Quando l’intelligenza artificiale non esisteva, gli appartamenti turistici erano ancora il sogno freaky di un cervellone in calzoni corti (i danni di certi sogni si possono calcolare?), José María Aznar affiancava la Spagna alle truppe angloamericane nell’invasione dell’Irak e in plaza Santa Ana, epicentro dello scanzonato Barrio de las Letras, si poteva bere una birra per un euro e dieci centesimi, c’era un locale chiamato Miao. Si trovava all’angolo con calle del Príncipe e testimoniava l’attaccamento della città all’autore che l’ha forse descritta meglio insieme a Pío Baroja.
L’unione di Benito Pérez Galdós con Madrid è sentimentale, storica e insieme letteraria, e la vicenda di Ramón Villaamil, un classico della letteratura adesso pubblicato anche in Italia da Altrevoci – nostra, la traduzione -, ne è la prova. Le disavventure di un impiegato statale messo in aspettativa a sole due settimane dalla pensione servono da pretesto per ridare uno spaccato della piccola borghesia capitolina, tra aspirazioni signorili e traguardi mancati, in un’atmosfera priva delle angosce di Dostojevskij ma che a tratti ricorda i labirinti allucinatori di Kafka. Così va il mondo, così va la Spagna, e così ci stiamo abituando tutti a disprezzare lo Stato e ad attizzare nell’anima la brace della rivoluzione. A chi meriterebbe, disinganni; a chi non meriterebbe, caramelle. Questa è la logica spagnola. Tutto al contrario. Il paese del rovescio.
MIAO – estratto
DAL CAPITOLO 1
Alle quattro del pomeriggio, tutti i ragazzini della scuola pubblica di Piazzetta del Limón sciamarono tumultuosamente dalle aule combinando una gazzarra infernale. Nessun inno alla libertà, fra i tanti composti in tutte le nazioni, ha il fascino di quello che intonano i carcerati della scuola elementare quando si sgancia la catena della disciplina scolastica e via, fuori di qua! Tra salti e strilli. La furia insana con cui si lanciano nei più rischiosi esercizi di funambolismo, gli infarti che provocano ai pacifici passanti, il delirio di autonomia individuale che spesso finisce in botte, lacrime e lividi, sembrano prefigurazioni dei trionfi rivoluzionari che gli uomini si trovano a celebrare in tempi meno fortunati… Insomma, uscirono in tromba; l’ultimo voleva essere primo e i piccoli strillavano più forte dei grandi. Fra di loro ce n’era uno di bassa statura che si allontanò dal gruppo e prese la strada di casa, solitario e silenzioso. E appena i suoi compagni si accorsero di quel suo allontanarsi che aveva l’aria di una fuga, lo inseguirono e lo perseguitarono con scherzi e canzonature, non esattamente di buon gusto. Uno lo strattonava per il braccio, un altro gli stropicciava la faccia con le sue mani innocenti, che erano un campionario completo di tutte le sudicerie del mondo, ma lui riuscì a liberarsi e se la diede a gambe. Allora due o tre dei più sfacciati gli tirarono dei sassi e gli gridarono Miao; e tutta la banda ripeté in un’infernale confusione: Miao, miao.
Il povero bambino preso in giro in quel modo si chiamava Luisito Cadalso ed era piuttosto piccolo di statura, col fiato corto, pallido, sugli otto anni, al massimo dieci, timido al punto da rifuggire l’amicizia dei compagni, perché temeva le prese in giro di alcuni e sapeva di non essere così vispo da restituirle. Era sempre stato il meno scalmanato nelle birichinate, il più scialbo e maldestro nei giochi, e il più educato in classe, eppure uno dei meno brillanti, forse perché la sua timidezza non lo aiutava a mettere in luce ciò che sapeva o a passare sotto silenzio ciò che ignorava. Mentre svoltava l’angolo del Convento de Las Comendadoras de Santiago per tornare a casa, che si trovava in calle Quiñones, di fronte alle Carceri Femminili, lo raggiunse uno dei suoi compagni: un sacco di libri, la lavagnetta in groppa, i pantaloni ridotti a supporto delle toppe sui ginocchi, le scarpe bucate, un basco blu sul cranio spelacchiato, il muso molto simile a quello di un topo. Si chiamava Silvestro Murillo ed era il ragazzo più studioso e il migliore amico che Cadalso avesse in tutta la scuola. Suo padre era il sacrestano della chiesa di Monserrat e voleva che studiasse Diritto, perché si era ficcato in testa che quel moccioso sarebbe diventato un pezzo grosso, magari un celebre oratore – o un Ministro, perché no? E la futura celebrità rivolse all’amico queste alate parole: «Varda un po’, Caarso, se le facevano a me queste burle, gli mollavo un cazzotto da fargli venire la faccia tutta verde. Ma tu non c’hai le palle. Secondo me non è giusto mettere soprannomi alla gente. E lo sai di chi è la colpa? È di Posturitas, quello del banco dei pegni. Proprio ieri contava che sua madre ha detto che tua nonna e le tue zie le chiamano Miao, perché hanno le facce con la stessa fisionomia dei gatti, proprio così. Ha detto che gli hanno dato questo titolo nel loggione del Teatro Real, dove siedono sempre allo stesso posto, e quando le vedono arrivare tutti quanti dicono: “Eccole qua, le Miao!”».
Luisito Cadalso divenne rosso in volto. Era così indignato, pieno di vergogna e stupore, che non seppe come difendere l’oltraggiata dignità della sua famiglia. «Posturitas è un volgarotto e un insignificante», aggiunse Silvestro, «e ’sto vizio di dare soprannomi è da carogne. Suo padre è una carogna, sua madre è una carogna e le sue zie sono carogne anche loro. Campano succhiando il sangue alla povera gente. Cosa credi? Se uno non riesce a riscattare la cappa, quelle lo spiumano: cioè gliela vendono e lasciano che crepi di freddo. Mia mamma le chiama le Arpide. Non le hai viste quando stanno al balcone ad appendere le cappe perché prendano aria? Sono più brutte di una tomba, e mio papà dice che con i nasi che si ritrovano ci si potrebbe fare le gambe del tavolo, e ce ne avanza di legno… Beh, anche Posturitas è un bello scimmione, sempre lì a contarla su e a gesticolare come i clovus del Circo. Chiaro: visto che gli hanno appioppato un soprannome, si vendica e te ne rifila uno anche a te. Ma con me non attacca, no davvero!
Perché sa che io c’ho la lingua velenosa, eccome! Ma tu, che non ti fai valere, cioè che non ti ribelli quando ti dicono qualcosa, ecco che per te non ha rispetto.»
Il piccolo Cadalso, soffermandosi sulla porta di casa, dedicò all’amico un’occhiata triste. Lui gli rifilò una bella gomitata, e disse: «Io non ti chiamo Miao, niente affatto! Non aver timore che io ti chiami Miao!», e partì di corsa verso Monserrat.
La scuola è uno straordinario campo di indagine per l’antropologia. Da insegnante osservo con attenzione e curiosità, da diversi anni, i modi di dire, di fare e di presentarsi degli studenti in classe. E posso dire con una certa convinzione che le tendenze dei giovani sono in continuo cambiamento e che le abitudini di oggi non sono le stesse di quelle di quindici o vent’anni fa.
Tuttavia, il mio spirito è quello di chi cerca di osservare quello che fanno i ragazzi, ma con discrezione. Se certi atteggiamenti a me possono apparire stravaganti, preferisco comunque passarci sopra, fermo restando il rispetto dell’educazione e della convivenza civile in aula. Perché evidentemente quei comportamenti bizzarri testimoniano un qualcosa che non è immediatamente avvertibile.
Faccio un esempio: negli ultimi anni ho visto sempre più di frequente che i ragazzi si scambiano piccoli “massaggi” tra di loro, come vere e proprie forme di affetto. Il massaggio più ricorrente è quello che viene fatto sulle braccia, con una modalità a pennello o “a sfioramento” di tutto l’avambraccio, di uno studente sull’altro o addirittura su due compagni contemporaneamente.
Il massaggio viene quasi sempre praticato quando la lezione non è abbastanza coinvolgente oppure se si guarda un film: nel primo caso, sembra assumere la funzione di un passatempo mentre durante la visione della pellicola il massaggio ricopre pressappoco il ruolo di un metronomo. Oppure di un sostituto del chewing-gum. Perché, qualunque sia lo scopo del massaggio, tutti i ragazzi fanno fatica a stare fermi per un certo tempo sulle proprie sedie e qualche parte del corpo la devono pur sempre muovere.
In più, c’è il massaggio alle spalle o al collo, che è diverso rispetto a quelli precedenti.
Rispetto ai questi ultimi, infatti, la differenza non è nei momenti della sua “epifania” ma nella modalità in cui viene fatto. Il massaggio a spalle o collo risulta invero più energico ma senza rinunciare a quell’effetto rilassante o di trasmissione di un sentimento da una parte all’altra dei due partner, un effetto che è volutamente ricercato dagli adolescenti.
L’imperativo, però, resta sempre quello di assecondare la locomozione del proprio organismo o di un qualsiasi arto del proprio busto, per non venire mai meno all’impulso di spezzare la soporifera e tediosa staticità del corpo.
Infine, c’è il massaggio che io ritengo quello più curioso e che si presenta con minor frequenza: si tratta del massaggio di un allievo sulla testa dell’altro, con un palpeggiamento insistito del cuoio capelluto dell’interessato, quasi a renderlo una manipolazione anti-stress.
La prima volta che l’ho visto, era dalle mani di una ragazza sulla testa di un allievo che era solitamente molto esuberante in classe. Quando mi accorsi che il ragazzo in questione riusciva a placare in questo modo la propria vivacità, come se fosse incantato da un sortilegio, io stesso mi sono tenuto ben lontano dall’ammonire i ragazzi di interrompere l’opera di strofinamento del cuoio capelluto. Eppure, con gli occhi di traverso, continuavo ad osservare, quasi con il piglio di un positivista del terzo millennio.
Il fenomeno dei massaggi non è di certo una mia scoperta. È stato raccontato e descritto anche da Christian Raimo e dai suoi allievi nel loro Lettera alla scuola, uscito per Feltrinelli nel 2024: “Molti degli studenti passano le ore di buco o le ricreazioni, ma anche quelle di spiegazioni, a farsi i grattini. Non cambia se sono maschi, femmine, fidanzati, amiche, amici, se c’è una complicità amorosa o qualcosa del genere: il tutto avviene come una pratica naturale. Come scambiarsi i bigliettini tra un banco e l’altro. A un certo punto il prof ci ha detto che forse potremmo parlare di una sorta di grooming generazionale. Che cos’è? Un processo di infantilizzazione, un’urgenza di coccole fuori tempo massimo? Non ci sbilanciamo e nemmeno il prof, ma ci pare la manifestazione di un senso di solitudine, il bisogno di qualcuno a cui affidarsi”[1].
Le parole di Raimo attestano dunque una trasversalità di questo fenomeno, sia orizzontale (i “grattini” vengono fatti in ogni momento della giornata, a lezione o all’intervallo, in aula o nei corridoi oppure durante le uscite) sia verticale(perché questa richiesta di “contatto fisico” coinvolge tutti i ragazzi, dalla scuola media al triennio delle superiori).
Con una possibile interpretazione, per voce dello stesso docente Raimo: “Il prof ci ha suggerito che forse questa condizione diffusa genera una richiesta di accudimento, che a volte è implicita, a volte è plateale”[2].
Eppure, c’è un altro fenomeno che negli ultimissimi anni ha attirato la mia attenzione: la profumazione individuale, se non a piccoli gruppi.
Di questo aspetto non ho mai letto niente in articoli o pubblicazioni, francamente. Potrebbe anche essere un qualcosa che è capitato soltanto sotto i miei occhi – meglio sotto le mie narici – ma i cambiamenti della Generazione Z risultano generalmente condivisi.
Me ne sono accorto due anni fa, quando, al termine della lezione e pochi minuti prima del suono della campanella, vidi una ragazza tirare fuori dallo zaino un flaconcino pieno di profumo e spruzzarselo addosso su collo e ascelle. Quella volta non ci diedi peso ma poi lo stesso fatto si ripeté più volte, soprattutto in quei frangenti della mattinata scolastica che i vari ragazzi consideravano ritagli di tempo. Vedevo ragazzi e ragazze che sfruttavano un momento di disattenzione del docente per estrarre di soppiatto dallo zaino boccette di profumo e iniziare a cospargersi, con l’effetto collaterale di una aromatizzazione di tutto l’ambiente dell’aula.
A una prima impressione, ho pensato quasi a una “clandestinità della deodorazione” che era tuttavia facilmente annusabile nell’ambiente scolastico, anche solo per il contrasto olfattivo con il pungente odore di detergente e disinfettante, comune a tutti gli edifici scolastici di ogni latitudine. E nonostante i tentativi – maldestri – degli allievi di nascondere la propria profumazione.
Anzi, quando i miei primi richiami a non usare i profumi in classe, almeno inizialmente, sono serviti a dilazionare il fenomeno, alla lunga non sono riusciti affatto a scoraggiarlo. Per un qualche strano motivo – ma che poi così strano non è – mi sono accorto che spesso gli allievi ricorrevano alla loro boccetta “magica” in prossimità del suono dell’ultima campanella, quando erano sul punto di uscire dall’edificio scolastico. Talvolta la boccetta di profumo veniva anche lasciata sul banco – “Non la sto utilizzando, quindi lei non mi può dire niente!”, si giustificavano di volta in volta i ragazzi – come un talismano, se non un vero e proprio portafortuna.
In assenza poi dello smartphone (dobbiamo considerare che negli ultimi anni abbiamo chiesto a tutti gli studenti della mia scuola di depositare il proprio smartphone in appositi stipetti chiusi a chiave, durante tutte le ore di lezione), il profumo è diventato il nuovo oggetto dei desideri. Ho visto ragazze fissare la loro bottiglietta sul banco, come se fosse un oracolo. Altri studenti la sfioravano con le dita – senza però spruzzarne il contenuto – quasi che il contenitore di vetro avesse assunto la forma di un involucro “touch”, in un paragone o in una sostituzione con lo smartphone vero e proprio.
La mia prima considerazione personale è stata affettiva, nonché nostalgica. Legata proprio alla sede dell’olfatto, cioè al naso. Mi sono ricordato dalle strisce dei Peanuts del personaggio di Lucy Van Pelt che asseriva con gioia quanto “un bacio al mattino sul naso delle persone le avrebbe rese migliori e le avrebbe aiutate nel corso della giornata”.
Dal lato rievocativo, sono passato a quello più scientifico: letteratura e neuroscienza sono concordi nell’affermare quanto una fragranza sia in grado di accendere un ricordo particolare in ciascuno di noi, sennonché di calmarci o di darci energia. E credo proprio che sia il secondo aspetto quello che riguarda maggiormente gli studenti della scuola.
“Il sistema olfattivo è collegato all’ippocampo, la parte del cervello che presiede alla memoria e, con l’amigdala e il sistema limbico, è la regione delle esperienze emotive. Basta questo rapido quadro neurale per spiegare la centralità del naso nelle nostre biografie, dagli episodi di madeleine olfattiva al ruolo dei feromoni nel risvegliare, via stimolo olfattivo, il nostro appetito sessuale”, scrive Vittorio Lingiardi in quel magnifico libro intitolato Corpo, umano, recentemente pubblicato da Einaudi[3]. Appunto, un esempio di unione di scienza e letteratura.
Dunque, è stato proprio quest’ultimo aspetto che mi ha dato da pensare di più.
Perché, dunque, i ragazzi sentono questo bisogno di profumarsi, specialmente nelle ore di scuola?
Non credo che sia semplicemente un vezzo per apparire – e farsi odorare – come individui più attraenti, specialmente in quegli insostituibili momenti di aggregazione che sono i viaggi con il trasporto pubblico per tornare a casa.
C’è senz’altro la volontà – più latente che esplicita – di continuare quel percorso di identificazione del sé che caratterizza tutta l’adolescenza. La profumazione non sarebbe altro che un ulteriore tassello in questo cammino di crescita. Ma c’è dell’altro: emerge forse il primo tentativo, sebbene dissimulato tramite il ricorso appunto al senso dell’olfatto, di relazionarsi a un proprio coetaneo o pari, con il tentativo di stabilire un vero e proprio contatto interpersonale.
La boccetta di profumo, con il suo contenuto ammaliante, ha assunto in quest’ottica il nuovo ruolo di simulacro del conforto emotivo, sostituendosi al cellulare quando appunto non si può ricorrere ad esso. Il profumo crea perciò un alone di “visibilità” per quei ragazzi che cercano di attirare le attenzioni degli altri e al contempo costituisce un “laccio” comunicativo per tentare di entrare in rapporto con qualcuno di desiderato. Non tanto o non solo nella sfera sessuale ma in quella più propriamente erotica. Nel senso proprio di innestare una spinta erotica, un trasporto verso “l’oggetto” del desiderio, di ciò che che si brama di possedere. Una tesi simile a quella esposta dallo psicanalista Massimo Recalcati nel suo L’ora di Lezione. Per un’erotica dell’insegnamento[4], con la differenza che l’attrazione non è ora tra maestro e discente, ma tra adolescente e adolescente.
La profumazione, quindi, come il massaggio, avrebbe lo stesso risultato: trasformare il ragazzo o la ragazza “dalla passività dell’amato, all’attività dell’amante”.
Pertanto, al cospetto dell’assenza dello smartphone, lo studente ha ripiegato sul profumo. Sembra quasi che la profumazione sia da considerarsi, dunque, alla stregua di una chat su WhatsApp o un modo di essere sempre “connessi”, per restare sempre al confronto con il device tecnologico. Appunto, il grande “assente” durante le ore di lezione.
La conferma mi è data anche dai miei dati “empirici”: il fenomeno del ricorso alla boccetta di profumo in classe, da individuale o saltuario, è diventato – nel corso dei due anni oggetto della mia analisi – sempre più diffuso e sempre più visibile nelle mani – o sui banchi – dei ragazzi.
In taluni casi, mi sono pure accorto che i vari tipi di profumi, esibiti o utilizzati dagli studenti, passavano da quelli di basso valore a quelli griffati, di indubbio costo elevato. Se i primi sono però alla portata di tutti, i secondi possono essere in possesso degli adolescenti soltanto per il tramite dei genitori.
Questo cosa significa questo?
Che la boccetta sia un regalo? Non lo credo perché, in questo caso, la comparsa della stessa sarebbe soltanto un oggetto occasionale in mano a sparuti studenti.
Che sia una richiesta specifica dell’adolescente o un suo capriccio?
Difficile dirlo ma alla fine resto convinto che una risposta plausibile vada in quella direzione che ci ha già indicato, a più riprese, lo stesso Massimo Recalcati, quando ha parlato di una complicità diseducativa tra genitori e figli. Nel senso che probabilmente è lo stesso genitore ad aver comprato il profumo costoso e poi lo ha lasciato liberamente al figlio, quasi a voler suggellare una condivisione di oggetti e simboli tra l’adulto e l’adolescente, una condivisione tesa a mettere sullo stesso piano il padre e il figlio, l’uomo maturo e il ragazzo, il maestro e l’apprendente.
Come il genitore indossa le stesse sneaker del figlio, così il ragazzo si cosparge della stessa essenza del padre. Appunto, una complicità che confonde i ruoli e che si rivela tutt’altro che istruttiva.
Se dunque il genitore facoltoso può permettersi un profumo costoso e di conseguenza lo vuole mettere in mostra, in questa logica lo deve fare anche il figlio o la figlia. Tanto più se un genitore è separato e così può accattivarsi le simpatie dell’adolescente nei confronti dell’altro genitore. Oppure potrebbe essere anche una forma, più o meno esplicita, di classismo tra chi può permettersi un profumo di alto valore economico e chi, invece, voglia aspirare, sia pure con essenze di minor costo, a emulare i compagni “meglio” o più riccamente profumati.
Da questo punto di vista, sembra quasi la perpetuazione di un classismo di odori a scuola, per quanto la cosa possa sembrare incredibile (e anche grottesca, per certi versi).
