Dove guarda l’uccello a forma di domanda

Sul De Bestiarum Naturis di Andrea Pedrazzini

di Massimo Rizzante

Pedrazzini disegna come Rabelais, sente come Plutarco.
Di qui, in primo luogo, il lato comico, non burlesco, non vignettistico, non caricaturale del suo tratto.
Il comico si fonda su un’acuta osservazione dell’infinita varietas della natura e sull’altrettanto infinita potenzialità della fantasia di mettere alla prova ogni travestimento dell’umano, ogni suo irrigidimento moralistico, ogni suo atteggiamento pedagogico, ogni sua pretesa astratta di giudicare dall’alto gli eventi umani e non umani: nelle creazioni comiche il trionfo della sovrana ragione del riso vince sulle ragioni della serietà. L’uomo davvero serio è colui che non si prende sul serio, e soprattutto, come Pedrazzini ci mostra attraverso i suoi animali, non prende sul serio l’Uomo.
Panurge, il personaggio di Rabelais, vorrebbe sposarsi, ma non sa decidersi. Chiede consiglio a Pantagruele, il quale ha un’idea: farsi portare le opere di tutti i grandi sapienti dell’antichità, Omero, Platone, Aristotele, Virgilio e aprire per tre volte a caso ciascuno dei loro scritti. Leggendo ogni volta il passo corrispondente, prima o poi – Pantagruele ne è certo –, la risposta salterà fuori. Dopo dotte e interminabili disquisizioni, i due, sconfortati, si danno per vinti, tanto che Panurge pensa di giocarsi la sorte ai dadi. In seguito, chiede consiglio un po’ a tutti, sacerdoti, cabalisti, filosofi, ma niente: nessuno è in grado di rispondere al suo fondamentale quesito: «Devo sposarmi oppure no?». La sua «fantasia» di matrimonio, così la chiama Rabelais, si scontra contro la «realtà» dei suoi interlocutori, che rappresentano un sapere tanto enciclopedico quanto inutile.
Di che stupirsi? Per tutti i Sorbonagri di questo mondo il sapere è una cosa talmente seria da non contemplare né la «fantasia» fin troppo umana di Panurge né quella fin troppo popolata da animali di Pedrazzini.
Nell’opera di Pedrazzini c’è, tuttavia, una radice più antica, e in fondo eretica.
Che cosa pensiamo quando pensiamo al rapporto tra uomini e animali?
Fin dalla nostra antichità, i Greci ci hanno offerto grosso modo due vie di interpretazione, che senza molti scossoni sono arrivate fino a noi.
Aristotele, il primo grande catalogatore, ci ha fornito una classificazione descrittiva delle specie animali (più di 540!), corredata da un’imponente messe di informazioni e spiegazioni relative ai singoli fenomeni, affermando, come faranno poi Porfirio, Plinio il Vecchio, Claudio Eliano, Agostino, San Tommaso, Cartesio, Kant e ancor oggi illustri scienziati americani, che la differenza tra uomo e animale risiede nel fatto che quest’ultimo è privo di «ragione» (e di «anima immortale») e che essendo l’universo regolato da leggi che possono essere comprese solo dalla ragione umana, l’animale deve limitarsi a seguire ciecamente quelle leggi, vivendo e morendo per l’eternità nella notte degli istinti.
La seconda via, che precede cronologicamente la prima, è quella del mito, terra di poeti (da Omero a Poe, da Ovidio a Borges). Il mito introduce nell’universo primordiale – che poi per Aristotele sarà regolato «secondo ragione» – esseri ibridi, formati da parti animali e umane. Di più, il mito si compiace di trasformare dei e uomini in animali grazie a una legge difficilmente comprensibile «secondo ragione», ovvero la legge della metamorfosi. Tuttavia, se Zeus s’intrufola per un breve periodo in un corpo di toro per montare una sua giovane conquista, gli uomini, salvo rare eccezioni, sono condannati a rimanere bestie per sempre. L’uomo, anche per il mito, è in fondo più simile agli dei (o a Dio) che a un animale, il quale è più simile a una cosa. Tali incastri apriranno poi la via a una concezione antropomorfica della natura animale, con tutte le sue prerogative simboliche, allegoriche, teologiche o semplicemente speculari, che avrà nelle diverse epoche le sue manifestazioni più tipiche nella favola, nei bestiari, nei fumetti.
