Scrittura, guerre

di Marco Rovelli

Tre settimane fa Alessandro Baricco ha dato un’intervista multipagine al Venerdì di Repubblica, in cui, come ha sintetizzato Gigi Spina su Nazione Indiana, ha parlato “in anteprima dell’ultimo romanzo, che ancora ha da uscire, descrivendone tutto… tutto quello che si dovrebbe fare dopo che un libro è uscito, è stato venduto, ha avuto successo o è stato ‘ignorato’, e quindi si chiede all’autore di commentare i suoi commentatori.” In questa intervista Baricco ha detto: “Metterei lo scrivere al pari di altri mestieri. Come fare scarpe a mano, o suonare la viola da gamba”. Oggi, dice, è un iPhone a meritare il nome di “arte” più di un libro. Sulle pagine web de Il Primo Amore, Antonio Moresco ha risposto dando a Baricco dell’irresponsabile, dicendo: Parla per te. E domanda: “Perché, nel campo nevralgico della letteratura, dell’immaginario, della prefigurazione artistica e di conoscenza sembra essere stata bandita ogni idea di quella grandezza che invece si domanda giustamente ad altri? Ma, se questo è o può solo essere uno scrittore, come può chiedere alle altre donne e agli altri uomini di regalargli il prezioso tempo della loro vite per leggerlo? Che cosa dà, che cosa aggiunge al mondo?”. Moresco, reclamando il diritto/dovere del gesto scritturale di scardinare il mondo sapendo immaginare nuove prospettive di vita, dice cose sacrosante. Ciò che imputa a Baricco è pienamente condivisibile. Ma poi, oltre a Baricco, se la prende pure con chi tenta oggi di analizzare la letteratura contemporanea senza limitarsi a liquidarla sdegnosamente, ma leggendola come un sintomo del presente, primo passo per un’uscita dal suo vicolo cieco.  Nell’opposizione polare tra sé e Baricco, lascia scoperta tutta la zona di mezzo, di indistinzione, che è invece la cosa più interessante da esplorare, e, trovandola inappropriabile, la consegna al “nemico”: nella sua invettiva anti-baricchiana infatti Moresco se la prende con quei libri sul trauma, e sulla letteratura come sintomo (dove il riferimento diretto è  il lavoro di Daniele Giglioli), attribuendo peraltro a quella che è solo la descrizione di un presente la volontà di prescrivere un avvenire, ciò che invece un Giglioli non fa  – tutt’altro, direi.  Questa barricata non è utile – direi piuttosto che è al limite dell’autolesionismo – se si vuole contrastare la visione della letteratura meramente appiattita sul presente. Occorre scendere nelle contraddizioni reali, saperle leggere. Forse, allora, la cosa più rilevante di questa polemica sta nel tracciare i confini dell’immagine di sé che hanno i due scrittori antagonisti.

(pubblicato in versione ridotta su l’Unità, 19/11/2011)

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15 Commenti

  1. Prima ancora di decidere se bisogna puntare in alto o abbassare le pretese, bisognerebbe cercare di capire lo stato della situazione.

    Quanto conta oggi la letteratura? che tipo di pubblico raggiunge? Quanto e soprattutto quando puo’ influire sull’immaginario e quindi (sicuri?) ambire a un qualche cambiamento che travalichi i confini letterari.
    Chi e come ha avuto un impatto sulla societa’ fra gli scrittori e le scrittrici del secondo novecento e degli ultimi dieci anni?

  2. @ Marco Rovelli
    secondo me il senso del discorso di Moresco è leggermente diverso da come lo interpreta lei.

    Lei scrive: «se la prende pure con chi tenta oggi di analizzare la letteratura contemporanea […] leggendola come un sintomo del presente».

    Moresco in realtà ha scritto: «Siamo circondati da libri e libretti che ci dicono e ci ingiungono […] che la letteratura può essere al massimo un sintomo e non invece – anche – svelamento, prefigurazione, invenzione, pensiero, verità, profezia».

    La presenza di quell’«anche» è significativa. Moresco intende, per come ho letto io il passo, che la letteratura è, insieme, sintomo e svelamento. Tutt’altra cosa da quello che lei gli imputa.