Ma non c’è nulla di incredibile: la longa manus dei genitori – e della loro volontà di distinguere sé stessi e i propri figli – si è trasformata nel longus nasus dei grandi e si è rispecchiata prima in ciò che i ragazzi indossano in classe; poi, negli schermi di alto costo che mettono nelle mani dei loro figli; e, infine, nella “protezione olfattiva” che gli stessi adulti hanno trasferito dai propri corpi a quelli dei propri figli, in una trasmissione di saperi ed essenze che, come ci ha ricordato Recalcati, non sempre appare come un segnale positivo.
[1] La III M dell’Istituto Amaldi di Roma con Christian Raimo, Lettera alla scuola, Feltrinelli, Milano 2024, p. 141.
Hai cercato se il tuo libro è nella lista che hai letto sopra? Te lo chiedo perché se stai leggendo queste pagine è perché in qualche modo hai a che fare con il mondo dell’editoria, o come scrittore o come editore. O magari sei un parente di qualcuno che ha scritto uno di questi libri. Ad esempio una delle statistiche che più spesso ho cercato di estrapolare riguarda il numero delle persone viventi che possano ritenersi autori letterari, cioè che abbiano scritto attivamente e continuativamente negli ultimi dieci anni. Sappiamo ad esempio che ogni anno in Italia, perlomeno di recente, vengono pubblicati 80.000 titoli, di cui circa 5.000 sono romanzi. Di ogni opera, in media, vengono venduti 4.000 esemplari e le copie in eccesso finiscono al macero. Sappiamo anche che cinque italiani su dieci non leggono nemmeno un libro l’anno, quattro di loro ne leggono tra gli uno e i dieci e solo un dieci percento ne legge più di dieci. E quindi? Cosa ci dicono questi numeri?
A diciassette anni, per la prima volta, ho letto un libro senza che nessuno mi obbligasse a farlo. Titolo: On the road. Fino a quel momento avevo passato anni a leggere solo resoconti, aneddoti e statistiche che raccontassero il mondo del basket, in particolare quello americano. Altezza, peso, percentuali di tiro di tutti i giocatori che abitavano il mio mondo mitologico fatto di salti, competizione e sudore. «Superbasket», «American Superbasket », «I giganti del basket». Quando mio padre rientrava a casa, dopo una lunga giornata di lavoro, nel ritrovarmi disteso a letto a sfogliare quei giornali mi chiedeva perché non uscissi un po’ di più. Ma in quei numeri cercavo una forma per governare il caos, la misura di un mondo che adoravo. Anche i numeri di maglia erano diventati un codice segreto con cui io e mio fratello avevamo codificato una serie di punizioni che ci infliggevamo nei momenti di lotta (a dire il vero era lui che li infliggeva a me, vista la differenza di età, a mio sfavore): il 33 di Scottie Pippen, lo 00 di Kevin Duckworth, il 34 di Charles Barkley, ogni numero una tortura che solo noi potevamo capire in anticipo («sta arrivando un 33»). L’idea fisica di America era costruita sulla base dei nomi delle squadre, nomi che dicevano ben poco delle distanze che separavano le rispettive città. Così un giorno appesi una cartina degli Stati Uniti sulla testata del letto, per capire dove fossero ambientate queste gare NBA che guardavo a notte fonda o di cui leggevo le statistiche disteso a letto. Poi arriva questo Kerouac, che mi parla di un viaggio da costa a costa, attraverso quegli spazi che fino a poco prima erano senza nome. Da quel momento l’America era il vento nei capelli, una macchina che corre verso nuove destinazioni, l’idea di poter costruire il proprio futuro senza regole né restrizioni.
Negli ultimi anni del liceo ho preso una quadernetto, con rilegatura orizzontale, senza quadretti né righe, dove ho cominciato ad appuntare gli effetti che i primi amori producevano nella mia mente impressionabile, gli stravolgimenti dello spirito che le continue lotte ideologiche con mio padre trasformavano in verità inespugnabili. Ma allora anche io sono uno scrittore, mi sono detto. Passano gli anni e un giorno vengo a sapere che Alessandro Baricco sarebbe venuto in visita nella mia cittadina. Stava facendo un tour promozionale con cui far conoscere la sua scuola di scrittura, la Holden. Quel giorno si sarebbe presentato insieme al produttore Domenico Procacci. Finita la presentazione, mi sono avvicinato ai camerini dove Baricco avrebbe firmato i suoi libri o semplicemente avrebbe benedetto le sue ammiratrici. Mi sono messo in fila dietro a decine di signore in là con gli anni, in attesa che arrivasse il mio turno. Non ricordo quale suo libro avevo già letto, forse City o Oceano mare, ma poco importa. Quello che volevo chiedergli era questo: dovrei venire nella sua scuola per trasformare quei pensieri scriteriati in qualcosa di organico e sensato? Quei pensieri valgono qualcosa? Li penso solo io? Sono unico? Ma quando si apre la porta del camerino non vedo nessuno, perché era più basso di quanto mi aspettassi. Abbasso lo sguardo e vedo questo uomo molto riccio e molto educato che mi viene incontro. Alle mie domande si limita a rispondere così: vai per strada e osserva la gente. E così ho fatto.
In tutti questi anni di scrittura ho ripensato alle sue parole, come a un oracolo da cui tutto è partito. Avrebbe fatto bene a invitarmi a frequentare la sua scuola? O avrebbe potuto dirmi: fai ingegneria, cretino! In un modo e nell’altro è certo che ad avviarmi verso questa pratica del racconto è stato un autore di cui poi non ho più letto nulla. E se avessi fatto ingegneria? Se avessi saputo calcolare la quantità di ferro necessaria nelle travi portanti di un edificio affinché questo possa far fronte alle scosse dei terremoti, avrei avuto questo bisogno incessante di scrivere? Quale lavoro avrei potuto fare? Me lo sono chiesto più volte, analizzando la lista degli ottomila lavori esistenti, di cui riporto un breve estratto, relativo ai mestieri che, tra le altre cose, richiedono l’uso delle mani: macellai, abbattitori di animali, norcini, pesciaioli, addetti alla conservazione di carni e pesci, panettieri, pastai, pasticcieri, gelatai, conservieri artigianali, cioccolatai, degustatori e classificatori di prodotti alimentari e di bevande, artigiani ed operai specializzati delle lavorazioni artigianali casearie, operai della preparazione e della lavorazione delle foglie di tabacco, attrezzisti, operai e artigiani del trattamento del legno ed assimilati, artigiani ed operai specializzati del trattamento del legno (curvature a vapore, stagionatura artificiale, trattamenti chimici), falegnami, montatori di mobili, impagliatori, cestai, spazzolai, sugherai e professioni assimilate, impagliatori e lavoranti in vimini e setole, cordai e intrecciatori di fibre, lavoranti in giunco e canna, lavoranti in sughero e spugna, preparatori di fibre, tessitori e maglieristi a mano e su telai manuali, tintori e addetti al trattamento chimico dei tessuti, sarti e tagliatori artigianali, modellisti e cappellai, modellisti di capi di abbigliamento, tagliatori di capi di abbigliamento, confezionatori di capi di abbigliamento, sarti, cappellai, pellicciai, modellatori di pellicceria e professioni assimilate, modellisti di pellicceria e di capi in pelle, tagliatori di pellicceria e di capi in pelle, confezionatori di pellicceria e di capi in pelle, pellicciai e sarti in pelle, biancheristi, ricamatori a mano e professioni assimilate, confezionatori e rifinitori di biancheria intima, confezionatori e rifinitori di biancheria per la casa, merlettai e ricamatrici a mano, bottonai, tappezzieri e materassai, confezionatori di tende e drappeggi, modellisti di poltrone e divani, tagliatori di imbottiture e rivestimenti di poltrone e divani, confezionatori di poltrone e divani, tappezzieri di poltrone, divani e assimilati, artigiani e addetti alle tintolavanderie, conciatori di pelli e di pellicce, modellisti di calzature, tagliatori di calzature, confezionatori di calzature, calzolai, sellai e cuoiai, valigiai, modellisti di pelletteria, tagliatori di pelletteria, confezionatori di pelletteria, pellettieri.
Questi, invece, sono i lavori che ho fatto nella mia vita: operaio generico in fabbrica (tre giorni all’età di sedici anni), bracciante agricolo per vendemmia (tre estati), facchino per montaggio di palchi per concerti e spettacoli teatrali (occupazione sporadica ma pluriennale), facchino per rifornimento notturno degli scaffali di un ipermercato (una notte), facchino per ditta di marmi (mezza giornata), trasportatore di motore a spalla per rifornimento di gas di un pallone aerostatico necessario per i volteggi di una ballerina appesa a mezz’aria (una sera), portalettere (un giorno), distributore di elenchi telefonici (tre giorni), runner (cinque settimane), cameriere (svariate volte), accompagnatore di studenti in vacanza studio (tre settimane), copywriter (un mese), accompagnatore di persone non vedenti (un anno), insegnante di italiano a stranieri (quattordici anni).
E ora eccomi qui. Dopo vent’anni di attività e sei libri pubblicati, neanche l’esiguo numero di copie vendute a scoraggiarmi dal continuare a scrivere qualcosa di nuovo che mi porterà via tempo ed energie. Ma questa volta sarà diverso. Perché questo testo, un resoconto di tutte le mie attività in vita, servirà a qualcosa: ricreare un me digitale dopo la morte, un futuro me che possa dialogare con chi mi sopravviverà, un me eterno la cui personalità possa aderire il più possibile al vero. E quindi i programmatori della mia identità digitale dovranno per forza leggerlo. Perlomeno loro.
______________
Un estratto di Ugo Coppari dal suo Guida all’installazione di un futuro me, appena uscito per Quodlibet. Tra le pubblicazioni dell’autore, le raccolte di racconti Nove anoressiche, 2007, Il grande rimbalzo, 2014, Terra, 2023, e i romanzi brevi Bim bum bam, 2006 e Limbo mobile, 2009.
Sono stato qualche giorno in un luogo di villeggiatura, sul lago Maggiore. Molto bello. Quasi tutte le scritte che informano i passanti sono in inglese, come se la maggior parte degli italiani sapessero quella lingua. Si potrebbero fare molti esempi imbarazzanti o ridicoli. Ma ce n’è uno che li sorpassa tutti, che non riguarda però, almeno speriamo, il Lago Maggiore, con le sue spiagge e le sue seducenti isole..
L’esempio è quello del rubicondo presidente del Grande Stato fonte di Giustizia e Libertà, sul quale ho già avuto modo di esprimermi qui e qui , con un aggettivo differente. Alludo al loro Donald, che di cognome fa, guarda caso, Trump. Non so quanti italiani sappiano cosa significa questa parola nella lingua che credono di sapere. E’ una parola che imparavamo, ai tempi miei (una settantina di anni fa) e nella nostra lingua, ben da piccoli, perché allora usava molto, anche tra i giovanissimi, giocare a carte. Quei vecchi giochi cui giocavano già i nostri nonni (e nonne), scopa, briscola, briscola chiamata e via dicendo. Bene, trump è l’equivalente inglese di briscola, con tutte le metafore e le allusioni che vi si possono attaccare.
Questa briscola che gli statunitensi hanno creduto di avere in mano, cui hanno deciso (stavolta – a differenza della prima nella quale numericamente aveva vinto Hilary Clinton – a stragrande maggioranza) di affidare le loro sorti, il loro futuro, sta rivelando la propria caratteristica fondamentale, la voglia di prendere, accompagnata da una continua, incerta ambiguità. Questa ambiguità dà spesso luogo a quelle che, sempre appunto in inglese, vengono dette trumperies, che guarda caso significa prevalentemente, malefatte, imbrogli e via dicendo.
Lui, da parte sua, ritiene forse di essere, contrariamente alle regole del gioco, una briscola non solo di denari, ma anche di spade, di bastoni, e di coppe. Invece è solo il due di coppe che è la briscola con meno valore, ogni altra carta di coppe la prende.
Bene, questo inimmaginabile personaggio che è riuscito ad avere abbastanza denari e abbastanza amici danarosi (che però pare che di recente oscillino parecchio, niente più tanta briscola) per arrivare a quella carica dalla quale molto si può ordinare e disfare – Truman, tanto per fare un esempio infame, ordinò l’atomica su Hiroshima e Nagasaki – pare a me invece non sappia mai bene cosa fare, forse l’unica che gli importa davvero è non perdere i suoi dollari. Mi capita di leggere quasi ogni giorno notizie contrastanti al suo riguardo: rispetto a Zelenski, a Putin, a Xi, a Netanyahu, perfino alla nostra Meloni che se l’accarezza ogni volta che lo vede, ma anche in questo caso, invece di carezze, ogni tanto suonano schiaffi; per non parlare poi dei dazi, sui quali non ha mai lo stesso atteggiamento: comprensivo e morbido (o morboso?), ruvido, incazzato, minaccioso, o talvolta perfino di quelli che dicono: fate quel che volete, io penso a me e faccio MAGA.
Chissà, molti prevedono che questo porterà alla fine del potere degli USA, molti pensano alla terza, e ultima, guerra mondiale, i più non pensano e questo è ciò che davvero permette le pazzie del potere di tutti coloro che ci governano.
La morfologia del luogo è soggetta a improvvise mutazioni. La gente viene qui per prelevare il sale. Carovane trainate da cammelli si incamminano nel deserto, uomini, donne e bambini incidono le lastre e se ne vanno con i blocchi di sale. I camion stanno sostituendo le carovane: ne basta uno per trasportare il carico di trecento cammelli. Qualcuno, dimostrando la propria ispirazione poetica, definisce i cammelli le imbarcazioni del deserto. Le pozze di acqua salata evaporano sotto un sole preistorico. Se i poeti dei secoli scorsi avessero visitato questo luogo, i loro inferni letterari gli somiglierebbero. Non ci sono strade. In questa porzione di continente non si possono edificare resort di lusso. Il paesaggio non è riducibile ad una cartolina dai connotati esotici e avventurieri a beneficio dei turisti.
Grazie ad una conoscienza geografica del luogo acquisita dalle narrazioni orali degli anziani – una casta di cinquantenni alcolizzati – Abdul riesce ad orientarsi, e sebbene questo possa sembrare impossibile, ha piena coscienza di dove è diretto. Se lasciasse dietro di sé un filo, dei sassolini o una striscia di sangue, ne verrebbe fuori un percorso dritto, simile a quello seguito dagli elefanti che vanno a morire o a procreare. Le sue impronte sembrano i residui di una geomanzia. Nella mano destra stringe un bastone nodoso in cima al quale è appesa una zucca svuotata del suo contenuto. Rimangono solo i semi, che scossi dal movimento pendolare del bastone suggeriscono il ritmo della marcia di Abdul. Il sole è allo zenit. Sarebbe logico inginocchiarsi e pregare una divinità antropomorfa che ne incarnasse le qualità morali, i vizi e le compulsioni. Millenni di adattamento all’ambiente hanno plasmato il corpo di Abdul, fino a renderlo il riassunto di un corpo umano. Indossa ciabatte di caucciù, bluejeans scoloriti, una camicia a mezze maniche e una specie di turbante ricavato da un maglione, inzuppato di acqua e sudore. I suoi passi strascicati producono un suono come di fogli strappati. In testa ha quattro parole in una lingua straniera. Quattro parole francesi: mère morte, madre morta, e baiser frère, bacio fratello. Le ripete mentalmente alla stessa frequenza del suo battito cardiaco. C’è un’armonia completa tra i suoi passi, le pulsazioni e il messaggio. Il petto di Abudl è di poco più largo della coscia di un uomo che può permettersi cinque pasti giornalieri. I suoi occhi non sono bianchi, ma giallastri. La pupilla è nera. Ha lo sguardo fisso, ma non sa bene dove. Più su un’idea – il messaggio, madre morta, bacio fratello, – che su un punto nello spazio. La natura, o ciò che ne rimane, fa economia delle proprie risorse. Il silenzio è disturbato solo dalle quattro parole che Abdul recita incessantemente. Ha camminato per ore, ma non ha l’aria stanca. O meglio, non sembra stanco come chi avesse camminato per ore, ma piuttosto come chi avesse passato la notte a scavare una fossa comune.
All’orizzonte, fino ad allora invariato, appare un’antenna collocata alla sommità di una torre di ferro. Si tratta della prima di una catena che conduce fino in città. Per chi viene dalla città, invece, è l’ultima testimonianza della civiltà industrializzata. Abdul arresta la sua marcia, infila una mano in tasca e estrae un telefono cellulare che porta il nome della cittadina finlandese nella quale è prodotto. Controlla lo stato della batteria, poi riprende a camminare. Arrivato ai piedi della torre beve dalla borraccia, lancia il bastone, si siede sulla base di cemento e chiude gli occhi, ma solo per un momento, durante il quale ripensa al lungo viaggio e riordina le idee. Non conosce i particolari del funzionamento dell’apparecchio che tiene nella mano dalle lunghe dita da nosferatu. Dovrà comporre un numero, e non sarà molto diverso dal formulare una supplica a qualche entità trascendentale che dispone delle nostre vite secondo il proprio capriccio. Infila l’indice e l’anulare nel taschino della camicia e afferra un foglietto piegato in due. Da qualche parte nella direzione che osserva, a metà strada tra il suo luogo di provenienza e il successivo insediamento umano, deve esserci una svolta che conduce al mare. Quando ci pensa, nonostante l’idea che se n’è fatto non derivi da un’esperienza diretta, ma dai racconti di altri, gli sembra di vederlo e di sentire una brezza piacevole. E siccome tutti i racconti che ha sentito concordano sulla vastità del mare, stringe le dita dei piedi come se volesse inchiodare il corpo a qualcosa di solido. Cosa può esserci di più vasto del deserto?
Sul foglietto c’è scritto il nome di suo fratello in caratteri abugidi. Sotto il suo nome c’è una sequenza di numeri, dieci per la precisione. Abdul ha iniziato a sentire la voce di suo fratello molto prima di aver composto il numero. Prima ne sente la voce, poi ne vede emergere i contorni, davanti o dentro di sé. A dire il vero si tratta di un collage di varie immagini di suo fratello. E per essere ancora più precisi le immagini ora si alternano e ora si sovrappongono, dando forma ad un uomo nuovo che però gli sembra familiare. Forse è così che lo sogna la notte. Un fratello che non è esattamente suo fratello, ma che gli appare più autentico e fedele di una fotografia. In fin dei conti, anche se Abdul non perde tempo con simili divagazioni, quella è un’immagine ideale di suo fratello. Preme il pulsante che corrisponde al primo numero della sequenza, e osserva lo schermo verde illuminarsi all’improvviso. Ogni tasto produce un suono; nel complesso ne viene fuori una melodia monotona, ossessiva.
E pensare, pensa Abdul, che lui si trova oltre il deserto e oltre il mare. Lo pensa così, senza avere la minima idea di cosa possa significare. La sua immaginazione si ferma alla lunga camminata, di cui lui stesso ha appena percorso la metà della distanza totale, compiuta da suo fratello all’incirca cinque anni prima. Il maggiore, ovvero il vicario in terra di suo padre defunto. I suoi passi nel deserto sono cancellati da tempo, ma non dalla memoria di Abdul, il quale, il giorno della sua partenza, lo ha accompagnato con la mente fino alla torre di ferro, perché non sapeva cosa ci fosse dopo. Il maggiore aveva superato la colonna d’Ercole del deserto, e dopo qualche telegramma non si era più fatto sentire né aveva dato segnali di vita. I telegrammi arrivavano in città, in uno di quei locali affollati dove la gente aspetta l’esito delle transazioni economiche effettuate dai parenti dai quattro angoli dell’universo. La gente si accampa nell’ufficio della Western Union per intere settimane, poi se ne va rassegnata e a mani vuote. I camionisti che rifornivano il villaggio di sigarette e liquori portavano le missive venute dall’altro mondo.