Esiste però una terza possibilità di concepire il rapporto tra uomo e animale, e questa è rappresentata da Plutarco, il celebre autore delle Vite parallele, nato nel 47 d. C. a Cheronea e vissuto, pare, fino al 127 d. C.
Plutarco, nei suoi Moralia, dedica alcuni scritti agli animali. Il più noto, De esu carnium (Del mangiare carne) è una breve serie di «logoi», in cui si critica l’uso umano di alimentarsi con carne animale. In un’altra operetta in forma di dialogo, intitolata Bruta animalia ratione uti (Gli animali usano la ragione), l’autore rielabora a suo modo il celebre episodio dell’Odissea in cui la maga Circe, trasformati i compagni di Ulisse in porci, cede alle preghiere dell’eroe liberando i malcapitati dall’incantesimo. Nel suo dialogo Plutarco immagina che Ulisse, vista esaudita la sua richiesta, chieda a Circe che vengano sciolti dall’incantesimo anche gli altri Greci che pascolano nel giardino. Costoro, tuttavia, con grande sorpresa dell’eroe, non desiderano affatto ritornare uomini. Uno di loro, un porco dall’aria particolarmente sveglia, spiega a Ulisse con tagliente retorica e abbondanza di argomentazioni il perché: gli animali, essendo più vicini dell’uomo alla natura, scelgono e praticano le azioni che sono loro necessarie. «Dunque ammetti già – afferma il porco rivolgendosi a Ulisse – che l’anima degli animali è più felicemente predisposta per natura alla nascita della virtù ed è più compiuta a tale scopo; perché senza avere ricevuto imposizioni né insegnamenti, per così dire, senza semina né coltura, essa produce e fa crescere naturalmente la virtù adeguata a ciascuno di loro».
Il sentimento di Plutarco, che fa da sottofondo ai suoi scritti sugli animali, è quello di un’autentica fedeltà all’infinità varietà della natura, non solo umana. Nelle sue parole, cioè, il concetto di giustizia, paradigma centrale dell’esperienza per i greci, viene esteso con un atto di coraggio a tutte le altre specie animali. Per imporre la sua “eresia”, egli adotta non solo le armi della retorica, ma anche quelle della comicità. A volte noi uomini, per comprendere le sopraffazioni che la nostra stessa ragione regolatrice dell’universo compie, abbiamo bisogno di un porco travestito da sofista o, come si vede in un disegno di Pedrazzini, di un topo stilita in grado di leggere su un interminabile papiro che ruota nel buio di una biblioteca-cloaca i significati reconditi delle nostre abitudini e dei nostri comportamenti.
Plutarco, inoltre, con la sua riflessione, compie un passo definitivo e a cui bisogna sempre tornare se si vuole sostare, foss’anche in punta di china, sulle «proprietà» o «nature» degli animali. Il suo è un atto di solidarietà nei confronti di questi testimoni muti della nostra tragicommedia. Se il demiurgo dell’universo ha voluto innalzare un muro di silenzio tra noi e gli animali, imprigionando noi e loro in un linguaggio reciprocamente indecifrabile, egli non ci impedisce di condividere ciò che ci rende tutti, uomini e animali, eguali, ovvero il comune sostrato di vita, il fatto di essere creature incarnate in un corpo in grado di assaporare la semplice sensazione di essere.
