che so io)…

    dove trovare la politica in beckett o kafka…?, e celine?… ma andiamo!!!

    c’è sempre questo sospetto di snobismo (non so come meglio chiamarlo) da parte di un certo tipo di critica (come la tua) che vuole corrodere e delegittimare un discorso che dalla letteratura, dai testi, parta sì, ma per arrivare a cogliere un ‘sistema’, per affronare un discorso più vasto… (il ‘mondo non scritto’, appunto).

    la letteratura non è mai innocente, mi pare. qualcosa muove, da ogni parte si guardi la questione. su questo, spero, siamo d’accordo.

    la mia non è quella che definisci (un po’ snobisticamente) ‘l’idea che l’impegno “politico” debba tradursi per forza, e evidentemente, nel lavoro letterario o artistico’.

    non è così. vedi un po’, io sottoscriverei quanto dici a proposito della forza ‘perlocutoria’, profetica, visionaria, obliqua della parola letteraria (poetica, e non solo).

    si parlava piuttosto della ‘politicità’ o meno di un lavoro critico che sia parte di quella ricerca letteraria, la ‘sostenga’, la ‘orienti’ o ne sia ‘orientata’, si faccia insieme ad essa ‘pratica sociale’, non solo estetica, si renda (anche) visione e critica dell’esistente.

    quando forse, isolatamente, questa benedetta ricerca letteraria rimarrebbe altrimenti discorso (solo) letterario. una terribile tautologia, una dialettica risolta, pacificata.

    come ti dicevo, in un’ottica di ricerca letteraria ‘solo’ individuale: artigianato e mestiere, talento o furbizia, non importa. la ricerca letteraria sforna ‘forme’, comecchesia, ad un pubblico che non chiede altro che ‘forme’.

    ma siamo o no per la ‘contraddizione’? (questa era la chiusa quasi ad ogni lezione di un mio professore all’università, stolto ma geniale. ‘marxista’, vedi tu…).

  19. @Inglese

    Non avevo letto il tuo commento:

    “Cio’ verso cui sono scettico è l’idea che l’impegno “politico” debba tradursi per forza, e evidentemente, nel lavoro letterario o artistico.
    Gli enunciati letterari hanno forza, se la memoria terminologica non m’inganna, perlocutoria, ossia agiscono sul ricevente, ma in modo più costante, più di lunga durata, più imprevedibilmente e sottilmente, di quanto mai farà un enunciato politico.”

    Sono d’accordo.

    Non sono d’accordo invece su questo:

    ” Villa non c’è: non esistono i suoi libri, nessuno ne parla (parlava), i critici facevano altro.”

    Villa non c’è per il grande pubblico, ma per il piccolo pubblico dei poeti e dei critici e di quei lettori che vanno scrutando le pieghe della macchina editoriale ma anche istituzionale della letteratura, Villa c’è e c’è sempre stato.

    Ci sono scritture che agiscono come muffe benefiche, lieviti. Non tutti possono – e a volte neppure vogliono – avere un grande pubblico e una grande visibilità. Kafka per esempio non voleva. Le sue priorità erano altre, ma non si può dire che non ci fosse, ai suoi tempi.

  20. a fabio
    “c’è sempre questo sospetto di snobismo da parte di un certo tipo di critica (come la tua) che vuole corrodere e delegittimare un discorso che dalla letteratura, dai testi, parta sì, ma per arrivare a cogliere un ’sistema’, per affronare un discorso più vasto… (il ‘mondo non scritto’, appunto)”
    per lo snob passi, ma dire che delegittimo il passaggio dai testi al mondo, è grossa; vai a leggerti anche solo i miei interventi su NI, te ne farai un’idea

    “‘pratica sociale’, non solo estetica, si renda (anche) visione e critica dell’esistente”
    guarda cosa stiamo facendo qui con “Razzismi quotidiani”, dimmi un po’ tu; se non è “pratica sociale” e “critica dell’esistente”

    a temp; sul “che fare1” hai ragione; su Villa e il “che fare 2” no. La corsa ad ostacoli nelle pieghe dell’editoria dispersa e sommersa non è una condizione “normale” e “sana”. Muffe benefiche. Bella immagine. Psichedeliche anche.

  21. @inglese

    1) allora perchè storcere il naso se vivaddio, e aggiornandosi, ogni tanto si torna a parlare, in letteratura, per la letteratura, anche di ‘ideologia’ o ‘impegno’ o ‘politica’? alla fine questo snobismo non ti porta, in fondo, a deligittimare altre posizioni, altre ‘voci’, a vantaggio della tua idea di ricerca letteraria?

    2)stavo parlando appunto di ‘gruppo’ di ricerca che faccia, ad esempio, inchieste. politico-culturali. un gruppo, un ‘attore’ calato nel dibattito politico-culturale. come potenzialmente (virtualmente), grazie al lavoro di roberto santoro, lavoro che conosco molto bene, è in questi giorni, in una sua parte, Nazione Indiana. ma vai a leggerti, se ti va, il mio commento al vostro post redazionale con il quale spiegate e illustrate l’iniziativa. per villa vai a leggerti, se ti va, i miei commenti a manganelli. guarda che c’entrano con il discorso del ‘gruppo’ di ricerca letterario – politico – cullturale. e c’entra con la ‘contraddizione’, o con l’assenza di ‘contraddizione’. (e bada che i primi ad essere investiti, proficuamente, da questo spirito di contraddizione dovremmo essere noi per primi, secondo me.)

    se vuoi.

    ciao, f.

  22. Marco Ceriani, il cultore di Holan, che ha scodellato con Raboni A tutto silenzio. E che ha scritto Lo scricciolo penitente (Scheiwiller), prova poetica ardua come poche, una vera testa di Medusa.

    P.s.
    e4 ;-)

  23. Interessante.
    Interessanti alcuni rilievi di Paolo S. Qualche dubbio (marginale) su:
    “Siamo al tramonto un’epoca di sperimentazione filosofica (o filosofologica) selvaggia, elitaria e antiautoritaria, che ha portato frutti meravigliosi (penso all’antipsichiatria) e ma cha anche levato punti di riferimento importanti (penso all’anima ridotta a mente, ad esempio)…”

    L’anima ridotta a mente potrebbe far pensare a tutta l’era post-cartesiana, alla psicanalisi, alla cibernetica, a Turing: che punto di riferimento abbiamo perso? (sebbene non sia la questione centrale, me ne rendo conto)

    “…ma siamo ancora lontani dal mistero dell’Uno, chiuso contemporaneamente su un altro fronte nei dogmatismi. Questo ha a che fare con la letteratura – diversamente in poesia e in prosa -, che parla sempre della singolarità che si dischiude. Su cosa e con che esiti, beh… difficile dirlo”

    Io ho il sospetto che la letteratura dischiuda un mondo (al limite: che non dischiuda nulla), ma che il problema della singolarità si possa escludere: una questione “ontica”, non “ontologica”, o no?

  24. Fabio, nel penultimo com. ho sentito un pò di aria fresca. Hai aperto la finestra, è hai dato una boccata d’aria d’estroversione. (sono quello sportivo) Poi ti ho visto richiudere quella finestra e iniziare a sfogliare le riviste, credo letterarie. Avanguardie, retroguardie, complessi sistemi dove regie costruiscono contraddizioni, mah, scacchiere dove noi (io) pedoni, non importa il colore bianco e nero (sono nostri fratelli) vengono sacrificati e per giochi incomprensibili. Sembra però che ci appassioniamo, teniamo posizioni (sono solo io che penso d’essere pedone sacrificale?) ho l’impressione (tutto sommato condivido a metà il tuo com.) che parte di questo difficile mestiere di vivere ci ricordi che conflittualità è solo una parte, che contrapposizione sia incompleto, che avversario (satana in ebraico) sia solo un altro gioco. Ora credo nella buona fede, e a dire il vero, le cose cangiano continuamente, l’infanzia passa nonostante tutto. Inchiodare il futuro è bella pretesa. Rimaniamo così, un poco incompleti tutti, inchiodati da chi sa chi?

  25. michele,

    ora ho la finestra aperta. corro a chiuderla. corro a cercare un manuale di metrica. per controllare, con affanno, se gli ultimi tuoi ‘versi’, così musicali (quale, la fonte: cultura alta o di massa?…), sono endecasillabi, settenari imperfetti, polimetri, o chessò io: “Rimaniamo così, un poco incompleti tutti, inchiodati da chi sa chi”.

    per il resto, dall’inizio alla fine (per il ‘manga’ come si chiama civettando un po’, e chi se ne frega; e anche qui), non mi sono fatto ‘matto e disperato’ per citare da riviste letterarie. però nemmeno ho alleggerito, nè fatto l’estroverso, nè importato aria fresca, credo. proprio un bel niente. quello si cerca di farlo, bene o male, altrove. magari guardando al contesto…

    secondo me quello della scacchiera è un bel concetto (è uguale al ‘campo’ letterario, se ci pensi). non c’è nessuno che lo governa? nessuna contraddizione? è tutto un gioco (di potere) infinito, vano, debolmente nichilista (anche ludico-malinconico: “l’infanzia passa nonostante tutto”)? rinunciare a farli, cotanti discorsi, oppure farli divertendosi (cinici o patetici, impotenti o fatalisti, ma arguti e simpatici)?

    comunque vada per la boccata d’aria. per un bel po’. ciao, f.

  26. caro Fabio, perdonami ma più leggo il post di Inglese (con cui concordo), più leggo i commenti, meno mi riesce di capire chi è che Andrea starebbe “delegittimando”, secondo te. spiegami un po’.

  27. Dato che il brillante (come sempre) Andrea Inglese “Pensa” (attività in disuso), mi permetto affettuosamente di indicargli la lettura di Alain Touraine, La Ricerca di Sé, Il Saggiatore, per portare a fondo (con le sue conseguenze) la sua ricerca pensante che merita sviluppo. Luminamenti.

  28. (non ho letto i commenti e mi baso solo sul testo di Inglès)

    Mi sembra di non concordare con Inglès praticamente su nessuno dei punti da lui toccati: avanguardia, ricerca, individualità, qualità, eccetera.
    Non per questo da parte mia mi sembra di avere le idee chiare.
    Sono questioni cruciali per capire, o anche solo pensare, la cultura del Novecento.
    E tuttavia il modo secondo il quale Inglès li porta a sintesi non mi convince.
    Quello che sembra ossessionare tutti, qui, è il problema del rapporto tra cultura “de ricerca” e la cosiddetta “cultura di massa”, che poi è il problema legato all’affermarsi dello scrittore presso le masse – la questione ha ricadute esistenziali non da poco: vendere molto, campare di scrittura, cioè la scrittura come mestiere e non come secondo lavoro, hobby qualificato, eccetera – senza perdere individualità e qualità.
    Tuttavia Inglès non definisce né “qualità” ne “individualità”, da definizioni troppo approssimate di “avanguardia” e “conservazione”, eccetera.
    Non ci disce cose sono per lui qualità e individualità, cosa significa trovare la propria voce, cosa catso vuol dire la sequenza, un po’ enfatica (i francesi sono enfatici) “un essere; una voce; un testo”.
    Non ricordo più chi affermava che, al contrario della scienza, l’arte “non è cumulativa”, nel senso che l’esperienza artistica per sua natura può fare a meno dell’antecedente, può non appoggiarsi sulla piattaforma costruita in quel momento dall’intera disciplina e fare per conto suo.
    Inglès sembra essere, forse parzialmente, d’accordo con una concezione di questo genere, ma credo che le cose non stiano così: l’arte in quanto cultura è cumulativa e “procede” (procede? nel concetto di progresso applicato all’arte è racchiuso quello di avanguardia/conservazione e molta altra roba) per successivi piccoli spostamenti & superamenti.
    Fare ricerca artistica in senso “avanguardista”, significa “non cercare la propria voce”, il proprio personale “sound”, ma cercare nuovi paradigmi su cui proporre processi di elaborazione cumulativa, ma anche fondare fortune critiche, certo, e personali.
    Ora, questo processo di affermazione del SE’ artistico, proprio del Novecento, che Inglès individua con esattezza, e che è un processo di affermazione, come élite, di gruppi di artisti, non funziona più e non può essere sostituito dalla “ricerca individuale”, perché semplicemente non esiste in noi nulla di individuale, se non qualche diversità di timbro, intonazione, materia: il resto lo fa il mondo.
    Accorgersi del mondo e trasferirlo nella propria arte come domanda, era “avanguardia”, era superamento di paradigmi ormai sordi al mutamento.
    Oggi il procedere artistico non credo abbia più questa modalità.
    Oggi occorre fare a meno del dualismo tra cultura alta e cultura de massa, tra conservazione & tradizione da un lato, e avanguardia & contemporaneità, dall’altro, tra ricerca letteraria e buona/cattiva scrittura “de libri”.
    Tutto è tornato a coesistere e a competere – per la visibilità, non certo per la qualità – sullo stesso piano, non esiste il basket da un lato e il calcio dall’altro.
    Esiste un gioco diverso e sconosciuto, a cui tutti debbono giocare, se vogliono lavorare ed affermarsi in una qualche disciplina artistica.
    È un gioco mediatico e durissimo, nel quale chi vince piglia praticamente tutto, sbaraglia il campo, annienta ogni altra presenza riducendola ad assoluta marginalità.
    È un gioco nel quale non si vince sulle riviste letterarie, nell’apprezzamento critico o in quello dei colleghi di disciplina: si vince presso le masse, con premi altissimi.
    Cos’è rimasto della qualità in questo quadro?
    Possiamo pensare che la qualità esista solo in un mondo parallelo ed estraneo a questo, nell’empireo della ricerca?
    E poi, ammesso che esista, lì si troverebbe la qualità assoluta?
    E cosa sarebbe, in pratica?