In questo modo Abdul e sua madre, quando lei era ancora viva, cioè fino a l’altro ieri, erano venuti a sapere che il maggiore si era sistemato a Parigi, nel quartiere La Chapelle, dove in un primo momento aveva distribuito i volantini di un sedicente sciamano, all’entrata del metrò. Insieme al primo messaggio aveva spedito una Gauloises senza filto, e Abdul e sua madre l’avevano fumata insieme in cucina, a turno, un tiro ciascuno, come una pipa in un rituale a base di allucinogeni. Dopo un anno aveva smesso di scrivere. La sua presenza, però, non era venuta meno: Abdul aveva aiutato sua madre a installare un altarino sopra la credenza in cucina. C’era la foto del maggiore, mozziconi di candele che venivano accese in occasioni particolari, e icone di un antico culto in via di estinzione. Il telefono squilla. Ogni squillo sembra annunciare la partenza di un transatlantico in un porto disabitato e avvolto dalla nebbia. Gli squilli si equivalgono per Abdul, il telefono ha già suonato dodici volte, e pure non si preoccupa e non considera l’eventualità che nessuno risponda.
Intanto ha il tempo di ricordare sua madre, che nella sua mente è ancora viva. Una donna di quarantasei anni, vale a dire una signora di una certa età, in un luogo dove l’assistenza medica è inaccessibile e ci si arrangia come si può. Il bastone è un feticcio che ha ricevuto in dono da lei. Dovrebbe avere il potere di rilassare i nervi. E di sostenere i passi del viandante solitario. Quando ripensa a sua madre, vede la sua pancia gonfia sotto i vestiti con motivi floreali. Le guance piene di tabacco da masticare. Lo sguardo bovino. La vede masticare una porzione di tabacco con la stessa cadenza ritmata di un congegno ideato per smaltire materiali di scarto. Si infilava in bocca le foglie di una pianta che la rinvigoriva. Abdul non le aveva mai fatto mancare il suo sostegno, perché la trovava spaventosa. Da bambino temeva di scoprire che appartenesse ad una specie ibrida, umana solo per metà. L’immagine della madre seduta sul pavimento della cucina con la bocca piena di droga, e quella del fratello in piedi nel metrò, o nel metrò così come lo aveva immaginato, coesistevano in un unico punto. Tutto ciò lo vede chiaramente tra il dodicesimo e il tredicesimo squillo del telefono. Continua a squillare, solo che ora tra uno squillo e l’altro sembrano trascorrere intere ere geologiche. Abdul ha perso il senno e nel frattempo l’attesa si è trasformata in speranza, e la speranza, questo lo sa anche lui, è sempre disperata.
Diciassette squilli, un eternità. La memoria autobiografica di Abdul è una successione di sacrifici che ne hanno plasmato l’identità rendendolo un individuo immune a qualsiasi forma di vanità. La sua pacatezza rasenta il ritardo mentale. Ha imparato presto a sottomettersi alle necessità, svuotato di una volontà vera e propria agisce con la fanatica ostinazione di un apostolo. Non si concede un momento per sé. Gli umori sono momentanei, non li ha mai classificati, non conosce entusiasmo né delusione. Si muove e agisce come la mascella di sua madre: in maniera meccanica, implacabile, assecondando una pulsione primaria di cui ignora l’origine e le implicazioni etiche. Le condizioni ostili della regione, e la generica appartenenza ad una famiglia nucleare esigono un’economia spirituale prossima all’annullamento di sé, per molti versi simile alle costrizioni psichiche a cui sono sottoposti i lama tibetani. Se prova scoramento o inquietudine è con distacco, quasi si trattasse di un evento metereologico che non lo riguarda sul piano personale. Chi riesce a imporre un tale controllo sulle proprie emozioni è destinato a vivere una vita brevissima o plurimillenaria. Il Super Ego, ubiquo e inflessibile, in qualche modo alieno, è la parte di noi che qualcuno ha colonizzato per edificare caserme e penitenziari. Una goccia di sudore compie il percorso che la conduce dalle tempie di Abdul al suo mento, dove, dopo un breve istante di panico, precipita.
Finalmente, senza alcun preavviso, una voce risponde. Si fa spazio nella notte in cui Abdul è sprofondato. Lo spazio nero tra un capo e l’altro della comunicazione, fatto di penose illusioni e promesse infrante. Dalla voce si direbbe una signora anziana. Si direbbe, inoltre, che la donna abbia dovuto salire una rampa di scale vertiginose per arrivare al telefono: un lungo viaggio di cui, forse, inizia a intravedere la fine. Abdul, dopo un iniziale esitazione, pronuncia le parole del suo messaggio: Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère. Si ferma per riprendere fiato. In quell’istante si rende conto che non sta affatto parlando con suo fratello, ma con una sconosciuta di cui riesce a percepire la paura in maniera istintiva e animale anche a decine di migliaia di chilometri di distanza. Allora prova a intavolare un discorso nella sua lingua madre. Le parole sono intervallate da fremiti di freddo. Infatti Abdul si sente gelare, ma non dalla superficie del corpo, bensì dall’interno. Dentro il suo sterno, così fragile che basterebbe un calcio a sfondarlo, sta accadendo qualcosa di insolito. La signora pensa ad una truffa telefonica. Ad uno scherzo. Ad un inciampo delle sue attività cognitive. E siccome è molto devota si fa spazio nella sua mente l’idea che si tratti di un messaggio divino. Abdul è riuscito a rallentare il profluvio di frasi e parole ed è tornato in sé. Crede che basterà parlare lentamente e scandire le parole, anche le sillabe se necessario, per farsi capire dalla donna.
La signora sente farfugliare in una lingua che non può capire, e che forse nessuno a Parigi o in Europa o nel terzo millennio è in grado di capire, nemmeno i professori di archeologia linguistica all’École du Louvre, poi pensa: oh dio, questo è mio marito morto da quindici anni, oggi è riuscito finalmente a stabilire un contatto, ma non ricorda più le parole. E un pensiero irrazionale di cui si vergogna all’istante, perciò si spazientisce e diventa nervosa. Abdul procede nelle spiegazioni, che sono logiche e consequenziali, particolareggiate ed evocative. Chantal T.S si calma, inconsciamente ha deciso di lasciarlo parlare, non ci sono più dubbi, pensa in un momento di lucidità, quest’uomo sta male. Mentre ascolta, osserva un palazzo hausmaniano dalla finestra del suo appartamento. La voce di Abdul e la vista del palazzo sono elementi inconciliabili, e Chantal T.S cade progressivamente in uno stato di trance. Vive reclusa da quando suo marito se n’è andato, nell’appartamento ci sono i suoi cimeli, la collezione di dischi, le riproduzioni di Bosch appese alla parete, una pila di periodici culturali e nell’angolo il pianoforte a coda. Il pianoforte, così diceva suo padre, dal quale lo aveva ereditato, era appartenuto a Franz Schubert.
Chantal T.S era la figlia di un immigrato ungherese. Si ricordava il giorno in cui erano scappati da Budapest e lei aveva afferrato una bambola di pezza, perché chi se ne va, e vede la sua casa per l’ultima volta, porta sempre qualcosa con sé, un oggetto qualsiasi, solitamente, e una manciata di ricordi traumatici. Questo era accaduto negli anni trenta, la sua famiglia apparteneva ad una minoranza etnica che, ciclicamente, è costretta a fuggire e confrontarsi con le macerie della propria esistenza. Dopo la morte di suo padre, di sua madre e di suo marito, era rimasta sola. Aveva ereditato un intero piano di una palazzina in rue Marx Dormoy. E mentre guarda il salotto come se si trovasse lì dopo una lunga assenza, e non fossero passati pochi minuti da quando ha preso la telefonata, ma decenni di storia recente, ripensa all’appartamento in fondo al corridoio, che aveva affittato per qualche anno ad una mezza dozzina di immigrati del Corno d’Africa. Ora è tutto chiaro, pensa, alcuni di loro usavano il mio telefono in cambio di un sovrapprezzo, per comunicare con il proprio passato. Prova a ricordare i nomi, interrompe Abdul, che ora sembra recitare i versi di un’epopea antidiluviana, e li elenca, i nomi che ricorda. Pronunciarli ad alta voce le dà l’idea di un rituale pagano. Quando dice Osman Almaz dall’altra parte sente un grido soffocato. Lo ripete, nel tono con il quale si pronuncia la parola che si cercava. Poi lo dice una terza volta – Osman Almaz – con una certa riverenza, come se dicesse Teodosio terzo o Luigi quattordici.
Gira la testa di quarantacinque gradi, fuori dalla finestra, e capisce che presto pioverà. Intanto ha iniziato un discorso senza capo né coda sul tempo che passa, sulla morte e sulla malattia, ponendo l’accento sulle cicatrici dell’anima, o, come le chiama lei, les blessures de l’âme. Nel suo monologo ci sono almeno una dozzina di concetti che prima o poi la vita si premura di chiarire con tanto di dimostrazioni pratiche, tra cui la rinuncia, il silenzio e un enfisema polmonare. Più che cicatrici, i suoi sono autentici tumori. Abdul è commosso: in quella lingua c’è qualcosa di suo fratello, della sua nuova identità. Già, perché chi lascia il proprio paese inaugura una catena di rinunce che assume la fisionomia di un suicidio. Ecco perché il messaggio di Abdul è in francese: suo fratello, ne era sicuro, aveva dimenticato ogni cosa, era diventato un uomo nuovo e non si sarebbero capiti, nella lingua che aveva rinnegato il giorno in cui se n’era andato. Chantal T.S si sta impegnando a ridurre all’essenziale il lessico e la punteggiatura. Una prosa asciutta è quel che ci vuole quando si è in preda al panico. Bisogna evitare le ripetizioni e le inutili e dispendiose digressioni che rischiano di sviare il discorso.
Quando si ferma per riprendere il fiato lo sente bisbigliare. Chantal e Abdul non stanno parlando l’uno con l’altro, ma ognuno con i propri fantasmi. Ora Chantal T.S è seduta in poltrona, ricorda uno di quei personaggi dipinti da Edward Hopper che attendono rispettosamente l’epilogo della tragedia di cui sono protagonisti. Abdul, sdraiato in posizione fetale sulla base di cemento dell’antenna, è il soggetto di un documentario sugli orrori di una guerra fratricida. E poi, nello stesso istante, ma in lingue diverse, pensano che a questo punto sono disposti ad accettare qualsiasi cosa. Sentono un calore diffuso, un’insperata sensazione di benessere. Abdul sente di aver comunicato con suo fratello, per vie traverse e misteriose. Ritiene di aver consegnato il messaggio, e di aver assolto il suo compito. Chantal T.S prova a ricordare Osman Almaz, e per il solo fatto di aver pronunciato il suo nome, si convince che fosse un individuo distinto, un uomo d’onore, sempre puntuale nei pagamenti; forse lo ha visto leggere, una volta o due. Ma non è dato sapere se quello che ricorda è proprio Osman Almaz o la sua immagine distorta dalle emozioni convulse di una povera demente. Nessuno dei due osa riattaccare e interrompere la telefonata. Tanto Abdul quanto Chantal T.S temono le possibili ripercussioni sulla loro anima di un affronto simile, rivolto alla potenza trascendentale che li ha messi in contatto. Chantal T.S rievoca il gradevole brusio che proveniva dalla stanza in fondo al corridoio e che, in qualche modo le faceva compagnia, la sera, prima di trovare il coraggio di spegnere le luci. Gli incontri casuali con gli inquilini. Puzzavano, è vero, avevano lo sguardo esausto o allucinato, ma erano sempre cortesi. Che fine hanno fatto? Si sono dispersi per le vie e sotto i ponti, o nelle catacombe di Parigi? Qualcuno si è arruolato nelle milizie dell’ISIS? Quanti sono morti, e quanti sono ancora vivi?
Abdul attende pazientemente che Chantal T.S finisca di porsi queste domande senza risposta. Intanto la morte di sua madre è diventata reale. Non è più il contenuto di un messaggio da consegnare. E inizia a pulsare nella sua calotta cranica. Nel diciottesimo arrondissement inizia a cadere la pioggia, dapprima fine e rada, presto si infittisce, e le goccioline che somigliavano a chiodi diventano granate. Chantal T.S è regredita ad un periodo della sua vita in cui il silenzio imperava e la ossessionava. Il silenzio della stanza in fondo al corridoio e quello del suo appartamento hanno qualità diverse, per via della diversa concentrazione dei ricordi. È già trascorso qualche minuto da quando uno dei due ha detto qualcosa. Nel deserto dei Dancali sta calando la sera. Abdul deve fare presto se non vuole passare la notte sdraiato su una lastra di sale. Non si chiede se suo fratello sia vivo o morto. Quello che farà, così ha deciso, sarà tornare a casa e accendere una candela nell’altarino in cui ha già previsto di aggiungere al corredo una fotografia di sua madre. Stacca il cellulare dall’orecchio sudato e indolenzito. Lo guarda per un momento e sente un ronzio indistinto, la voce di Chantal T.S che si allontana e viene risucchiata nel vuoto da dove è venuta. Un retropensiero gli suggerisce, alternativamente, di andare in città o di incamminarsi verso il mare. I primi passi sono titubanti, ci vuole qualche minuto affinché il potere narcotico della zucca faccia effetto sulla psiche di Abdul e lo incoraggi a procedere senza esitazioni.
La morte pacifica l’anima dei vivi, la scuote dal suo torpore, genera una scarica di vitalità da cui scaturiscono gesti e formule rituali con cui l’uomo celebra la vita, quando è abbastanza vicina da rivelare i suoi contorni. Uno la vede, ne sente l’odore, e prima pensa di essere vittima di allucinazioni visive e olfattive, poi pensa e qualche volta esclama, esultante: quindi eri tu! Sei sempre stata qui.
Ospito alcuni estratti dall’introduzione di Adriano Ercolani al volume di Alessandro Orlandi, “Amor Sacro e Profano. Nel mito di Eros e Psiche”, pubblicato da Stamperia del Valentino, che ringrazio.
***
Alessandro Orlandi è una mente rinascimentale contemporanea.
(…)
Un intellettuale con tale weltanschauung sincretica, con questo sguardo esoterico, insieme scientifico e iniziatico, non poteva non affrontare (dopo Mitra, Saturno, Dioniso, le concezioni del Tempo nella sapienza greca, lo Zodiaco e l’alchimia, il corpo sottile e il Kali Yuga, tutti temi dei suoi saggi precedenti che vi invito a recuperare) il grande mito di Amore e Psiche. Si tratta di uno dei grandi temi fondanti della riflessione iniziatica, che da Apuleio in poi è stato reinterpretato e meditato, con differenti sfumature e versioni, nel corso delle differenti epoche. Il fiume sotterraneo della philosophia perennis (in senso ficiniano e pichiano, senza deviazioni nostalgiche) attraversa le fasi dialettiche della Storia, mutando forme e variando accenti, eppur mantenendo il suo valore di prisca sapienza.
(…)
Orlandi inizia la sua trattazione, con corretto approccio filologico, introducendo la figura di Apuleio, l’autore a cui dobbiamo l’ingresso del mito in oggetto nella letteratura occidentale, ovviamente nell’immortale classico iniziatico Le metamorfosi, non limitandosi a una mera ricostruzione biografica, ma sottolineandone (pur nella vaghezza delle fonti a nostra disposizione) quella che potremmo definire la molteplice formazione misterica (isiaco-osiriaca, eleusina ed esculapica) e magico-operativa (fu accusato, e assolto, in un processo di aver sedotto una donna con un filtro d’amore).
Proprio da qui scaturisce una riflessione sui due aspetti principali della dea Venere (Afrodite Celeste e Pandemia), come da distinzione platonica nel Simposio, indagando, sulla scorta di Bachofen e Hillman, anche gli effetti nefasti e nevrotici dell’interpretazione letterale (di divisione e non integrazione) di tale duplice natura. Ma Venere, come qualsiasi dea, ha numerosi aspetti, cangianti e solo superficialmente contrastanti (pensiamo allo Sri Lalita Sahasranama, i mille nomi della Devi nella devozione induista, oppure ai differenti aspetti di Iside evocati proprio da Apuleio nella memorabile preghiera del protagonista Lucio al termine della sua opera citata): allo stesso modo, i Greci distinguevano diverse forme di suo figlio Eros.
Qui Orlandi offre una chiave metodologica efficace in quanto saggia: “Un mito può parlare alla coscienza in modi diversi, nelle varie fasi di una vita, animando e costellando differenti archetipi. Un mito è come un caleidoscopio: la luce può raggiungerlo secondo molteplici angolazioni, disvelando sempre nuove figure. È persino possibile che, nei Misteri del mondo antico, uno stesso mito fosse raccontato agli adepti più volte, in diverse fasi del loro percorso iniziatico, disvelando differenti significati.”.
Parlando di misteri, appare necessario affrontare la diffusione del culto di Iside nell’Impero Romano (chiaramente rifacendosi all’ineludibile La ricerca di Iside di Jurgis Baltrušaitis) e il conseguente florilegio di fonti letterarie a tema isiaco, soprattutto nella, letterale, renaissance del tema avvenuta dalla fine del Quattrocento.
(…)
Dopo una rapida quanto vertiginosa carrellata di figure legate alla riscoperta massonica del culto isiaco (da Mozart a Cagliostro, da Goethe a Steiner, passando a Napoleone), ecco finalmente affrontato il cuore del saggio: le diverse interpretazioni del mito di Amore e Psiche, analizzate per diverse tipologie d’approccio. Da quella scolastico-patristica, poi ripresa da Boccaccio, che insiste, inevitabilmente, sulla separazione tra spirito e sensi, a quella “proto-esistenzialistica” di Leopardi nello Zibaldone, dalla brillante rilettura in chiave orfica di Ersilia Caetani Lovatelli a quella di scuola junghiana, Neumann e Marie-Louise Von Franz in particolare. In questa schiera, si distingue James Hillman, per quanto la sua interpretazione sia orientata a sottolineare il valore terapeutico del mito, che il significato iniziatico. Orlandi però non si limita a riportare le interpretazioni più note, ma dà il giusto spazio anche alla profondità esoterica dell’interpretazione di Reinhold Merkelbach (legata alla dottrina dell’anima) e a quella totalmente ermetico/occultista di Jesboama, nom de plume di un ricercatore kremmerziano, che collega i vari personaggi fiabeschi a diversi gradi di iniziazione dei misteri isiaci. Dopo aver passato in rassegna alcune delle principali interpretazioni, Orlandi offre, come spesso, uno spunto esegetico originale e fecondo: rileggere il mito di Amore e Psiche alla luce di un altro scritto di Apuleio, il De Deo Socratis (derivante dalle riflessioni di Plutarco sul daimon socratico), in cui si descrivono le diverse tipologie di entità demoniche (non demoniache): entità reali, non fantasie poetiche.
Dunque, comparando il mito con tale visione del mondo sottile, le conclusioni di Orlandi sono perfettamente condivisibili: “Psiche è Anima, e Anima è un aspetto della fisiologia sottile dell’uomo, soggetta all’influsso delle immagini del mondo (l’azione di Eros, le sue frecce). Come questo influsso agirà, dipende da quanto si è dispiegata l’“intelligenza del cuore”: la capacità di discriminare le immagini veritiere scaturite dalla “porta di corno” da quelle fallaci provenienti dalla “porta di avorio”; di discernere le percezioni sottili da quelle ispirate da un contatto grezzo e pesante con la materia e da una dipendenza da emozioni incontrollate, legate all’attaccamento, al corpo, alla brama, che conducono l’uomo a proiettare sulla realtà i propri desideri e timori.”.
Con questo approccio, Orlandi si distingue dall’interpretazione psicanalitica (la più diffusa nella contemporaneità), sposando e rinnovando quella più propriamente iniziatica, procedendo ad affrontare, con quest’ultimo approccio, il significato delle quattro prove a cui è sottoposta Psiche.
Questa è, senza dubbio, la parte più originale e densa della trattazione e lascio al lettore il piacere della scoperta intellettuale.
(…)
Attraverso la trasfigurazione mitica del racconto fiabesco, il mito di Apuleio ci ricorda l’eterna lezione dei sapienti di ogni tempo, da ripassare ogni giorno per impararne nuovi significati nello svolgersi della nostra esistenza: “Voluptas, la bambina che nasce da Psiche ed Eros, è frutto dell’unione del desiderio con un “oggetto” trasformatosi in soggetto divino. È l’unione del Campo e del Conoscitore del Campo, del soggetto e dell’oggetto, di cui parlano la Bhagavad Gita, le Upanishad, i Sufi e i mistici di ogni tempo”.