Ai sentimenti di fedeltà, di solidarietà e di empatia nei confronti di tutti gli animali, propri di Plutarco, nei disegni di Pedrazzini si aggiunge un atto di ribellione. Gli animali di Pedrazzini, infatti, non esistono in natura. Quali proprietà potranno mai possedere animali che non fanno parte del nostro mondo? L’infinità varietà della natura, grazie al gesto di rivolta dell’artista, sperimenta l’infinita varietà della fantasia: come se nei disegni di Pedrazzini la fantasia volesse continuare il gioco della natura, come se per Pedrazzini nulla potesse davvero essere visto e compreso in natura senza la forza della fantasia. La sola differenza tra la zoologia scientifica e quella fantastica del disegnatore è che ogni esemplare della sua fantasia, a differenza di quanto vediamo intorno a noi, è una specie in sé, un individuum tanto inaspettato quanto irriproducibile.
E ancora. Pedrazzini osserva come un enciclopedista settecentesco precursore di Kafka e sogna come un Alfred Jarry rivisitato da Cortázar.
La sua è una scuola di alta precisione dove lo spazio, proprio come nelle tavole scientifiche del Settecento, viene smembrato e anatomizzato al fine di creare molteplici punti di vista, compreso quello dell’animale che quello spazio occupa. La sua stessa scelta tecnica, il disegno a china, sottende una volontà etica di rifuggire dal vago, dall’esornativo, da ogni tentazione barocca. Pedrazzini privilegia l’avvicinamento descrittivo, il lento scavo nell’essenza di una «natura» attraverso una cura maniacale dei dettagli. Tutto ciò, un po’ come in Kafka, produce un duplice effetto: più si osservano i suoi strani animali più essi ci sembrano famigliari (in Kafka avviene esattamente il contrario); più ci addentriamo nelle loro «nature», più ci viene sottratto quel potere che l’uomo esercita su di loro, tanto che essi, veri o fantastici che siano, si trasformano in esseri simili a noi, come noi incarnati in corpi finiti e transeunti. Guardando i disegni di Pedrazzini mi sono sentito spesso sollevato da quella che sempre Kafka chiamava «l’angoscia della posizione eretta»; liberato dal mio stesso potere; affrancato finalmente dalla mia stessa «natura» umana.
Sebbene ispirato dalla ragione settecentesca, Pedrazzini non è un enciclopedista che pensa che tutte le «nature» si possano descrivere e spiegare secondo l’ottimismo scientifico e filosofico del XVIII secolo. L’universo, per un artista degli inizi del XXI secolo, se è reale non per questo è realistico: non è un sistema armonico di principi e di rapporti di causa ed effetto e neppure uno zoo dove non esistono specie sconosciute. Ciò che lo caratterizza è anzi una pantagruelica varietas delle forme. E in questo universo, che vive e si moltiplica, egli, come il provetto Faustroll di Jarry, non smette di pensare che il vero studio della «natura» sta nell’applicarsi con umiltà e devozione soprattutto alle sue eccezioni apparentemente incredibili, fantastiche, o solo dimenticate. Detto altrimenti e prendendo a prestito le parole di Julio Cortázar – dopo Kafka forse il più grande osservatore della zoologia umana dal punto di vista degli animali –, ogni atto artistico, in quanto «sospensione della credulità» (Coleridge), è una «tregua» dal «duro, implacabile assedio che il determinismo fa all’uomo». L’arte è un atto insieme di nostalgia e di ribellione, grazie al quale gli uomini, afferma Cortázar, «cessano di essere se stessi e la propria circostanza» e dove desiderano «essere se stessi e l’inaspettato, se stessi e il momento in cui la porta che prima o poi dà sull’ingresso si socchiude lentamente per lasciarci vedere il prato dove nitrisce l’unicorno»…
O dove dondola il Tapire roulant di Pedrazzini, o dove guarda il suo uccello a forma di domanda che pare trafitto e conficcato al suolo da due bastoncini di legno (a meno che non si tratti della parte superiore delle sue lunghissime ed esili zampe), o dove nuota quel suo grande pesce dall’occhio scettico dentro il quale nuota un altro pesce, molto più piccolo e dall’occhio molto più saccente, che a mo’ di vademecum sembra suggerirgli in una delle tante lingue sconosciute a pescatori e a marinai la rotta da seguire…