  29. @fabio
    @andrea

    “prendere posizione”

    “dare voce”

    “gruppo frastagliato”

    Certe volte mi sembra che siamo bravissimi nell’individuare le cause, i processi, le procedure, ma poi siamo incapaci di “fare” sul serio, nel senso di un’azione comune, diretta, singolare, della scrittura.

    E’ un’azione ancora inesplorata, opaca, che corrisponde alla fase ultima della spersonalizzazione del pubblico e del libro strappato, del corpo a corpo letterario e dell’Autore Infinito, cioè a dire tutta questa nascente, massacrante, virtualità, quest’immensità dialogante che è la vera totalità in cui siamo immersi.

    Non si tratta solo di fare le pulci alla stampa e all’industria culturale (ai poteri forti e diffusi), ma di scendere in strada, di scrivere le cose che vedo e che sento (il potere debole e soffuso).

    Senza fondamenta stabili, però, l’edificio è destinato a crollare presto. Sarà un lavoro lungo, ma potrebbe rivelarsi un brusio pieno di senso, un dialogo incessante, che non si rivolge a un pubblico, ma è innanzitutto un fatto anonimo e privato (come i colpi di fioretto scambiati tra Fabio e Andrea), una discussione accesa, una lettura multilineare, per questo dicevo che andrebbe protetta. Un documento riservato, top secret, tipo Scuola di Tubinga.

    @arte_misia
    Io non vedo l’ora di fare click!

  30. Tash:
    “Ora, questo processo di affermazione del SE’ artistico, proprio del Novecento, che Inglès individua con esattezza, e che è un processo di affermazione, come élite, di gruppi di artisti, non funziona più e non può essere sostituito dalla “ricerca individuale”, perché semplicemente non esiste in noi nulla di individuale, se non qualche diversità di timbro, intonazione, materia: il resto lo fa il mondo.”
    Qui sta una possibile obiezione “forte” ai presupposti sui cui si basa il mio pezzo. Questa è delle questioni che andrebbe discussa a fondo, per comprendere che ne è dell’individualismo radicale che ha strutturato il campo dell’arte moderna. Ma anche tu la risolvi alla svelta, certo. Il libro di Guido Mazzoni sulla poesia moderna dice molto di questo, ma non tutto.

    Quanto alla tua visione, come al solito da dies irae della spietatezza del “gioco letterario/editiriale” di oggi, è proprio contro questa visione monolitica che va il mio intervento. (Anche se le cose davvero vanno in quella direzione: chi vince, vince tutto. E niente ripescaggi.) In quanto non credo che il discorso sulla ricerca letteraria sia semplicemente chiuso e sepolto, semmai sopravvive spesso “truccato”.

    La visione cumulativa non contrasta con la visione di Cage, anzi, la conferma.

    Ma il tuo intervento ci voleva: e ne attendevo uno simile. Che dicesse: Inglese tutta sta storia è assolutamente velleitaria. Qui non c’è posto non solo per l’avanguardia vecchio stile, ma per nulla che non rientri nei canoni di cio’ che si “vende bene”.

    In conclusione: tutto il mio ragionamento è proprio un tentativo di uscire dall’opposizione gerarchica cultura alta cultura bassa che non tiene più. Son d’accordo. La “tua” soluzione liquidatoria, da gran pastone finale, non mi sembra comunque accettabile.

  31. @marco
    @andrea i.

    ‘caro Fabio, perdonami ma più leggo il post di Inglese (con cui concordo), più leggo i commenti, meno mi riesce di capire chi è che Andrea starebbe “delegittimando”, secondo te. spiegami un po’ ‘

    mi scuso per l’approssimazione del concetto. forse andrea era un bersaglio sbagliato, forse no, ma comunque rileggendo è chiaro che, in soldoni, l’ho detta grossa. poi in modo speculare, ma più cordiale, ti invitavo, andrea, a rileggere qualche mio intervento (su ‘razzismi quotidiani’ e su manganelli). perchè secondo me abbiamo fatto confusione su un punto e quei pezzi avrebbero fatto luce sui miei intenti.

    non m’interessava troppo inserirmi nelle nervature del tuo intervento che riguardavano la definizione, in termini strettamente letterari , della scrittura di ‘ricerca’, o ‘d’avanguardia’, ecc.. l’intervento di tashtego, ma anche qualcosa che emerge dal post di sennet ecc., potrebbero essere messi in circolo con la questione, anche per discuterli.

    ero tutto proiettato, invece (forse perchè questo, ora, mi preme capire), sull’altro corno del problema. e cioè sulla possibile definizione del lavoro critico che si ha in mente (è un’altra cosa, mi pare). qui, per chiarezza, ho soltanto posto un interrogativo.

    utilizzando gli stessi tuoi ‘paradigmi’ (scrittura di ricerca individuale o d’avanguardia, dei singoli o di un ‘movimento’ in opposizione ad altri), ti chiedevo di riflettere, anche storicamente (ripetto all’italia, per esempio dagli anni ’70 in poi), sulla utilità, PER IL LAVORO CRITICO, del ‘gruppo’.

    e cioè, riprendendo la fenomenologia del (concetto) di ‘avanguardia’, ti chiedevo cosa pensi dell’utilità o meno di un progetto condiviso, fortemente o almeno chiaramente ‘antagonista’ (con una linea precisa, non ‘generalista’…). approfittando della possibilità del blog, insomma (vedi l’inchiesta di roberto santoro).

    in cui il lettore non si isola passivo a ‘rincorrere’ l’autore; lo scrittore non si distingue dallo ‘scrivente’, ma come diceva un certo barthes va a realizzare quella figura del ‘tipo-bastardo’ di scrittore che, se si vuole, può essere definito ‘scrittore-intellettuale’ (il ‘modo nuovo di essere intellettuale’ di gramsciana memoria, addirittura…). impegnato, o impiegato, verso la critica dell’esistente. e verso una battaglia di idee, aggiornata, per l’egemonia, per la ‘libertà’, e anche per la mappatura delle costellazioni sconfitte e sommerse dai discorsi autoritari dei ‘poteri’ (le storie letterarie, i canoni, i meccanismi dell’industria e del sistema culturale).che forse ‘riesce meglio in gruppo’, per semplificare.

    e io dicevo che dagli anni ’70 proprio questo è accaduto in italia (in europa): sono tramontate non solo certezze e valori condivisi (la ‘mutazione’, ecc.), la dicotomia tra pubblico e mercato, ma proprio le esperienze di gruppo (riviste, ecc.), i progetti di ricerca comunitari e i ‘movimenti’ (letterari). e gli scrittori, le scrittrici, individualmente, hanno tentato di percorrere, isolandosi, vie di fuga, o nuove strade per oltrepassare (non attraversare) la crisi (del moderno), andando a costituire, lo dico neutralmente, ognuno con la sua ‘voce’, il postmoderno. fino al trionfo assoluto del mercato di cui tashtego, tra le righe, compie una descrizione non dico apologetica, ma senz’altro realistica e come senza scampo:

    “È un gioco nel quale non si vince sulle riviste letterarie, nell’apprezzamento critico o in quello dei colleghi di disciplina: si vince presso le masse, con premi altissimi”.

    cosa rimane? ad esempio, l’idea di un lavoro critico e di ricerca, di gruppo, aggiornato, come si vuole, ma chiaro, definito, intrinsecamente politico (sul campo letterario: potresti dire che questo spazio nel quale mi sono trovato a dialogare con te, questo blog, ce l’ha una ‘linea’, un progetto condiviso ma preciso?). per fare battaglie di idee, e quindi per cercare come dicevi di strappare la maschera al volto del sistema culturale, per cercare tra le tradizioni sommerse, per rileggere i canoni, per demistificare i linguaggi, eccetera, ci sarebbe bisogno, oggi, del massimo di coesione (plurale), ma chiara.

    come ‘il foglio’, insomma. ne sa qualcosa proprio roberto santoro. un 4-6 pagine che ha scelto e stretto alleanze precise, ideologie, ‘fa egemonia’. o come ‘alias’? o un qualsiasi periodico e blog o rivista ‘generalista’?

    dall’eclettismo, mi pare, non si sfugge: o è sintomo (dilettantesco, nell’accezione più nobile del termine), di un lavoro e di una ricerca in corso (che può essere anche ‘politica’, ma è ancora indefinita, stenta, e lascia così ancora il campo agli ‘avversari’…); oppure è sintomo sinistro della paura, appunto, di rimanere isolati, o di perdere qualche porzione (del ‘mercato’) che ancora resta all’ascolto, intermittente. ma senza molta ‘efficacia’ (politica)…

    su questo, mi pare, ci si divide. ma ben venga (noi siamo per ‘la contraddizione!’. o no?).

    comunque bel post. ciao, f.

  32. un inciso, tash non è “apologetico” quando descrive il mercato, ma / e lo dico con amichevole stima nei suoi confronti / il marxista che diventa più realista del re nel descrivere senza false illusioni il capo dell’esistente; ora tash fa questo spesso con un certo masochistico accanimento; è il nostro contravveleno ad ogni giovanile velleitarismo

    a fabio: mi aveva già colpito il tuo commento su “razzismi quotidiani”, ancor prima che entrassimo in discussione qui; e non so risponderti chiaramente; o meglio ti dico cio’ che qui in NI per adesso è possibile fare: un gruppo di scrittori (termine neutro) decidono di condividere con altri dei saperi e dei discorsi critici che riguardano la realtà (sociale); cercano con le loro competenze relative al linguaggio, ad esempio, di attaccare certi retoriche malate e distruttive, certe forme di narrazioni generaliste. Fin qui tutto bene. E mi sembrerebbe già un lavoro grosso. Invece, appunto, di rifugiarsi nel ruolo di “operatori culturali o della letteratura”, tentiamo un continuo percorso fuori e dentro da essa, e verso il mondo “non scritto”. In questo possiamo trovare consonanza abbastanza facilmente. Sulla questione di trovare consonanza su una pratica della letteratura, ho i miei dubbi. C’è una “linea estetica”, “poetica” di NI? Non credo proprio. Ma c’è anche una volontà di confrontarsi su questo, e a volte in modo aperto, graffiante, duro. Penso a tutta la serie di post legati alla questione del conformismo e della lingua, lanciati da Sartori. Ma qui l’eterogeneità dei percorsi e delle attitudini, delle forme di scrittura e delle proprie posizioni nel campo, si fa sentire maggiormente. Ma questo non è solo una debolezza, una mancanza di “fronte”.

    La mia ipotesi di lavoro è: molteplicità di scritture e di giochi letterari, e condivisione forte di temi di carattere politico. Legare i due piani, tenendoli pero’ distinti, parzialmente autonomi. Forse tutto cio’ suona ancora molto astratto.

  33. @Inglese

    Tu dici

    “Difendere la ricerca della propria voce, al di fuori del mestiere di scrivere e dei suoi imperativi (pubblico, chiarezza, vendibilità), è già a mio vedere un atto che ha conseguenze “politiche”.”

    Sono d’accordo, non contempla necessariamente l’essere illuminati a giorno da un occhio critico esterno e riconosciuto.

    poi dici:

    “Il problema non è Villa o Luzi. Il problema veramente “politico” è editoriale, giornalistico e di critica. Cioè Villa non c’è: non esistono i suoi libri, nessuno ne parla (parlava), i critici facevano altro.”

    E qui vedo una contraddizione con quanto sopra.

    Poi dici anche ( a Tash, mi pare):

    “In conclusione: tutto il mio ragionamento è proprio un tentativo di uscire dall’opposizione gerarchica cultura alta cultura bassa che non tiene più. Son d’accordo.”