Del resto, a chi era un adolescente nella fine degli anni’60, la voce di Fabrizio De André avrà ricordato centinaia di volte, come un mantra beffardo, la necessità di conciliare (senza ipocrisie, ma consapevolmente) “l’Amore Sacro e l’Amor Profano”.
Voci che la monotonia rende tutte uguali, sabbia che descrive il mare, voci impostate e senza accento che commentano la morte come farebbero con le condizioni meteo, come mai e poi mai commenterebbero una corsa di cavalli o una gara di motociclismo. Cosa sto cercando? Apro e riapro la porta ma il giornale non c’è. E come mai voglio il giornale mentre tutto attorno crollano condomini? Non mi è sufficiente, come lettura?
(Mahmud Darwish)
C’è un ragazzo in sella che sembra
filare ma la bici è ferma. Sono le villette
a scorrere lui
lancia giornali, che altro può fare.
Mirare alle porte di famiglie sazie…
Dovranno planare le notizie
affilate ma distorte
il meno possibile. Sulla strada
spuntano intanto ostacoli:
vecchi che attraversano
e nel farlo ci mettono secoli,
cani randagi, un carrello,
noie del genere. Il ragazzo le
scansa, centra l’ultima casa
passa di livello
muore una vita risorge una vita – ma più svelte
gli muoiono tra le mani le notizie,
morte arrivano morte alla porta di casa.
E non c’è casa che non sia l’ultima.
Paper Boy il gioco si chiamava e la trama
era una meccanica senza dramma. Era il ’98,
sedie da bar venivano disposte
intorno al mondiale. Planavano i gol
come dentro l’ovatta di una cupola
nella noia più tenue di quell’anno.
Tessuto jeans del mare, Albenga.
Tre paesi e milioni di onde cicliche dopo
che in anni farebbero anni venticinque
arriva una chiamata lo riconosco
sversare al telefono l’indicibile
colossale cogliona che è lei. Che lo ha
preso in giro, “ferito nel profondo”.
E no penso in allarme in preda
al mio orecchio interno –
si sarà liberata,
ce l’avrà fatta a discriminare
l’amore dalla sua ombra abusiva.
Resta che lui, se annusa
una memoria qualunque di loro due
in quell’idillio-confino di libri
manifesti concerti polvere
se annusa e fa per abbracciarla
non ritrova lei, non ritrova sé.
Cerca amici, incastra
parti di conforto.
Si vede mutilato. Sente solo
il moncherino del presente e la mole
del futuro premuta sul petto.
Com’è che ottant’anni di villeggiatura
ci hanno levato dalla voce leggerezza?
Ognuno porta nella pubblica piazza
la propria insufficienza.
Siccome a queste latitudini
il ragazzo di carta non parla è la risacca
o un’accidente o sono i bot
a spifferare titoli fin dentro la roulotte
NEMICO INTERNO
PROVOCAZIONE MOSTRI
SUMMIT NAZI.
Ogni famiglia che origlia sembra sazia
e non c’è noia più tenue nei giardini
con i fiori esaltati dall’afa, dalla zia,
col formicaio raso al suolo
e la talpa cacciata via.
Nella notte tutte le vacche sono nere.
Nel giorno tutte le vacche sono d’altri.
E la terra, la terra, l’acqua le case.
Saprò riconoscere, discriminare?
Nella laringe
malnutrita del Mediterraneo
il molo ha ceduto il bolo è bloccato.
E non c’è casa
che non sia l’ultima rimasta.
Tutte le strade portano al niente
non ci sono strade o le aprono
il mare carri armati Mosé e ammassano
trecento chili di detriti per metro quadro minimo.
Sopra ogni petto rimasto
scandalosamente vivo respirante straccetto.
Sopra quanto era casa e ancora lo è
notizia soppressa sfigurata. Metterò dov’era casa questa tenda come una croce. Dov’era la tenda una croce. Dov’era la croce un corpo. E prego che ascenda, e che resti intero.
Intanto arrivano forando la rete,
la sua cupola d’ovatta certe
immagini non ritoccate –
l’effetto filtro non serve,
ragazzo di carta sei bruciato
quaranta e pulsa mila volte e cercateci voi se davvero volete.
Siamo affondati a nessun livello
che si possa numerare
mentre hanno arruolato distorto
compresso i polmoni
lo spazio fra i sinonimi
siamo affondati così
non sappiamo discriminare
più protezione da difesa
difesa da attacco mirato
attacco mirato
da sterminio
da sterminio a peggio
peggio ancora.
_____________________
Davide Castiglione ha pubblicato tre libri di poesia, Doveri di una costruzione (Industria&Letteratura, Massa, 2022), Per ogni frazione (Campanotto, Udine, 2010), Non di fortuna (Italic Pequod, Ancona, 2017) e altri testi su varie riviste (Atelier, Nuovi Argomenti, Italian Poetry Review, L’Ulisse, ecc.). Lavora come professore all’università di Vilnius, dove insegna stilistica.
La motivazione: tutti siamo malati di qualcosa: la differenza è che noi antibasagliani cerchiamo di non pesare sul prossimo. Un Basaglia, che, secondo l’articolo, ha inguaiato migliaia di famigliari malati di mente che da allora devono improvvisarsi psichiatri domestici, e magari impazzire pure loro. Un articolo breve, brevissimo, la lunghezza, appunto, di una preghiera da recitare in coro.
Non occorre ripercorrere i passi di Basaglia, le sue motivazioni, la legge 180. O forse sì, come ho scritto qui in 180 passi indietro: occorre parlare di ciò che della 180 è stato fatto, su ciò che è stato smantellato, dei brandelli, delle zone ferite, delle dimenticanze, delle briciole rimaste. Occorrerebbe dire che i manicomi che si vorrebbero riaprire in alcune zone sono già riaperti: zone silenziose, visitate troppo poche da “i sani” di cui parla Langone e che “potrebbero impazzire pure loro.” Zone buie, interstiziali, lontane dallo sguardo che si potrebbe incrinare. Tralasciando i reparti psichiatrici in cui, come ormai si sa ma che forse si dimentica, i pazienti vengono ancora legati ai letti, reparti fatiscenti, di pareti scrostate e ruggine nei dentro e fuori dell’esistenza, dove il massimo che può pretendere una persona ricoverata, salvo rare eccezioni territoriali, è “un giro medico” al giorno e infermieri che non sanno dove e come comportarsi in casi di crisi, esistono le ctrp, comunità terapeutiche protette, dove i malati (imbottiti di farmaci – perché è questo che il sistema permette: la parola costa più di una pillola), possono passare anche venti, trent’anni della loro vita. E magari, quando il posto letto, per i tagli dei fondi, non è più garantito, dopo una vita trascorsa in un luogo che quantomeno è diventato famigliare, devono essere trasportati di edificio in edificio, dove si è liberato un posto letto, dove a una vita morta si sostituisce una morte in vita.
Molti malati sono costretti a vivere nelle proprie famiglie? Vero. E in condizioni pessime sia per i malati che per i famigliari.Vero. Famiglie in cui spesso, peraltro, il disturbo è nato, cresciuto, si è alimentato. Ma qui si apre lo scenario pietoso della Sanità Pubblica, che Langone certo non nomina: una persona psichiatricamente malata, ma questo vale anche per le patologie fisiche, se considerata “abbastanza malata”, inabile al lavoro, il ché significa con una percentuale che va dal 75% al 99%, viene aiutata dallo stato con 336 euro mensili.
Dando una breve occhiata – lo potete fare tutti – esistono precise tabelle alla cui diagnosi corrisponde un minimo e un massimo di invalidità. Un esempio:
SINDROME SCHIZOFRENICA CRONICA CON DISTURBI DEL COMPORTAMENTO E DELLE RELAZIONI SOCIALI E LIMITATA CONSERVAZIONE DELLE CAPACITÀ INTELLETTUALI: invalidità tra il 71 e l’80%. Ciò significa che la percentuale del 75% potrebbe anche non essere raggiunta. Quindi: nessun aiuto.
A giugno 2020, finalmente, la Corte costituzionale, esaminando una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Torino, una città particolarmente attenta alle difficoltà dei disabili, ha stabilito che un assegno di 285,66 euro (allora l’aiuto era questo) fosse inadeguato a soddisfare i bisogni primari della vita, quindi anticostituzionale. L’importo negli anni è aumentato, ma l’inadeguatezza è rimasta.
Può forse, una persona invalida, considerata non abile al lavoro, vivere di 336 euro? Pagarsi affitti, bollette, cibo, una vita minima? Non può – e allora resta alle dipendenze della famiglia, che con quei soldi può forse permettersi di pagare farmaci (perché no, non tutti i farmaci, anche quelli più importanti e salvavita vengono garantiti dal sistema sanitario: molti restano a carico del paziente) – né certo una struttura privata. E forse una minima parte investita per un aiuto che vada oltre il farmaco. Perché nei centri pubblici i pazienti, anche pazienti gravissimi, sono ricevuti mediamente una volta ogni due mesi. Due parole, un controllo, un rivalutazione farmacologica, una ventina di minuti che comprendono i dieci passati dallo psichiatra a battere a computer il referto della visita.
La soluzione per Langone – e per chi, i troppi, che con Langone sono d’accordo – non è certo quella di rafforzare l’aiuto economico per permettere a persone in difficoltà (in vera difficoltà: perché no: non siamo tutti malati, come scrive Langone), di avere una vita più dignitosa. La soluzione è quella di cancellare vite richiudendole in luoghi sommersi, gettare la chiave, chiudere gli occhi e continuare a mangiare la propria cena in pace, senza il pensiero dell’altro. Lasciando ai più l’immagine dell’altro malato come quella di un matto violento e distruttivo, che deve quindi essere rinchiuso. Una reclusione di cui si sa poco, che esiste ma resta sommersa, evitata agli occhi, distante, una gentrificazione dell’esistenza. Le comunità potrebbero essere un aiuto ai pazienti ma anche alle famiglie, ma i fondi per sostenerle vengono ripetutamente tagliati: è diminuito il personale, diminuisce la cura, diminuisce una vita degna di essere vissuta, diminuisce la parola a favore di una contenzione farmacologica, avvicinandosi a strutture manicomiali di vecchia memoria: quelle che Langone vorrebbe riaprire.
Cinquanta, cento, duecento anni di disperata vitalità. Iniziamo così, mettiamoci nell’impiccio, facciamo che questa scia -che questa ricorrenza- passi bruciando le carte e i rimpianti – per primo quello di non sapere, di non aver saputo fino a dove avrebbe battuto ancora la tua voce. Mi viene in mente Emilio Villa, che certo non ti amava e sputava a terra ogni volta che provavano a nominarti: «chi / forse intravede oltre gli anniversari, oltre l’araldica / catastrofe che ne ingoia tutti?». Sì: chi ha bisogno di anniversari? Guardiamo oltre, dobbiamo provarci a dire. E per inverso: chi non ne ha bisogno? Chi non desira, almeno un poco, continuare a pungolarsi, fosse solo nella catastrofe?
Certo è difficile proseguire nel solco di questa tua lunghissima mancanza; di una cosa che non si certifica, che si aspetta pur avendo smesso di aspettare. «Ogni epoca traligna. Ha ribrezzo del massacro che la fonda. Radia i padri dalle colonie del futuro. Strappa tutti i panni dell’antico corredo»: così ho scritto da qualche parte – eppure non riesco a scacciarti, a pagare o non pagare pegno. Non c’è padre, ma tu continui ad esserci: e ci sei come questa cosa che si chiama amore per i maestri che hanno calciato la vita nel punto in cui più s’accora, la dove c’è il pericolo e il nervo, là dove non c’è ragguaglio. E anche se oggi mi vedo tatuata dentro un’assenza – incisa come la tua pelle da quel raggio di luce di Fabio Mauri- più ancora mi preme questo resto che nonostante tutto ci abita. Che trova in noi dimora.
È stata forte, la tua storia, è stata immensa e immensamente malconcia – te lo ricordi il biglietto per Quasimodo al Premio Strega? «Caro Quasimodo, sono qui in lotta, puramente meccanica, preda di un automatismo letterario-mondano in cui mi muovo assurdamente, a darmi da fare per il premio Strega. È già impegnato il Suo voto? Posso sperare che lo dia al mio libro? Mi perdoni – e dimentichi subito questo biglietto! – I più cari saluti dal tuo Pier Paolo Pasolini». No, non dimentichiamolo. Siamo stati anche questo, lo siamo tutt’ora e allora ti sento vicinissimo nella «magra figura» della vita. Nel suo miserissimo, quotidiano lampo di lotte e automatismi.
È stata forte, dicevo, questa storia, e prosegue ballando, nonostante tutto, alla maniera del finale di Salò (chi lo saprebbe spiegare? È con noi, e basta così). Perciò voglio insistere ad affermare che bisognava, che bisogna anche oggi prendere parola come puntura, scrivere la parola che viene dopo come se corresse contro quella prima. Tutto scrivere, tutto raccogliere, tutto radunare in forma di rosa (malgrado il pieno inverno che non sgela). Amore ama il torto – disperato amore: non rimetteremo alcun peccato.
Un bacio da questa parte del tempo,
Giorgiomaria Cornelio
[Lettera a Pier Paolo Pasolini in occasione dell’incontro dell’Elba Book Festival del 15 luglio 2025, con Graziano Graziani, Loredana Lipperini, Dacia Maraini, Aldo Nove e Giorgiomaria Cornelio]
Salamandra tratta da una litografia tedesca del 1864
Non posso far bucato Anonimo (Codex Rossi) [1325 – 1355 ca.] MusiCanti Potestatis
di Greta Bienati
La Martina era brutta, fatua, con tanto di gozzo e con pochissimo cervello. O, almeno, così la dipingeva suo fratello Battista, contadino e muratore, che le voleva un bene dell’anima. La voce pubblica aggiungeva che casa sua era tutto un via vai e che, in tutta la Valcuvia, non ce n’era uno, giovane o vecchio, a cui fosse stata buona di dire di no. Ma diceva anche che non era per malizia o per cattiveria, ma solo perché era debole di testa e non capiva neanche il bene e il male.
Per quanto brutta, d’altra parte, la Martina non era certo la Maria Cassina, poveretta, che, oltre ad averci il gozzo, era gobba, orba di un occhio e dalla bocca le veniva fuori la voce rauca del demonio. Nata e morta anche lei a Brenta, quasi cent’anni prima, la Maria Cassina era stata l’unica strega di tutta la valle, roba che erano venuti giù a vederla i parroci di mezza diocesi e tre dottori di Gavirate. E, tutti d’accordo, avevano deciso di guarirle il corpo e l’anima a bastonate.
La Martina aveva la fortuna di essere nata in tempi civili, quando a parlare di streghe e indemoniati finivi a farti ridere dietro, e le bastonate le aveva prese solo per cercare di riempirle un po’ la testa vuota, senza pretesa di cacciarle fuori il diavolo. Un po’ gliele aveva date la madre, un po’ il padre e un po’ anche il Battista, che aveva cinque anni più di lei e se l’era presa sotto l’ala quando erano rimasti orfani.
C’era da dire che, pur col cervello molle, la Martina lavorava sodo: la mattina buon ora, aiutava nei campi con la ranza e con la zappa; poi, dopo colazione, andava a fare il bucato al lavatoio, oppure a raccogliere legna e castagne su per i boschi della Biotta, ed era capace di portare quanto un asino robusto.
Arrivata a trentacinque anni, la Martina sembrava anche lì lì a lasciare la sua vita disonesta. Da quasi due anni, infatti, faceva all’amore solo col Gioàn, che veniva giù da Orino, ma aveva la bottega di ciabattino in una corte di Brenta. Il Gioàn era brusco di mano e di cuore e non lasciava stare il fiasco finché non gli aveva visto il fondo, ma la Martina era di bocca buona; e poi, di mariti di belle maniere e che non finissero sotto il tavolo dell’osteria, in paese non ce n’era neanche uno.
Così, nella sua testa vuota, aveva preso da un pezzo a figurarsi un bel matrimonio, col Gioàn con la giacca scura e lei col vestito color ciliegia, tutto fiori e rabeschi, uguale a quello che aveva visto addosso alla figlia del mugnaio quando era andata sposa a un cavallante di Cuveglio. La Menghìn, che abitava nella sua corte, la vedeva fare il giro del cortile col cucchiaio in mano, a far finta di distribuire confetti e castagne a braccetto al suo ciabattino, e intanto masticava la saliva, con in bocca il sapore di formaggio e uova sode della torta degli sposi.
Il paese era arrampicato in mezzo ai castagneti, al riparo dai disastri del fiume e dalle novità del mondo. Chiuso da un muro di montagne con la testa pelata dai pascoli, era rimasto uguale dal tempo di Noè, immerso nel verde dei boschi e dei campi. Per vedere un pezzetto di azzurro, dovevi salire con la Scala Santa fino alla Madonna delle Grazie, e, da lì, spingere gli occhi in fondo alla curva della valle, dove luccicava un tocchettino di lago Maggiore. Gli spagnoli, i francesi, gli austriaci e adesso i piemontesi, col loro Regno d’Italia fresco fresco, non avevano cambiato di una virgola il macinare dei mulini, lo spuntare del grano, la trattura dei bozzoli nelle filande. Uguali a sempre erano anche i grembiuli scuri delle donne, che riparavano i vestiti dai segni della fatica, e le loro trecce arrotolate sulla nuca e fissate con gli spilloni d’argento.
In un’acqua tanto ferma, facevano rumore i sassi piccoli dei nati, dei morti, dei morosati. E infatti, nella mattina di luglio, la notizia che il Gioàn ciabattino andava sposo a una ragazza del suo paese corse in un momento di corte in corte, e arrivò alle orecchie della Martina proprio mentre faceva il suo giro a far mostra di dare i confetti.
La Menghìn la vide restar lì ferma per un pezzo, uguale alle statue delle cappelle della Madonna del Monte. Poi l’idea le arrivò nel cuore e nella testa, e, come un vento di burrasca, buttò in aria quel poco che ancora era rimasto in ordine.
Il Gioàn se la trovò in bottega con due occhi fuori di sentimento. Nessuno dei due era gente da grandi discorsi: lei gli gridò: «Traditore!», e lui la buttò fuori con uno sberlone. Con la testa che scoppiava di rabbia, la Martina andò di filato dall’ordine costituito, a chiedere che la legge del Re arrivasse di corsa a renderle giustizia.
«Un momento, un momento» cercò di quietarla il sindaco Longhi, ché lei gli gridava nelle orecchie peggio del suo ultimo nato.
Il sindaco ascoltò con la fronte tutta raggrinzita, nel mentre che la Martina dava l’anima a Dio, piangendo e strappandosi i capelli. Poi si alzò puntando i pugni sul tavolo: «Ghe parli mi» tuonò.
La Martina si zittì piena di spavento, ma nelle busecche le corse un brivido di contentezza all’idea che adesso arrivavano i carabinieri a portare il Gioàn in chiesa di forza per sposarla.
Come tutti i sindaci, anche il Longhi era stato nominato dal re Vittorio in persona perché facesse da buon padre ai suoi compaesani. E infatti da buon padre si portò, convocando subito il ciabattino, per metterlo davanti ai suoi impegni. Il Gioàn arrivò col cappello in mano e gli occhi già lustri del primo litro della giornata.
«Avete preso un impegno» fece la faccia scura il sindaco. «E adesso vi tirate indietro?»
Con la lingua che si impastava, il ciabattino biascicò che lui impegni ne aveva presi solo con la sua compaesana, e l’idea di sposare una balenga come la Martina non gli era mai neanche passata per la testa.
«Lo sapete anche voi che razza di donna è» aggiunse il Gioàn con una smorfia che voleva essere un sorriso.
Il sindaco cacciò fuori due occhiacci da diesire: «Gli impegni non si prendono solo con le parole!» picchiò la mano sulla scrivania. «Se avete usato carnalmente di lei, la Martina ha ragione di ritenervi impegnato!»