    Così come là dove lei scrive che «Moresco se la prende con quei libri sul trauma», in realtà Moresco parla di libri che dicono che «non c’è più il trauma (magari!)» – sono due cose diverse, anche se possono condurre allo stesso libro; e siccome in quello di Giglioli si parla esplicitamente di assenza di trauma, Moresco non ha operato alcuna forzatura.

    Allo stesso modo, Moresco non attribuisce al libro di Giglioli nessuna «volontà di prescrivere un avvenire»; questa è una caratteristica che Moresco attribuisce non al libro sul «trauma», bensì alla letteratura «che vola alto», alla sua e non solo.

    La sua mi sembra una difesa d’ufficio di Giglioli, più che una critica alla “visione” di Moresco.

    Lei scrive una frase molto ambigua: «occorre scendere nelle contraddizioni reali, saperle leggere». Dall’insieme del suo articolo, ne potrei ricavare che per lei nei libri di Moresco non si esprimono tali «contraddizioni». Ora, siccome il sottoscritto ne *I Canti del Caos* ne ha colte parecchie, e anche di sostanziali, mi chiedevo se per caso la sua irritazione non sia rivolta alla sfuriata di Moresco contro il «reale» e il «neorealismo» …

    Stan. L.

  3. Stan,
    grazie del tuo intervento.
    Quel che io leggo è questo: Moresco ha attaccato frontalmente “libri e libretti” da cui saremmo “circondati” – un assedio dunque! La connotazione è evidentemente negativa, fortemente negativa. Tra queste varie tipologie di libretti assedianti riconosco principalmente “Senza trauma” di Giglioli (vi allude due volte, dunque è l’oggetto principale del dissenso). Senza trauma insomma è il condottiero degli assedianti.
    Viene imputato a quei libri e libretti (con i loro “strascichi mentali tardonovecenteschi, con il loro carico contagioso di disillusa arroganza e chiusura”) il fatto che “ingiungono” di concepire la letteratura come sintomo, al massimo. Ingiungere è evidentemente un fatto prescrittivo. Ma nelle tesi di Giglioli non c’è nulla di prescrittivo. Dire questo significa non averlo letto. (E’ questa la forzatura: non è vero che dica che “la letteratura può essere al massimo un sintomo”, come invece afferma Moresco! – anzi, dice esplicitamente che leggere il presente, che ci piaccia o no, come un sintomo, è il primo passo per uscire dalla sua impasse)
    Per giunta, le tesi contenute in quel libro non c’entrano nulla con il discorso che fa Baricco. Ma proprio nulla. Moresco invece mette tutto nello stesso sacco. In continuità con una sindrome da accerchiamento, del resto. Se ci si sente dentro delle mura fortificate, tutto quel che si muove fuori appare come nemico. Ed è questa la percezione che Moresco ci enuncia.
    (Però, questa non è una difesa d’ufficio di Giglioli, che non ha certo bisogno delle mie difese d’ufficio… E’ semplicmente la constatazione di uno che il libro di Giglioli lo ha letto attentamente e assai apprezzato).
    Infine, tu Stan scrivi:
    Lei scrive una frase molto ambigua: «occorre scendere nelle contraddizioni reali, saperle leggere». Dall’insieme del suo articolo, ne potrei ricavare che per lei nei libri di Moresco non si esprimono tali «contraddizioni». Ora, siccome il sottoscritto ne *I Canti del Caos* ne ha colte parecchie, e anche di sostanziali, mi chiedevo se per caso la sua irritazione non sia rivolta alla sfuriata di Moresco contro il «reale» e il «neorealismo» …
    Doppio no. Non intendevo assolutamente negare alcuna qualità dei libri di Moresco. Né mi riferivo alla sfuriata contro il realismo. In merito a questo, l’unica mia tesi è che cento fiori possano sbocciare. Non ho mai pensato che vi siano prescrizioni di sorta nella letteratura. Anzi, è proprio il gioco del rubabandiera che non ho mai sopportato. Credo che debbano esistere modalità differenti e pure opposte per raccontarci il mondo – qualsiasi mondo.

