Home Blog Pagina 9

La Festa della Poesia dedicata a Lorenzo Calogero

0

 

Al via la seconda edizione della Festa della Poesia di Melicuccà dedicata al grande poeta Lorenzo Calogero, dal 7 all’11 agosto 2025. Un programma intenso che riunisce poeti, intellettuali e artisti di rilievo tra cui Milo De Angelis, Nicola Crocetti, Giuseppe Caccavale, Stefano Lanuzza, Giancarlo Cauteruccio, Massimo Zamboni, Gilda Policastro, Aldo Nove, Marcello Sambati, Federica Fracassi, Alfonso Guida, Paolo Pelliccia, Luigi Tassoni, Davide Brullo, Giorgiomaria Cornelio.

Cinque giornate di confronti culturali, performance, mostre, installazioni multimediali, concerti, escursioni nei luoghi del poeta ed esperienze che mettono in dialogo i grandi nomi della poesia contemporanea con l’opera di Calogero.

Dopo il successo della prima edizione (9-11 agosto 2024), che ha portato nell’entroterra calabrese importanti figure culturali italiane e internazionali, anche nel 2025 LYRIKSLaboratorio Interdisciplinare di Ricerche Artistiche – promuove la seconda edizione della Festa della Poesia “Lorenzo Calogero”, con il prezioso sostegno del Comune di Melicuccà guidato dal sindaco Vincenzo Oliverio, e con il patrocinio e sostegno di Regione Calabria, Consiglio regionale della Calabria, Città Metropolitana di Reggio Calabria.

La manifestazione si svolge nel paese natale di Lorenzo Calogero, dove il poeta nacque nel 1910 e morì nel 1961. La sua opera, ancora oggi in parte poco studiata dalla critica, merita di essere riscoperta e valorizzata.

La manifestazione rinsalda la collaborazione con la Fondazione “Leonardo Sinisgalli, suggellando il gemellaggio tra Melicuccà, paese natale di Calogero e Montemurro, luogo natale di Sinisgalli.

 

La direzione artistica è curata dal regista ed editore Nino Cannatà e dal poeta Aldo Nove, voci impegnate nella valorizzazione della cultura poetica italiana e dell’opera di Lorenzo Calogero.

Tra gli eventi principali:

  • 7 agosto: inaugurazione dell’opera murale a spolvero e sgraffito site specific Viale dei Canti – Orizzonti Lorenzo Calogero, con poesie e disegni di del poeta, realizzato da Giuseppe Caccavale Studio in collaborazione con l’École des Arts Decoratifs – PSL Paris.
  • Omaggi a figure legate alla storia culturale calabrese, come gli scrittori Saverio Strati e il melicucchese Giuseppe Fantino tra i primi critici a recensire Calogero ancora in vita.
  • Incontri e dialoghi su temi di poesia contemporanea, tra cui la presentazione a cura di Nicola Crocetti del numero di Poesia (Crocetti Editore) dedicato a Lorenzo Calogero e l’Odissea di Nikos Kazantzakis, tradotta dallo stesso Nicola Crocetti.
  • Letture, performance dedicate allo scrittore Stefano D’Arrigo e ai 50 anni dell’opera mondo Horcynus Orca, ad Alberto Cavaliere il poeta della Chimica in versi con l’inedito “L’Urlando furioso” e poi ancora presentazioni delle rare opere poetiche di Ivano Fermini e Gian Giacomo Menon.
  • Concerti serali che animeranno piazze e chiese del borgo con ospiti di eccezione tra cui Massimo Zamboni e il suo omaggio a Pier Paolo Pasolini a cinquant’anni dall’uccisione, e ancora la chiusura affidata all’Orchestra di fiati “ Scerra” di Delianuova con la partecipazione speciale di Francesco Cafiso i quali eseguiranno musiche del compositore melicucchese Michelangelo Falvetti (1642-1697), in prima esecuzione a Melicuccà con estratti dall’opera “Nabucco” (1683) e variazioni sul tema di un frammento di partitura musicale ritrovato nei quaderni inediti di Lorenzo Calogero.

L’inaugurazione della manifestazione, tra via Roma e Piazza Ardenza, il 7 agosto alle 17:30, avrà luogo con lo svelamento dell’opera murale Viale dei Canti con poesie e disegni di Lorenzo Calogero, un progetto a cura di Giuseppe Caccavale Studio in collaborazione con l’École des Arts Decoratifs – PSL Paris. Interveranno Vincenzo Oliverio, sindaco di Melicuccà, Nino Cannatà, direttore artistico, Marina Valensise, già direttrice Istituto Italiano di Cultura di Parigi, Eleonora ed Elisa Tallone, Alberto Tallone Editore, Giuseppe Caccavale, artista.