Post scriptum

Aristotele, dopo aver catalogato le sue 540 specie animali e averle con minuzia aristotelica descritte, affermò, come è noto, che «il riso è una caratteristica propria dell’uomo».
Gli animali di Pedrazzini mi trasmettono quel sentimento di fedeltà all’infinità varietà della natura che è alla base stessa della loro creazione. Non solo. Mi rendono partecipe delle loro «nature», per quanto queste possano sfuggire al nostro quotidiano incubo deterministico.
Provo nei loro confronti una profonda empatia. Sento il loro dolore. Mi ribello alla loro incolpevole e ingiusta esclusione dalla nostra vita di esseri tanto potenti quanto angosciati della nostra posizione di potere. A tal punto che a volte divento uno di loro. Proprio come adesso. E rido. Quello che prima era una fantasia, adesso, ve lo assicuro, è una realtà.
Non date retta ad Aristotele, ad Agostino, a San Tommaso, a Kant, ai post-umanisti del XXI secolo. Ridere, come diceva Rabelais è «soprattutto cosa umana», ma non esclusivamente cosa umana. Adesso che anch’io sono diventato una creazione di Pedrazzini lo so: l’uomo non è l’unico animale che sa ridere!

DE BESTIARUM NATURIS
disegni di Andrea Pedrazzini

testo introduttivo di Massimo Rizzante

12 giugno – 12 luglio 2008
inaugurazione Giovedì 12 giugno, ore 18.

GALLERIA D’ARTE DAVICO
Gall. Subalpina 30 – 10123 Torino
Tel. 011-562.91.52
galleriadavico@virgilio.it

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7 Commenti

  1. E’ il solito vizio dell’Occidentale che si crede L’uomo.
    Lessi, una volta, ma non saprei, se non con grandi difficoltà, ricostruire dove, un bel saggio sulle culture in cui è invece L’Animale che precede uomini e déi.
    [Per tutti: i miti degli Indiani d’America e il bellissimo libro di Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi].
    Sono infatti Gli Animali che incarnano le Forme pure con cui la Natura esprime Se stessa al livello più alto. L’Alfabeto della Vita.
    Noi ne siamo la forma degenerata, e gli déi frutti delle aberrazioni della nostra degenerata mente.

    Un grazie a Massimo Rizzante, ma, sopra tutto, ad Andrea Pedrazzini, la nostra ‘coscienza naturale’.

  2. Mi colpisce e mi trasporta l’affondo che l’opera dell’artista sia un gesto di rivolta, che sperimenta l’infinita varietà della fantasia, che concede una tregua al determinismo incombente. Forse l’unica uscita vera dal blocco della razionalità onnicomprensiva, dalla pretesa di incartare il mondo in un pacchetto di fili di ferro. Ottima interpretazione di Pedrazzini.

  3. Bellissimo pezzo che fa venire voglia di approfondire l’opera di Pedrazzini. In particolare trovo assai condivisibile il sentimento di sollievo, che Massimo Rizzante descrive proprio bene e che deriva dall’addentrarsi nell’altro da sé, nella vita animale. E’ una cosa quasi commovente quando succede, liberatoria come il riso.

    (p.s. I racconti indiani di Angulo sono davvero uno scrigno prezioso)

  4. Per tutti i Sorbonagri di questo mondo il sapere è una cosa talmente seria da non contemplare né la «fantasia» fin troppo umana di Panurge né quella fin troppo popolata da animali di Pedrazzini.

    Tommaso Campanella [Stilo di Calabria 1568, Parigi 1639] per non esser condannato dal tribunale ecclesiastico per eresia e lesa maestà si finge pazzo, (i pazzi non potevano essere messi a morte per l’impossibilità in articulo mortis del pentimento estremo per le proprie colpe) e per lunghi anni, resistendo a torture inaudite, rispondeva ad ogni domanda degli inquisitori implacabili con una frase di delicata follia poetica: “Dieci cavalli bianchi.”

    Nella sua La città del sole [1602], scritta nel buio umido e puzzolente della “fossa del coccodrillo” nelle segrete di Castel Sant’Elmo, corrompendo i carcerieri a portargli qualche moccolo di candela e brandelli di carta, immagina le pareti circolari concentriche del tempio sul colle più alto della sua solare città ideale affrescate con una specie di Encyclopédie a murales, in anticipo di cent’anni nello spirito positivista.

    Uno dei principii positivi, emanazione del principale, il Sole, o Metafisico, che regola la città con Amore e Potestà, Sapienza

    ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze.