    Non sono cose nuove, soprattutto l’ultima, che non è neppure vera perché da Eco a Tafuri che interrogava i suoi studenti su Topolino la cultura bassa o popolare è in gioco da almeno cinquant’anni.

    e poi dici però anche (‘che fare due’):

    ” La lotta per la propria voce, perché sia possibile ascoltare voci singolari, in arte e letteratura, è sentita come un’urgenza, una priorità nei confronti di un mondo che non rispetta la specificità dei giochi, ma li confonde per assecondare l’unica logica del profitto. ”

    Vedo contraddizione con quanto sopra, rispettare la specificità dei giochi porta in qualche modo a una gerarchia, mi sembra, o pensi a una distinzione nell’uguaglianza? Tutto sul bancone? Non capisco.

    Continuo a pensare che una lotta di questo genere sia astratta quando esce dal concreto dell’opera, Villa ha lottato concretamente, Loos lo ha fatto, lo ha fatto Penna in fondo. E lo fanno tutti quei poeti che continuano a seguire e ad approfondire la propria voce senza curarsi troppo, pur patendolo, del silenzio dei critici.

    Tu sembri pensare però a un movimento? A cosa?

    Certo, e qui mi collego a un altro post di NI, se lotti contro la confusione perché non cominciare da questo luogo?

    Vedo grandi contraddizioni.

    Se ti limiti a un post e a rispondere ai commenti a quel post e non intervieni per dire di altri post che vanno nel senso contrario al tuo ( e penso che accada) dove sta l’atto critico e politico? O si comincia a fare chiarezza in casa propria o restano partole astratte, come ho detto sopra.

    O tu consideri cultura bassa la cattiva cultura? Io considero cultura bassa la buona cultura bassa.

    Spero di non aver aggiunto confusione.

  34. @Tash

    ” Non ricordo più chi affermava che, al contrario della scienza, l’arte “non è cumulativa”, nel senso che l’esperienza artistica per sua natura può fare a meno dell’antecedente, può non appoggiarsi sulla piattaforma costruita in quel momento dall’intera disciplina e fare per conto suo.”

    Non mi pare proprio che Inglese pensi una cosa simile.

    Tu parti in qualche modo sempre da un’idea di arte figurativa (è una specie di sottotraccia al tuo discorso) che ha con il mondo un rapporto molto più mercantile della parola, che sposta più denaro e che è spinta maggiormente a confrontarsi con una committenza e forse anche con il mondo.

    La parola non ha queste esigenze.

    Non ci vuole uno studio, non ci vuole un mercante, non “costa” e produce soltanto se intercetta felicemente un editore.

    Ma può esserci anche in assenza di questa condizione. Da kafka a walser la storia della letteratura è piena di questi gloriosi fallimenti. E non possiamo non saperlo.

    In questo senso nulla è cambiato.

    a la cosa che entrambi dite, “Oggi occorre fare a meno del dualismo tra cultura alta e cultura de massa, ” è così vecchia. non occorre dire che non occorre, questo dualismo è morto e defunto da un pezzo.

    Quello che a mio avviso non è morto e non può morire è il “ben fatto” e il “mal fatto”, che ha a che fare con l’etica del lavoro.

    Quello che vedo invece di relativamente nuovo (da una ventina d’anni) è l’aver introiettato un punto di vista secondo me maledetto, il punto di vista del “successo”.

  35. tash/temperanza: un tandem micidiale, coppia parentale quasitotemica, superego bicefalo di NI… siano sempre benvenuti i vostri interventi “spina nel fianco”)

    ok temp: hai messo il dito su una serie di punti molto importanti, che vorrei provare a chiarire; ci provo più avanti nella giornata, ora stacco;

  36. @inglese
    @temp (se vuole)
    @roberto

    ok per il lavoro ‘politico’. quella dell’inchiesta, per esempio di roberto santoro, è la strada, o almeno una strada. perchè chiara, definita. (poi lui vuole correre sempre avanti, e allora, da un bel po’, incalza con altri progetti che trasformerebbero la nazione in un portale interattivo che dialoghi e detti l’agenda poltica ai politici. poi dice che ha perso il senso delle utopie ‘forti’).

    e anche per saviano, tempo fa dicevo: sarebbe bello e utile che qui, o altrove, lui aprisse e ‘narrasse’ il suo laboratorio di scrittura, il metodo, l’officina di strumenti e linguaggi intrecciati coi quali ha ‘fatto’ ‘gomorra’, perchè anche quella sarebbe un’inchiesta (fornire ai lettori, coinvolgendoli, nozioni pratiche sugli strumenti e i metodi per una lettura originale e alternativa dei linguaggi del reale, del potere, delle ideologie, delle ‘parole’, dei ‘fatti’, eccetera).

    vado in breve sul ‘campo letterario’.

    e qui mi rivolgo per prima a temp.

    credo, ma perdonerai la frettolosità, che tu possiedi una salda concezione dell’autonomia del letterario, della specificità dell’artista (il linguaggio, le parole). vale la fatica, l’etica del lavoro, la ricerca (poi realisticamente, come tash, hai ben in mente che il potere assoluto ce l’ha, come è chiaro, il mercato, il successo). ma batti molto spesso su questo punto:

    “non contempla necessariamente l’essere illuminati a giorno da un occhio critico esterno e riconosciuto”;

    “Continuo a pensare che una lotta di questo genere sia astratta quando esce dal concreto dell’opera, Villa ha lottato concretamente, Loos lo ha fatto, lo ha fatto Penna in fondo. E lo fanno tutti quei poeti che continuano a seguire e ad approfondire la propria voce senza curarsi troppo, pur patendolo, del silenzio dei critici”.

    ma il discorso si può capovolgere. per l’oggi. ad esempio in un blog come questo. non c’è solo e fatalmente questo quadro che tu, tra le righe, tratteggi: la ‘lotta’ dell’artista, solitaria, indefessa, un valore a sè; dall’altra parte, le ‘brutte creature’ dei critici, casta parassita che sovrasta e intende ‘orientare’ le letture. sullo sfondo, il golem del mercato. perchè poi, immagino, a te convince il lavoro critico di un pasolini o di un cortellessa o altri, che quella ‘fatica’, quella ‘lotta’ solitaria (di penna, di villa, di manganelli), cercano di valorizzarla e di strapparla alle tenebre. di CONDIVIDERLA. sarebbe questo, per me, il mestiere di critico. niente di brutto, mi pare. con un suo gusto personale (una visione del mondo E della letteratura), lavorare in dialogo con la ‘lotta’ e la fatica degli artisti, per comunicarla, diffonderla, condividerla, portarla alla luce, poterla ‘usare’ per un discorso sul mondo (in tutti, tutti i suoi aspetti….).

    il punto è che essa stessa, la critica, andrebbe sempre sottoposta a verifica. per coglierne le strategie di discorso, l’autoritarismo o le dinamiche egemoniche (nel campo letterario, quale voce inserire a scapito di altre, a seconda della propria visione di letteratura E di mondo, eccetera). ma questo è un altro discorso.

    per andrea in particolare:

    prendi i ‘pezzi’ creativi ospitati. se postati, brutalmente, sono ‘promossi’ all’attenzione del ‘proprio’ pubblico: e quindi, già per il fatto stesso di essere ‘postati’, si fa attività critica, si ‘sceglie’, tra la molteplicità (l’eterogeneità) plurale delle espressioni letterarie sul campo. in vista , perbacco, della (difficile) definizione di una ‘linea’: non di una vetrina tutta illuminata con un po’ di tutto in mostra. c’è da augurarselo.

    come si sceglie? per amicizia, per debiti, per favori, per riconoscenza, per uno scoop indifferenziato, improvviso (per il ‘mercato’), per (auto)promozione, per ‘ufficio’ (-stampa)?

    o perchè invece si ha una ‘linea’ in mente da illustrare e avanzare attraverso i testi? (intendo una idea di letteratura E di mondo)…

    chiaro, per una ‘rivista’, forse questo è uno dei punti più dolenti. dicevo che quando le riviste finiscono assolvono comunque alla funzione di un ‘plastico’. in miniatura, sospeso, ma con un progetto cui richiamarsi. ebbene, forse su questo punto (gli ‘ospiti’…) molte gloriose riviste sono tramontate, hanno fallito (vedi ‘officina’). nel loro sostanziale eclettismo, nella logica, più o meno celata, di compromesso. appunto.

    i commenti: sono loro che possono in qualche modo comporla più precisamente questa linea? non mi pare:lì scoppia e si fa evidente soltanto l’eterogeneià della ricezione, alla quale si contribuisce proprio postando tutto, e, spesso, il contrario di tutto (ma su questo temp mi pare fosse d’accordo: sul ricorso al ‘bello’ e ‘brutto’, sull’ambiguità di certe scelte, eccetera).

    anch’io chiudo, ciao.

    temp, non mi crocifiggere con il silenzio o con l’irritazione per la confusione (e per la ‘ideologicità’ ingenua o astratta) del mio periodare (e pensare)…

    saluti, f.

  37. Non ti crocifiggo, no, che pratica brutale:–) sia pur metaforica.

    Prima di staccare anch’io per un po’ volevo copiarvi una breve parabola di mastro Adolf Loos, tratta da Das Andere, il giornale da lui fondato e che è uscito per due soli numeri. Sembra un OT, ma non lo è, e per chi non conoscesse Loos, Kraus, Altenberg, un invito a dargli un’occhiata.

    “Che cosa si stampa.
    I caratteri con cui è stato stampato il sottotitolo di questo giornale – UN GIORNALE PER L’ INTRODUZIONE – sono stati messi in commercio dalla ditta Poppelbaum con il nome di Ver Sacrum. Caratteri secessionistici, dunque, dirà il lettore. No, non lo sono. Ma sono moderni. In realtà risalgono al 1783 e sono stati presi da una licenza per apprendisti tipografi della città di Vienna. Hanno centoventi anni e ci sembrano moderni come se fossero di ieri. Ci sembrano più moderni dei caratteri di Otto Eckmann, che risalgonoall’altro ieri, e degli alfabeti della scuola di Wagner, con le loro altissime T, che sono di tre giorni fa. Perché in realtà questi caratteri del 1783 sono nati allora. L’uomo del 1783 voleva creare dei ‘caratteri’. Non pensava a uno stile determinato. I nostri artisti invece vogliono creare dei caratteri ‘moderni’. Ma il tempo è forte. Non si lascia vincere con l’astuzia.
    Abbiamo rapporti più stretti con la verità, anche vecchia di secoli, che con la menzogna che ci cammina al fianco.”

    L’ultima frase è in corsivo.

    Buon fine settimana.

  38. a temp
    “Vedo contraddizione con quanto sopra, rispettare la specificità dei giochi porta in qualche modo a una gerarchia, mi sembra, o pensi a una distinzione nell’uguaglianza? Tutto sul bancone? Non capisco.”

    La metafora dei giochi viene da Wittgenstein, ma non cosi arbitrariamente.
    E l’idea è quella di una distinzione, ma in orizzontale. Ogni volta che si sono volute fare gerarchie (penso alle gerarchie d’epoca neorealista, gerarchie d’epoca neovanguardista), si è stati costretti a mettere in ombra, anche opere che avevano una loro forza, una loro ragion d’essere, ecc. D’altra parte, l’assenza di gerarchie della “falsa democrazia” del mercato nei fatti mette al bando qualsiasi investimento “rischioso” (e cio’ riguarda in primo luogo tutti quanti cercano di uscire dai cammini battuti), ma a parole continua a tener viva un posticcio prestigio della letteratura, del grande scrittore. E cio’ è comprensibile in termini di mercato. A forza di svalutare la letteratura, e di far leggere boiate alla gente, uno preferisce un bel videogioco, o qualsiasi altro svago “comprabile”. Bisogna coltivare lo spettro di una qualche “grandezza”.

    In tale situazione, che fare. Si puo’ fare una nuove lotta per l’egemonia: far saltar fuori un gruppo che dice, adesso basta, sotto i riflettori ci stiamo noi. Camilleri, Baricco, i giallisti, la Mazzantini, Tizio, e Caio, che vendono e hanno paginoni, fuori!

