Il posto di Tiresia ( leggendo il Tiresia di Giuliano Mesa)

di Giorgio Mascitelli

Romolo_e_Remo

Se, come è stato scritto ( da Paolo Zublena in Alfalibri n.5  supplemento ad Alfabeta2 n.13, ottobre 2011), Giuliano Mesa è stato l’ultimo dei modernisti, allora è molto probabile che il Tiresia sia il suo lavoro più ultimativamente moderno. Di questo poemetto è già stata sottolineata la centralità nel percorso poetico di Mesa, oserei dire anche di carattere cronologico, risalendo la sua composizione al biennio 2000/01 e dunque non solo agli albori del secolo nuovo secondo il calendario, ma anche alle soglie della caduta delle Due Torri nel quale avvenimento tramonta politicamente e simbolicamente una serie di ottimistiche premesse ideologiche della globalizzazione post guerra fredda.

Tiresia è in realtà una figura arcaica, l’indovino al tempo stesso uomo e donna, cieco e condannato a vedere e capire l’orrore del mondo, che viene evocato fin dall’esergo del poema (“ devi tenerti in vita, Tiresia/ è il tuo discapito”), ma nella mia ipotesi di lettura il Tiresia di Mesa è più in stretto rapporto con quello di The Waste Land che con la tradizione greca: in Euripide, infondo, Tiresia rappresenta la consapevolezza della persistenza delle forze ctonie del mito a fronte del delirio, solo apparentemente raziocinante, della ragione strumentale del potere. In Eliot, invece “benché semplice spettatore e ‘carattere’, è, tuttavia, il personaggio più importante del poema” perché la “sostanza del poema è, insomma, quel che vede Tiresia” ( nota d’autore al v.218 di T.S. Eliot La terra desolata, trad.it, Einaudi, 1983). In altre parole il Tiresia moderno di Eliot è il testimone che dà senso alla visione desolata ossia il poeta ormai deracinè dai processi produttivi capitalistici.

La proposta di questa figura in un poeta come Eliot, teso a rappresentare la decadenza spirituale della modernità in nome di una sensibilità religiosa conservatrice, se non francamente reazionaria, è chiaramente spiegabile, mentre può apparire paradossale che essa diventi una figura di riferimento non solo in Mesa, ma in una tradizione poetica  che riconosce gli aspetti emancipatori della modernità in una battaglia contro i suoi aspetti deteriori. Il Tiresia eliotiano, d’altronde, si inserisce in quanto testimone critico in una linea aperta da Baudelaire e Rimbaud che vede nella modernità un luogo di disastro ma anche di lotta. Dentro questa prospettiva è possibile leggere Eliot come una manifestazione della critica alla società borghese e al capitalismo anche se in questo autore vi è sfiducia nella modernità come progetto di emancipazione; così, a titolo di esempio, si può leggere anche in una prospettiva marxista lo spiritualismo di Eliot come “catalizzatore poetico della crisi dei valori morali laici tradizionali, borghesi, già precipitanti in seguito alla prima guerra mondiale” ( Galvano Della Volpe Critica del gusto, Feltrinelli, 1960, p.58).

Questa precisazione spiega perché il Tiresia di Mesa, lungi dall’avere uno sguardo iniziatico od oracolare, rivolge innanzi tutto uno sguardo politicizzato che ben conosce i rapporti di forza nella società e da dove nascono gli orrori del mondo. Le cinque divinazioni di Tiresia sono altrettante prove della guerra che le leggi del profitto e dell’imperialismo con  implacabile impersonalità conducono contro l’umanità ( la discarica nelle Filippine, la fabbrica di bambole in Thailandia, il commercio di organi umani in Brasile, il progetto Manhattan, le fosse comuni che nei ruggenti anni novanta della pacifica globalizzazione fioriscono un po’ ovunque).