In cartellone, una finestra dedicata al confronto tra Lorenzo Calogero e Gian Giacomo Menon, Sublimi poeti gemelli con Stefano Lanuzza, critico e saggista, e Cesare Sartori, giornalista, presso la Chiesa di San Rocco, l’8 agosto alle 18:15.

Alle 19:15, Franco Scaldati e gli otto volumi Marsilio editori 2022-24, presentati da Valentina Valentini, docente della Sapienza Università di Roma, con letture a cura di Melino Imparato, Compagnia Franco Scaldati da “Santina e altri angeli”.

A Piazza Tocco, alle 22:15, omaggio a Saverio Strati nell’anno stratiano, prove aperte di teatro con gli attori dello spettacolo Il ritorno del soldato con il regista Giancarlo Cauteruccio e gli attori Laura Marchianò, Stefania De Cola, Salvatore Alfano, Francesco Gallelli, Anna Maria De Luca, voce off Anna Giusi Lufrano, canto Luca Michienzi, produzione Compagnia Teatro del Carro con la partecipazione di Domenico Stranieri, sindaco di Sant’Agata del Bianco, autore del libro Solo come la luna, Rubbettino 2025 e Luigi Franco, responsabile Comitato 100 STRATI in collaborazione con Comune di Sant’Agata del Bianco e Comitato 100 Strati.

Sabato 9 agosto, fra i molti eventi previsti, alle 18:20 presso la Chiesa di San Rocco, Lorenzo Calogero. Il poeta assoluto, presentazione di “Poesia”, rivista internazionale di cultura poetica, n. 30/2025, Crocetti Editore con Nicola Crocetti, grecista, traduttore, editore. A seguire, ore 19:00, Come un dialogo con Stefano D’Arrigo A 50 anni dalla prima edizione di Horcynus Orca, con Stefano Lanuzza, critico e saggista. Ancora, alle ore 19:40, Il metaverso. Appunti sulla poesia al tempo della scrittura automatica di Gilda Policastro, poetessa, narratrice e critica in dialogo con Aldo Nove, poeta.

Alle ore 21:30, Passare per la ferita con Giorgiomaria Cornelio, poeta e performer e, alle ore 22:15, “La poesia fa malissimo”La scrittura come atto di resistenza: dai Sonetti del giorno di quarzo, Einaudi 2022, a Inabissarsi, il Saggiatore 2025. Antonio Di Giacomo, responsabile della cultura presso La Repubblica Bari dialoga con il poeta Aldo Nove.

Il 10 agosto, alle 17:30 presso Fontana Rimatisi, Elogio della poesia nella biblioteca ideale con Paolo Pelliccia, presidente Biblioteca Consorziale di Viterbo. Segue, alle ore 18:15 presso la Chiesa San Rocco, Tra Lucrezio e Baudelaire con Milo De Angelis, poeta, letture di Viviana Nicodemo, attrice, da De rerum natura di Lucrezio e I fiori del male di Baudelaire. Alle ore 19:15, Ulisse, l’ultimo viaggio dall’Odissea di Nikos Kazantzakis, Crocetti editore 2020, con Nicola Crocetti, grecista, traduttore, editore e Maria Elena Romanazzi, voce. Alle ore 21:30, La poesia del dialetto. Achille Curcio e i suoi 95 anni, con Luigi Tassoni, critico, Università di Pécs. Alle ore 23:00, in Piazza Tocco, reading-concerto P.P.P. Profezia è Predire il Presente – Omaggio a Pier Paolo Pasolini a 50 anni dalla sua uccisione, Reading concerto di e con Massimo Zamboni, voce e chitarra con Erik Montanari, chitarre e cori Cristiano Roversi, tastiere e synth.

L’11 agosto, alle 17:30, presso Fontana Rimatisi, La filosofia nell’opera di Lorenzo Calogero, a cura del filosofo Giuseppe Polistena.

Alle ore 18:00, alla Chiesa San Rocco, Sulla poesia di Ivano Fermini, Sublimi poeti gemelli anteprima del volume Nati incendio, edizioni Magog 2025 con i poeti Davide Brullo e Aldo Nove. Segue, alle ore 19:00, Lorenzo Calogero e l’invenzione della contemporaneità dialogo fra Milo De Angelis, poeta e Luigi Tassoni, critico, Università di Pécs con letture da Poesie dell’inizio 1967-1973.

Alle ore 21:40, alla Chiesa San Rocco, Teatro e Poesia Reading poetico omaggio a Lorenzo Calogero con Federica Fracassi, attrice. Alle 22:30, a Piazza Tocco, Orchestra di Fiati “Giuseppe Scerra” di Delianuova diretta dal Maestro Gaetano Pisano, voce Maria Elena Romanazzi, soprano con la partecipazione speciale di Francesco Cafiso, prima esecuzione a Melicuccà con estratti dal Nabucco (1683) di Michelangelo Falvetti, compositore melicucchese (1642 – 1697) e variazioni sul tema da una partitura musicale dai quaderni inediti di Lorenzo Calogero.