  39. @temp

    non te ne andare, aspetta un attimo.

    chi ha compiuto questa strategia di discorso che hai citato, questo salto all’indietro, questo recupero della tradizione?

    un saggista, un pensatore, un filosofo, un ‘prosatore’: un critico.

    che ha fatto, per il presente, una ‘mediazione’:

    – tra gli artisti moderni (che sottoponeva a severa critica)
    – e il pubblico (cui si rivolge per ‘richiamarlo’ sulla legge del tempo, per avvertirlo dei pericoli della ‘astuzia’ che intende aggirare, neutralizzare quella ‘legge’).

    a far problema è che loos, mi pare, alla benjamin, ha ancora la fiducia ed esprime l’utopia, premoderne, della ‘forza’ del tempo, che equivarrebbe alla discontinuità, al salto, al ‘tiro mancino’, alla rottura ‘messianica’….

    noi, oggi, qui, col mercato e il ricatto del successo: il ‘mandato sociale’, ma direi l’identità dello scrittore è legittimata solo dal mercato. se vende. per questo, è facile, come fa mazzoni, paragonare o sovrapporre il poeta o lo scrittore (di ricerca, isolato, narcisista), al cantante pop.

    perchè non interrogarsi se questo avviene anche perchè è proprio la tanto osteggiata critica a mancare? manca la ‘mediaizione’, che è tanto più ‘efficace’ e potenzialmente destabilizzante quanto è coesa. quando, messasi in discussione, ha elaborato e problematizzato la propria collocazione nel sistema culturale. ha fatto chiarezza, insomma.

    volevo dirti che, per me, con la sua visione dell’arte e del mondo (del tempo, e non solo), loos ha fatto ‘mediazione’. antieconomica, paradossale perchè ‘inutile’, non (s)vendibile nel mercato, ma rivolta ad un pubblico e quindi, infine, questa sì, intrinsecamente ‘politica’. anche se parla (apparentemente) solo di caratteri del 1783 ad opera di “apprendisti tipografi della città di Vienna”.

    ciao

  40. continuo:

    Ora questa lotta per l’egemonia non è mai innocente. E’ sempre rischiosa. In quanto significa dire: “la letteratura sono me”. Chi non è (con) me è contro di me. E da qui partono lotte che hanno poi di mira non il mutamento di campo, ma il mutamento del proprio posto nel campo. Ma poi si finisce come Sanguineti: “la poesia sono me; dopo di me nessuno”. Una brutta fine.

    alternativa: dire non c’è UNA letteratura; la letteratura è una cosa che si dividono gli scrittori, nel solco del novecento, del modernismo, delle avanguardie, ecc. ecc., e se la dividono pure gli editori; ma date a cesare quel che è di cesare; e il nemico n°1 è quindi chi tiene posto nel mercato e i suoi annessi pubblicitari (i gioranlisti culturali, ecc.): questi infatti sfruttano il capitale simbolico della “grande letteratura”, per far passare quello che secondo loro si vende bene. No. Paghino il pedaggio. Facciano collane con tirature limitate, ma serissime. Stampino anche i libri invendibili, se quei libri hanno senso di esistere.

    Un esempio concreto. In Italia non esiste una collana di riferimento della poesia di ricerca (è diamo una vasta accezione del termine). Altrove collane del genere esistono. Ad esempio in Francia. Poi, certo che i poeti continuano a scrivere. E i testi a circolare. Ma è comunque miserabile che una tale collana non esista. Pero’ sui paginoni dei giornali ti parlano ancora di Pascoli. No basta. Se parlate di Pascoli dovete parlare anche di chi oggi scrive. Altrimenti abbiate il coraggio di dire: la poesia è tabù; non se ne parla; è quello che era la pornografia negli anni Cinquanta; silenzio stampa. Invece no, perché c’è ancor qualche collana, qualche classico da vendere e da ripescare, allora si tiene in vita il cadavere. Ma dei vivi, della poesia vivente, che non se ne sappia nulla.

    Perché di Villa è impossibile trovare qualcosa, ancor oggi, in un reparto poesia di qualsiasi libreria. E’ normale? No. Pero’ della Merini, che vende bene, diciotto edizioni diverse. Ora il problema non è fare paginoni che demoliscono la Merini. Il problema è che sia dato anche a quei pochi lettori di Villa (poetnziali o reali) di poterlo leggere. La macchina giornalistico/editoriale italiana non puo’ garantire neppure questo minimo? Non ci credo.

  41. nessuna stroncatura. nessuno sfratto. nessun paginone contro alda merini (nè contro il suo vecchio compagno…). però ‘spingerla’, questa maledetta editoria (senso comune e ideologia). influenzarla con un lavoro critico (ritrovato, magari di gruppo…), che rischi, scommetta, faccia da mediazione, ripeto, tra autori mercato e pubblico. perchè poi sui meccanismi e le figure che regolano il sistema editoriale (per la poesia in particolare) molto ci sarebbe da disperarsi, ovviamente, e da dire (roberto santoro ha scritto altrove, in un altro post, pagine interessanti sulla figura dell’editor, tondellianamente e con un occhio agli USA, sic).

    per andare indietro, ma soprattutto per non restare solo sulle parole, solo parole:

    E. Morante, La Storia, 1974, Einaudi (tiratura: 100.000 copie);
    P. Volponi, Corporale, 1974, Einaudi (tiratura: 7.000 copie).

    questa storica ed eloquente ‘scelta’, ovviamente, è ispirata alle logiche (all’ideologia) del mercato, ad un vincente buisness-plan (leggibilità uguale vendibilità; intercettazione della sensibilità del lettore, in quel contesto, uguale successo e tirature; ideologia espressa premiata, perchè ‘riassorbibile’ nella sua contraddizione, a scapito dell’altra, da riservare solo alla ‘nicchia’ di mercato). mercato che colma, con questa pratica reificante (libro uguale merce), il vuoto di un discorso critico che, al tempo, diciamo non lavorò, non fece ‘battaglia’ e ‘mediazione’ per e con volponi (‘contro’ l’esistente). non ha ‘scommesso’ su corporale, per dire, e sulla sua ‘ricezione’ potenziale. mica ce l’ho con la morante.

    è un esempio. oggi lui e lei non ci sono (non ci sono), ma i meccanismi sono uguali. e quel vuoto di mediazione, di critica condivisa, sembra essere fatalmente diventato uno scomodo stereotipo da bollare come fallimentare retaggio del passato, quasi zdanovista (l’egemonia). in questo vuoto, ripeto, la ricerca individuale di uno scrittore rischia di non vedere che il mercato, da una parte, o la nicchia di resistenza, per essere legittimato nella sua funzione (e allora si fa, tendenzialmente, soprattutto ‘artigiano’ delle forme. questo il pubblico gli chiede, per vendere o per ‘resistere, proprio per esistere);

    la critica, da parte sua, non vede anch’essa che il mercato, da una parte (i giornali, le promozioni, le marchette, l’appendice dell’uffcio stampa, le riviste, i blog ‘generalisti’), e l’accademia, dall’altra. sicuramente guarda poco (e a volte anche male) al presente. in mezzo ci può stare un altro modello rigoroso di ‘lavoro critico’? almeno proviamo…

    ora ci metteri il ‘che fare’.

    fila?

    boh, stacco davvero. ciao

  42. a fabio
    stavolta in sintesi: tu parli di possibilità prima del disastro, un disastro che si è abbattuto non sull’editoria e le istituzioni letterarie (anche) ma prima di tutto nelle nostre vite, rendendole precarie a vario titolo e secondo gravità diverse; l’egemonia come la intendi tu presuppone un partito e una classe; tutto cio’ non esiste: il partito è salito ai piani alti, è finito in tv, e tratta solo con la realtà che gli presentano i giornali, la classe è esplosa;

    quindi, la situazione è talmente grave che non ho tempo né reputo importante stroncare Rondoni, o Pozzani, o Piccinni, ecc., e fare guerre di estetica; semmai faccio il mio lavoro di mediazione critica, dove: su qualche rivista letteraria, su qualche blog, e parlo dei poeti che vale la pena leggere, Marco Giovenale, Andrea Raos, ecc. certo che lo faccio, ma lo faccio come posso, dal luogo in cui sono, e quando per configurazione astrali favorevoli ci fanno fare un monografico sulla poesia per Nuovi Argomenti, e cosi via. A pezzi. Dovunque siamo. Ma i mediatori quelli con la M maiuscolo sono altri, hanno i paginoni, e se li hanno è perché hanno dato qualche garanzia. O magari, anche loro, hanno approfittato della distrazione/configurazione astrale favorevole.

    In conclusione: preferisco scrivere su NI sul razzismo, piuttosto che stare a spiegare perché Rondoni è un poeta scarso

  43. sono d’accordo. ma, in sintesi, non terrei troppo divaricati i due piani (razzismo E rondoni…).

    e poi ‘classi’ ‘egemonia’ ‘partiti’. sono parole (vecchie), inservibili a descrivere processi reali (e nuovi), che dunque sono. il vecchio e il nuovo. non terrei troppo divaricati i due piani.

  44. @inglese
    @temperanza
    @fabio
    @tash

    Dice bene Temperanza che la divisione tra highbrow e lowbrow è roba (pre)cotta. Jameson e Ceserani fanno risalire il postmoderno (come periodo storico, non i vari postmodernismi stilistico-formali) addirittura agli anni cinquanta. Idem per l’agonismo e le teorie dei giochi. In questo caso un bel punto esclamativo l’ha messo Lyotard alla fine dei settanta.

    Ma oggi? Che cosa è avvenuto dopo? E’ davvero tutto uguale nella distinzione? Non mi pare. Mi sembra che a godere dei prodotti culturali odierni, dei videogame, mettiamo, sia principalmente il pubblico (che condivide davvero questa esperienza esaltante ed esilarante), mentre invece gli autori, la critica, l’accademia, ma anche la stampa quotidiana e periodica, i giornali e le riviste, il sistema editoriale, l’industria culturale, stanno un passo indietro, fermi a guardare, a leccarsi le ferite, a chiedersi che conseguenze ha avuto l’uragano Katrina sulla nostra cultura (spero di non pisciare fuori dal vaso se dico che anche il professor Eco si attarda, con troppo compiacimento, sulla semantica, che non basta più, almeno non da sola. Le facoltà di scienze della comunicazione ne sono infarcite).

    Mio fratello sta cent’anni avanti rispetto ai recensori di videogame che leggo sulla più quotata stampa nazionale. Perché oggi chi ne capisce davvero è il pubblico. Chi decide è il pubblico. Chi determina il mercato è il pubblico. Altro che lettori istupiditi! Non gli basta mai, vorrebbero una playstation sempre più avanzata e progredita, mentre noi qui che cianciamo sui massimi stilemi e non riusciamo nemmeno a immaginarla l’opera-mondo del secolo venturo.

    A questo punto, le riviste, i giornali di contenuto, eccetera, sono davanti a un bivio: una strada è quella di continuare a orientare il grande pubblico attraverso schemi culturali/editoriali consueti (non si spiegherebbe altrimenti il fiorire degli opposti essenzialismi, e del manicheismo, in un contesto dove tutto è distintamente uguale e ugualmente diseguale).

    Prima strada
    Per orientare il pubblico, dunque, si può ancora seguire la Via della ‘Battaglia Culturale’, del lavoro di gruppo, dei manifesti e degli slogan (non è una parolaccia). Ma in questo primo gruppo vorrei fare una distinzione grossa così tra il Foglio, Il Manifesto-Alias e la Repubblica di oggi (17 giugno).

    Il progetto culturale comunitario del Foglio c’è, evidente, anche troppo.
    In prima pagina: 1) la battaglia sull’embrione che è una delle bandiere del giornale di Ferrara (e prima o poi dovremo scrivere la controstoria della supergenetica, se vogliamo opporre una visione forte ai conservatori che vogliono imbavagliare la scienza e la fantascienza); 2) una irresistibile paraculata sulla “Stampa” di Giulio Anselmi, il giornale della Fiat, che ha iniziato il countdown verso la prima crisi di governo Prodi; 3) una farsa ancora più irriverente sulla debolezza del nostro ministro degli esteri (“Zig Zag Max”), che dopo tutto quello che aveva promesso, pur di smarcarsi dalle dolenti note, che so, di una Franca Rame o di un Ferrando qualsiasi, alla fine se n’è uscito con il piano di mantenere in Iraq un contingente di 39 (leggi: trentanove) ufficiali, naturalmente sotto scorta americana (ma quanto avrò riso la Rice?);

    4) di spalla, un editoriale che ci ricorda la vera faccia di cazzo di Ahmadinejad. Con la piccolissima differenza. Mentre il sommarietto del Foglio mette il dito nella piaga, sulla “inchiesta a proposito dell’Olocausto” (commissionata da Mahmoud), nel pezzo di Marina Forti, sul Manifesto, non c’è traccia dei “gruppi indipendenti e imparziali” che secondo il presidente iraniano dovrebbero “accertare” e “investigare” per “appurare se la Shoah è davvero avvenuta”. I lettori del Manifesto lo sanno?

    Be’, personalmente, io uno come Mahmoud non lo farei nemmeno sedere al tavolo delle trattative (agli storici negazionisti li arrestiamo quando scrivono certe stronzate). E non credo di essere uno sporco sionista.

    Voglio dire che una cosa è il sacrosanto desiderio dell’Iran di diventare una potenza atomica di media grandezza, e gli americani sarebbero dei pazzi a sfidare il paese islamico su questo piano (però lo fanno); cosa ben diversa è l’antisemitismo che, maga magò!, scompare nella cronaca di Forti (spero non se la prenda a male).

    Ecco la differenza tra i giornali di contenuto e la stampa quotidiana e generalista. D’altra parte, il Manifesto e la Repubblica di oggi hanno preferito aprire aprire con il gossip reale, sul sovrano pappone più citrullo che c’è.