    Ci sono stelle e pianeti e figure matematiche, planisferi, alfabeti, usi e costumi, pietre preziose, minerali, metalli, caraffe di liquori, inventori, arti meccaniche, personaggi storici e la folla variopinta del mondo animale e vegetale, che potremmo senza fatica immaginare disegnata da Pedrazzini, con questo suo spirito di somiglianze, metamorfosi e mescolanze fantastiche, in cui animali mitici come la fenice stanno vicino ai volgari tafani, con lo stesso sorriso che aleggia simile a quello del gatto del Cheshire di Carrol:

    Nel dentro del terzo vi son tutte le sorti di erbe ed arbori del mondo pinte, e pur in teste di terra sopra il rivellino e le dichiarazioni dove prima si ritrovaro, e le virtù loro, e le simiglianze c’hanno con le stelle e con li metalli e con le membra umane, e l’uso loro in medicina. Nel di fuora tutte maniere di pesci di fiumi, laghi e mari, e le virtù loro, e ‘l modo di vivere, di generarsi e allevarsi, a che serveno; e le simiglianze c’hanno con le cose celesti e terrestri e dell’arte e della natura; sì che mi stupii, quando trovai pesce vescovo e catena e chiodo e stella, appunto come son queste cose tra noi. Ci sono ancini, rizzi, spondoli e tutto quanto è degno di sapere con mirabil arte di pittura e di scrittura che dichiara.

    Nel quarto, dentro vi son tutte sorti di augelli pinti e lor qualità, grandezze e costumi, e la fenice è verissima appresso loro. Nel di fuora stanno tutte sorti di animali rettili, serpi, draghi, vermini, e l’insetti, mosche, tafani ecc., con le loro condizioni, veneni e virtuti; e son più che non pensamo.

    ,\\’

  5. ringrazio Massimo Rizzante che mi costringe a meditare sulle sue parole e sui disegni di Pedrazzini…

    la prima cosa che mi è venuta in mente è stata: Agamben:
    “Il conflitto politico decisivo, che governa ogni altro conflitto è, nella nostra cultura, quello tra l’animalità e l’umanità dell’uomo”, così che “chiedersi in che modo – nell’uomo – l’uomo è stato separato dal non –uomo e l’animale dall’umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani”

    allora mi viene da pensare che la separazione contro natura dell’uomo dalla sua animalità, cioè dalla sua anima, sarebbe all’origine di disumana, mostruosa bestialità, tanto più l’uomo si accanisce ad espellere sé dai suoi animali, tanto più questi si prenderanno la rivincita incalzandolo, perseguitandolo se non con la violenza, con il ludibrio, come nella favola in Divisione Cancro di Solgenitsin, (la seconda cosa che mi è venuta in mente), in cui all’uomo, che si lamentava, scontento e irritato da tanto affronto, per aver Allah distribuito a tutti gli animali una vita lunga 50 anni, e avendogliene assegnati solo 25, proprio a lui, l’uomo(!) Allah rispose: “Fa’ come vuoi, l’hai voluto tu. I primi 25 li vivrai da uomo, gli altri 25 lavorerai come un cavallo. Gli altri 25 ancora abbaierai come un cane. E per gli ultimi 25, rideranno di te come ridono delle scimmie”
    La più mostruosa delle metamorfosi non sarebbe quella dall’uomo all’animale, ma dall’animale all’uomo che dimentica di essere un animale: alle metamorfosi di Ovidio, preferii sempre quella di Apuleio e del suo asino Lucio, che mostra quanto abbia ancora l’uomo ad imparare dall’animale.
    L’uomo dovrebbe piuttosto sistemarsi senza alcuna gerarchia, senza vantare alcun diritto di precedenza, tra le varie voci di quel catalogo senza né capo né coda che è l’Emporio celeste dei conoscimenti benevoli di Borges e che tanto fece ridere Foucault da costringerlo a meditare sull’eteroclito ovvero delle parole e le cose ovvero, io direi, sull’uomo e come prendersene cura, ovvero come guarirlo da se stesso.

    Kojève: “l’uomo è la malattia mortale dell’animale”

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