Il ciabattino si batté la mano sul petto, a giurare e spergiurare sputando in terra che lui, la Martina, non l’aveva mai toccata neanche con un dito. Aveva fatto tutto lei, nella sua testa bacata; e anzi, la prossima volta che gli veniva in bottega, chiamava subito i carabinieri che la portassero via di peso perché non lo lasciava lavorare.
Il sindaco Longhi lo guardò negli occhi lustri di vino. Poi si lasciò cascare sulla sedia, si passò il fazzoletto sulla fronte per asciugare il sudore di luglio, e congedò il mascalzone con un cenno della mano.
L’idea che il ciabattino non volesse più sposarla, aveva fatto gridare la Martina per un giorno intero, roba che l’avevano sentita anche i pastori in cima alla Biotta. Adesso, davanti al fatto che, in realtà, non l’aveva mai voluta sposare, la Martina si mise a dare il tormento all’intero paese, chiamando anche i sassi a testimoni del torto subito. Le donne non ne potevano più di sentirla: se la passavano una con quell’altra, e cercavano un momento di pace cacciandole in mano un po’ di tabacco da fiutare.
La notizia del matrimonio del ciabattino era arrivata in paese di martedì. Il venerdì, la Martina tornava dal mercato di Gavirate, e il cielo era mezzo chiaro e mezzo scuro, ché il venerdì, si sa, non finisce mai come è cominciato. Sopra la sua testa, i nuvoloni neri arrivavano di corsa dal lago e sembravano convinti di portare finalmente un po’ d’acqua al formentone, che boccheggiava nella terra grigia e piena di crepe.
Una goccia dura e grossa le cadde sulla testa, per andar più in fretta la Martina si chinò a levarsi gli zoccoli. E fu allora che vide la rusascia.
Era lì, ferma come un morto, in mezzo alle foglie vecchie dei faggi, nera e luccicante,con le sue zampette corte e le stelle gialle sulla testa piatta, e mandava un odore di rose andate a male. La Martinafece un salto indietro e cacciò un urlo che neanche la Maria Cassina col diavolo in corpo. Con gli zoccoli in mano, si mise a correre più svelta che poteva, mormorando una fila di avemarie, ché la brutta bestia non era solo buona di avvelenare l’acqua dei pozzi, gli alberi da frutto, la legna per il pane, ma soprattutto era segno di malaugurio, uguale a vedere la morte in persona.
«Porta male, porta male!» gridava la Martina, e intanto nella testa vedeva il suo funerale, e il Battista che piangeva, e le donne in nero. E il ciabattino in disparte, da solo in fondo in fondo alla chiesa, con tutti che lo guardavano storto, come fosse colpa sua.
La Martina si fermò di colpo. E un sorriso le attraversò la faccia.
«Sicuro che è colpa sua» pensò la Martina a voce alta.
Uguale a un seme di malaerba, l’idea le si piantò in testa così in fondo da farle dimenticare il temporale, e persino la rusascia. «Se muoio, è colpa sua» ripeteva, picchiando gli zoccoli uno contro l’altro, uguale a una cantilena di bambini. E intanto la malaerba allungava le radici e lo stelo, concimata dal cervello mezzo marcio.
Andò avanti a crescere tutta notte, e anche il mattino dopo. Quando la Martina andò al lavatoio, ormai era un rovo, che le riempiva le orecchie e la bocca.
Era dietro a fregare con l’aria più svagata del solito, quando si fermò con le mani nell’acqua e si voltò verso la sua vicina: «Se mi ammazzo, il ciabattino va in galera?» chiese.
Tutta presa dalle salviette da lavare, la donna fece sì sì con la testa, che la Martina era meglio condirla via svelto, o finiva col far dare di matto anche te.
«Cesarina, voi cosa dite?» insistette la Martina, per avere più soddisfazione. «Se mi ammazzo, il Gioàn va in galera?»
La Cesarina fece segno con la mano che non ci aveva tempo da perdere, che ancora non aveva messo su la minestra. La Martina si mise a resentare: nell’acqua le apparve la faccia del Gioàn dietro i quadretti di ferro della galera, e le luccicarono gli occhi.
«Ersilia, a me mi pare che, se io mi ammazzo, lui deve andare in galera tutta la vita. Dico bene?»
L’Ersilia era dietro a pensare che era un mese che suo marito non mandava soldi dalla Francia, dov’era emigrato per fare il muratore, e fece segno di sì con la testa senza neanche aver sentito.
Dato che ormai era chiaro che la Martina aveva attaccato una delle sue solfe con cui dava il tormento alla gente, le donne fecero svelto a finire il bucato, e anzi qualcuna si portò a casa i panni non lavati.
La Martina, invece, continuava a vedere nell’acqua la faccia del Gioàn dietro i quadri della prigione, ed era già la quarta volta che resentava le stesse mutande. Quando tirò su la testa, era rimasta solo una donna, tutta vestita di nero, con la pelle gialla come le macchie della rusascia, che la guardava con una faccia triste da far piangere. La Martina rimase lì con le mutande da strizzare in mano e lo stomaco ingarbugliato per la paura. Prese su il suo bucato, e scappò via borbottando.
Per tre giorni, la malaerba andò avanti a buttare frasche e fiori, e a cacciare le radici giù nel petto, tutto intorno al cuore. Di giorno e di notte, davanti agli occhi della Martina passavano la rusascia e il Gioàn a quadretti, la donna con la faccia gialla e il Battista che piangeva al suo funerale. E passava anche lei, sdraiata con le mani in croce, con indosso il vestito cilestrino coi bottoncini gialli e il fazzoletto rosso e giallo al collo, e al pensiero di essere morta scoppiava a piangere per il dispiacere. Ma subito rideva, che adesso il ciabattino era pagato fuori per bene, e, invece che a sposarsi, lo menavano alle carceri mandamentali di Cuvio.
La mattina del martedì, una settimana giusta da che era scoppiata la baraonda, la Martina andò al campo col Battista innanzi lo spuntar del sole, per lavorare col fresco. Zapparono per un pezzo, e il Battista sacramentò per l’annata grama. Poi vennero a casa insieme che ancora non erano le otto, e, per colazione, mangiarono un po’ di latte con la crosta della polenta. La Martina aveva da fare il bucato, e il Battista tornò al campo da solo.
Al lavatoio, cosa strana, non c’era nessuno. La Martina tirò fuori i panni dalla cesta e mise a bagno i fazzoletti e le calzette. Dall’acqua salì odor di rose marce. E l’immagine di una donna vestita di nero, con la faccia gialla e triste.
«Cosa volete?» fece la Martina, e levò svelta fazzoletti e calzette dall’acqua, mica che fosse avvelenata.
La donna non rispose; l’espressione era uguale a quella della Madonna addolorata. La Martina prese la sua cesta e scappò via svelta tra i vicoli e le corti. E la donna dietro, zitta e gialla, con la faccia che metteva addosso la voglia di piangere.
La Martina si voltò due volte, e due volte la vide che la seguiva, ma senza venire troppo vicina, come una che non vuol farsi vedere. Si voltò la terza volta quando arrivò davanti a casa del sindaco Longhi. Il campanile stava battendo le nove.
«Ho bisogno di parlarci al sindaco» disse alla serva. E neanche lei sapeva se voleva dirgli ancora di provare a convincere il Gioàn, o se voleva chiedergli di far menar via la donna dai carabinieri.
Il sindaco si stava vestendo. Alzò gli occhi al soffitto, a chiedere al Padreterno la pazienza di far dietro una volta di più alla Martina, e le mandò a dire di aspettarlo un momento. La Martina, però, vide la donna venire più vicina, le prese la paura e scappò via. Così, quando il sindaco scese in strada, non trovò nessuno, alzò le spalle e tornò in casa a fare colazione con il cioccolatte.
La Martina entrò nella corte quasi di corsa e andò di filato dalla Menghìn, che mondava il riso sull’uscio di casa.
«Ci avete un po’ di tabacco?» chiese, e intanto curava se la donna le veniva dietro fin lì.
La Menghìn fece di no con la testa. La donna sembrava sparita.
«Vado a prenderlo io» disse la Martina.
La Menghìn finì il suo lavoro, poi si mise a tagliar giù due cipolle per la minestra. La Martina andò fino alla privativa, comprò il tabacco da fiuto e tornò con uno scartozzino di quello fino.
«Sei bianca» disse la Menghin. «Stai male?»
La Martina disse che era colpa della rabbia che le avevano fatto prendere. «G’ho el stomech infesciaà» disse, e questa non era una bugia, perché vedere la donna vestita di nero e sentire un peso sullo stomaco erano una cosa sola. Si cacciò nel naso una presa di tabacco e starnutì. L’odore del tabacco le riempì la testa e diede una mossa alle gambe.
La donna la aspettava nella rughetta, nera e ferma come la rusascia. La campana suonò le dieci. La Martina incrociò gli occhi sporgenti della donna, e la notte le scese nella testa e nel cuore.
Le gambe la portarono nella corte del ciabattino, e la donna dietro, attaccata ai piedi uguale alla sua ombra. Il Gioàn stava attaccando un tacco, seduto davanti alla porta della bottega, quando la Martina gli oscurò il sole, fosca e minacciosa come una nuvola di tempesta.
«Martina…» balbettò il Gioàn, e negli occhi le vide passare le sere nei prati e la promessa di un fazzoletto nuovo, per la processione della Madonna. E poi il vestito color ciliegia, e i confetti, e le castagne. E la vita di sposa, con lui in bottega e lei che gli portava il desinare di uova sode e cetrioli dell’orto. E tutto, le sere nei prati e i confetti, le uova sode e la vita di sposa, sprofondava nel pozzo scuro degli occhi della Martina.
«Martina, io…» si alzò il Gioàn, con la voce tremebonda.
La Martina diede un grido, e dalla bocca le uscì la voce del diavolo in persona, uguale a quella strega della Maria Cassina. Puntò il dito in aria, a chiamare il Padreterno a testimone: «Mò ti pago io!» urlò, con la faccia di una che era lì lì a bergli il sangue e mangiargli il cuore. «Giuramento!»
Sputò in terra e corse fuori dalla corte. Il Gioàn restò lì con le guance bianche e le gambe di stracchino a guardarla che spariva dietro il cantone, poi andò di filato a cercare un po’ di coraggio all’osteria.
Col passo svelto di chi ha paura di far tardi, la Martina attraversò i vicoli, le rughette, i cortili. Adesso era la donna ad andare davanti e la Martina a venirle dietro, nera e silenziosa come le ombre lunghe del vespro. Arrivarono in corte, passarono davanti all’uscio della Menghìn, entrarono in casa. Il vestito cilestrino coi bottoncini gialli era appeso al muro, fresco di stiro e di bucato. La donna si sedette sull’unica sedia, con le mani in grembo e il sorriso di compassione delle madonne e delle sante. La Martinachiuse la porta.
In campo, intanto, il Battista aveva ricominciato a zappare e sacramentare. Sentì suonare le undici, e si chiese che fine avesse fatto la Martina; ma sicuro si era fermata al lavatoio a far andare la lingua invece che le mani. Finito con la zappa, cominciò col falcetto, che la siepe veniva avanti troppo e rubava posto alle verze e alle patate. Il sole picchiava forte, e la camicia si attaccava alla pelle chiamando i moscerini a dar fastidio.
«Don! Don! Don!» si fece sentire il mezzogiorno. Il Battista alzò la testa: adesso andava a casa a prenderla e le faceva passare la voglia di andare in giro a ciciarare a suon di bastonate. La Menghìn lo vide attraversare il cortile col falcetto in mano e l’aria sversa da temporale incombente.
«Oggi la Martina si prende le sue canelate…» scosse la testa.
Il Battista entrò in casa della sorella senza neanche bussare: «Martina!» chiamò.
Ma la Martina non poteva rispondere. Pendeva da una trave, con una corda al collo e lì di fianco la scaletta su cui era salita per fissarla al soffitto.
Con un colpo di falcetto, il Battista corse a tagliare la corda, tirò giù la sorella, la sdraiò sul letto. Ma la Martina era già fredda come una biscia.
«Menghìn!» chiamò il Battista. E la Menghìn piantò lì la minestra nel piatto, ché si capiva dalla voce che era cosa grave.
«Gesùmaria!» si segnò la Menghin entrando.
Dietro di lei arrivarono le donne, i bambini del cortile, il sindaco Longhi, e poi anche le autorità della giudicatura mandamentale, venute giù apposta da Cuvio.
E la Martina lì sul letto, già vestita per il funerale, con la veste cilestrina coi bottoncini gialli, in collo il fazzoletto giallo e rosso, e la treccia fissata con gli spilloni d’argento, senza neanche un capello fuori posto.
«Si è appiccata per amore» bisbigliò il sindaco al giudice, passandosi il fazzoletto sulla fronte. Il giudice fece segno di sì con la testa, ma le indagini andavano fatte lo stesso, e disse al Battista che doveva andare a deporre, mettendogli addosso l’agitazione.
Fuori, nel cortile, arrivò per ultimo anche il Gioàn ciabattino, con gli occhi lustri di vino. Fu solo lui a veder sgusciare via, tra gli zoccoli delle donne, una grossa rusascia, tutta nera e luccicante, con le stelle gialle sulla testa e l’odore delle rose appassite.
Nota
Il racconto è tratto fedelmente dagli atti di un’inchiesta del 1863 in Valcuvia, sulla sponda lombarda del lago Maggiore. Nomi, eventi, dettagli dei luoghi e degli oggetti e persino le parole dei protagonisti provengono senza variazioni di sorta dai documenti giudiziari. L’immaginazione dell’autrice ha aggiunto solo la presenza della salamandra, che nella tradizione popolare incarna le forze oscure del mondo e dell’animo umano.
di Hazem Harb (dalla raccolta Gauze, garza su cartoncino)
e Stefania Zampiga (testi)
di ordito
adiacenti
sottili fili
ordito sottile
ordito di
adiacenti fili
sottili trame
adiacenti lunghe
fra due
lunghe trame
lunghi fili
trame in
altra orditi
sottili sgrana
altra fili
trame larga
sgranata altra
larga sgranando
ovunque aperture
adiacenti avanza
un rado
tessuto
rarefa
garza¹ /’gardza/ s. f. [prob. dal fr. Gaze. Il francese Gaze vuolsi detto dalla città di Gaza in Palestina, dalla quale una volta quella stoffa proveniva, dove si fabbricava e da cui si esportava un tempo questo tessuto]
(garza) 2. (med.) [prodotto sanitario in cotone usato per fasciare ferite, medicazioni chirurgiche] ≈ benda, fascia.
sulla pelle non impatta
pelle nulla impatta
impatta nulla pelle
gossypium scardassato
si posa gossypium
tampona
come maglia
le strisce lascia
imbeversi
non, ora
mille. mille, mille. mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille. mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille, mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille mille
millemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemillemille
…
seamlessly schermi senz’ occhi rotolamenti live scivolano.
vista d’occhio IA mira
organico-inorganici
fra cellule connettivali
inorganico-organiche
residuano biancastri
carbonati ossigeno
cellule fra connettivali
carbonati calcio
calcio fosfati forme
forme calcio fosfati
in venire o andare
fosfati calcio forme
venire figure
ossigeno andare
andare figure venire
forme connettivali
cellule mappe
su più scale
__________________________
Hazem Harb è un artista di rilievo internazionale originario di Gaza e residente a Dubai. Nella sua traiettoria artistica di diversi decenni preserva un dialogo costante con il luogo d’origine. Negli spostamenti dapprima da Gaza a Roma dove ha conseguito un master presso l’Istituto Europeo di Design e quindi negli Emirati Arabi Uniti, Harb ha imparato a muoversi nella vita come un essere liminale. Nella consapevolezza che il luogo di origine non potrà mai essere solo una ‘terra’, l’artista impiega un repertorio in continua evoluzione di tecniche artistiche per negoziare uno spazio che è stato ritagliato e ridisegnato molte volte. La sua arte è profondamente radicata nel senso di un luogo, alimentata da intuizioni personali e coinvolta in conversazioni non facilmente separabili dall’arena globale.
Stefania Zampiga nasce a Cesena, vive, scrive e traduce a Prato. Il suo libro d’esordio è feelers (Animamundi, marzo 2024, finalista Premio Montano 2025), a cui fa seguito Rangifera (Manufatti Poetici 2024). Con la silloge breve Biocentrica (premio Arcipelagoitaca 2023) è presente nell’Ottavo repertorio di poesia italiana contemporanea (Arcipelagoitaca, 2024). Suoi testi, traduzioni, recensioni sono in rete su blog italiani e inglesi. Traduce dall’inglese. Ha scritto per il teatro danza ed è appassionata di linguaggi performativi di ricerca.
Diversi anni fa, quando studiavo per diventare attrice alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova, appresi da Anna Laura Messeri, la sua leggendaria direttrice, tante lezioni memorabili. Una fra le più preziose, e per la vita, è che ogni interpretazione di un testo deve saperlo rispettare con fedeltà. Scrive Messeri, “Mess” per tutti i suoi allievi, nel libro ricapitolativo del suo metodo Le regole del gioco, guida ai primi segreti della recitazione (2022): «regola ineludibile, il testo deve essere detto con scrupolosa esattezza, senza approssimazioni o aggiunte». E ancora: «In scena, sorprendersi, sorprendersi, sorprendersi!»
Far dire al testo quel che dice realmente, e non quello che si vorrebbe dicesse per comodità o vanità di chi lo interpreta, creare, agire proprio su quelle parole, mantenendo sempre vivo lo stupore: è questa la posta in gioco più alta per l’interprete di un testo, che sia filologo, traduttore, regista o attore. Ed è questo lo spirito con cui ho scoperto, tradotto e amato il Vair palefroi, un’opera poco conosciuta anche dagli studiosi di letteratura medievale anticofrancese, eppure coinvolgente per la sua eco poetica e simbolica.
Composto intorno alla seconda metà del XIII secolo e ambientato nella Francia del Nord, nelle terre comprese fra Piccardia, Borgogna e Champagne, il Vair palefroi è un récit bref apparentemente di semplice lettura. La vicenda è incentrata sull’amore di due giovani divisi e osteggiati da un padre e da uno zio anziani, entrambi ritratto oscuro della ricchezza e della più bieca avidità, in opposizione alla levità del sentimento e dell’animo nobile degli amanti. Più che per la trama, che rielabora alcuni motivi di una favola di Fedro, il Vair palefroi spicca per una compagine di tratti d’intonazione iniziatica, riguardanti in particolar modo la sua protagonista femminile. Nel clima meraviglioso, carico di significati allegorici della foresta, in cui interviene in maniera decisiva un gran chiarore lunare, ha luogo la cavalcata notturna della fanciulla: ella si lascia condurre lungo un sentiero da un palafreno vaio, l’attante fantastico oltremondano che intitola l’opera, verso il suo innamorato virtuoso, sottraendola così a un matrimonio imposto con l’inganno e a tradimento.
Alcune notazioni sulla tradizione e sull’autore: il Vair palefroi è un poemetto in versi octosyllabes ed è tràdito da un unico testimone, il ms. fr. 837 della Bibliothèque Nationale de France, celebre miscellanea di lais, fabliaux e altri testi a tradizione orale. Nulla si conosce dell’autore, se non il nome, Huon le Roi, che compare all’inizio del racconto. La critica l’ha spesso identificato con Huon le Roi de Cambrai, conosciuto per alcune opere religiose e morali in versi, tuttavia non ha saputo fornire prove certe a favore di quest’ipotesi, all’infuori dell’omonimia. Il titolo roi potrebbe designare il vincitore di un certame poetico ed è probabile che l’autore fosse un cantore professionista. La questione del genere è assai complessa e tuttora dibattuta, per le somiglianze con i lais – l’ascendenza meravigliosa, alcuni tratti stilistici e strutturali, il vettore dell’aventure – e con la tradizione novellistica. Per certi versi, il racconto si situa sulla faglia tra oralità e scrittura.
Il Vair palefroi è stato tradotto in francese da Jean Dufournet (1977 e 2010) e per la prima volta in italiano da Margherita Lecco (Il Cavallo Leardo, 2021).
*
Nota
di
Claudio Franchi
Cosa dovrebbe insegnare la filologia? O, meglio, quali sono i presupposti che rendono possibile ogni operazione filologica?
Due, essenzialmente.