    Fabio, mi dirai che avevi fatto l’esempio di Alias. Bene, allora paragoniamo la suddetta prima pagina del Foglio con quella di Alias, che recita:

    “Vacanze, una guida contro mano. I 54 posti chiave e i non-luoghi da attraversare in un altro modo per capire il mondo divertirsi un mondo e capovolgerlo secondo i propri gusti”.

    Ecco cos’è rimasto al Manifesto: un manipolo di bravi titolisti e redattori, abili nei calembour, nelle foto spiazzanti e nelle frasi a effetto. Detto questo, per non sembrare troppo disfattista, aggiungo che la copertina di Alias faceva ben sperare. Lo dico con un pizzico di vanità, visto che ho una certa esperienza in guide di viaggio. Ecco un’idea, un modo di raccontare qualcosa, 24 pagine di cultura “contro mano”.

    E invece poi apri il giornale e l’impressione (triste) è che Alias soffre dello stesso morbo di XL e di tante altre riviste: il recensire patologico e indiscriminato, la crestomazia, per cui la (buona) idea della “guida contro mano” alla fine diventa un (pessimo) catalogo di figurine, “una vetrina tutta illuminata con un po’ di tutto in mostra” (a questo punto sarebbe stato meglio puntare sulla recensione dell’inedito, dello sconosciuto, dello scarto, altre riviste lo fanno, eccome). C’è una bella differenza tra i colti e puri di Alias e i molli impiegati di XL, certamente, ma sempre di vetrine si tratta. Voglio dire, credete davvero che questi giornali, che Baricco, i giallisti e la Mazzantini, abbiano la forza di imporre un’egemonia? Ma dai!

    Seconda strada
    Ci sono anche riviste che si occupano di far parlare gli autori. Ha ragione Fabio, questo serve, passare dalle parole ai fatti, fare cose di sinistra, non limitarsi di dirle (il morettismo). Una cosa di sinistra è la condivisione della scrittura e delle esperienze tra autori e lettori. In questo caso, non sarei troppo pessimista. E’ un lavoro che negli ultimi anni, in Italia, è stato già fatto. Ma certe cose sono disposto a scriverle solo sotto crittatura.

    Fuori strada
    Infine c’è una cosa come NI, con tutto quello che rappresenta la scrittura web e il mondo a forma di internet. Be’, qui il discorso è aperto, pieno di opportunità (che le si colga o meno). Ho detto della struttura ad albero che potrebbe darsi la Nazione, magari ci torno dopo la partita.

    Ma vorrei aggiungere solo un’ultimissima impressione.
    Io trovo i commenti sempre più divertenti e interessanti dei post.
    Perché il post, preso da solo, non è che un pezzo, un articolo, un intervento, da vecchio giornale, da vecchia rivista, invece i commenti fanno l’ipertesto, sempre mobile, plastico e instabile, della nostra vita quotidiana.

    Ecco una linea-guida: farei leggere gratis i post di NI.
    Ma i commenti no e poi no. Quelli dovrebbero essere invisibili.
    Sono un fatto privato, personale, emozionale.
    E chi vuole partecipare deve pagare.
    Queste sono le regole del gioco. L’ho già detto.

  45. signor Andrea, io cerco di scavarmi “poesia” ma vengo giudicata autoreferenziale.
    per scavarmi intendo assumere la poetica solidificata della contraddizione rifiuto/accettazione a vivere e a punto e fine, morire
    cerco di spegnere le parole—> appendini cartonati e/o cotonati.
    cerco disperatamente un dialogo intersecante e a volte secante con l’intensità subdola e meravigliosamete suicida dell’esistenza.
    cerco la sinergia che la poesia fa affiorare dall’afa catramosa dell’ apparenza rimmellata ma il mio indaffararmi mi diventa un caso problematico e in suppurazione. se scrivo del dove gli altri non vedono sono visionaria, se mi denudo fino ai nervi e poi oltre, sono pornografica, se rigurgito il cuore sono odiosa.
    prendo me ad esempio, ma ci sono “poeti” (metto poeti tra virgolette e me pure tra virgolette perchè poeta non è nè un aggettivo nè un nome per me, non esiste.) silenziosi, cocciuti e caparbi che continuano a lavorare come api nel loro alveare e tanto basta a loro il silenzio domestico non elettro.
    quello che manca e che non viene riconosciuto è la duttilità alla vita dello scrittore, le sue molteplici schizofrenie che vanno di pari passo con le sue opere. fa paura l’artista che masturba la sua penna, che la vizia togliendole piano piano tutti i vizi. l’eremitaggio artistico viene visto come un fiasco bohémien. l’artista di Cage è un/l’ artista morto. il suo pubblico i posteri.
    un saluto
    paola

  46. sul discorso di Roberto, che allarga moltissimo, ed è bene cosi

    su una cosa: è il pubblico che determina; mi sembra una semplificazione, perché se davvero vogliamo allargare, uscire dall’ambito ristretto della letteratura, le cose non stanno neppure cosi;

    uno dei punti di partenzo creda sia la ristrutturazione delle case editrici, i loro nuovi criteri di rendita, e la ridefinizione della loro merce, cui fa seguito la riorganizzazione delle librerie e dei criteri di distribuzione, cui fa seguito la ristrutturazione delle pagine culturali, ecc.; quanto alle playstation, non è la stessa “roba” del libro, l’impresa delle case editrici è far leggere almeno un libro all’anno (il LORO bestseller) a quelli che non leggono più di un libro all’anno; non si fabbricano videogiochi per quelli che ci “giocano” una volta all’anno; e non mi sento rimasto indietro per nulla se il nipotino di sei anni frequenta agilmente un mondo per me estraneo; la playstation è un modalità di divertimento che riflette bene anche il mondo in cui siamo, mondo che non è per nulla innocente;

    sui discorsi di messa in rete dei saperi, della condivisione delle scritture, sono d’accordissimo; ma ci sono scritture e scritture; ci sono scritture che si scrivono assieme, leggendole, come nel caso di un’osservatorio pubblico, mettiamo, sul razzismo, le politiche dell’immigrazione, o sul precariato, ecc. e scritture che hanno altre dinamiche, si leggono e si commentano, ma il commento non “cancella”, né si annette automaticamente il testo d’origine; la distinzione delle pratiche e degli ambiti rimane secondo me fondamentale; non credo in nessun spontaneismo collettivo quando parliamo di artefatti artistici, fatte una serie di debite eccezioni (gli spettacoli del Living, ad esempio)

    quanto alle critiche alle pagine culturali di sinistra, si potrebbe fare una rubrica d’interventi solo su questo (e son d’accordo con riberto)

  47. Quanta roba, fatico a starci dietro, anche perché molti di questi interventi mettono molta carne al fuoco, a volte in modo anche contraddittorio e spesso emotivo.

    Mi si sono impresse alcune cose:

    @Fabio, mi pare che tu mi rimproveri di essere troppo fedele a un’idea di “tempo galantuomo”, per così dire, al quale demanderei il compito di far giustizia, mentre tu sei radicalmente pessimista e credi che valga solo il mercato al quale attribuisci un valore quasi diabolico.

    E’ difficile giudicare il proprio tempo standoci dentro, ma se la storia della letteratura mi dà delle dritte, per quanto i secoli abbiano cominciato a scorrere con maggior velocità i procedimenti sono sempre gli stessi, finché c’è qualcuno che ne parla, anche in gruppi minimi, quello di cui si parla c’è.

    Non penso che Loos abbia fatto mediazione, penso che abbia fatto, oltre che alcune splendide case, critica culturale. Allora minoritaria, e forse, anzi certamente, anche adesso, e più difficile da leggere, ma fertile.

    Più che alla mediazione io sono interessata al contrappeso. Intelligenza critica come contrappeso alla stolidità e alla cecità.

    Se si smette di farlo sono guai.

  48. @Inglese

    Sono d’accordo su questo: “non credo in nessun spontaneismo collettivo quando parliamo di artefatti artistici, fatte una serie di debite eccezioni.”

    Non capisco bene invece la contrapposizione tra “guerre di estetica” e “mediazione critica”

    Se con guerre di estetica pensi alle dispute della vecchia neo-avanguardia sono d’accordo, adesso non hanno più senso;

    Se per mediazione critica intendi far conoscere poeti in cui credi sono d’accordo, far conoscere è importante.

    Ma per me, forse questo me lo dà l’essere figlia della mia generazione, è importante anche mostrare le debolezze e le furbizie dei testi perché credo che senza un lavoro continuo di critica non ci saranno alla fine più strumenti per distinguere e scegliere, e se alla fine verranno meno questi strumenti, sarà tutto il grande supermercato indistinto delle merci, dove Adelphi farà leggere Cioran perché ha un buon marketing e nulla più. Adelphi mi ha già dato delle sole in questo senso e da un bel pezzo sono molto supercigliosa. Come evitare la sola? Discutendo e sottoponendo a critica.

    Sottoponendo a critica anche i modi della lettura, non solo quelli della scrittura.

  49. @temp

    no, era una ‘critica’ relativa ai valori come ‘lavoro’ o ‘fatica’ o ‘lotta’ degli artisti (e alla specificità del loro strumentario: le parole, il linguaggio, le forme), che tu sembri ‘rivendicare’ contro il lavoro di ‘mediazione’ del critico (letterario e ‘culturale’: Cacciari che ‘media’ Loos che ‘media’ le sue idee, per il pubblico, fino a oggi).

    come dicevo, le due cose, il lavoro degli artisti e dei critici, non dovrebbero essere considerate come dualistiche e necessariamente in contrasto (o, all’opposto, in sterile empatia…). non come in un binomio chiuso, irriducibile: come in una contrapposizione (fino a sfiorare il giudizio di valore, anche emotivo…, a ‘proteggere’, fuori dal tempo, dalla storia e da una possibile fruizione ‘condivisa’, la ‘lotta’, lo ‘specifico’ degli artisti).

    qui, per esempio, cadrebbe in taglio ciò che anche roberto richiamava:se blog deve essere, che sia blog….: il dialogo con gli autori, la loro presenza, destrutturerebbe non poco, o anche solo potenzialmente, il ‘sistema’ dell’editoria e dei rapporti autori/pubblico al quale siamo abituati…

    sull’idea di ‘tempo’ io mi ritrovo, almanaccando, sempre più ‘moderno’ e legato all’idea di continuità, di ‘tradizione’ (da cui, ovviamente, guardare le dicontinuità, il presente). quindi sono d’accordo con te. dicevo che loos, mi pare, va pure guardato nel contesto di una ‘critica culturale’ e di un pensiero ancora molto intriso di ‘utopia’, ‘messianica’ (tipo, da noi, fortini…). e per fortuna, altro che pessimismo…

    nessuna assolutizzazione in negativo del mercato (dell’esistente…). anzi.

    al posto di ‘mediazione’ tu proponi (a proposito di parole, e solo di quelle, o forse no…), il lemma ‘contrappeso’. io, rivogendomi anche ad andrea i., parlavo di ‘tensione’ (verso il reale), del lavoro critico E letterario. non come certezza sulla raggiungibilità o meno di una meta. ma per il fatto stesso di avere in mente con chiarezza, con una qualche ‘linea’ (che non è zdanovismo) in testa, una ‘tensione’ (verso il reale).

    e quindi, ma ci mancherebbe altro….. bene, benisissimo, l’inchiesta e la ricerca collettiva sul razzismo. resta il fatto, per esempio, che il post sul racconto in cui appare un deportato della shoah, è vero, io non l’avevo nemmeno sfogliato. ora lo farò, visti anche i tuoi commenti. non l’avevo letto, anche perchè, in una vetrina illuminata e confusa, senza uno ‘stile’, mettiamola così, uno non riesce a posare lo sguardo proprio su tutto…

    ma mi trovo sempre col fare le pulci ai discorsi altrui, a quelli di andrea i., per esempio… al quale suggerisco, ma davvero in ‘amicizia’, di pensare alla differenza tra ‘apertura’ e ‘eclettismo’, ‘scelta’ e ‘compresenza’. e sono sempre parole. ciao.

  50. a temp:
    “Se con guerre di estetica pensi alle dispute della vecchia neo-avanguardia sono d’accordo, adesso non hanno più senso;” si, è questo, e sottolinerei l'”adesso” per non farmi prendre per un irenista

    LEGGETE QUI: è importante per tutti.
    “Sottoponendo a critica anche i modi della lettura, non solo quelli della scrittura.”

    “è importante anche mostrare le debolezze e le furbizie dei testi perché credo che senza un lavoro continuo di critica non ci saranno alla fine più strumenti per distinguere e scegliere”
    Di fronte a un lettore non sprovveduto un testo non è furbo, è debole, prevedibile, ininteressante. La furbizia sta sopratutto nella “confezione”, nell’identità che eventualmente si dà lo scrittore… Non so, forse è una percezione sbagliata: ma è l’associazione tra marketing editoriale, giornalismo connivente e furbizia dell’autore (piuttosto che del testo) ad essere diabolica. E’ spacciare la biogiotteria per gioielleria che è davvero colpevole, non la bigiotteria in sé.