E tuttavia il Tiresia politico di Mesa non ha più a disposizione nessun progetto moderno di liberazione e di progresso entro cui collocare la propria parola poetica e non ha nemmeno una società letteraria che voglia ascoltare la storia della decadenza della civiltà raccontata con stile barbarico/raffinato come per il Tiresia eliotiano. Il testimoniare con lo sguardo e con la parola sono le uniche possibilità anche per il militante politico senza più campo d’azione e sono contestualmente una condanna per il poeta che sa che la sua testimonianza è lettera morta perché si va estinguendo la tradizione letteraria che le attribuisce un senso e un ruolo. Ne segue un appello a una dimensione etica della parola poetica, che mette in scena da un lato l’assenza di sbocchi nella prassi storica e dall’altro il vorticoso cadere delle stesse istituzioni letterarie, volta a instaurare una sorta di agire comunicativo senza canali di comunicazione garantiti a priori. Non a caso le prime due divinazioni, ornitomanzia, la discarica di Sitio Pangako e piromanzia, le bambole di Bangkok, si chiudono con versi esortativi alla dimensione della testimonianza ( Prova a guardare, prova a coprirti gli occhi, la prima; Tu se sai dire, dillo, dillo a qualcuno la seconda).

Questa tensione tra l’impulso etico-poetico a dire e l’impossibilità di uno spazio sociale per dire è la tensione tragica che percorre il poemetto di Mesa e che si manifesta in una parola sempre vicino o meglio sempre strappata al silenzio:  le prime due poesie successive alla prime due divinazioni, pronunciate da una voce poetica più recitativa e sommessa rispetto a quella divinatoria di Tiresia,  si aprono con formule dubitative sull’utilità del dire ( a ridirti che cosa? 1,1 e a chi ne darai conto? 2,1).  Si potrebbe aggiungere che qui vi è una consonanza  con la poetica dell’amato Celan quale viene espressa nel discorso Il meridiano ( contenuto in P.Celan La verità della poesia, trad.it, Einaudi, 1993).

Il tema dell’impossibilità a dire viene ripresa nella poesia 6, posta dopo la terza e la quarta divinazione e sempre dalla seconda voce poetica: “e dire le ultime parole?/ e quali?/ e portarle via con sé?/ e dove?”. A quest’ultima domanda nel testo risponde direttamente, girando pagina, la quinta divinazione, Necromanzia, οἱ ἂταφοι, Massengräber, indicando il dove nella terra  sommersa dalla neve, dove ci sono le fosse comuni. Dunque, l’estrema destinazione delle parole di Mesa o meglio di Tiresia è nelle fosse dei morti ammazzati, dove, nella migliore delle ipotesi e a voler credere a un altro poeta, ci cresce sopra l’erba, oppure verso il nulla. “Ti lascio qui” sono le parole con cui si apre e si chiude il testo che chiude l’intero poemetto. Questo congedo è finalmente il riposo dell’indovino? Non credo in quanto, nella mia lettura, infatti, non  è Tiresia, ma la seconda voce poetica a congedarsi e ad andarsene e a lasciare l’indovino alla sua condanna di continuare a vedere. Questa seconda voce può essere identificata con l’aspetto progettuale o addirittura utopico del poeta moderno  e dunque il suo congedo è quello da un mondo che non è più suo ed è un congedo dalla parola verso il silenzio ( “ questo silenzio che sentiamo insieme/ adesso- è adesso che sappiamo/ in questo momento che divide”). Resta solo lo sguardo rabbioso e terrificato di Tiresia ( rabbioso perché terrificato)

E’ evidente che è presente nel Tiresia un aspetto profetico, comune alla grande poesia moderna, a patto di ricordarsi che nell’accezione biblica il profeta non è colui che prevede il futuro, ma che constata il male del presente o, per essere più precisi, “La profezia nell’Antico Testamento rappresenta sostanzialmente la contestazione del potere politico e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o- diremmo oggi- esterno al sistema, che sa leggere i segni dei tempi al di là degli interessi consolidati e rappresenta la voce di Dio per la condanna dell’ingiustizia e la proclamazione di un cammino di redenzione…” ( da Paolo Prodi Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, 2015). Ora ciò che toglie la parola al poeta profetico è l’impossibilità di indicare un cammino di redenzione, perlomeno in questo mondo, dopo il grande scacco del progetto moderno. Eppure egli è condannato a parlare.