 

 

Melicuccà e la Poesia: un modello inclusivo di valorizzazione territoriale dal cuore green

 

Il borgo di Melicuccà, sin dalla scorsa edizione, è stato definito dalla stampa “capitale italiana della poesia”, grazie anche al contributo attivo e generoso della comunità. I cittadini hanno messo a disposizione alloggi, collaborato all’organizzazione degli spazi e reso possibile eventi diffusi sul territorio, permettendo ai partecipanti di esplorare, sotto il segno della poesia, anche il paesaggio circostante. Una vasta area caratterizzata dal connubio di natura e cultura tradizionale che sarà possibile scoprire grazie ai trekking con Sabine Ment, guida ufficiale del Parco Nazionale dell’Aspromonte, tra uliveti secolari, i paesaggi dell’Aspromonte, i sentieri verso la Costa Viola, i siti con testimonianze della civiltà monastica bizantina e il Monte Sant’Elia, con i suoi panorami mozzafiato sulla costa tirrenica. L’obiettivo è valorizzare e riqualificare non solo le bellezze naturalistiche, ma anche numerosi luoghi del tessuto urbano, come le venue di Palazzo Capua, Piazza Tocco e la Chiesa di San Rocco, Fontana Rimatisi, e le piazze della parte alta del borgo, con particolare attenzione alla riscoperta delle rughe, i tradizionali vicoli del centro storico.

La Festa della Poesia si distingue per la sua capacità di generare un impatto culturale completo e soprattutto inclusivo. Il programma è pensato per coinvolgere ogni fascia d’età e livello di istruzione con attività come il Laboratorio espressivo in diverse lingue che accoglie gli ospiti migranti del progetto S.A.I. Melicuccà, Laboratorio di stampa e creazione di un libro d’artista per bambini attorno alla poesia di Lorenzo Calogero al fine di promuovere momenti di crescita e aggregazione intergenerazionale. La manifestazione garantisce pari opportunità e l’accoglienza dedicata a tutte le categorie di pubblico grazie alla collaborazione con realtà attive nel settore dei servizi sociali con l’obiettivo di rendere la poesia patrimonio comune in un’ottica di cultura partecipata. La Festa della Poesia è un festival plastic free che utilizza l’acqua della sorgente comunale di Vina e adotta le migliori pratiche ispirate all’Agenda 2030.

 

Lorenzo Calogero: una delle voci poetiche più originali del novecento europeo

 

Nacque a Melicuccà (Reggio Calabria) nel 1910 dove morì nel 1961. Laureato in medicina a Napoli, esercitò la professione di medico saltuariamente. Visse gran parte della vita in isolamento, tra difficoltà economiche e psicologiche, pubblicando a proprie spese le sue poesie e ricevendo scarso riconoscimento in vita. Dopo due tentativi di suicidio e frequenti ricoveri, trovò tra i primi estimatori il poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli, che lo incoraggiò e ne curò la premessa all’opera poetica Come in dittici. Nel 1957 vinse il premio letterario “Villa San Giovanni” senza vedere pubblicata la sua opera più completa. Morì in solitudine lasciando 804 quaderni manoscritti pieni di versi e riflessioni in prosa oltre a numerose lettere che rimangono ancora in gran parte inediti.
Fu Roberto Lerici che, subito dopo la sua morte, pubblicò con le Edizioni Lerici i primi due volumi delle Opere poetiche (1962 e 1966), inserendoli nella prestigiosa collana Poeti europei. Negli anni, l’opera di Calogero è rimasta in parte trascurata dalla critica. Farla conoscere e restituirle il posto che merita nella letteratura del Novecento è l’obiettivo che guida l’impegno di LYRIKS, di cui la Festa della Poesia è una delle principali iniziative.

Un premio per Lorenzo Calogero

 

Recente è la notizia del riconoscimento speciale, assegnato all’antologia Lorenzo Calogero, Poesie scelte 1932-1960, edizioni  LYRIKS  2024, dal Premio Letterario L’albero di Rose.

La cerimonia di premiazione si terrà il 26 luglio 2025 ad Accettura (MT), con la partecipazione di Nino Cannatà e del sindaco di Melicuccà Vincenzo Oliverio.

