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Picchiarsi è un po’ partire

di Christian Raimo

Marco organizzava risse tra i ragazzini di borgata. La telecamera in mano aveva un potere di catalisi. I romani in vacanza, la città svuotata tranne che tra i condomìni giallini e ocra che costituiscono la striscia abitativa attorno al Raccordo Anulare. Scendevamo dagli autobus e allunavamo in una piazzetta qualsiasi. Le comitive della domenica, davanti a un muretto o a un bar. Piazza Gaslini a Rebibbia, oppure davanti al supermercato Sir a San Basilio, oppure il pratone in discesa dietro Corviale, oppure un cortile nella parte interna del Tufello, dopo via delle Isole Curzolane, dove alla fine eravamo di casa. Marco si trasformava in una persona calorosa, fraterna. Si avvicinava a ‘sti pischelli sparsi con l’aria di un turista smarritosi. Un giovane tizio straniero – aveva un viso pieno d’estate, latinoamericano – che ha sbagliato fermata dell’autobus e invece di arrivare all’ingresso di Castel S. Angelo si ritrova alla scala N di un palazzo Iacp. Chiedeva informazioni. Che cos’è qui? Che ci fate voi qui? Marziano, gentile. E poi sfruttava la lusinga della telecamera. Inventava di essere un regista in erba, uno che fa documentari.
“‘N che?”.
“Uno che filma la realtà”.
“Ah. Ma che c’hai da firmà?”.
E l’atteggiamento dei ragazzini cambiava. Li solleticava col senso di competizione. “Domenica scorsa sono stato alla Garbatella e ho filmato una rissa tra quaranta ragazzi. Vorrei filmarne una con cinquanta, sessanta. Ho pensato che qua c’era più gente che a Garbatella. Secondo voi, ce ‘a fate a rimedià sessanta persone che s’azzuffano tutti contro tutti? In un’ora?”
“Sessanta de noi che se menano?”
“Eh”.
Si consultavano. Non capitava mai che chiedessero un perché serio. Perché avrebbero dovuto inscenare una megarissa appena dopo pranzo di una domenica d’agosto? “Se po’ fà”. Passavano parola, citofonavano alle varie scale, qualcuno si prodigava in una corsetta per avvertire comitive piazzate dall’altra parte del quartiere. Arrivava sempre anche un tipo più grande, a osservare. Un ragazzo, o un adulto vero e proprio. Un padre, con un predicozzo in canna, che gli si scioglieva subito di fronte all’espressione ingenua e incredibilmente responsabile di Marco: “Vuole darmi una mano a organizzare il set?”, lo anticipava.
Quindi, adunata tutta l’infanzia e l’adolescenza del quartiere, chi a vedere chi a partecipare – era sempre pieno di bambini piccoli che rispetto all’autorevolezza della telecamera si mettevano in fila su un lato, da spettatori perfetti –, diviso sommariamente il numero in due o tre bande avversarie per instillare la scintilla delle ostilità, Marco dava il ciak per la mischia, senza praticamente aver dato nessuna istruzione tranne: “Non pensate a niente. Voglio fare una scena di tutti contro tutti. Una cosa tipo rugby”. E si menavano. In cinquanta, in sessanta, di media. Il record lo stabilimmo a Val Melaina, proprio nell’ultima di queste ammucchiate: la organizzammo con due settimane d’anticipo, la voce si sparse, e vennero a frotte da quartieri distantissimi: contammo centotrentotto ragazzini, ma erano anche di più.
Sullo sfondo di questi palazzi a dodici, quindici piani, con qualche mamma affacciata senza farsi vedere, e in fondo non solo preoccupata ma orgogliosa del proprio figlio che le dava al figlio di quella del piano di sotto. Non era un vero e proprio colpire. Si buttavano tutti su tutti, pogavano, si ammassavano uno addosso all’altro. Nel momento in cui scattava il gesto di cattiveria c’era la controzuffa di liberazione.
A rivederle a casa, erano uno spettacolo. Marco era bravissimo a riprendere, tutto sempre in campo largo. Qualche ragazzino si estraniava dalla lotta, faceva un giro di cabotaggio e si rituffava nel mucchio. Di testa, a dare botte altezza lombari. Due si rotolavano fra loro, e immediatamente arrivava la pioggia di corpi che li copriva. Tre, quattro si mettevano culo contro culo tipo organismo unico che doveva spaccare il resto della calca. Bambine che si svegliavano all’improvviso dal ruolo di claque e assestavano pugnetti puntuti sulle cosce di uno coinvolto a terra da una pura competizione di pesi corporei. Spallate fino a sfinirsi, bom bom bom. Tiro alla fune con persona: si prende una vittima e dieci lo tirano da un braccio, dieci dall’altro. Gara di lancio in aria: le squadre non si sono ancora confuse, ognuna cattura uno del fronte opposto e si fa a gara a chi lo lancia più in alto. Quando l’abbrivio della furia iniziale si perdeva, Marco s’inventava un pretesto per riscatenarlo. Fregare le scarpe, e tutti a acchiappare le gambe altrui, a branchi, attenti che nessuno nel frattempo fregasse le proprie. Gavettoni, buste di plastica riempite alla fontana. Ragazzini inondati d’acqua. Alla Magliana su un tipetto con la faccia da cazzo, da quello bravo a catechismo, si accanirono in trenta continuando a rovesciargli addosso litri, litri di acqua, con le buste, con i secchi e i catini che andarono a prendere a casa: non poteva muoversi o scappare. Appena l’acqua gli colava sul corpo, qualcun altro già aveva caricato un nuovo diluvio addosso. E Marco a quel punto si avvicinava. Era semplicemente attratto. Riguardando le cassette, capivi che quello che desiderava era catturare, attraverso l’occhio della telecamera, i mutamenti emotivi, le trasformazioni di quello che non era immediatamente visibile. Il momento in cui il divertimento si trasforma in disagio. Il bambino a terra da solo che piangeva. Quello che si guarda i lividi sulle gambe e si accende di rabbia. Quando anche per caso, la telecamera coglieva questi lampi, lui lasciava tutto il resto della scena e non si staccava. Centellinava la batteria residua, per seguire pedissequamente il movimento di frantumazione dell’energia della violenza. Solo quando l’energia stava veramente scemando, solo allora spegneva la telecamera, e ringraziava tutti.