  4. Jacopo, concordo con te, un’impostazione del genere sarebbe auspicabile, come materiale da cui partire.

  5. Moresco nel suo scritto è sembrato negare ogni possibilità di definizione stabile di letteratura salvo poi domandarsi retoricamente (e quindi affermare):

    “Ma, se questo è o può solo essere uno scrittore, come può chiedere alle altre donne e agli altri uomini di regalargli il prezioso tempo della loro vite per leggerlo? Che cosa dà, che cosa aggiunge al mondo?”

    Se la definizione implicita che si ricava da queste domande retoriche è che letteratura è quanto “aggiunge”, “dà”, “ciò che non toglie tempo prezioso” in questo modo si taglia fuori tutta la letteratura che “non aggiunge”, “non dà” e “sottrae tempo prezioso” ossia se ne ricava una di quelle possibilità di definizioni stabili che Moresco andava negando sistematicamente – e intendiamoci, secondo me, per niente a torto.

    In tutto questo tra l’altro, compiendo un’operazione simile a quella già suggerita da Jacopo Galimberti, resta da stabilire quali siano i libri che “aggiungono”, “danno”, “non sottraggano tempo prezioso” e anche che cosa significhi eattamente “sottrarre tempo prezioso”, se esista una definizione univoca, non contrattabile, che metta tutti d’accordo.

    Ad esempio, se un autore afferma (come è stato fatto): “Quello che faccio quando scrivo è cucinare succulenti hamburger di MacDonald’s”, questa affermazione è forse la prova che quell’autore scriva veramente libri che “non aggiungono”, “non danno”, “sottraggono tempo prezioso”?

    Evidentemente no.

    (E naturalmente il discorso vale anche alla rovescia – ossia non basta condire il proprio agire letterario con affermazioni importanti e ambiziose per rendere il proprio agire letterario effettivamente importante).

    Io personalmente in tema di letteratura invoco uno stop definitivo alle definizioni.

  6. @ Marco Rovelli
    le frasi di Moresco sul “senza trauma” sono laterali al discorso, lo attraversano solo di striscio; per questo mi sembra che lei ci dia troppo peso e, alla fine, la sua mi appare come una difesa d’ufficio. Tra l’altro, il libro di Giglioli riguarda direttamente Moresco; e perché mai non dovrebbe essere autorizzato a liquidarlo con una battuta? Davvero non crede che anche Moresco, così come ha fatto lei, lo abbia “letto attentamente”? Sì, Moresco enuncia se stesso come “accerchiato”; però dichiara fin da subito che sta parlando a nome suo e di nessun altro. Non capisco il problema; e continua a sfuggirmi come questo particolare del discorso di Moresco meriti ninete meno che l’attenzione di un articolo su L’Unità! Ribadisco la sensazione della difesa d’ufficio.

    @ Marco Candida
    mi arruolo nell’esercito dello stop definitivo alle definizioni.

    @ Jacopo Galimberti
    dove sta scritto che gli scrittori devono avere un qualche impatto? E se scrivessero solo per se stessi? Mi pare che sia stato Beckett a dire qualcosa del tipo: io scrivo per niente e per nessuno (o forse Joyce, non ricordo).

  7. Anch’io sto parlando a nome mio, e le letture possono essere opposte – tanto dei libri quanto delle lettere. Dopodiché che dire, alle sensazioni non c’è argomento che tenga. Suo aff.mo avv. Rovelli

  8. Il punto forte intorno al quale stiamo girando da tempo su queste lande indiane, a proposito del giudizio di qualita’ letteraria spettante alla “competenza” accumulativa, orizzontale di chi e’ del mestiere e di chi si inquadra nella sua pratica sociale, piuttosto che al “talento” una tantum di chi crea in proprio e riconosce pari creatori in modo verticale, e’ drammaticamente evidente nel seguente scambio:

    >Stan: Sì, Moresco enuncia se stesso come “accerchiato”; però dichiara fin da subito che sta parlando a nome suo e di nessun altro.

    >>Rovelli: Anch’io sto parlando a nome mio, e le letture possono essere opposte – tanto dei libri quanto delle lettere. Dopodiché che dire, alle sensazioni non c’è argomento che tenga.