Festa della Poesia: finalità

 

Promuovere e valorizzare la poesia di Lorenzo Calogero, con l’obiettivo di favorirne il pieno riconoscimento all’interno del canone letterario del Novecento, rappresenta per LYRIKS una responsabilità e una missione. A quindici anni dall’Anno calogeriano 2010/2011”, ideato in occasione del centenario della nascita e del cinquantenario della morte del poeta, l’impegno verso la sua opera continua con passione. Nel 2024 l’ideatore della Festa della Poesia Nino Cannatà, ha curato e pubblicato per le edizioni LYRIKS l’antologia bilingue Un’orchidea ora splende nella mano, con prefazione di Aldo Nove, traduzioni di John Taylor e una copertina originale di Emilio Isgrò. Nello stesso anno è nata la Festa della Poesia “Lorenzo Calogero”, pensata come un appuntamento culturale stabile dell’estate aspromontana e destinata a diventare un evento di riferimento per il panorama poetico nazionale. Con questa seconda edizione la Festa della Poesia conferma la volontà di trasformare Melicuccà in un luogo di incontro, scoperta e ricerca capace di unire le comunità locali , studiosi e appassionati al mondo della poesia intorno all’opera di Lorenzo Calogero

 

www.festadellapoesia.org

 

www.lorenzocalogero.it

 

 

Il verso cetaceo di Vincenzo Frungillo

0

di Toni D’Angela

La parola, scriveva Maurice Blanchot ne L’infinito intrattenimento (1969), è non-rapporto, anzi: follia. Le parole e le cose, come sapeva Foucault, non vanno d’accordo: c’è dualismo, discontinuità e differenza. Parlare non è vedere. In un capitolo di quel libro Blanchot scrive:  “Scrivere non vuol dire far vedere la parola” e vedere, continua Blanchot, “presuppone una separazione misurata e misurabile”. Parola e sguardo non si raccordano. “La parola è guerra e follia per lo sguardo”. I versi cetacei della plaquette (Premio Ciampi 2024) suddivisa in quattro sezioni Cani, gatti, topi vegliano sulle necropoli di Vincenzo Frungillo, edita nel 2024 da Valigie Rosse, sono questa follia che, in fondo, dice anche quel male che “ha invaso la storia”. Follia animale, il dire di Frungillo è animale, altro. Homi Bhabha nel libro I luoghi della cultura del 1994, chiama questo straniamento traduzione. La traduzione, scrive Bhabha, è lingua in actu (enunciazione, posizionamento) piuttosto che lingua in situ (enunciato, proposizione). Se la nominazione fissa, la traduzione fa risuonare i diversi spazi e tempi, è movimento. Bhabha si ispira a Benjamin e al suo concetto di “estraneità delle lingue”, per cui il compito della traduzione non è ricondurre il diverso all’identico ma tenere aperta la comunicazione e perfino l’intraducibilità. Questa “estraneità” non è un punto debole, ma mantiene il linguaggio costantemente aperto, come un confronto sempre aperto. Sapere è eresia, cioè passare da un sistema eterogeneo all’altro, è quello che ha sempre cercato Pasolini nei romanzi, nelle poesie e soprattutto nei film. Questa estraneità è quella che, pure nell’età delle catastrofi e del “crollo verticale” (delle Torri Gemelle che segna un “confine di due ere”) della sezione “I topi” Frungillo chiama “il rovescio che ci tiene insieme”, forse un altro nome per dire animalità, quell’animale che dunque (non) sono.

Kafka, alluso nella prima sezione della plaquette, come un’ancora, ci trattiene, ci piomba nel nostro incessante allontanarci, fluttuare nella tempestosa fiumana digitale che accumula rovine e ce le rovescia ai piedi, come diceva Benjamin, o forse tra i files da cestinare, tra i flussi di parole e numeri di cui parla Don DeLillo in The Silence (2020). Il rumore bianco, cui allude anche Frungillo, è ormai uno schermo ininterrotto che a volte diventa nero. “I codici della rete cadono su una sagoma arenaria”, scrive Frungillo, come se fossimo dentro un ibrido arcaico/tecnologico cronenberghiano. La tempesta, il male nella storia, lascia dietro di sé “residui umani” ma anche “versi” perché “il mausoleo è fatto di parole” (Quarta sezione, “Le necropoli”). Ancora una volta in Frungillo la parola (si) leva e nella parola “tutti saremo risorti”. La parola che, a dispetto della catastrofe, quella della storia e quella, magari, che è la leopardiana dolenza (quasi una sorda dolenzia rispetto al kantiano “cruccio” della storia così chiassoso), suona, profuma, è panorama nonostante le macerie e tiene la terra. La parola è “il battesimo”. Nel racconto (l’ultimo) di Kafka Giuseppina la cantante ossia il Il popolo dei topi, l’umano e l’animale sono in un rapporto di reversibilità. Kafka ironizza su tutti i rapporti di gerarchia, mostrandone l’artificiosità. La parola è estraneità, è il topo che danza a Washington Square e spezza “i molossi di vetro” ma anche “il punto della vita da cui fare entrare luce”. Le colpe, le ombre di un sogno tradito (quando l’umanità ha sognato per l’ultima volta, come scriveva Toni Negri nell’anno 2000) ma poi Washington Square, quantomeno, è anche quella non solo di Dylan, ma pure di Buddy Holly. “Spezzano il giorno” i topi di Frungillo spezzano il giorno, quelli di Kafka tentano di scuotersi di dosso “tutti gli affanni della giornata”. I topi parlano? La loro è voce? Ci lasciamo alle spalle Aristotele e Heidegger, di cui conosciamo le risposte ormai insopportabili. I topi fischiano. Quel nulla di voce kafkiano si impone e trova la via, nomina quella cosa che non è parola e nominandola testimonia il non-rapporto, la differenza, quel nulla di voce è, come scrive Frungillo alla fine della plaquette, “musica delle sfere”.