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8 Commenti

  1. raimo, gradirai la colonna sonora???
    sembra scritto con i csi in sottofondo
    saluti Daniele!

    “[…]come un animale che non sa cos’è il dolore
    guardo il mondo con occhio lineare
    come un animale che non può capire
    guardo il mondo con occhio lineare
    come un animale nel tempo di morire
    cerco un posto che non si può trovare
    come un animale nel tempo di morire
    mi accontento di un posto in cui sostare
    come un animale nel tempo di morire… […]

  2. Ma tipo giocare per il gusto di menare e tirare le pietre ai gatti no, eh? Proprio vero che il filmazzo ce l’abbiamo nella corteccia.

  3. caso strano,le uniche persone del Tufello che mi è stato concesso di conoscere erano due commilitoni che trascorrevano il tempo congegnando e mettendo in opera mandrakate che non sarebbero riuscite in pieno neppure nei sogni.E comunque per non andare lontano il surreale racconto è a mio avviso ampiamente verosimile.Ricordo un agosto che non avremmo voluto far finire in cui con l’amico Christian(non Raimo)giocavamo a prenderci a gomitate sui gomiti nella borgata marina che di li a poco avrebbe intravisto le nostre prime conquiste immaginarie.Un vecchio profugo istriano ci passò accanto apostrofandoci simpaticamente con un “Bei coglioni”,lasciandoci beati,perplessi,e con un sorriso incerto che che ci sarebbe diventato familiare

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