    La lettura di Rovelli vale piu’, parimenti o meno di quella di Moresco? Datevi una risposta e vi posizionerete automaticamente nel parlamentino della Repubblica delle Lettere 2011.

  9. Rovelli: non so. La mia questione, per una volta, e’ meno liquidatoria di quel che appare e gioverebbe a questo ed altri dibattiti. Saluti.

  10. Moresco mi è simpatico (l’accerchiamernto è combattivo …!!!), Giglioli,sfogliato in libreria, scorrevolmente intelligente sulle brucellosi letterarie degli ultimi lustri. Anche se mi viene l’asma quando sento disdegnare il fagotto immondo del Tardoovecento. Il secolo più tragico della storia umana, la letteratura più devastata dei nostri destini. Un NEGAZIONISMO rifiutato nelle nostre ossa, ma allegramente profuso nella discarica morale e narrativa del web e editoriale.
    Oh, solo ubbie, di un rimbambito di scritture (avete mai sentito recitare il
    “Canto dell’Odio”, di O Guerini, da un ex carcerato analfabeta?…).
    Ma una “lingua mozzata”, mi ha ricacciato nei sottoscala della mia università.
    In agosto si è svolto sulle pagine del Manifesto, un dibattito durato settimane, di Editors, Caporedattori, Grafici, Agenti letterari, addetti al Marketing e Editori, dallla Mondadori alla Bompiani ad Iperborea, Agenzie ecc, una ventina dei più importanti. Esponendo scouting, modi, tecniche e fini del loro lavoro editoriale. Colonne e formicai di banalità per chi frequenta librerie e studia la produzione editoriale da anni.
    Ma c’era una Verità, un Fine Ultimo che li accomunava tutti:
    sfornare un “BEL LIBRO”, per il Lettore e per il Mercato. “Un bel libro!?”,
    Un “BEL LIBRO!?”, quando mai una persona va in libreria per comprare un “bel libro”!?. Qualcuno desidera un “bel libro!?”. Avete mai parlato tra di voi di un “bel libro!?” oconsigliato un bel libro (salvo la sciatta definizione per i classici?). Silenzio assoluto. Scusate la violenta brevità:
    Goebbels e Zdanov non avrebbero mai immaginato il Mercato e l’industria culturale realizzare i loro sogni. La fantasia,la letteratura nel ventre del popolo. E nel macero manca la scrittura differenziata.

  11. Moresco se la prende con chi cerca di mettere alla letteratura dei limiti “cuciti su di sé”.
    Io leggendo questo articolo mi son fatto una domanda: non sta facendo lo stesso anche Moresco nel suo discorso? E mi sono anche dato una risposta. Provo a metter giù rapidamente il ragionamento come contributo a margine della vostra discussione.
    Forse no. Perché un conto è, come fa lui, dire che la letteratura dev’essere anche “prefigurazione, invenzione, pensiero, verità, profezia” o che deve oltrepassare e spostare l’esistente, e ritenere che i libri di un certo scrittore non vadano in questa direzione. Un altro conto è invece formulare delle teorie che si basano su dei criteri razionali e in qualche modo verificabili. Quella è una gabbia che cala sul tempo presente o anche sul futuro (a seconda dell’autorevolezza) slegata dall’autore. Vedi ad esempio le prescrizioni veramente bizzarre contenute nelle Lezioni americane di Calvino. L’idea di letteratura di Moresco invece – non essendo veicolata in teorie e criteri in qualche modo verificabili – può applicarla soltanto Moresco. Non ha lasciti. E non chiude l’orizzonte ma può essere solo di stimolo a nuove aperture. Mi pare.

  12. Se non ci fosse Moresco, non ci sarebbe Baricco.
    E’ una mia personale parafrasi della nota teoria democristiana degli opposti estremismi. Trovo sostanzialmente autoreferenziale e quindi inutile il primo, e inutilmente decorativo il secondo, più come intellettuali che come scrittori (che ho assaggiato appena e non mi piacciono).
    Lo spazio letterario, come diceva Rovelli, sta nel mezzo, ossia in chi scommette sulla “comunicabilità” della visione, non nella casta degli eletti o nell’estasi della merce.

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marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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