Questa parola profetica va intesa come il prodotto di una sconfitta storica, è un ‘parlare nonostante’ e la prova di ciò è che il linguaggio di Mesa non è contraddistinto da alcun orpello formale oracolare né tanto meno è un picnic in cui l’autore porta il testo e il lettore il senso. In questo senso valgono assolutamente le considerazioni fatte da Andrea Inglese proprio su Nazione Indiana: “La parola poetica ‹di Mesa› non sarebbe dunque un al di là del linguaggio comune, un super-linguaggio attraverso cui parlare meglio e in modo più autentico, come voleva la tradizione simbolista, ma un linguaggio pienamente consapevole dei propri limiti, dei rischi di falsificazione, un’esperienza insomma in cui qualcuno vede male e dice male affinché altri, a partire da questa consapevolezza dolorosa, possano dire meglio e vedere meglio.” ( qui)

Come è noto, il verso rimbaudiano bisogna essere assolutamente moderni è diventato nel Novecento, specie presso le Avanguardie ma non solo, una sorta di imperativo etico ed estetico, nel quale  si coniugavano l’avversione per ogni specie di accademismo tradizionalista e museale e la chiamata a un impegno storico che giustificava tale avversione. Del valore parenetico di questo verso è prova la conclusione del saggio sulla modernità di Jameson che a esso si richiama come elemento irrinunciabile nella sua programmaticità ( cfr. F.Jameson Una modernità singolare, trad.it. Sansoni 2003), anche se viene ammessa dallo stesso autore statunitense l’incapacità di tutto l’Occidente di pensare il grande progetto collettivo. Ora pochi anni prima della stesura del Tiresia, Debord nel suo ultimo libro affermava che “quando ‘essere assolutamente moderni’ è diventata una legge speciale proclamata dal tiranno, ciò che l’onesto schiavo teme sopra ogni cosa è che lo si possa sospettare di essere passatista” (cfr. G. Debord Panegirico, trad.it Castelvecchi, 1996, p.44). Per quanto Debord come scrittore abbia sempre amato le batture a effetto, bisogna ammettere che fa specie trovare una dichiarazione del genere nella pagina di un autore che ha consacrato buona parte della propria vita artistica e intellettuale a cercare di realizzare al meglio l’imperativo rimbaudiano.

Una simile affermazione è spiegabile soltanto con il venir meno della possibilità di una collocazione entro un orizzonte di senso storico dell’attività artistica a sua volta legata a una perdita di progettualità complessiva nella società. Insomma non è più necessario essere assolutamente moderni  in ogni attività artistica o letteraria quando non c’è più un soggetto che lotta per l’emancipazione. Se poi l’essere moderno diventa sinonimo di un continuo adeguamento alle dinamiche sociali, tecnologiche ed economiche della classi che detengono il potere, ecco che tale imperativo nell’ambito estetico significa riconoscersi nella moda o nella pubblicità. “La moda ha il senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato. Esso è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante”, scrive Benjamin nella quattordicesima Tesi di filosofia della storia alla fine degli anni Trenta, che peraltro calza a pennello nel descrivere anche la situazione odierna. Dunque la frase di Debord è, nella sua maniera polemica e paradossale, la constatazione che è finita la speranza delle avanguardie che una rivoluzione dei linguaggi corrispondesse idealmente e storicamente ad altre rivoluzioni.