L’animale trova la via: è il verso cetaceo, quel nulla di voce. I cetacei sono un infraordine, un ordine o raggruppamento inferiore, “di scarso valore sistematico” recita la Treccani. Ma è questa animalità mostruosa (il cetaceo per Aristotele è ketos) che, nonostante l’irriducibile differenza, mantiene fluida la comunicazione, il passaggio da uomo a animale, vita a morte, parola a cosa. La parola di Frungillo è fusiforme, ha uno strato grasso che altrove abbiamo chiamato, classicamente, materialismo. Come il fischio dei topi kafkiani, che libera dalle “catene della vita quotidiana”, così i topi che danzano, i gatti che sono testimoni e i cani che vegliano di Frungillo. Animali (topi, gatti, cani) sono vibrazioni, un nuovo linguaggio, una via d’uscita: il linguaggio, la via d’uscita?

La poesia di Frungillo è questo strato animale, questa fatica di tenere insieme, perfino il  prima e il dopo, e non solo quello marcato dal crollo newyorkese o dall’analisi di Baudrillard, perché “il tempo è eterno” o, con Rilke, è quello dei “giorni immemorabili”. Fare poesia, scrive Frungillo, è “tracciare linee”, come fa il coyote di Donna Haraway. Allora la scrittura è e deve essere ancora tassonomia, tenere insieme. La scrittura è animale.

“Tutto è nato con gli animali

e tutto finirà con gli animali

 

I loro occhi sono il contatto

tra ciò che proviamo

e ciò che diciamo”.

 

Ecco il transito, l’Ubergang kantiana, il passaggio tra le differenze irriducibili, “transiti per altri mondi. I versi di Frungillo sono questi cani che vegliano e transitano. Loro non muoiono, come le parole. “Gli animali indicano l’aperto”, scrive Frungillo. Nel 1946 Heidegger (A che poeti?) vuole rendere omaggio a Rilke ma nel suo pensiero abissale opera ancora il ricordo dei Concetti fondamentali della metafisica del 1929-30. Jean-Christophe Bailly (Il versante animale, Contrasto, Roma 2021) ritorna sui famosi versi di Rilke dell’“Ottava Elegia”. Lo sguardo dell’animale è aperto, sospeso sull’immenso, non è un occhio teso come una rete che vuole catturare l’aperto, come l’occhio umano. Ma, come ricorda Blanchot, scrivere non è vedere. Gli animali, e con essi le parole, i versi che sono animalità, “contemplano la genesi”, scrive Frungillo, come, e lo diciamo con Rilke, il mondo si rivelasse “nel calmo volto d’animali”, che, scrive Frungillo, sono “emblemi di un’altra era”. Le parole  come cani soffiano nella polvere, ci guardano dentro e mangiano il male che ci mangia. Siamo (sempre e ancora) sulla soglia, ci dicono Rilke e Frungillo.

⇨ 1.Un’estate con la Principessa di Clèves

0

Immagine di Clelia Le Boeuf

Un’estate con la Principessa di Clèves è un podcast a cura di MARCO VISCARDI, letture di GIULIA MILANESE, sei puntate con ospiti e letture del romanzo alla scoperta di un classico della letteratura francese.

PRIMA PUNTATA
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves
Il mondo esteriore” con CLAUDIO GIGANTE

Si può seguire il PODCAST su:

Youtube

SPOTIFY

PocketCasts

Le altre PUNTATE
1.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il mondo esteriore” con CLAUDIO GIGANTE
2.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Storia di un matrimonio” con PASQUALE PALMIERI
3.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “Il delirio della distinzione” con EMANUELA SURACE

4.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ La fine delle buone maniere” con VALENTINA STURLI
5.”Un’estate con la Principessa di Clèves” ~ “L’occhio infranto” con GIUSEPPE MERLINO