  51. Si, la bigiotteria può essere magniifica, lo dico da donna, è divertente, costa poco, sbarluccica, purché si sappia che è falsa.

    Io una piccola differenza tra debolezza di un testo e furbizia la farei, anche se sono d’accordo con te @Inglese che la debolezza è quel che conta alla fine e che la furbizia è dell’autore.

    Ma un testo furbo, il testo di un autore furbo, può sembrar poco debole al lettore sprovveduto e aiutare chi confeziona a confezionare male.

    Io sono convinta che anche la sprovvedutezza abbia molti livelli, ed è ben presente anche nelle case editrici. Io non credo che un redattore, un editore di collana ecc. e via risalendo e discendendo nella filiera delle decisioni, sia monolitico nelle sue valutazione, che voglia il male assoluto, la mera confezione che rende un tanto al chilo.

    E penso che anche l’autore debba farsi carico della fatica di essere serio, e che il lettore il “suo” lettore, se legge bene lo aiuti a sopportarla, o gli dimostri che è una fatica inevitabile se vuole essere un poeta serio o uno scrittore serio.

    Se uno ha talento, cioè sa scrivere bene, costruire belle storie, usare con sapienza la lingua eccetera, può scegliere se accontentarsi o interrogarsi. Se non si interroga e si accontenta può fare bei testi furbi di cui solo pochi vedranno la furbizia, cioè la interiore debolezza e mancanza di necessità.

    Alla fine, se si va a guardare quello che è rimasto, si vede che dentro c’era questa serietà. E vale anche per l’oggi, pur con le sue differenze, accelerazioni, naufragi, impotenze, scoraggiamenti.

    Ma ero venuta per dire un’altra cosa, che siamo andati tutti OT. Il titolo non diceva Ragionamento intorno all’idea di ricerca letteraria?

  52. @andrea
    @temp

    Sullo “spontaneismo collettivo” siamo d’accordo. Ecco perché credo che siano giuste le osservazioni di Fabio, quando spinge la redazione di NI a valutare con più attenzione post e commenti.

    ‘Attenzione’ non nel senso di una valutazione critica o estetica dei testi (forse anche in quella), ma soprattutto nella definizione dei “valori” condivisi da questa comunità. Quelli che ci sono e quelli che verranno. (Contro i valori conservatori, oppure credete che dire valori vuol dire per forza di cose essere conservatori?).

    La redazione di NI ha già le idee chiare, ma in certi casi non sfugge a quell’effetto “vetrina” di cui parlavamo. Le recensioni, le segnalazioni, il lavoro di ufficio-stampa (che c’è già, a mio parere, e funziona anche bene), finisce per confondersi (e confondere) i discorsi, le idee, i progetti, da portare avanti (inteso proprio nel senso delle ricerche personali e dei gruppi).

    Quindi: aprire ai commenti che portano avanti le ‘battaglie nazionali’; selezionare il resto, perché se mi va di stroncare Roberta di Nove posso farlo, ovvio, chi te lo vieta, e magari mi divertirei anche di più se fossi collegato ad altri, in modo simultaneo, che invece sono fanatici di Nove, e vedrai che se la prendono, e insomma scattano i soliti battibecchi che conosciamo bene (ripeto che trovo questo brusio ricco di emotività e per niente censurabile, ma proprio per questo andrebbe rispettato da tutti e preservato meglio).

    @arte_misia
    Attenta come sempre. In effetti anche Robert Howard ha creato la saga di Conan senza mettere un piede fuori di casa. Ma volevo mettere in evidenza i diversi aspetti della didattica della scrittura (metodi vs pratiche).
    Torniamoci se ti va.

  53. A Paola, …. Proteo. E’ parte… ed altra cosa. Vedi che qui si gioca una bella guerra. Ma più che separare,(in Dio) Satana è avversario dialetticamente in noi. Satana deve essere avversario (secondo tradizione), ma cambia si moltiplica e ritorna ad essere uno. Nel cristianesimo, i primi vescovi cristiani hanno fatto di tutto per reprimere l’inconscio, vedi la biografia di S. Antonio dell’arcivescovo di Alessandria Atanasio. Non deve stupirci la nostra incapacità, il nostro attegiamento di rifiuto nei confronti dell’inconscio. Ma così… il proliferarsi di proiezioni, il concretizzarsi di probabili e infiniti antagonisti, quasi il cercare probabili antagonisti come necessità ad una unità, ma questa sempre esterna. (guarda caso che l’unità non è mai cercata in noi, noi possiamo o crediamo di essere solo capaci nello specifico, nel particolare, processo verso l’introversione. (ti ricorderai Nicola Cusano: de docta ignorantia) Concepire la verità è per noi capacità di intendere le varie forme (ho detto forme?) La letteratura è tutta una proiezione, tra questa lotta ecc. ecc.

  54. grazie giuseppe della segnalazione e sopratutto grazie di aver linkato direttamente ai commenti in Ni, che in effetti hanno costituito un vero “sviluppo” in senso critico e dialettico dei vari spunti contenuti nel pezzo

  55. Forse non ho capito bene il dibattito e in tal caso le mie parole saranno un po’ fuori luogo, ma mi sento di aggiungere un paio di cose. Nel che fare2 Andrea parla in qualche modo di lotta per la sopravvivenza del testo che non è assimilabile alla lotta per l’egemonia delle avanguardie. La lotta per la sopravvivenza è un atto doveroso, che non pretende di cambiare il mondo, ma pretende di stare al mondo, rinunciare alla lotta per la sopravvivenza dei testi ( ovvero favorire la nascita di una tradizione di lettura) per uno scrittore significa simbolicamente accettare il mondo così com’è. E dunque questa lotta è indubbiamente politica, anche se non è il primo problema all’ordine del giorno della politicata politicizzata.
    In secondo luogo mi ha colpito molto l’intervento di Fabio quando citava La storia di Elsa Morante ( perché avevo fatto il medesimo esempio poche sere fa parlando con un amico): devo però dissentire da lui quando afferma che la situazione oggi è come nel 1974. Infatti fino agli anni ottanta esisteva un’editoria che puntava a testi facili e vendibili, ma nel contempo sapeva che c’erano altri libri e talvolta li pubblicava. Esisteva una coscienza della funzione culturale della letteratura anche in un contesto teso al perseguimento del profitto. Oggi si è persa questa funzione non solo per l’avidità dell’editoria, ma perché la società come valori collettivi si va frantumando e dunque anche l’idea di cultura si va frantumando. Il problema oggi non è la Morante che è pur sempre una scrittrice, che anche a me non piace tanto, ma è comunque un’idea di letteratura: ma l’esordio letterario di Serena Grandi

  56. @giorgio m.
    @andrea
    @roberto

    cerco di essere chiaro facendo una pausa. non so se andrea sia d’accordo con te per come sintetizzi, mirabilmente, la prima parte del ‘post’ plurale. credo di si.

    la lotta per la preservazione dell’autonomia del testo, la battaglia per la sua ‘sopravvivenza’ (per produrre ‘tradizione di lettura’, una lettura critica, ‘autentica’, come in un ‘cantone’ locale che con questa pratica ritrovata si oppone ai meccanismi dell’industria culturale, dell’editoria, ecc.): questa, secondo te, la politicità intrinseca dell’operazione riflessa nel ragionamento di andrea. e questo, non hai pututo fare a meno di sottolinearlo, contro o in alternativa alla ‘politicata politicizzata’ (il refuso, forse, come un lapsus, tradiva il giudizio di valore, lo ‘sprezzo’, certamente condivisibile, per la ‘politica’ odierna).

    ecco, io credo che dovremmo riflettere di più su questo benedetto punto, sui nessi tra battaglia culturale, ricerca e lavoro critico-letterario e ‘politica’ (insomma, oltre vittorini&palmiro, intendo…). nella discontinuità, è ovvio, tra la situazione degli anni settanta e oggi (su qualche commento ai post di razzismi quotidiani troverai un discorso analogo, a livello addirittura globale: sulle prospettive, cioè, della ‘lotta’ politica ‘e’ culturale, oggi, del ‘cambiamento’…).

    so bene che è un tema complicatissimo (ad esempio l’editoria, in sè, oggi, è un fattore complesso e inaggirabile, da indagare con molta ‘competenza’ e attenzione), ma mi viene da chiedere se stiamo indugiando (ancora) sul fatto che il conflitto sociale, un cambiamento della ‘politica’ può generare, autonomamente e subito, da solo, una nuova (idea di) letteratura. oppure se non è meglio pensare che le due cose, infine, possano o debbano o vogliano ‘intrecciarsi’, ‘anche’ oggi, ‘persino’ oggi, nella situazione (globale) dell’editoria, eccetera. magari con altre ‘forme’, ‘altre’ pratiche, che svecchino le vecchie e le vecchie ‘parole’…

    fine pausa.
    ciao, f.

  57. e comunque, nel 1989:

    p.volponi, le mosche del capitale, einaudi (prima tiratura 10.000 copie)
    a. de carlo, due di due, mondadori (50.000 copie)

    il ‘potere’ dell’editoria, mi pare, in continuità, ha perfezionato dagli anni ’70 la strategia della tolleranza, della liberale circolazione di ‘merci’ (serena grandi accanto a saviano, per dire), anche su quei prodotti potenzialmente critici verso i ‘poteri’. per esorcizzarli o neutralizzarli?

    certo, il discorso sulla ‘lettura’ che faccia da discrimine (anche politico) tra l’una e l’altra ‘merce’ è convincente. ma basta questo come progetto ‘condiviso’?o è solo la prima mossa? (che già so’ cazzi, in effetti, però…).

    ciao!

  58. @michele

    a parte che il riferimento a Proteo è molto bello.
    la scrittura quindi è Satana? ne avrebbe tutti i requisiti: non si moltiplica forse, cambiando continuamente forma? non è la proiezione e possessione delle molteplicità dell’incoscio?
    la scrittura guarda lo scrittore ed è guardata, ma nel contempo gli è anche avversaria già, ma hai ragione che “l’avversario”, in molti casi, lo si cerca (palesemente) sempre fuori da noi. per come la sento io, è un tradimento. ma ormai mi sono abituata ad essere idealista:-)
    dici che ho liquidato la questione troppo velocemente…? forse.

    m’informerò sulla biografia di cui parli e approfondirò Cusano che
    conosco poco. grazie.
    paola

  59. @ancora a michele
    tu dici:
    “Concepire la verità è per noi capacità di intendere le varie forme (ho detto forme?) La letteratura è tutta una proiezione, tra questa lotta ecc. ecc…”

    la verità. forse sta dietro quella parte di schiena che non riusciremo mai a guardarci nemmeno allo spiego e intanto dietro alla verità alcuni ci consumano le notti, la vita…

  60. Cara polvere, molte volte si moltiplica, poche si divide, si sottrae. Uno specchio concavo che trattiene in sè, un poco traditore, un poco menzognero, piccole intuizioni ( ci sembrano enormi) ci fanno urlare al miracolo, a quale perfezione abbiamo puntato i nostri fucili? Carichiamo a pallettoni, (speriamo in prede importanti) ma stiamo, in verità, giocando con giocattoli prestati/ regalati dal cugino fortunato. Giochiamo pure col patetismo (che pare sia pure quella, “arte poetica”, o venga spacciata come tale -nessuno si azzarda a fare previsioni-), politiciziamo i nostri incontri amorosi e rendiamo grazia, alla perfezione di questa nostra allegra e interessata società. Mi parlavi di purezza, dunque. Di bei raggi di sole, di speranze intelligenti, di consapevolezze e di onestà. Ma se ti spogli troppo, col sole che fà, si finisce un poco ustionati. Qui tutti sanno tutto, la ferramenta ha i suoi articoli di prestigio e il bravo commesso, sa come esporre, bisogna pure mantenere il mantenibile. Ma si fa per finta, mica sul serio, appunto giochiamo, o giocano? (mi riservo di studiar bene il tuo sito, – purezza è donna che aspetta un figlio, così già madre- tutto il resto sono solo chiacchiere)

  61. io ho un banner di heineken?
    quarda che qualunque blog di tiscali che apri compare quella cosa. è già due o tre giorni.
    è una cosa di tiscali. personalmente non ne so niente.
    puoi informarti però presso tiscali, appunto. e poi riportare l’esito dell’indagine qui.
    è spero che questa tua volontà di cattiveria ti proceda come una transvaginale cerebrale per mezzo di un arricciacapelli al massimo grado di attività e inoltre ti prego di ringraziami per la cortese presente risposta che mi sono impegnata a darti
    (peraltro trascurando un altro post a cui tengo molto)
    pure giustificandomi per una cosa a me ignota. vedi te che cretina, no? si, proprio.
    sciocco, acido ragazzo.
    alas!
    paola