Il Tiresia di Mesa va letto alla luce di questa frase di Debord nel senso che a ogni suo singolo verso è sottesa questa forma di consapevolezza. C’è in più la volontà di continuare a dire  nonostante non ci siano più i luoghi sociali deputati a esprimere la parola e c’è la consapevolezza che chi sa dire e prende la parola si trova a occupare l’imbarazzante ruolo del profeta. Un ruolo arcaico senza dubbio, che è il prodotto di una sconfitta storica, come del resto è arcaica  sotto la rassicurante apparenza tecnologica una delle facce del tiranno  che ha fatto sua la legge dell’ ‘essere assolutamente moderni’.

N.B.: le citazioni del Tiresia sono tratte dal testo riportato nel volume G.Mesa Poesie 1973-2008 La Camera verde, Roma, 2010

 

 

 

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4 Commenti

  1. **** TIRESIA, O LA MEMORIA “DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE”! ****

    PORTENTOSA ed eccezionale PUNTUALIZZAZIONE SULLA FIGURA E SUL POSTO DI “TIRESIA”.

    COMPLIMENTI, GIORGIO !!!

    In “briciole”, queste le ragioni del mio entusiasmo… Pur se tra qualche approssimazione e incertezza, alla fine, hai prevo il volo e bene hai fatto e fai a richiamare Benjamin e le sue “Tesi” – Tiresia, a mio parere, gioca nella lotta e ricerca di Benjamin la stessa funzione che gioca nel lavoro di Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=406) e, prima ancora, di Kant (Essere giusti con kant: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4800) – è un indice messianico, una memoria ‘radioattiva’ di libertà e di sovranità! Teniamone conto e non perdiamola. Grazie! E buon lavoro!

    Federico La Sala

  2. Complimenti a Giorgio per questo articolo. Tornerò a leggere Tiresia di Mesa alla luce delle sue parole. Trovo particolarmente interessante il riferimento finale a Debord e alla questione dell’essere assolutamente moderni. Condivido in pieno il riferimento all’autore francese e la citazione di Benjamin, tanto utile per capire il contemporaneo.

  3. Bellissimo saggio critico, Giorgio. Complimenti anche miei.
    Tra le tante cose ho apprezzato l’immagine del pic nic in cui il poeta porterebbe il testo e il lettore il senso.

  4. CHIARISSIMO GIORGIO M.

    DAL MOMENTO CHE ANDREA INGLESE ha letto il tuo testo, e nella stessa “Nazione Indiana” ha postato, nel SUO ‘spazio’, l’articolo di Emanuele Canzaniello, che commenta il film

    “Edipo a Nazareth”(1981) di Werner Maria Schroeter

    che si collega ai temi del tuo lavoro, e, non ultimo, alle discussioni e polemiche incorso in Lombardia e in tutta Italia sul caso della Scuola di Rozzano (relativa a “canti di Natale vietati”), completo la mia nota(sopra pubblicata), riportando anche la nota fatta al suo commento ((Elogio cinematografico del suicidio – https://www.nazioneindiana.com/2015/11/27/film-inesistenti/):

    ***

    A OMAGGIO E AD AMPLIFICAZIONE DEL COMMENTO SULL’Edipo a Nazareth …

    DUE NOTE A MARGINE:

    -PIRANDELLO E LA BUONA-NOVELLA: “UN GOJ” (…) UN “URLO” MAGISTRALE PER BENEDETTO XV … E BENEDETTO XVI. Basta con la vecchia, zoppa e cieca, famiglia cattolico-romana, camuffata da “sacra famiglia”!!!:

    http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=227

    -A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 – Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI:
    http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=406

    Federico La Sala

    __________

    SUL TEMA, SI VEDA ANCHE LA NOTA AL lavoro di Giorgio Mascitelli, “Il posto di Tiresia (…)”: https://www.nazioneindiana.com/2015/11/27/il-posto-di-tiresia-leggendo-il-tiresia-di-giuliano-mesa/

    ****

    Federico La Sala

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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