La chiamata

0

di Gianluca Veltri

Leila Guerriero, La chiamata, SUR, pp. 453, trad. Maria Nicola

La complessità.
La cogliamo, la complessità, quando ci riusciamo, nelle intricate storie di casa nostra, per esempio cercando di raccontare ai nostri figli gli anni Settanta italiani, o studiando la guerra fredda, o la crisi in Medio Oriente.
Ma quando si tratta di riesumare la nerissima vicenda della desaparición argentina, fino a ora i racconti si sono spesso fermati su una visione appiattita, bidimensionale. Effettivamente c’era poco da problematizzare: la brutale dittatura militare, la “guerra sucia”, il terrorismo di stato, la detenzione in settecento campi clandestini degli oppositori. Non c’è mai stato alcunché da eccepire su questo: è stata una guerra sudicia, condotta da chi s’è preso il potere con la forza brutale e lo ha esercitato in modo scandalosamente vigliacco, negando alle famiglie persino il diritto di piangere i loro cari, sapendoli almeno morti. Ecco perché siamo abituati da decenni a racconti, romanzi, saggi, film e canzoni che narrano quelle vicende senza complessità, dalla parte, persino ovvia, di chi ha sofferto quel giogo, delle vittime sopravvissute e di quelle che non ce l’hanno fatta.
Gli oppositori: altra parola chiave.
Perché, nel disegno folle di sterminio a 360 gradi, Videla e i suoi accoliti inclusero nel calderone degli oppositori migliaia di cittadini: non soltanto chi era entrato in clandestinità in Montoneros e combatteva con ogni mezzo un potere ingiusto e usurpato, ma anche studenti finiti in una manifestazione o in una normalissima assemblea, magari quella sola volta; parenti prossimi e lontani; sindacalisti e operai; tiepidi simpatizzanti; vicini di casa. Bisognava estirpare con ogni mezzo, certi d’essere impuniti, il possibile germe della ribellione e del comunismo, utilizzare la delazione attraverso il terrore e la tortura, con il benestare di chi colpevolmente non si oppose, equivocando come apparente pace sociale una silente carneficina, dopo anni di tensione e disordini. E poi, la viltà di negare. Rastrellare, rapire, torturare e uccidere. E negare di averlo fatto.
È sempre mancato lo sguardo della tridimensionalità, a questa narrazione.
Il libro di Leila Guerriero, La chiamata, dedicato a una sopravvissuta di quella stagione, Silvia Labayru, restituisce alle vicende questa complessità, quella visione a più sfaccettature capace di assegnare una prismatica problematicità agli eventi. Le opere su quel periodo argentino raramente ci avevano proposto una simile stratificazione: pensiamo alle possibili eccezioni a “Ricordo della morte” di Miguel Bonasso, o a “La fine della storia” di Liliana Heker. E sia chiaro, ancora una volta: si ribadisce questo non certo per mescolare colpe e riscrivere la storia, perché su questa costruzione un mattone è stato messo per sempre: ci furono dei carnefici e ci furono delle vittime.
Molto tempo fa, a Buenos Aires, una sera, in una festa organizzata da un circolo di italiani argentinizzati da decenni, alla quale ero stato invitato, uno dei padroni di casa, un attempato signore baffuto che aveva vissuto quegli anni e che mi pareva un brav’uomo, alle mie caute domande alzò le spalle e strinse le labbra: “Era una guerra, da una parte e dall’altra”. Come a dire: in guerra tutto è lecito, nessuno ha colpa. Mi parve una strisciante giustificazione dell’orrore di regime, un’equiparazione irricevibile. Il mio ospite non sembrava un fascistone, anche se lì per lì, istintivamente, dopo le sue parole lo bollai così, tra me e me. Non mi andò di approfondire ulteriormente. Mi restò però dentro un gusto amaro, mi sentii come un ragazzetto infatuato che, malgrado documentato, non sa niente delle cose del mondo. Che cosa potevo capire, veramente, di quella tragedia accaduta a più di diecimila chilometri diversi decenni prima?
Poi scoprii con enorme rammarico che, per buona parte dell’opinione pubblica argentina, il punto di vista che mi era stato fornito quella sera a Buenos Aires non era del tutto isolato: la narrazione della dittatura, delle torture, delle detenzioni illegali, dei prigionieri buttati in volo nel Rio de la Plata, dei 30.000 desaparecidos, così pacifica nel resto del mondo, laggiù era univoca e accettata fino a un certo punto.