Innanzitutto, il rispetto del testo tràdito, in ognuno dei testimoni che la storia ci ha affidato.
Poi, il rigore scientifico assoluto in ogni interpretazione proposta.
Ecco, il Vair palefroi troppo spesso è stato affrontato in completo disprezzo di questi principi fondamentali della filologia.
Evocazioni, sovradeterminazioni interpretative, vaghi e inconsistenti riferimenti, letture posticce e mille altre manipolazioni hanno mortificato un testo che nella sua semplice essenza bastava a sé stesso, soprattutto grazie alla propria efficacia narrativa e al suo porsi nel proprio e specifico universo culturale.
La stessa traduzione in un’altra lingua è essa stessa una delicatissima e dolorosissima operazione filologica, un atto di ri-creazione che fa sanguinare il testo in una vera e propria transustanziazione, dove ogni stilla diventa una stella che guida un nuovo cammino. Per questo, Trop sui dolenz et molt m’en poise/ Que toz li mons nes loe et proise / Au fuer qu’eles estre deüssent, molto mi addolora e molto mi pesa, che non tutti le lodino e apprezzino, secondo il loro legittimo valore.
Guillaume ama e si batte, si fida e si affida, la damoisele sogna e desidera, si rassegna e si ritrova, il padre e lo zio conservano anche alla loro età proiezioni forti e potere consolidato. Il καίρος del palafreno è reso possibile solo dalla costanza e la dedizione dell’amore di Guillaume e dalla fiducia totale della damigella.
Perché, in fondo, solo per dare una vita a questa storia est iceste oevre en escrit mise.
A noi, non resta che tradurla e rispettarla.
*
Giulia Carnevali, finissima studiosa ha lavorato al Vair Palefroi, dedicandosi a una nuova traduzione e commento con la supervisione del Prof. Alvaro Barbieri dell’Università di Padova. (effeffe)
L’Anniversario di Andrea Bajani è il libro vincitore del Premio Strega 2025. Andrea Bajani è stato parte della redazione di Nazione Indiana e ci fa piacere festeggiarlo da qui.
di Lisa Ginzburg
Il romanzo, dice Andrea Bajani nel doloroso e bellissimo L’anniversario (Feltrinelli 2025, vincitore della ultima edizione del Premio Strega) possiede una “forza brutale di compensazione”. Ovvero, l’immaginazione arriva in soccorso là dove vi sono lacune della memoria, cavità vuote del trauma di una ferita che la scrittura potrà suturare sempre solo in parte. Come un grande occhio che tutto vede e tutto registra, il Romanzo, quasi fosse personaggio esso stesso, è allora dispositivo immaginifico che fa da contrappeso “in levare” a una storia altrimenti troppo vera, e troppo intessuta di sofferenza, per poter essere narrata. Il racconto di Bajani, la cui lettura colpisce dritto al cuore per come lo stile è scabro, nitido e lucido se pure usato per esprimere sentimenti molto intensi e duri da scandagliare, non è “autofiction”, ma qualcosa di più profondo, di più affilato e coinvolgente. Non “autofiction”, bensì memoria cui viene in soccorso il Romanzo, quando quella esiti o incespichi perché addentratasi a rivisitare lampi di ricordo che non è in grado di sostenere.
La vicenda, triste in modo straziante, è quella dell’addio di un figlio ai suoi genitori, la sua definitiva partenza dalla casa di famiglia dopo quarant’anni di un inferno domestico che è stato concentrazionario, per come le dinamiche tossiche, nel loro ripetersi e acuirsi, sono risultate coercitive negli effetti. Il legame disfunzionale tra i genitori si è cementato in una dinamica impossibile a scardinarsi. Il padre tiranneggia moglie e figli costringendo la consorte a una deriva fatta di violenza, possesso, mortificazione; e i figli, obbligati spettatori, loro anche sono oggetto delle feroci richieste di conferme di questo adulto imploso, che sempre oscilla tra vittimismo e furia, che di continuo procede sul filo dell’ambivalenza tra richiesta e dominio. Di contro, una madre che della propria abnegazione ha fatto una forma di non esistenza, di non vita. Una donna che pur di non essere vista, lei per pima non si guarda, preda di una distrazione distruttiva. Qualcuno il cui autosabotaggio è rinuncia a stare nel mondo, una rinuncia che passa per una sorta di incrollabile sfiducia, un grado tale di disillusione da quasi toglierle umanità. Per desolazione, e per troppo subire, questa madre non ha paura di nulla, e ciò la rende capace di una cieca forma di determinazione, buia come buio e sventurato è lo stallo del nucleo famigliare nell’isolamento e il malamore.
Dei due, padre e madre, non ci sono descrizioni fisiche, non fosse per un polpaccio troppo sottile della madre che da bambina ha avuto la poliomielite. Eppure vediamo tutto, prima e dopo le violenze domestiche, attraverso l’oggetto di un telefono arrivato in casa troppo tardi e le cui intermittenze dell’accesso alla linea (decretate dal padre) dicono tutta la nevrosi di un ménage avvelenato e velenoso. Anche, vediamo tutto (di nuovo senza disporre di descrizioni) di una geografia italiana che è paesaggio di una rotta migratoria anomala, da Roma al Piemonte spostandosi dalla grande città a frazioni di paesi sotto alle Alpi, via via più romiti, abitati dal “silenzio della disperazione”. Bajani ci accompagna con maturità di narratore, rendendo l’invivibile visibile e dicibile. Accade così che una materia narrativa estremamente densa e difficile trovi ritmo in un tono pacatissimo. È la calma la cifra di un distacco che solo lo stacco temporale e un tenace lavoro interiore hanno potuto generare. I dieci anni di silenzio con i genitori e la sorella, dieci anni di strappo dalla radice, come si trattasse di un’orfanezza datasi da solo per troppo avere patito e subìto le malapiante di stessa radice, Bajani li celebra con questo libro/anniversario, autobiografico ma senza niente di ombelicale, dove racconta la sua storia ma senza indugiare in un eccesso di auto-indulgente sentimentalismo: mai. Parole misurate e precise, dolenti come fossero quelle di un lungo canto, di congedo e di sopravvivenza, ma anche di consolazione, quella che la letteratura può regalare se si fa esperienza. Leggere L’anniversario è davvero un’esperienza. Un attraversamento che ci tocca e ci trasforma.
Questa recensione è uscita su “Avvenire” il 24 gennaio 2025.
È morto oggi a Roma Goffredo Fofi. Aveva 88 anni. Era ricoverato all’Ospedale Cavalieri di Malta dal 25 giugno, in seguito alla frattura di un femore. La notizia della sua morte è la prima che mi è apparsa questa mattina sul cellulare appena aperto, in un post su Instagram di Alessandro Raveggi: se servono spesso a distrarci, gli strumenti della vita digitale hanno però una loro intima, algoritmica consapevolezza che non nasconde le cose importanti.
La morte di Goffredo Fofi è una cosa importante perché importante è stata la sua vita. Fofi è stato l’intellettuale più libero e seminale del secondo Novecento italiano (un secolo che, in questo caso, si è allungato fino ai nostri anni). Libero in un Paese, il nostro, che nella sua tradizione politica – dal fascismo ai grandi partiti di massa – e nelle sue pratiche culturali – da università e accademie a grandi e piccole cordate letterarie, fino al mondo della comunicazione – non ha mai dato grande importanza alla libertà e autonomia di pensiero. Fofi è stato quindi un monito vivente, il raro esempio che si poteva esistere e fare cultura (e politica) senza conformismo né servilismo.
Ha scritto Massimo Onofri qualche anno fa su Avvenire che “Fofi, a fronte d’un grande senso di responsabilità morale e d’un forte vincolo comunitario, ha scelto da sempre di non possedere nulla: quasi che il semplice possesso, prima ancora che la proprietà privata, sia già di per sé estraneazione e feticismo”. Spirito cristiano, socialismo e anarchismo libertario, attitudine indomita alla costruzione di comunità, gruppi e riviste, dagli esordi nella Sicilia di Danilo Dolci agli anni del Nord industrializzato di Torino e Milano, dall’esperienza napoletana (dove animò la Mensa dei bambini proletari nel 1972) fino all’approdo a Roma: nel corso dei decenni della sua, per fortuna, lunga vita Fofi è stato, ed è sempre rimasto, un educatore. Solo in questo modo, retrospettivamente, posso interpretare le sue carezze e le sue capocciate. Le sue carezze quando qualcosa che avevi scritto o fatto gli era piaciuto. Le sue capocciate (vere e proprie incornate, non è una metafora) quando qualcosa di tuo non gli era piaciuto. In entrambe le versioni, restava un educatore.
Ma questi sono solo ricordi personali. E molti lettori di Nazione Indiana ne avranno di propri, e avranno una propria idea critica di Goffredo Fofi. Mi permetto di segnalare un pezzo che proprio su questo sito dedicai a due suoi ultimi libri, Cari agli dei (E/O, 2022) e Son nato scemo e morirò cretino (minimum fax, 2022).
Chi voglia capire chi è stato, e quanto è stato importante, Goffredo Fofi dovrebbe partire da queste due letture che raccontano le persone e gli incontri decisivi della sua vita, e antologizzano la sua scrittura civile, sociologica e infine, ma probabilmente è l’aspetto più rilevante, la sua autorevole attività di critico cinematografico.
Del resto, per valutare il peso di Fofi nella storia culturale italiana, basta il semplice elenco delle riviste che ha fondato o diretto: Quaderni piacentini, Ombre Rosse, La Terra vista dalla Luna, Linea d’Ombra, Lo Straniero, Gli Asini.
Tra i libri, aggiungerei: L’immigrazione meridionale a Torino (Feltrinelli, 1964). L’inchiesta sull’emigrazione meridionale nella capitale dell’industria italiana, che gli costò la rottura con Einaudi. E ancora: Il cinema italiano. Servi e padroni (Feltrinelli, 1971); Totò. L’uomo e la maschera (Feltrinelli Economica, 1977. Fofi fu insieme a Pasolini l’artefice della rivalutazione critica e artistica di Totò); Benché giovani. Crescere alla fine del secolo (E/O, 1993); Strana gente. Diario tra Sud e Nord dell’Italia del 1960 (Donzelli, 1993. Sull’esperienza al fianco di Danilo Dolci); Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza (Eleuthera, 2006); La vocazione minoritaria. Intervista alle minoranze (Laterza, 2009).
Era nato a Gubbio nel 1937, in una grande comunità familiare mezzadrile, figlio di un artigiano socialista. Appena diciottenne, si trasferì in Sicilia per affiancare Danilo Dolci nelle battaglie contro la mafia e per i diritti dei disoccupati. Partecipò agli “scioperi al rovescio” e subì un “foglio di via”. Quell’esperienza avrebbe segnato per sempre il suo pensiero e la sua pratica intellettuale, ispirata alla nonviolenza e alla giustizia sociale. Negli anni Sessanta lavorò a Parigi per la rivista di cinema Positif, quindi tornò in Italia, dove avviò e partecipò alle molte esperienze e riviste che abbiamo già elencato. Ma ogni rivista era un gruppo, una forma di vita, un laboratorio critico teso a leggere in profondità i mutamenti politici e culturali.
Tra le tante parole che ho letto su di lui questa mattina, quelle che mi hanno colpito di più per la loro completezza sono nei lanci che gli ha dedicato il giornalista Paolo Martini sull’Adnkronos:
Ha scelto di dare voce agli “ultimi” e agli “irregolari” della cultura, spesso in polemica con l’establishment, cercando nella cultura popolare, nel Sud dimenticato e nel cinema alternativo quelle verità che le narrazioni dominanti tendevano a nascondere.
Critico cinematografico tra i più originali del dopoguerra, Fofi non si è mai limitato a recensire film: li ha letti come specchi – a volte deformanti, a volte rivelatori – della condizione umana e dei cambiamenti sociali. Ha scoperto e sostenuto registi, attori, scrittori, spesso prima che venissero riconosciuti dal canone ufficiale. Il suo sguardo era, ed è, anticipatore: non seguiva le mode, le individuava quando ancora erano in nuce. Ma Fofi è stato anche un critico letterario, teatrale, osservatore della società, “disincantato ma non rassegnato”. La sua scrittura, mai neutra, è sempre stato un atto politico, nel senso più alto del termine. La sua militanza non si è mai legata ai partiti, ma ha abitato i luoghi vivi della cultura e della coscienza collettiva: i libri, le riviste, le sale cinematografiche, le redazioni, le scuole, le strade.
E poi il ricordo dei suoi editori, Sandro ed Eva Ferri:
Negli ultimi anni abbiamo lavorato assieme alla collana Piccola Biblioteca Morale, che lui dirigeva per la nostra casa editrice. Abbiamo trascorso insieme molto tempo e i ricordi più belli sono quelli delle cento storie buffe che mi ha raccontato. Aneddoti con personaggi famosi come Luis Buñuel, Elsa Morante, Bianca Guidetti Serra, Fabrizia Ramondino, Alex Langer, Federico Fellini e moltissimi altri. Sempre divertenti, dissacranti ma con un lato di empatia. Coglieva gli aspetti contraddittori delle persone, i loro difetti e debolezze, ma con umanità. Era così: ti attaccava violentemente, ma poi ti abbracciava. Ti faceva morire dal ridere e, al tempo stesso, morire per una visione tragica che aveva del mondo. Era un contadino cresciuto nelle campagne povere dell’Umbria ed era anche un intellettuale cosmopolita, capace di confrontarsi con l’immensa varietà del mondo. Non ho mai conosciuto un’altra persona come lui, in grado di tenere insieme tante visioni ed emozioni diverse e di trasmetterle agli altri. Ha sempre pagato il prezzo di questo anticonformismo e di questo coraggio e di questo rifiuto di chiudersi dentro gli asfittici recinti del nostro mondo intellettuale.
Quando avevo sette anni ho perso in aeroporto un bastone che con i miei genitori gli avevamo preso in Africa in un banchetto sul ciglio della strada e che mi era stato affidato mentre i Sandri cercavano di recuperare le valigie, e non ho mai smesso di sentirmi in colpa. Lui in cambio quando lo incrociavo in ufficio mi gridava di non essere borghese, apriva porte e tracciava sentieri, ci abbracciava soffocandoci. Lo incrociavo, spessissimo, su qualche soglia. Grazie a Goffredo ho conosciuto tante storture del mondo, tante ridicolaggini e ingiustizie, ma anche tante meraviglie intellettuali, e il mio grande amore. Era così, un mucchio di cose insieme e posso dire che comunque non ha mai avuto bisogno di quel bastone.
“Storture” e “meraviglie”. Uno dei giorni più storti nella vita di Fofi credo sia stato quando gli toccò in sorte di commemorare Alessandro Leogrande, il suo figlio/padre, compagno di redazione allo Straniero, perso maledettamente troppo presto. La memoria può inventare molte cose, ma a me sembra di ricordare bene Fofi mentre attraversa più claudicante del solito la navata centrale della Basilica di Santa Maria del Popolo, e poi mentre parla di Alessandro dal pulpito con una voce assai meno ferma del solito. Fu una tragedia alla quale Fofi riuscì, comunque e miracolosamente, a sopravvivere. Un anno dopo lo trovai in un giorno meno storto, a Lecce, mentre coordinava la serata del premio Gli Asini. Lì mi sembrò stanco, ma non infelice. Non infelice: è già moltissimo. Ma questi sono solo piccoli ricordi personali. La sua è stata una vita esemplare e, purtroppo, irripetibile.
All’incontro parigino su Gaza, organizzato mercoledì sera dal sito d’informazione indipendente Mediapart, uno dei temi principali era “l’impunità di Israele”. Tema non solo giuridico, ma immediatamente politico. Cosa è possibile fare contro un governo genocidario, innanzitutto per arrestare la sua azione criminale? Oggi, una delle leve più potenti per agire su Israele e tentare di bloccare la pulizia etnica a Gaza e le continue aggressioni in Cisgiordania è nelle mani dell’Unione Europea. Si tratta dell’Accordo di associazione UE-Israele. Esso costituisce la base giuridica delle relazioni commerciali dell’UE con Israele ed è entrato in vigore nel giugno 2000. Secondo Eurostat, l’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele e rappresenta circa il 32 per cento del suo commercio totale di beni nel 2024. Sospendere l’accordo, significherebbe colpire pesantemente l’economia israeliana. Ora, i ministri degli Esteri dell’Unione europea si riuniranno a Bruxelles il 15 luglio per decidere se sospendere questo accordo con Israele. Per ora la pressione dei negazionisti fa sì che sia a livello di parlamenti nazionali che a livello europeo, non si arrivi a nessuna decisione efficace. Tutte le estreme destre, ovviamente, stanno approfittando di questa magnifica occasione per “ripulire” il loro passato antisemita e rinvigorire l’islamofobia e il razzismo antiarabo, grazie ai quali campano oggi elettoralmente. Quello che l’opinione pubblica può fare è accentuare il più possibile la grottesca dissociazione tra ciò che viene detto e pensato dai cittadini e quello che i loro “rappresentanti” sostengono.
Un articolo è apparso ieri sul sito di Amnesty International, che reclama la sospensione dell’accordo. In esso, si dice:
“Quando i ministri degli Esteri si incontreranno, la prossima settimana, ci potrà essere una sola conclusione: sospendere l’accordo. Qualsiasi altra decisione rappresenterebbe un via libera a Israele per proseguire il suo genocidio nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza, la sua presenza illegale nell’intero Territorio palestinese occupato e il suo sistema di apartheid contro tutte le persone palestinesi sulle quali esercita controllo. (…)
L’Unione europea e i suoi stati membri hanno l’obbligo di vietare ogni forma di commercio e investimento che possa contribuire a queste gravi violazioni. Ogni giorno in cui l’Unione europea continua a non agire aumenta il rischio di complicità con le azioni di Israele. (…)
Il 15 luglio i ministri degli Esteri dell’Unione europea dovrebbero votare su una serie di possibili misure tra cui la sospensione integrale dell’accordo, la sospensione delle sue disposizioni in materia commerciale e/o scientifica, l’imposizione di sanzioni nei confronti di funzionari israeliani coinvolti in crimini internazionali e/o di coloni e un embargo sulle armi. Amnesty International si è unita a 186 organizzazioni per i diritti umani, umanitarie e sindacali per chiedere la sospensione dell’accordo di associazione tra Unione europea e Israele.”
Tra le organizzazioni firmatarie: International Federation for Human Rights – FIDH, Jewish Call for Peace, Pax Christi International, Unión General de Trabajadores spagnola e la CGT francese, Women’s International League for Peace and Freedom, European Jews for Palestine, Human Rights Watch, Medici per la Pace…
P.s.
Ieri sera, verso le 20, è stata diffusa questa notizia (dal sito euro.news): “L’Unione europea ha negoziato un miglioramento “significativo” dell’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza, compreso un aumento dei camion di cibo, e un accordo per “proteggere la vita degli operatori umanitari”. Lo ha annunciato giovedì l’Alta rappresentante dell’Ue Kaja Kallas.
I passi concordati includono la consegna a Gaza di prodotti alimentari e non alimentari in quantità “significative”, la riapertura dei passaggi attraverso le rotte giordane ed egiziane per gli aiuti e la possibilità di distribuire forniture alimentari attraverso panetterie e cucine pubbliche in tutta l’enclave, secondo una dichiarazione rilasciata da Kallas.
Il piano prevede anche la ripresa delle forniture di carburante per le strutture umanitarie, la riparazione e la facilitazione dei lavori sulle infrastrutture vitali, come l’impianto di desalinizzazione dell’acqua rimasto senza energia elettrica.”
Questa notizia conferma quanto Israele sia “sensibile” all’accordo commerciale con l’UE, a tal punto da aver fatto delle concessioni, con l’obiettivo di sventare il rischio di sanzioni importanti, che potrebbero essere decise il 15 luglio.
Un’ombra di salotto e i parenti
acquisiti e i parenti da acquisire
non sa come, non sa cosa
voglia dire, se vuol dire.
Ma le pentole sul fuoco, le mani
estranee in casa sua così gentili,
e la pazienza, e non ho fatto
neanche un dolce, dice – un filo
di condiscendenza, sottile.
II.