  62. per andrea

    (ora ci vorrebbe uno scambio di mail perchè vorrei proprio parlarti ‘di persona’ [non è un avance!]. anche se ancora una volta credo che quanto sto per chiederti riguardi molti e molto).

    sonnecchiando prima di cominciare a lavorare (a scrivere!?!?), gironzolo sui blog. de il primo amore, sinceramente, mi interessano gli interventi del recente convegno pisano sulla poesia che ogni tanto fanno capolino. ma oggi, come sicuramente saprai, lucciante sortita firmata benedetti-scarpa, ma più in stile benedetti (più moresco che scarpa….), sulla ‘mistificazione’.

    contro la ‘mistificazione’ nella lettura critica contenuta in un pezzo dei wu ming su gomorra. tutto, come è ovvio, nella frenesia che ricorda i dibattiti somposti (sempre benedettimoresco et alii) su l’unità ecc., rimbalza tosto sui miserabili. dove genna prende le difese del pezzo o meglio della funzione dei wu ming nella cultura letteraria italiana 1990-2005, quei wu ming bersagliati e sotto attacco, e li (ri)promuove. e contrattacca. io, per me, nel mio piccolo, mamma mia….. a bocca aperta, diciamo così…

    (che fatica e che palle, a vedere bene, riassumere queste robe. su questo i due poeti della torre, descritti stupendamente dal pezzo o dalla citazione di @artemisia.., hanno ragione [@arte-: chapeau: ma era un elogio indiretto e ammirativo o ironico e parodistico?…, la tua sottile intelligenza semina dubbi, non certezze…], insomma qualcuno ha ragione. sono solo chiacchiere…, così rischiano di apparire, almeno oggi, 23 giugno….. magari anche chiacchiere ‘parassitarie’ (a detrimento, cioè, di gomorra senz’altro, ma forse pure dei ludici, o ludicamente engages, wu ming…). insomma, la critica che ‘guasta’, è proprio marcia.

    non ti chiedo ‘da che parte stai’…

    anzi, il tutto si collega al nostro scambio: una ‘battaglia’ di poetiche, oggi, fatta dai critici o da critici-scrittori, rischia di sembrare solo una ‘battaglia di campo’ per guadagnare metri, adepti e scalpi sul ‘campo’ avverso (!?). grande il livello. bella posta in gioco…

    su questo, intendevo dire che proprio la autoconsapevolezza (magari autocontestazione) ‘condivisa’ della propria collocazione e dei propri rapporti con i ‘poteri’ (cricche, manfrine, piccola o grande editoria, caccia agli ‘sponsor’, in accademia o pressi critici militanti influenti, giornali e ‘gruppi’ di potere, ambizioni e frustrazioni), questa critica serrata alle proprie contraddizioni sarebbe il primo passo per istituire un discorso critico alternativo (e ‘chiaro’, nei contenuti e nei ‘modi’)..

    guarda andrea, inserisco categorie che niente hanno a che spartire con la storia letteraria, meno che mai, forse, e pessimisticamente, con la realtà, con il generale andazzo. parlo di ‘stile’, di ‘toni’, di modalità, di atteggiamenti, di note, di comportamenti.

    questo scambio, oggi 23 giugno, queste ambiguità o questa melassa che poi d’improvviso si squarcia per polemiche con il coltello tra i denti.

    questi MODI di fare critica (pluralismo, ma coi rischi dell’indifferenziato, a scapito di qualità e chiarezza di battaglie di pensiero: eclettismo; e, specularmente, attacchi ‘personali’, questi sì, stile vetero-‘avanguardie’ da seppellire, in tutti i casi…).

    questi MODI di produrre pensiero su testi opere autori ecc….: non c’è proprio nessuna voglia di differenziarsene, radicalmente? solo scissioni, solo compromessi, solo lottizzazioni, solo ‘teatrini’ (diceva lui), più o meno come in politica?

    e poi razzismi quotidiani, e poi proposte e propositi di far diventare nazione indiana (o chi per lei), un gruppo omogeneo, che fa battaglie di idee chiare ispirate a ‘civiltà’ (non politically correct) e soprattutto battaglie ‘civili’ in combutta con avvocati giornalisti politici…. per le strade, per vedere di fare cose concrete, non solo chiacchiere….

    secondo me manca un passaggio per la ‘credibilità’. mi ‘accanisco’, forse, perchè mi pare(va) di intravedere uno spiraglio nel voler essere ‘differenti’, qui.
    o tutto il mondo è paese? o è meglio puntare sul ‘milazzismo’ e la ‘pluralità’, sull’apertura (e l’eclettismo) piuttosto che fare QUESTE battaglie di ‘poetica’?… non c’è proprio nessun’ altra battaglia possibile?nei ‘modi’. nei modi.

    c’è un film, e chiudo, anniversary party. così così. carnevalesco, il party toglie la maschera un po’ a tutti. c’è uno scrittore in crisi, sfottuto e dileggiato (stereotipo). la moglie quella notte esplode in tutta la sua ‘emancipazione’ frustrata da quella palla al piede. fa la civetta, è ubriaca. all’ennesimo logorroico sfogo del marito scrittore risponde: ‘avresti solo bisogno di una bella recensione’. mi ha sempre colpito questa battuta (anche perchè anch’io, nel mio piccolo, cerco di capire i miei ‘rapporti’ coi ‘poteri’ e quanto contino sulla mia esistenza grama…).

    ebbene, guardandosi negli occhi, ci interessa soltanto incensarci a vicenda (per non dire altro alla pulp fiction) o stroncarci da ‘farabutti’?

    (stamattina è storta, perdona le possibili astruse divagazioni. ma mi sembra che qualcosa ho detto). ciao.

  63. caro fabio, manda intanto una mail all’indirizzo del sito, cosi proseguiamo anche fuor dai commenti;

    la vicenda “Gomorra”. Cioè, la vicenda dell’uso che l’ambiente letterario sta facendo di “Gomorra”. Tu stesso, in qualche modo, mi dai una parte di ragione. Ecco, oggi, quali sono gli “scontri” che si fanno in ambito letterario, su di un libro come quello di Saviano. Ecco. Prendiamoci un attimo di tempo e analizziamo il “tipo” di polemica, scontro, dibattito letterario che oggi è presente: e abbiamo a che fare, in teoria, con le voci migliori, “primo amore”, “wu ming”, “genna”, ecc.

    Ora, non voglio mettere tutti sullo stesso piano in questa storia. Che per altro ho per ora saggiato velovcemente e con pochissimo entusiasmo. Dico solo questo, che la lettera aperta di Tiziano Scarpa con la tirata “paternalistica”, mi ha immediatamente fatto capire che cosa NON bisogna fare parlando di “Gomorra”. E quello che NON bisogna fare è dire: 1) Conosco Saviano di persona, è mio amico o ci ho giocato a bocce; 2) “Gomorra” si che è un bel libro, altro che le intervistine di Aldo Nove, i romanzetti di Scarpa, i romanzini dei Wu Ming, ecc.

    Quindi, oggi, nel mezzo della polemica, LODE a chi non parlerà degli scrittori, buoni o cattivi, dell’ambiente letterario, brutto o bello, ma SOLO e SOLTANTO di GOMORRA e della realtà che descrive e del modo in cui la descrive.

    Tornando a noi: hai visto fabio, che cosa non voglio, non vogliamo fare. Oggi le battaglie letterarie non sono più nemmeno IDEOLOGICHE (sei o non sei nella linea, nella freccia, nel nuovo, ecc.) sono quasi soltanto EGOLOGICHE.

    E’ possibile essere diversi. Si. Come? E’ tutto da vedere e da fare. Ma una prima risposta te la posso dare. Possiamo essere diversi nella nostra PRATICA quotidiana della letteratura, ma serve a poco fare un manifesto che dica “NOI siamo diversi per questo e quest’altro”.

    Ma, continuiamo la riflessione…

  64. Per non fare battaglie ideologiche e neppure egologiche, ma finalmente ecologiche bisogna occuparsi dei testi, delle contraddizioni e debolezze dei testi e delle virtù dei testi e non delle persone che scrivono i testi.

    Trasportare nel discorso sulla letteratura i pettegolezzi intorno alle persone e gli schieramenti può anche essere divertente, istruttivo e socializzante, come lo spidocchiarsi per le scimmie, ma è come andare al mercato a vendere mais e invece di assicurarsi che non sia transgenico parlare della psoriasi del cugino dell’agricoltore.

    Sono di nuovo d’accordo con te, Inglese, i manifesti non servono, serve la buona pratica, onesta e costante, la buona e onesta lettura, la buona e onesta scrittura.

  65. @temp
    @andrea (ti rispondo)
    @fabio

    Ok, niente manifesti. PRATICA

    Dividiamo la redazione non in base ai criteri classici, interni, esteri, cultura, sport, inediti, presentazioni, eccetera, ma intorno a idee e campagne culturali.

    Un paio di idee che ho in mente da un po’ di tempo e su cui vorrei lavorare insieme, se vi va (le vostre?)***:

    1) Colors.
    Perchè abbiamo bisogno dell’immigrazione? Perché gli immigrati devono accontentarsi della Consulta Islamica e non possono votare? Come si aiutano (con i nostri avvocati, consulenti del lavoro, eccetera) i piccoli imprenditori stranieri che hanno scelto di lavorare e vivere in Italia?
    Sono italiani o no? Perchè non facciamo un bel referendum sul voto agli immigrati? E soprattutto, perché non cerchiamo di capire come voteranno? Credo che i politici e gli amministratori locali abbiano bisogno di informazioni come queste.

    2. Rispetta i Veterani.
    I soldati e i Carabinieri italiani sono impegnati in tante “missioni di pace” in giro per il mondo. Come stanno vivendo il “tutti a casa”, che gli succede quando tornano in famiglia? Qualcosa è andato storto? Come racconterebbero la loro giornata-tipo al fronte? Non voglio dire esclusivamente i reduci dei Balcani che magari si sono ammalati per colpa dell’uranio impoverito, oppure quei signori della guerra che in Somalia si divertivano a torturare prigionieri. Non i fanatici o i più sfortunati. Non solo loro. Dico proprio il soldato comune, com’è la vita quotidiana del reduce, quando torna a casa? Non si tratta di cercare scoop, ma di sapere come vedono, cosa vedono, come vivono “i nostri” nei ceck-point palestinesi, in Medio Oriente e in Asia, dentro un blindato che siccome non è protetto a dovere, sotto, rischia di scoppiarti in faccia. Ma non eravamo diventati un esercito professionale?

    ***Temp, magari ogni tanto puoi anche postare qualcosa (non so se tu l’abbia già fatto in precedenza). Qual è la tua pratica di scrittura?

  66. @temp

    ma ‘le persone che scrivono testi’, e alla fine anche i ‘testi’ e le modalità della loro ‘lettura’ sono o no dentro (o fuori, comunque in rapporto a) le traiettorie che costituiscono il ‘sistema gravitazionale’ delle spinte e delle dinamiche culturali, ideologiche, editoriali: politiche, del loro tempo?

    questa componente dovrebbe essere sempre presente, anche latente, al fondo, segreta, in ogni corretta e onesta lettura (o scrittura) di ‘testi’. da leopardi in giù e in su. a partire dall’analisi ‘onesta’del testo, dici. tipo perchè e come leopardi sceglie il genere ‘satirico’, coi paralipomeni, e come e perchè cambia con questo anche il suo rapporto (culturalmente e politicamente) con la tradizione e la sua posizione verso il tempo che sta vivendo. questa la critica che a me ‘piace’ (non egologica non ideologica forse nemmeno troppo ‘ecologica’)…

    l’ ‘artigianato’, la buona educazione alla lettura e alla pratica della scrittura (onesta, sabiana), è, forse, solo il primo passo. isolata, sospesa, presa così, questa idea rischia di attestarsi, orgogliosamente moralistica (nell’accezione più nobile) e solitaria, in un territorio di ‘ecologia’ della mente: salutare, rispetto a tutta questa ‘merda’ che inquina, ma come in una bottega (in un eden) di libri.

    istintivamente, spesso, i tuoi commenti mi fanno venire questo in mente. oltre rispetto e stima ‘istintiva’, intendo. ciao, f.