Leila Guerriero

Passata l’onda del “Nunca más”, di Ernesto Sábato e delle Abuelas de Plaza de Mayo, un revisionismo sempre meno sotterraneo ha portato fino all’elezione dell’attuale capo del governo Javier Milei. E qual è la versione del presidente con la motosega? “C’era una guerra”. Tutt’al più un eccesso di difesa da parte della junta, ma almeno hanno riportato l’ordine. La vicepresidente Victoria Villarruel, che ha difeso come avvocata ex militari, ritiene che il Museo della Memoria, nella sede della famigerata ESMA, è “uno spreco di spazio”. È proprio alla ESMA, in Avenida del Libertador, che fu detenuta Silvia Labayru, la protagonista del libro “La chiamata”. La giornalista Leila Guerriero lo ha composto, un po’ à là Carrére, in uno stile ch’è un punto d’incontro tra dialogo, non-fiction, indagine, diario, inchiesta, giornalismo narrativo, romanzo-verità.
Oggi Silvia Labayru dice: “O accetti la narrazione della libertà, della giustizia, della denuncia, dei compagni desaparecidos, del culto del morto, senza la minima riflessione su quello che sono stati quegli anni, oppure niente. Come se non si potesse sostenere una posizione relativa ai diritti umani criticando la violenza degli anni Settanta”. Ventenne, montonera, incinta, la detenzione di Labayru fu sui generis: dopo aver partorito su un tavolo della ESMA, sua figlia non divenne un dono per coppie vicine al regime, com’era uso in quegli anni, ma fu consegnata ai nonni. Non fu l’unica stranezza nel trattamento riservato a Silvia Labayru. Forse perché di magnetica avvenenza, forse perché figlia di una famiglia militare, Silvia fu scelta per un percorso di “riabilitazione”. Doveva dimostrare di aver abiurato a Montoneros. Le toccò di accompagnare i suoi stessi aguzzini a cene e ricevimenti, sotto mentite spoglie. L’ufficiale Alfredo Astiz, grazie a lei, spacciandola per sua sorella, riuscì a infiltrarsi in gruppi avversi al regime. A causa di quella missione, furono fatte scomparire dodici persone, tra le quali due suore e alcune madri di Plaza de Mayo. Aveva scelta, Silvia? Poteva dire no? Fu anche ripetutamente oggetto di violenze sessuali da un altro dei militari che comandavano alla ESMA, Alberto González, che la portava a casa sua per giochi erotici a tre con la moglie. Poteva sottrarsi? Sarà poi la prima donna che, nei processi al regime, denunciò di aver subito violenza sessuale, che non veniva proprio considerata tra le accuse possibili, era un tutt’uno con la tortura.
Una volta fuori dall’ESMA – perché dopo un anno e mezzo venne liberata a sorpresa e riparò a lungo in Spagna – Silvia Labayru fu ostracizzata, marchiata d’infamia e messa all’indice da una grande parte dei suoi vecchi compagni della galassia montonera; oggetto di riprovazione perché considerata complice del regime che loro avevano combattuto. Per aver collaborato con i suoi – con i loro – aguzzini. Colpevole di essere sopravvissuta a quell’inferno, dal quale non uscivi viva, si diceva, a meno che non ti fossi resa connivente.
Nel mattatoio, essere sopravvissuti equivaleva a essere un traditore.
Lei con alcuni dei vecchi compagni ancora oggi, cinquant’anni dopo, intrattiene rapporti di affetto; con molti altri no. Uno dei suoi amici più stretti è rimasto Dani Yuko, militante marxista, uno dei più importanti fotografi argentini, tornato a Buenos Aires dopo l’esilio negli anni della dittatura. Yuko oggi dice: “Noi sbagliavamo riguardo alla diagnosi dei problemi della società argentina e riguardo alle soluzioni. Non giustifico la repressione, non giustifico la sparizione forzata delle persone, la tortura, però noi sbagliavamo. Mi sento molto autocritico”.
Non è così frequente l’incrinatura, il ripensamento, la critica all’interno del movimento, la lucidità nella lettura di eventi che sono sfociati in un mattatoio. Sorprende la totale assenza di vittimismo e di autoindulgenza.
“Non ero in linea con Montoneros, ero molto critica”, dice oggi Silvia Labayru. “Non rientravo nel profilo della vittima che i montoneros in esilio intendevano presentare al mondo”. La sua presa di coscienza prevede, anche da parte sua, una revisione e un’assunzione di colpa su posizioni e metodi adottati all’epoca da chi scelse la clandestinità per combattere quel potere orrendo.
Il libro di Guerrero, scritto e rimontato dopo mesi di incontri e colloqui con Silvia Labayru e molti altri protagonisti di quei tempi, senza alcuna indulgenza, anzi ricco di sfumature e punti di vista, lascia al lettore molte riflessioni e domande, e soprattutto per questo è un libro che merita di essere letto. Offre prospettive inedite su quel pezzo di storia argentina: è come se ci facesse affacciare da un’altra finestra, dalla quale si possono osservare più particolari, e allarga il cono su importanti parole-chiave, che abbiamo incontrato fin qui: complessità, tridimensionalità, opposizione, lettura del passato e interpretazione della storia. Lo fa senza la pretesa delle risposte facili, senza manicheismi.
Pur ben sapendo da quale lato stava la parte sudicia.