Si sono sistemati nella casa,
e poi la convivenza stretta,
vergine, e l’affitto che lo pagano
i parenti, quelli già acquisiti.
Ceneranno stasera con i vivi
e nessuno sarà ricordato –
sarebbe un’idea l’invitare
qualcuno di morto, o solo
distante, Lorenzo, ad esempio,
ma le dura un secondo. Elisa
guarda la tavola e il vino,
i fuochi a sinistra, di fronte
ha il fidanzato e la sorella
del fidanzato, quello suo.
Stasera ceneranno tra di loro,
e le si allargano le braccia
e le va bene, e si sente
quasi bene. Ride con gli occhi
soltanto – questi vigliacchi.
III.
Che vigliacchi sono gli occhi
appena dopo il sonno, e di fronte
la tovaglia e la famiglia innumerevole
che la scruta e la carezza – la carcera
e perdona. Lui scuote la testa
ma l’afferra un po’ in disparte
e lei lo bacia – non infuria la battaglia
d’anime, ma ineluttabile è il singulto
dell’amore all’angolo, ed è bello
il baciarsi e ricordare qualche cosa
e rammendare qualche cosa.
IV.
(Trai nervi del legno c’è una goccia.
Trai nervi del legno c’è una briciola
che non mi è concessa – non la voglio.
Preferisco il muro schietto, la caserma.)
V.
Ha chiuso gli occhi – c’è una strada
butterata dalle buche, poche luci
e alberi sbilenchi e i profili, umidi,
dei vecchi, e i ragazzi della scuola
come foglie. E lei. C’è anche lei dietro
i segreti delle palpebre calate,
c’è lei con l’apparecchio, lo zaino
rosa sporco, nuvole a Palermo.
Dentro l’assopirsi c’è il mitra
del ricordo – lei contro il muro,
a braccia aperte, e lui che dice
t’amo, lui che le va incontro.
VI.
(Ma no ma no ma no –
sono stata ripagata.
La grazia è già calata
a farmi bella. Lo sento,
lo schianto! Questo breve
infinito appannamento)
VII.
Ha riaperto gli occhi – di fronte
il vino, gli spaghetti diminuiti.
Sempre più distinta la voce
dei vivi – un’evidenza semplice.
VIII.
(Lo sento lo schianto – mi riconosco.
Ero una ragazza brutta, mi dicevano
che ero una ragazza brutta e allora
ero una ragazza brutta, la ragazza
della scuola, la sua vita tiepida –
la ricordo breve, e tremenda.
C’era un senso come di cancro
nelle parole, negli sguardi, occhi
spalancati come quelli dei morti.
Ma adesso l’amore? persiste)
IX.
Si è scordata di aver sonno,
o è solo la fame – il fidanzato
mangia greve, come mangiano
i bambini, e parla piano ed Elisa
lo guarda, si pettina i capelli
con le dita, incerta. La sorella
pure parla, il suo ragazzo in una voglia
di silenzio che l’ascolta, e beve –
Elisa ci prova ad inserirsi nella bolla
senza farla evaporare. Chiude
il desiderio dentro un brindisi
improvviso, e gli altri, lo stupore,
quasi l’imbarazzo – e poi il vetro
sopra il vetro, felice.
X.
(E tutto quello che ristagna,
che rimane è l’ipotesi di un grido)
________________________
Lorenzo Pisaneschi nasce a Pistoia nel 1993. Ha studiato Lettere a Firenze per proseguire gli studi in italianistica a Pisa, città dove ancora vive e lavora. Ha pubblicato su Il primo amore, Poetarum Silvae, Neutopia. Questo è un estratto dal suo primo libro, ancora inedito.
Guardo fuori dal finestrino, verso i nuovissimi edifici che ospiteranno gli atleti delle Olimpiadi invernali del prossimo anno, un complesso ormai quasi completato e di rara bruttezza, dove nessun atleta vorrebbe forse soggiornare, se gli fosse consentito scegliere, prigioniero di quelle linee che ricordano una geometria totalitaria della vita e un grigiore di tipo ideologico ma tardivo che stride persino con l’apericena, e l’Aperitutto milanese con le fettine di ananas nel piattino e quelle di lime sul bordo del bicchiere, in compagnia del salame, del tonno, del formaggio e delle crocchette per il gatto spacciate per cibo vegan, e ogni manifestazione di sincretismo alimentare che noi di Milano tanto apprezziamo purché sia ben colorata, varia, incoerente e, insomma, allegra…: dicono pure che la zona “si riqualificherà” in virtù delle Olimpiadi invernali, dove ciò significa che i prezzi delle case saliranno e ci sarà più fatica per le strade, ma le persone saranno più composte, suderanno di meno con questo caldo, cammineranno in modo forse più dignitoso, e i bar avranno nomi più fantasiosi per i soliti cocktail, perché questo è il progresso che cova la città, e io mi sento su una locomotiva, il corusco e fumido mostriciattolo del Carducci, mica il tram Ventiquattro dove il conducente viene protetto da una gabbia d’acciaio nel caso in cui le furie dei passeggeri si facciano pericolose, quando ad esempio – come è successo ieri – un arabo male in arnese rimane con la mano chiusa tra le porte, lui dentro e lei fuori, la mano, per quasi una fermata di tram, senza peraltro protestare neanche di un soffio, ma al posto suo lo hanno fatto i passeggeri, colti da un’improvvisa solidarietà o dalla voglia di menare le mani e le lingue: sono volati insulti verso il conducente in almeno due lingue, vale a dire verso la porta semiblindata oltre la quale il conducente ha fatto finta di non sentire, nonostante abbia aperto le porte liberando la mano dell’arabo male in arnese, che si è seduto pensando ai fatti suoi, cosa che non è piaciuta ai suoi estemporanei avvocati (avrebbe dovuto forse gridare anche lui qualcosa, contro la gabbia del conducente, vale a dire contro l’uomo in gabbia, se non altro per ricambiare l’entusiasmo loro, e anche perché – a ben guardare – l’errore doveva essere parte di un piano più vasto, di amputazione collettiva, forse, o almeno di amputazione degli arti superiori dei milanesi tutti, e se l’arabo non viene considerato di prammatica un milanese vero e allegro al cento per cento, si trattava allora di un piano di amputazione della gente perbene, ammesso che l’arabo sia considerato in automatico un esponente di questa nostra gente perbene, e comunque sia bisogna essere solidali, bisogna avere un’idea politica che copra uno spazio più grande e profondo della pattumiera del sé), e con questi sentimenti, non so quali siano ma questi sentimenti, sono sceso dal Ventiquattro all’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti, verso sera, nel calore stagnante che riveste l’asfalto butterato di queste parti, e mi sono incamminato verso il locker Amazon, sotto il quale intorno alle nove serali spuntano gli scarafaggi, molto grassi e veloci, neri di un nero simile a quello dell’asfalto nei punti martoriati: ho preso quella strada per non passare davanti all’Altare di Ramy Elgaml, o io almeno lo chiamo così, ma è una semplice ammucchiata di fiori finti – e veri, in un certo senso, perché depositati lì con tristezza, e con verecondia civile e poi, sì, con rabbia, dagli amici e dagli sconosciuti che hanno pianto questo ragazzo, diciannove anni e chissà quanti da vivere, che braccato da una volante mentre scappava in sella a uno scooter impazzito è morto lì, proprio su quel palo, che io ho cercato di aggirare perché fa male vedere i fiori rossi e gialli e finti, e veri, e verosimili anche, mi fa male in modo sbagliato, forse, in un modo che non ci sarebbe se io non avessi abitato a pochi passi, se non mi fossi trovato a una distanza utile per sentire lo schianto, le sirene e quasi per vedere l’anima di questo ragazzo nel freddo e nel vento di quel 24 novembre, mentre dormivo, con le finestre chiuse, protetto dalla mia casa di proprietà imbiancata di fresco, e non ho veramente visto nulla, non ho veramente sentito nulla, se non poi, a pensarci, quando il 25 novembre una notizia di cronaca si è trasformata in una cosa privata, e la cosa privata era evidentemente il palo, quello schifo di palo che ho toccato anch’io con la camicia molte volte essendo un po’ distratto quando attraverso, e che ho visto un’infinità di volte appunto attraversando quella strada, che è anche mia, e mi è sembrato tutto così irreale, incredibile, perché vicino. Ma poi, mentre sono di fianco al locker Amazon e contemplo un pingue scarrafone che ha diritto anche lui di vivere, torno indietro e do un’occhiata, nel tramonto di oggi, 15 giugno 2025, nel giallo denso di speranze forse incivili, all’Altare di Ramy, e rivedo il motorino che ho visto mille volte nei filmati, con alla guida quel pazzo del suo amico, e lo immagino qui, tra i fiori, come parte di un angolo di cimitero. Sì, vorrei prendere a calci quelle lamiere, io che non so nulla di Ramy, e che tuttavia non riesco a passare senza colpa davanti al suo Altare, vengo chiamato a voce forte, adescato a pensare in grande, e poi in piccolo, e poi ancora in grande, finché non mi ricordo di un certo venditore di panini: ma come si chiamava? A… Se pure lo ricordassi, non sarebbe il caso di scriverlo, perché è collegato ai fatti brutali di quella notte, in un modo per me inverificabile (e forse romanzesco, e forse non è il caso di preoccuparsene). Un tizio qualunque ma molto gentile, che non era proprio un tizio qualunque, direi quasi un’Istituzione come può esserlo un venditore di panini il cui chiosco apre alle nove della sera, animando una strada che sarebbe altrimenti (e di fatto lo è, adesso) una linea di scorrimento fredda e impersonale, in un intreccio freddo e impersonale di linee, come diventa la nostra Milano, se vista da un balcone, nello strano svolgimento della sua oscurità. In quel punto c’era lui, il venditore, un uomo veramente simpatico e strapieno di rabbia, un uomo arrabbiato quanto un venditore di panini che, nel buio della notte, vede succedere di tutto: accoltellamenti, risse tra bande di ubriachi, incidenti di macchine ma anche prostitute iridescenti e parecchio tristi che amano raccontarsi all’infinito, e poi fatti come quello brutale del 24 novembre, quando il motorino su cui sedevano Ramy e il suo pazzo amico si è schiantato a quattro, forse cinque metri da lui. Prima dello schianto, prima del 24 novembre, quante volte mi ha raccontato di quanto odiava i neri, gli immigrati, i bastardi che fanno casino per le strade (categorie abbastanza coincidenti per lui) e di come, sicuramente, la pena di morte sarebbe necessaria qui da noi, magari anche per chi ha un certo colore della pelle, o viene da alcuni posti strani e densi di leggende occidentaliste, bisogna farli fuori tutti, diceva lui, mentre io tornavo a casa dal supermercato con le buste della spesa che gridavano vendetta per quanto denaro erano costate, ma la vendetta era lì, in un certo senso, quando questo tizio, gentile e arrabbiatissimo, mi intratteneva ed era calmo, era gentile, ma nelle grinze della pelle e negli occhi azzurri non era calmo e non era gentile, no; sarà che non mi piace fissare la gente negli occhi quando parla, io non me ne curavo più di tanto. Eravamo lì, davanti al suo chiosco, al tramonto se era d’estate o nella media oscurità se era in altre stagioni, con il puzzo della carne che saliva dalle griglie e si spandeva intorno al palo che avrebbe ucciso un giorno Ramy Elgaml, e quest’uomo mi parlava come un fascista, accarezzava il mio cane se ero in giro con il cane, faceva i complimenti alla fidanzata se ero a spasso con lei, sempre dando voce a quella rabbia che serpeggia per la strada, una rabbia impersonale e tuttavia impersonata. Da lui? Ma esisterà davvero quella rabbia… Stranamente l’ho rivista poco dopo la morte di Ramy, nei cittadini che manifestavano vicino al suo Altare, gridando e agitando braccia al cielo, all’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti. Era la medesima rabbia del venditore di panini, quella stessa intensità. Eppure la gente che manifestava era proprio l’obiettivo della rabbia del mio venditore di panini: erano tutti arabi, o amici degli arabi, per così dire, gente dei centri sociali (altro bersaglio dei suoi punitivi discorsi), e mi sembrava tuttavia che l’impronta emotiva e forse persino ideologica della rabbia fosse sempre la stessa. Tra chi dice che la rabbia non esiste in sé, e chi dice sia una verità popolare a cui bisogna dare ascolto come se fosse la Bibbia, ci sono loro, gli arrabbiati. Loro sono sempre in mezzo a questi due gruppi che si fanno la guerra di parole. E ora è quasi estate, e fa caldo e non vorrei ricordare la notte di novembre, anche se l’Altare me lo chiede. Quella notte Ramy ha quasi sfiorato il chiosco del mio venditore. Non so se era rabbia o disperazione il carburante che bruciava nel loro motorino, o cosa ha spinto il ragazzo alla guida (l’amico di Ramy Elgaml, che si è salvato dal botto) verso quella follia mortale. So che il venditore di panini ha visto avvicinarsi a velocità folle qualcosa che temeva, proprio nel colore della pelle che temeva (anche se a quella velocità non avrà avuto tempo per riflettere). Lo so, perché nei filmati diffusi dalla Procura, girati dalle telecamere di sorveglianza sopra l’incrocio, si intravede il chiosco. È un bagliore che viene quasi sfiorato prima dal motorino e poi dalla volante dei carabinieri. Si vede distintamente. Lui era là, non ha subito alcun danno. E ora è scomparso.
L’ho cercato, dopo quel giorno. Per anni è stato lì, a quell’incrocio. Ora è scomparso. Ha visto morire Ramy, e dunque è scomparso. Ogni volta che passo davanti all’Altare, mi torna in mente Ramy e così il mio venditore di panini. Ogni tanto mi dico: questa volta scenderò dal Ventiquattro, attraverserò l’incrocio e, accanto al locker di Amazon, vicino all’Altare, ritroverò il chiosco, che per anni è stato l’Istituzione di quartiere (e quel bagliore, e quel profumo che rendeva la strada più sicura in orari universalmente poco sicuri). E invece nessun chiosco, nessuno a parlarmi di faccende un po’ fasciste ma con calore e gentilezza, cosa che mi rendeva difficile opporre una resistenza che non fosse la presa in giro, bonaria, di chi non crede che l’interlocutore stia parlando sul serio. Ma cosa ha visto? Perché è sparito? Me lo sono domandato più volte. Sia leggendo la perizia della Procura, che descrive l’incidente discolpando in ogni modo i carabinieri, sia leggendo la perizia di parte Elgaml, che racconta una diversa verità. Me lo chiedo soprattutto pensando alle chiacchiere del venditore di panini, quando mi risuonano alle orecchie perché sto attraversando lo spazio che il suo chiosco ha occupato per anni: sono chiacchiere innocue, ingenue e minacciose, sicuramente fascistoidi, tutte queste cose insieme. È come se le chiacchiere fossero rimaste lì, accanto al palo che ha ucciso Ramy Elgaml. Palo che in realtà fu sostituito: l’originale, per così dire, è sparito stranamente a poche ore dal disastro, è stato smaltito in gran fretta, malgrado fosse un reperto utile per determinare in sede legale e scientifica le responsabilità dell’incidente; sparito proprio come il piumino che indossava Ramy Eldaml quella notte, anch’esso utile per confrontare le piume che conteneva con alcune delle piume trovate sul parafango dell’auto dei carabinieri, secondo gli avvocati. Ma io non sono avvocato, né un esperto di legge, sono uno che, all’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti, sente un vuoto: mancano le chiacchiere, manca il venditore di panini, e ovviamente manca quel ragazzo, e tutto questo accade vergognosamente per prossimità: se lo schianto fosse accaduto altrove, sarebbe un’immagine ora un po’ diversa, e il vuoto avrebbe una forma sicuramente più razionale. Sarebbe un mezzopieno. Non riesco molto a dare dei contorni misteriosi ora a questo vuoto, lo registro e basta, non so se utilmente, rientrando a casa verso il tramonto.
Nel protrarsi della festa per il suo cinquantesimo compleanno, Lollo Medina accusò una sequenza di bruciori – si potrebbe dire elettrici – alla bocca dello stomaco; pensò subito alla miserrima fettina di torta consumata nonostante il diabete e seppe convincersi che la causa di quelle fitte dolorose fosse la disabitudine agli zuccheri; così, dissimulando, si nascose in bagno e per una buona mezz’ora almeno cercò invano di liberarsi.
Di là dalla porta – si potrebbe dire come di un altrove – la festa pareva esaltare i quarantotto invitati: chi per il cibo, chi per il ballo, chi per gli addobbi luminescenti, chi per i sigari d’importazione, chi per le nuove tette della nonna, chi per i buffi schizzi caricaturali di cui era capace una specie di cugino della moglie, chi per ragioni più o meno insondabili. Di qua dalla porta, invece, Lollo Medina fu sorpreso da una misurata ma non trascurabile crisi di nervi quando, arreso e deciso a venir via dal bagno, non vide la chiave incagliarsi nella serratura e spezzarsi dopo la terza o quarta insistenza.
Per quanto gridasse e battesse alla porta, nessuno fra gli invitati parve sentirlo.
Quando la crisi parve risolversi, Lollo Medina, ormai prigioniero, tornò sulla tazza e cercò di liberarsi per un’ultima volta: piantò bene i piedi per terra, serrò qualunque muscolo si lasciasse serrare e in apnea cominciò a spingere, accompagnando lo sforzo – si potrebbe dire scortandolo – con un mugolio femmineo che parve risalirgli dai lombi. Le operazioni si protrassero immutate lungo tutto il tempo che occorse al suo primogenito, di là, per cantare “I migliori anni della nostra vita” e al suo figlioletto più piccolo (il quinto) per gridare del pinguino Belisario che si è offerto volontario.
Ma anche quell’ultimo tentativo andò a vuoto – si potrebbe dire sfiatò – e Lollo Medina, esausto, si riscoprì con gli occhi addirittura lucidi. La clausura durava ormai da quasi un’ora e i malanni allo stomaco parevano adesso persino più cattivi. Lollo Medina così sentì l’impulso di piangere, ma subito si disse che non sarebbe successo. Si chinò sul rotolo della carta igienica, ma quando fece per ritornare dritto scorse sul muro di fronte una crepa – una lunga crepa, spessa poco meno di un centimetro, che dallo zoccoletto saliva a morsi sino al soffitto.
La guardò bene.
La guardò tutta.
Ancora e ancora.
Dimenticando così i malanni allo stomaco.
Ancora intazzato, Lollo Medina guardava la crepa senza capire che reazione darsi.
In principio gli parve una cosa lontana. Poi – di colpo ma con ordine – cominciò a pensare che era grossa, che però era tanto grossa e che col tempo, a non farci niente, sarebbe potuta venire giù la casa. In ultimo, sporto il culo sui bordi della tazza, prese a toccarla: prima piano e in un punto solo, come fosse una crosta di pane molto calda; dopo invece correndoci dentro con le dita, ma veloce, tanto da ferirsi su di una scorzetta di calce che sporgeva in su – si potrebbe dirne come di un piccolo uncino.
Per quasi una mezz’ora Lollo Medina se ne rimase lì, sempre da intazzato, a correre coi polpastrelli lungo la crepa. Dopo qualche timidezza, volle infilarci un’unghia (lui che le portava lunghe – si potrebbe dire lunghissime). Infilzò la crepa piano piano e si meravigliò, e insieme ebbe paura, a poterne misurare la profondità.
A un certo punto, per via dell’intazzamento ostinato, Lollo Medina accusò un crampo alla coscia sinistra. Vincendone la reticenza, stese la gamba quanto più gli riuscì e si protese allungando schiena e braccia per afferrarsi la punta del piede e darsi soccorso, ma non ci fu verso. Nella cognizione del dolore (che durò) non sentì, di là dalla porta, la festa cominciare a perdersi: la musica taciuta; il vociare sfumato; i primi saluti.
Quando la congestione si sciolse e il dolore passò, Lollo Medina si carezzò la coscia coi palmi delle mani. Poi tornò a guardarsi la crepa e si sorprese nel trovarla più grossa. Fece per toccarla. La sfiorò una, due, tre volte. E gli mancò l’aria perché adesso, dentro, poteva quasi infilarci un dito.