  67. @temp

    ma ‘le persone che scrivono testi’, e alla fine anche i ‘testi’ e le modalità della loro ‘lettura’ sono o no dentro (o fuori, comunque in rapporto a) le traiettorie che costituiscono il ‘sistema gravitazionale’ delle spinte e delle dinamiche culturali, ideologiche, editoriali: politiche, del loro tempo?

    questa componente dovrebbe essere sempre presente, anche latente, al fondo, segreta, in ogni corretta e onesta lettura (o scrittura) di ‘testi’. da leopardi in giù e in su. a partire dall’analisi ‘onesta’del testo, dici. tipo perchè e come leopardi sceglie il genere ‘satirico’, coi paralipomeni, e come e perchè cambia con questo anche il suo rapporto (culturalmente e politicamente) con la tradizione e la sua posizione verso il tempo che sta vivendo. questa la critica che a me ‘piace’ (non egologica non ideologica forse nemmeno troppo ‘ecologica’)…

    l’ ‘artigianato’, la buona educazione alla lettura e alla pratica della scrittura (onesta, sabiana), è, forse, solo il primo passo. isolata, sospesa, presa così, questa idea rischia di attestarsi, orgogliosamente moralistica (nell’accezione più nobile) e solitaria, in un territorio di ‘ecologia’ della mente: salutare, rispetto a tutta questa ‘merda’ che inquina, ma come in una bottega (in un eden) di libri.

    istintivamente, spesso, i tuoi commenti mi fanno venire questo in mente. oltre rispetto e stima ‘istintiva’, intendo. ciao, f.

  68. a r. e f., ci ritorno poi sulle vostre proposte/osservazioni,

    ma che è successo?: siete uno e bino, gemellimonocellulari, uno con doppia personalità, due all’unisono?

  69. @roberto/fabio

    Io non scrivo, leggo. Anche questa è una pratica:–)

    @fabio/roberto (ho un vecchio pc che non uso, se posso…)

    Io vivo nel mondo, cari, il che a volte mi fa incazzare, ma nel complesso mi piace, e preferisco anche essere viva piuttosto che morta, anche se dico ogni tanto come tutti ‘che vitaccia’.

    Dunque niente astratte nobiltà etc. ma la semplice constatazione che molte di queste battaglie di cui vedo a volte favoleggiare qui sono battagline-ine-ine e polemicuzze-uzze-uzze dove gli attori di tanto spreco di energie sono ilprimoamore (sito noiosissimo e con pezzi in gran parte anodini) e i Wu Ming o Genna.

    La ragione per cui non vado mai a visitare Lipperatura è proprio perché ho sempre avuto l’impressione che ci sia troppa di questa roba o troppa attenzione per questa roba di interesse prevalentemente giornalistico, cioè vivace, etc. , e utile a riempire come si conviene spazi che van riempiti ogni santo giorno, ma per me molto marginalmente interessante.

    Invito tutti a scommettere con me che tra dieci anni (un battito di ciglia nel tempo della letteratura) tutto ciò non ci sarà più, e siccome penso che sarò ancora viva (se la salute mi assiste) ci scommetto su un paio di buone bottiglie, o anche due cassette, se nel frattempo sarò diventata ricca

    Quello a cui invito io è fare i compiti, perché se non si fanno i compiti si ambisce molto e mi ottiene poco.

    E’ prosaico, lo so, ma qualcuno dovrà pure legarvi la caviglia a una zavorra, altrimenti vi vedrò galleggiare sulla mia testa nell’aere bruno come quei palloncini che i bambini si fan sfuggir di mano.

    Con amicizia
    la vostra
    Temp

  70. [OT]
    roberto Says:

    in June 22nd, 2006 at 13:07
    @cara
    the bad trip, yesssssssssssssssss

    piaciuto?

    short circuit

    impulsi cerebrali intercettati e usati senza richiedere alcun output da parte dell’utente.
    da provare.

    ps:hai arricciato per bene?
    ps: hai una birra preferita da suggerire?
    un saluto
    paola

  71. a roberto:
    “Dividiamo la redazione non in base ai criteri classici, interni, esteri, cultura, sport, inediti, presentazioni, eccetera, ma intorno a idee e campagne culturali. Un paio di idee che ho in mente”
    L’idea della campagna, o di certi filoni tematici, mi trova d’accordo, e non da solo in Ni; “razzismi quotidiani” è nata in questo senso, ma deve continuare; molte questioni portano al “razzismo” oggi;

    quanto alle due campagne che tu proponi mi trovano d’accordo; e qui è essenziale coinvolgere altri soggetti, in rete e fuori rete, con dei punti di discussione chiari;

    cio’ che in rete si puo’ fare, e cio’ che in ni possiamo fare, è raccogliere e organizzare del materiale (documenti, analisi, riflessioni) su temi che la stampa ufficiale non tratta, appositamente o meno, o tratta in modo deformante o episodico;

    sul blog della Lipperini qualcuno dice a proposito di “Gomorra” di Saviano: quello che questo libro sta scatenando, anche in termini di isteria, è analogo a quanto avviene nel caso di Travaglio: c’è una aspettativa sproporzionata su questo tipo di opera, che è utilizzate anche come esorcismo di una politica che non c’è. E qui il dito è nella piaga. Perché dico questo? Perché una delle campagne che vorrei fare, riguarda le politiche che non si fanno.
    Riprendiamo la questione dalla base: dal modello di società che il capitalismo attuale ci propone. Definiamo alcune sue parole d’ordine “forti”, quelle che passano nella classe politica delle destre e che giungono sino alle sinistre. Smontiamole. E guardiamo com’è la realtà.
    Parliamo dei fitti della grandi aziende capitalistiche dal 90 in poi, da quando iniziarono a conetenere i salari, a gridare alla crisi, a frammentare la forza lavoro, a moltiplicare i contratti. Lavoriamo su questo collettivamente, portando assieme dati e analisi, con i nostri mezzi anche limitati.

    Questo per quanto riguarda il lavoro più politico. Su quello letterario, vorrei sentire ad esempio fabio. Con proposte più precise. Ma ci ritorno.

  72. allora, per la mia proposta di campagna, metto alcuni punti:

    il precariato non è una necessità di fantomatici processi di mondializzazione, ma una strategia consapevole del fronte aziendale, con appoggio politico e giornalistico, per dividere la forza lavoro dopo lo scontro degli anni sessanta/settanta; questa strategia implica vari aspetti: massimizzare i profitti, privilegiare l’azionariato, far salire in verticale i salari di fascia alta e contenere quelli di fascia media e bassa, introdurre il terrore della crisi capitalistica (mondializzazione), sacrificare le fasce basse della società, smantellare lo stato e creare la fobia dello stato.
    A questa storia che lo stato non puo’ più occuparsi di casa, sanità, disoccupati, malati di mente, ecc. ormai ci credono tutti. Anche i più critici e arrabbiati. Ed invece è da li che bisogna ripartire. Le politiche che non si fanno.

  73. @andrea
    “le politiche che non si fanno”

    Andrea, io ci credo da sempre allo stato e nello stato. Quando ero ragazzino, i compagni e le compagne dei centri sociali mi sfottevano perché ero troppo ‘istituzionale’, figurati, mi dicevano: ma sei scemo che vai a votare?

    Poi, col passare del tempo, ho finito per odiarlo, questo stato che vivacchia senza dignità. Non credo di essere un populista, ma efficientista sì, e anche intransigente.

    Voglio dire che è vero, dobbiamo analizzare “la” o “le” ristrutturazioni del capitale globale. Va bene, iniziamo, vi seguo. Ma dobbiamo anche “rifarlo” questo stato malandato, invecchiato, iperburocratizzato.

    Riprendo alcuni dati del volume “Una repubblica fondata sulle rendite” di Geminello Alvi. L’hai letto? Oggi c’è un bell’editoriale sul Foglio che riassume alcuni passi di Alvi. Come al solito, gli astuti foglianti usano “da destra” questi dati per giustificare la politica del “less is more”.

    Meno stato, ma che funzioni. In questo, come in tanti altri casi, secondo me dovremmo essere abbastanza scaltri da rubare di mano queste battaglie alla destra, farle nostre (penso alle tasse, non ci crederai ma io faccio parte del popolo delle partite iva pur essendo un morto di fame), proprio con l’obiettivo che dici tu: “occuparsi di casa, sanità, disoccupati, malati di mente, ecc”. Perché non è possibile che mia nonna sta aspettando da due mesi una Tac. Ormai uno lo dice come se fossimo rassegnati (ti è mai capitato di avere a che fare, quotidianamente, con gli uffici delle poste italiane?).

    Alvi ricorda che negli anni novanta gli impiegati, il pubblico impiego, “sono stati lasciati in una torbida inettitudine postsovietica, ma cogli stipendi di una volta. Dunque in maggior privilegio rispetto agli altri lavoratori. Il reddito da lavoro di un dipendente pubblico era superiore al 16% rispetto a quello di uno privato nel 1995 ed erà già un bel vantaggio. Nel 2003 il vantaggio è salito al 37%”.

    I dipendenti pubblici si mangiano 93 miliardi di spesa pubblica, a fronte dei 35 per la Sanità, 11 per comuni e province, 6 alle regioni, 3 agli enti previdenziali: insomma, in totale, l’11% del PIL, il 23% delle spese governative.

    Verrebbe da pensare a uno stato che funziona alla grande, a una specie di Finlandia mediterranea, ma ti invito a considerare questo esempio personale: quest’anno, tra le centomila cose che faccio per tirare a campare, ho tenuto anche un corso alla Sapienza. Fatto e pagato? Magari a cristo! I soldi arriveranno tra dieci mesi o un anno. Ma non è questo il punto.

    Per sapere quando e se sarei stato pagato ho passato tre (3), dico tre (3) giorni, in cerca di un ufficio, un cazzo di ufficio di merda dove mi dessero delle spiegazioni. Soliti rimpalli, solite insufficienze, soliti scaricabarile. In più, quei quindici venti euro devoluti a Telecom in telefonate.

    Sul sito della facoltà in questione, non faccio il nome per non infierire, ci saranno state due dozzine di mail, così tante che potevi pure scrivere al bidello. Siamo nell’era della comunicazione digitale, no? Una delle tre (3) I: informatica. Ma ovviamente in Italia la e-mail non è fatta per rispondere entro sei ore (come dice qualsiasi manuale di scrittura web), è fatta invece per rimandare, dilatare, anzi, nel mio caso, per mandarti a cagare.

    Quanta gente campa negli uffici della Sapienza per mettere un timbro e pagarmi tra 8/10 mesi?

    E’ vero, quando lavoravo nel privato avrò subito la riduzione dei salari, la ristrutturazione postcapistalista, il mobbing, eccetera, ma i soldi li vedevo il 27 di ogni mese, OGNI MESE.

    Ancora Alvi, e chiudo: “C’è un dato incredibile che più degli altri spiega perché la pubblica amministrazione non funziona in se stessa. Viene definito ‘tasso di autoreferenzialità’. Serve a misurare quanta parte del tempo lavorato dai dipendenti pubblici è utilizzato per il funzionamento della macchina amministrativa: e cioè funzioni di personale, acquisti, informatica, organizzazione e contabilità. Secondo dati in possesso del dipartimento della funzione pubblica, nei ministeri il valore medio del tempo lavorato destinato al funzionamento è il 46,1%. Significa che in media i 210.000 dipendenti centrali dei ministeri passano il 46% del tempo a predisporre gli strumenti per lavorare il restante 54% del tempo a disposizione. Per essere ancora più chiari significa che la metà dei dipendenti si occupa dell’altra metà, come se ognuno avesse un suo valletto personale”.

  74. andrea, a proposito di politiche che non si fanno: come pensi si debba affrontare il precariato? con il posto fisso obbligatorio per legge? Con un sistema di flexecurity stile danese? Con il reddito di cittadinanza alla van parijs? E ci serve di più – è più utile – un sindacato come lo immaigna rinaldini, o come lo vorrebbe ichino?
    Ci sono quintali di analisi a sinistra, molto diverse tra loro: a me premerebbe che non si prenda la prima che capiti per fretta d’analisi o per suggestione
    (il libro di saviano avrà anche pregi letterari – opinabile quindi ammissibile – ma sostituire l’analisi con gli aggettivi ad effetto non aiuta granché la politica, almeno quella seria. Un po’ come dire “il capitalismo malvagio che ci stritola”. Se vabbè, e poi?).

    e sei così sicuro che si possa leggere la storia in modo così coeso, come se il potere fosse un tutto unico ed estraneo che dispone a piacimento del corpo altrui? molte letture vedono invece nella fine del patto sociale fordista il ruolo fondamentale dell’iniziativa operaia (negri lo dice da 75, non è che siaproprio una novità) e che solo se si vede questo livello di iniziativa autonoma si possono vedere oggi strade di uscita progressive e non solo difensive o regressive (e anche negri non è un santino, anche lui imo dice spesso sciocchezze, ed è solo uno dei tanti)

  75. @roberto

    – Be’, personalmente, io uno come Mahmoud non lo farei nemmeno sedere al tavolo delle trattative (agli storici negazionisti li arrestiamo quando scrivono certe stronzate). E non credo di essere uno sporco sionista.

    No, sei solo un povero stronzo.

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andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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