Sta venendo giù, pensò.
Vien giù tutto.
E come per un riflesso animale, poggiò le due mani ai lati della crepa, piantò bene i piedi per terra, poi serrò qualunque muscolo si lasciasse serrare e in apnea cominciò a spingere i due lembi di parete l’una contro l’altra, accompagnando lo sforzo – si potrebbe dire scortandolo – con un mugolio sfiatato che parve risalirgli dai lombi. Spinse, spinse e spinse sino ad accorgersi d’improvviso che la crepa si ricuciva.
Di là dalla porta, intanto, erano andati via quasi tutti.
Restavano solo due dei cinque figli (i più piccoli, i soli cioè privi di autonomia), il cugino caricaturista, la moglie e la nonna con le tette nuove – ovvero sua madre.
Quando, più tardi, buttata giù la porta del bagno, trovarono Lollo Medina zuppo di sudore e intazzato che rifiatava, nessuno disse niente. Solo lo guardarono, il bambino piccolo su tutti, con una di quelle smorfie capaci di coprire l’intero arco emozionale che dall’esterrefatto vira sino alla sorpresa.
“La crepa”, annaspò Lollo Medina, indicando il muro di fronte.
Seguendo il dito, si voltarono tutti – e tutti presero a guardare la parete, con attenzione, avvicinandosi anche d’un passo per vedere meglio, ma senza trovarci un accidente.
“Che crepa?”, chiese la moglie.
Lollo Medina si alzò e fece per mostrargliela, ma nemmeno lui la vide più.
Anche tu rincorri il rosa tra le rovine. Nel cafè dalle pareti in fiore, mentre ordiniamo due cappuccini e un croissant ai mirtilli, forse diamo l’impressione di essere una coppia. Quante volte sei stata a Roma? chiedi, mentre un pesce-gatto cade sul cimitero dei pesce-gatti in rovina. Così tante che ormai non le conto. Capisco di piacerti quando sul treno mi chiedi di sederti accanto. Capisco che mi piaci quando ti alzi per fotografare la fuga del rosa dai finestrini.
Le rovine, a Roma, ti sembrano qualcosa di sensato: la loro compostezza incontra le tue aspettative di turista in viaggio dal cuore dell’Europa. Napoli, invece, ti innervosisce. È paradossale, come i pesce-gatti. Abbiamo dormito sui divani sudici di una casa per studenti, dove avrei voluto essere baciata. In angoli come questi, scrive Benjamin, è difficile distinguere le parti dove si sta continuando a costruire da quelle ormai già in rovina.
Il mare della costiera inumidisce la luce del cambio di stagione. Non si vedono rovine, qui, ma sappiamo che è una questione di apparenze. I pesce-gatti solitamente si nascondono, ma proprio adesso uno di loro si è affacciato da un tuo occhio. È in quel momento che decido di baciarti. Tu inclini il viso, in imbarazzo, e dici, più tardi, prima di salutarci. Il rosa, tra le rovine, fugge senza lasciare alcuna traccia.
corridoio con pesci rossi
Si può entrare e uscire da un amore come da un centro commerciale? Prendi l’art acquarium a Ginza, per esempio. La prima volta che ci siamo andate insieme, non sospettavamo niente. Ridendo, abbiamo concordato sull’idea che i pesci rossi avessero qualcosa di ridicolo e geniale, e che la loro fosse un’estetica perfettamente a metà strada fra björk e un all you can eat. Nei centri commerciali le cose possono essere comprate o vendute: è più raro che qualcosa sia scambiato.
Ogni luce a led, ogni tuffo di colore suggerisce utopie vendute a basso prezzo. Quando entriamo nell’acquario, tu ami un ragazzo difficile; io, la donna cactus. Avanziamo fra le lampade, divertite e stralunate, e, senza accorgercene, i nostri amori vengono scambiati. Deve essere successo mentre ci chiedevamo se i pesci rossi fossero specie spontanee o ottenute attraverso stratagemmi di genetica.
La donna cactus accede all’acquario dell’ottavo piano del centro commerciale; quando il suo fermaglio verde entra nell’occhio del ryukin, capisci che è venuta lì per te. Il ragazzo che sognavi è scomparso tra le intercapedini dei palazzi vecchi in legno: adesso a te non va più di rincorrerlo. Si è smarrito: in qualche linea della metro smarrita di questa smarrita città-acquario. È sabato mattina – accendi skype e la donna cactus compare sul tuo schermo. È sabato mattina – mi risveglio accanto al tuo ragazzo difficile, che, tuttavia, non è proprio un ragazzo.
a skype kind of love
Seduta al tavolo di legno, mangiando un hamburger vegetale, ho pensato alla tua voce. Poi hanno preso forma le mani, gli zigomi, i capelli ondulati. Che cosa avresti cucinato tu? Mi parli su skype per un ora esatta, due volte a settimana. Ti ho portata con me ovunque. Tuo marito una volta ci ha interrotte, chiedendo la mia opinione su un libro che leggeva mentre tu e lui sorvolavate la Malesia.
Volevo chiederti scusa e, a mia discolpa, dirti che non sembra vera, a settembre, la spiaggia di Ostia. Ci arriviamo in macchina contro ogni aspettativa. Il lido è dei vecchi con le sedie di plastica e la musica alla radio, le ultime creme di caffè della stagione. Io avrei avuto il solito incontro con te su skype del lunedì, ma non riesco a collegarmi. Il ragazzo difficile si siede di fronte a me e mi chiede se sto bene, se voglio fare un tuffo a mare. Gli rispondo che più che altro vorrei correre. Lui scatta in avanti perché è agile e leggero. Io corro come se il mio corpo non avesse mai avuto peso.
Da quando io e lui dormiamo insieme, spesso ho sognato sciami di vespe. Saranno stati i morsi visibili a occhio nudo lasciati sulla carne? La scena mi aveva impressionato, così come il ragionare sulla vera natura delle vespe. C’è stato poi il sogno dei delfini appesi ancora vivi: usati come insegne di un centro commerciale. Adesso lui mi cinge i fianchi, dice di amare le nature morte dei Fiamminghi. La campane qui scandiscono il passaggio delle ore. Il tempo, a Bruxelles, è più sereno del previsto.
__________________________
Damiana De Gennaro (Vico Equense, 1995) sta svolgendo un dottorato di ricerca sulla poesia giapponese contemporanea presso l’Università di Stoccolma. Con la raccolta Idolâtrie si classifica al primo posto della X edizione del Premio Pagliarani (sezione inediti, 2025). Ha pubblicato Aspettare la rugiada (Raffaelli, 2017), Shibuya Crossing (Interno Poesia, 2019) e ha tradotto dal giapponese L’anniversario dell’insalata di Tawara Machi (Interno Poesia, 2024).
Si fa dalla Giordania. C’è un passaggio controllato che permette alcuni scambi. Un mio amico ha dato i semi a un suo conoscente; quello a volte si avvicina al varco. Sarà lui a consegnarli a un palestinese che vive a al- Husayn e rifornisce la diaspora.
L’ultima volta che sono andata a Marrakech ho visitato la sinagoga. C’era una stanzetta che stonava con il contesto, allestita con foto di volti indiani. Ho scoperto che sono membri dei Bnei Menashe, tra i principali gruppi che oggi rivendicano una discendenza da una tribù israelita perduta nel mondo. A seguito della distruzione del Regno di Israele prima, e del Regno di Giuda poi, una parte della popolazione di religione ebraica di entrambi i regni fu deportata dai conquistatori.
Hanno la buccia più tenera. Devi assaggiarli.
Avrei dovuto riceverli e piantarli entro aprile. Dovresti assaggiarli.
Se incontreranno questa terra e la ameranno. Li assaggerai.
Il suo entusiasmo è protetto dal tempo futuro. Nel verbo gli pare che i semi non si disperdano. Non conosce la storia dei semi al varco. Lo dice come in una confessione, Non so che fine abbiano fatto. Lo so, qui la terra è diversa, ma i semi potrebbero amarla; la vita è una possibilità.
Nella stanza della sinagoga c’è la foto di una piccola bimba vestita di rosa che intreccia fiori; accanto a lei un bambino con la kippah. Penso subito che sia il fratello. Credono in un unico Dio. Per tutti gli altri abitanti della zona sarebbe insufficiente: i politeisti potrebbero tornare a essere presi sul serio come un tempo.
Gli piace raccontarmi della raccolta delle olive in Palestina, I più piccoli, dice, prendevano da terra quelle cadute fuori dai teli e le riponevano nelle scatolette di latta del tonno che poi svuotavano nelle cassette. Che divertimento era!
Una festa che ricorda con i gesti delle mani quando non vuole parlare della storia né raccontarmi di quando si è formata l’idea di persona destinata a durare nella sua mente.
Se l’abitato ha una forma geometrica esatta, troppo precisa, riconoscibile, allora è di recente costruzione. Come abbiamo imparato a scuola studiando le linee di confine delle spartizioni territoriali coloniali: lo spazio è sufficiente ma le linee o sono rette o sono frastagliate.
Io della Palestina vedo foto e video senza voice over. Voci del pianto in diretta. Si prende il pane in fila. Nessuno scriverebbe pane con lettere dorate. Pane è una parola semplice.
Grazie a un racconto di Mohannad Youniss capisco finalmente cosa sono. I sogni. Il protagonista vorrebbe disfarsene, allontanarli, come si fa con una mosca o con animali più minacciosi e così, chiuso al buio della sua casa, inizia a sparare cercando di ucciderli, senza troppo successo. Una mattina la parete della stanza crivellata dai colpi cede, crolla, entra la luce.
L’insediamento di Simone il Giusto accoglierà altre 200 abitazioni.
No, qui non usiamo mangiare le foglie di vite, non fanno più parte o non hanno mai fatto parte della nostra tradizione culinaria.
I suoi eccessi di curiosità finiscono tutti nell’aggettivo popolare che usa sempre per una domanda: è un romanzo popolare?, è un locale popolare?, è un detto popolare?
La forma di prosternazione più praticata nella contemporaneità è il sujūd islamico, che viene eseguito milioni di volte al giorno durante la preghiera quotidiana. Secondo alcune ricerche porterebbe un beneficio inatteso, ovvero ad aumenti nell’attività delle onde cerebrali alfa nella corteccia parietale e occipitale.
C’è un obelisco nero dell’825 a.C. originariamente eretto nell’antica città assira di Nimrud, in cui il re di Israele Jehu si prostra al cospetto del re assiro Salmanassar III.
La vite non rientra tra le piante selvatiche e autoctone che è vietato raccogliere in Area C, piante che da secoli costituiscono la dieta locale dei palestinesi, come lo za’tar, il timo, mi spiega.
Mi chiedo se mi sono persa qualche passaggio dei suoi resoconti da quando lo conosco.
Negli ultimi anni la domanda più cercata sul web è “What to watch”; nel 2023 fu la prima domanda con 9.140.000 ricerche.
Non cerca conforto. Ha familiarità con la stranezza delle cose, ma vuole credere che io abbia la capacità di fare piccole rivelazioni.
Mi dice che in attesa dei semi non sa come comportarsi. L’idea dei semi inizia ad assumere gli stessi motivi di un isolamento. Ci spaventa.
Ma io continuo a chiedergli della terra, a farmi presente, anche se credo di capire cosa intende dire.
Io della Palestina vedo foto e video senza voice over, ma solo l’immagine di quei minuscoli semi di cetriolo che non arrivano mi toglie il sonno.
“Il principale problema degli Stati Uniti è che non nascono abbastanza bambini bianchi. Se non cambiamo questa situazione rapidamente, i bianchi perderanno la loro maggioranza numerica in questo paese e l’America non sarà più la terra dell’uomo bianco”. Ben Wattenberg “The Birth Dearth” (il calo delle nascite), 1987.
Quando la Corte Suprema americana ha sparato il primo colpo di cannone di questa guerra, nel giugno 2022, annullando la legge federale che per 50 anni aveva garantito il diritto all’aborto, tutti hanno parlato di una vittoria delle destre cattoliche e cristiane. Ma l’ostilità all’aborto nasconde un progetto ben poco cristiano.
Alcuni Stati governati dai repubblicani si sono precipitati ad abolire l’aborto, il Texas anche per casi di stupro e incesto. Dieci di essi hanno presentato proposte di legge per classificare l’aborto come omicidio. Le donne che vivono in questi Stati sono minacciate da condanne penali (in West Virginia anche per aborto spontaneo) e sono vessate dalla polizia per impedir loro di viaggiare in Stati democratici dove possono ancora abortire. Gli stessi medici rischiano fino a 99 anni di carcere per procurato aborto.
Donne che non potevano permettersi di viaggiare sono morte nei parcheggi di ospedali che rifiutavano di farle abortire anche in casi di gravi malformazioni congenite del feto. In Georgia, un’infermiera cerebralmente morta, è stata tenuta in vita tre mesi per far nascere il bimbo. In Texas, dove teoricamente è concesso l’aborto solo in caso di pericolo di morte della madre, una ragazza, positiva alla sepsi, ha fatto il giro degli ospedali finché, alla terza visita, è stata confermata la morte del feto e l’hanno accettata in terapia intensiva, ma troppo tardi. La ragazza, come altre dopo di lei, è morta.
Il politico Ben Wattenberg, sponsorizzato dal conservatore “Enterprise Institute”, già dal titolo del suo libro del 1987 sul calo delle nascite, dichiarava le intenzioni tutt’altro che pie del movimento anti-abortista, e suggeriva tre soluzioni al problema demografico:
1) Pagare le donne per incentivarle a fare più figli, ma il governo non poteva pagare solo quelle bianche; sarebbero state pagate anche le donne di colore.
2) Importare immigrati, ma già ne arrivavano tanti, e quasi tutti di colore. Nessun governo americano avrebbe potuto discriminare gli immigrati in base al colore della pelle, come fa ora Trump violando platealmente la Costituzione.
3) Il 60% degli aborti, notò Wattenberg, era di donne bianche. Se avessero abolito l’aborto, il problema del suprematismo bianco sarebbe stato risolto. L’empio proposito non giungerà a fruizione, perché oggi le donne che abortiscono di più sono nere, e le bianche sono per la maggior parte in grado di abortire viaggiando in altri Stati. Le donne povere di colore saranno costrette a partorire più di prima. Gli anti-abortisti hanno fatto male i conti, per questo Trump sta deportando forzatamente immigrati di colore. Il taglio dei fondi agli Istituti Nazionali di Sanità e al CDC (Centro Prevenzione e Controllo Malattie) andrà a incidere sulla mortalità dei neri.
La guerra alle donne non si è fermata all’aborto. Il razzismo anti-abortista è degenerato in sessismo tossico, sfoggiato platealmente durante le campagne elettorali 2016 e 2024. Nella storia politica americana non c’erano mai state due donne più competenti, esperte e qualificate a candidarsi per la Casa Bianca come Hillary Clinton e Kamala Harris. Chi le ha sconfitte è l’uomo più corrotto, pluri-condannato e misogino mai eletto Presidente degli Stati Uniti.
La giornalista Sophie Gilbert, in un articolo sulla rivista “The Atlantic” intitolato “La misoginia torna a ruggire”, scrive che il nuovo inquilino della Casa Bianca, supportato dal partito Repubblicano, sta imponendo all’America una visione arcaica ostile alle donne, in cui gli uomini dominano la vita pubblica, mentre le donne restano confinate in casa, messe a tacere e a partorire figli.
“Le donne dovrebbero essere incubatrici sottomesse, che passivamente allevano la prossima generazione di uomini che le disprezzano. L’eliminazione del diritto d’aborto era solo l’inizio. Il Presidente e il Vice rifiutano in modo assoluto l’autonomia e l’uguaglianza delle donne. La loro campagna elettorale di maschilismo estremo postata online, concepita per gli uomini, si è espressa in termini brutali di violenza, forza e potere”. (Gilbert)
Il Vicepresidente Vance ha affermato che l’unica funzione “delle femmine in post-menopausa” è prendersi cura dei nipotini. Su X, Elon Musk ha ripostato la teoria che “una Repubblica di maschi in posizioni di rilievo è la migliore per il processo decisionale”. L’ex-conduttore televisivo di Fox News Tucker Carlson ha paragonato il ritorno di Trump alla Casa Bianca a un padre severo che torna a casa per dare alla figlia ribelle “una vigorosa sculacciata”.
Nei tre mesi in cui Kamala Harris è subentrata a Biden nella corsa alla presidenza, Trump ha postato su Truth Social l’insinuazione che Harris si fosse concessa sessualmente per far carriera politica. Il notiziario “Semafor” ha riferito che un network conservatore aveva pagato degli influencer perché promuovessero calunnie sessuali sulla Harris. Un cartellone pubblicitario in Ohio fece scandalo perché mostrava un’immagine falsificata di Harris inginocchiata, sul punto di compiere una fellatio.
Secondo un sondaggio dell’Associated Press, dal 2020 gli uomini tra i 18 e i 29 anni si sono spostati a destra di uno sbalorditivo 15%, schierandosi per gli ideali di “mascolinità egemonica”, per la celebrazione del dominio e degli stereotipi maschili. La sottomissione delle donne che i giovani maschi vogliono imporre somiglia tanto allo slogan tedesco dell’Ottocento, ripreso da Hitler: “Kinder, Kirche, Kuche” (bambini, chiesa e cucina).
Peter Thiel, l’imprenditore che ha finanziato la carriera politica del Vicepresidente Vance, ha scritto in un saggio del 2009 che aver dato il diritto di voto alle donne ha condannato la “democrazia capitalista”. John McEntee, alleato ed ex-assistente di Trump, ha postato su X nell’ottobre 2024: “Noi vogliamo che votino solo i MASCHI. Il 19° emendamento dovrà essere abolito”. Il 19° emendamento alla Costituzione americana, garantisce il diritto di voto alle donne dal 1920.
Queste dichiarazioni anticostituzionali non sono arrivate ai media quanto quelle onnipresenti di Trump, per cui siamo portati a credere che la misoginia sia limitata a lui. La realtà è che il suo team di consulenti miliardari, il suo stesso Gabinetto, sono composti di misogini che considerano i diritti delle donne sacrificabili. La nuova amministrazione, però, non può obbligare le donne a tornare indietro di cent’anni. Non può costringerle a lasciare il lavoro. E non può imporre che le donne siano sottomesse agli uomini sessualmente, sentimentalmente, o professionalmente.
“Che cosa succederà agli uomini cresciuti coi video Tik Tok di Andrew Tate [influencer misogino accusato di stupri e traffici di esseri umani], e con la pornografia violenta dedicata alla degradazione sessuale delle donne? Il vecchio termine ‘sessista’ non è più sufficiente a descrivere questa ondata furiosa di odio”. (Gilbert)
Secondo il Pew Research Center, negli Stati Uniti il 63% degli uomini sotto i 30 anni sono attualmente single, in confronto al 34% delle donne della stessa età. Quindi anche gli uomini soffrono della formazione maschilista ricevuta, secondo cui le donne sono considerate repellenti e inferiori a loro.
Per quanto Vance e Trump si dicano preoccupati dei tassi di natalità bassi, “la loro misoginia ha dissuaso le donne dal far figli, permettendo la radicalizzazione e l’isolamento degli uomini della Generazione Z. Per migliaia di anni il matrimonio è stato una necessità per le donne, un mezzo per avere sicurezza finanziaria e accettazione sociale. Oggi la realtà è cambiata. Molte donne non sono più disposte né lontanamente motivate ad attaccarsi a uomini che le denigrano, o a restare in matrimoni violenti per il bene dei figli, come Vance ha suggerito che facciano. Le donne preferiscono vivere da sole piuttosto che sistemarsi con uomini che non le rispettano”. (Gilbert)
Malgrado la montante misoginia, le donne intelligenti, disposte a lavorare, possono essere indipendenti e mantenersi coi propri guadagni. È sufficiente tenere i misogini a distanza. Per tutta la sua vita, Trump ha rovinato le persone che si sono avvicinate a lui. Per Sophie Gilbert, le donne battagliere non usciranno distrutte, ma Trump “certamente distruggerà una generazione di uomini che prendono a cuore i suoi vili messaggi. E in certa misura, il danno è già stato fatto”.