 

La strage di cui nessuno parla

1
l Tuffatore, ripreso da Nino Migliori nel 1951,

il Tuffatore, ripreso da Nino Migliori nel 1951,

di

Francesco Forlani

Viviamo in un mondo difficile, e vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto, direbbe Don Tonino. Dalla pandemia in poi, passando per il cambiamento climatico, fino ai recenti e disastrosi conflitti, quelli noti e meno noti, il tutto condito in salsa intelligenza artificiale, ci vengono serviti a tavola, in tutte le formule possibili, menù, à la carte, temi e piatti che per la prima volta nella storia dell’umanità, invece di essere mangiati, ragionati, masticati, degustati dai commensali, divorano cuore e cervello degli invitati in uno strano “cannibalisme inversé”.
Siamo distanti anni luce dalle tavole familiari imbandite e pacificate dalle poche parole pronunciate, generalmente da madri premurose, prendendo ognuno dei figli da parte, e riassumibili in tre imperativi kantiani soft: mi raccomando, niente politica a tavola, e soprattutto nessun riferimento a fatti e persone che possano costituire turbativa di pasto.
Alcuni si chiederanno, Furlèn, ma ne sono solo due e non tre come annunciato. Il che mi spinge a precisare che il terzo è il primo, ovvero il rispetto di quella raccomandazione espressa con autorevolezza e che avrebbe agito in nome del bene comune.
Tabù? Censura? Niente affatto. Solo la regola aurea del vivere insieme che consiste nel dire e fare le cose al momento giusto, e non seguendo un istintivo pontificare che avrebbe murato vivo ( altro che ponti) il piacere di stare insieme con l’abboffamento di wallera collettivo.
Di tutte le stragi in corso, delle guerre sporche e pulite – Dio è morto, Marx è morto, ma il capitalismo, quanto a lui, gode di ottima salute- ce n’è una che mi pare sfuggire dai ragionamenti agguerriti, violenti, dichiarati, troppo presto, troppo tardi, durante e dopo, da più o meno tutti sui social, nelle comunità, nei gruppi e nelle famiglie, ed è quella degli amici.
Stiamo assistendo giorno dopo giorno alla rottura – con tanto di porte sbattute, di ingiurie, di mandate affanculo veraci come le vongole- di rapporti costruiti negli anni, di relazioni importanti d’amore e d’amicizia vera- quella per dire in cui se si è chiamati nel cuore della notte dall’amico si corre lancia in resta a recargli soccorso, in nome di una reazione scomposta, una frase infelice, un’idea poco lucida, cucinata male e in fretta dai nuovi chef dell’informazione, quelli alla Pol Pot, per intenderci, che ci fanno credere che tutto fa brodo e non acqua da tutte le parti come in realtà, polpettone di fake news e propaganda.
Siamo arrivati al punto in cui rischi di essere preso a schiaffi se ascolti Igor Stravinsky – se oggi si andasse in giro ancora con vinili ci si ritroverebbe a infilare l’ellepì del maestro in una copertina di Festivalbar- o massacrato di botte in metrò perché qualcuno ha confuso il tuo libro di Wilhelm Reich sull’orgasmo con uno sul terzo Reich. E Freud? Très chaud.
Insomma nessuno, me compreso, avrebbe immaginato che gli effetti collaterali delle singole azioni di un povero pirla – povero e ricco ça va de soi- in luoghi lontanissimi potessero arrivare così lontano, ben più lontano di un battito d’ali di farfalle o di ciglia- sopracciglia nel caso del Super Donald Strump und Drunk- praticamente a quella stessa mesa su cui un tempo magnifici risotti o zizzone di Battipaglia e cannoli succulenti – par condicio-ci ammaliavano per rendere le nostre risate più grasse e la gioia di vivere inviolata a tavola.
Non si tratta qui di fare un elogio del disimpegno ma al contrario di impegnarsi tutti a non farsi pro del nulla, bastian contrari del niente, e ad agire sul campo con consapevolezza, ragionevolezza, cercando di avere delle idee chiare sui fatti, dialogando con le complessità. Si può essere affranti, lacerati, massacrati dalle immagini di un bimbo denutrito in un campo con la stessa intensità della visione di un ostaggio in pelle e ossa in fondo a un buco sottoterra? Per me sì e allora perché volete costringermi a decidere a tutti i costi, pagando prezzi altissimi, la fine di un amicizia per esempio, per dire a chi vada per gerarchia la mia pietà?
effeffe
ps
Pare che questa sia l’unica scena in cui nell’immensa filmografia Buster Keaton abbia detto una parola

Da “Quasi”

0

[Questi testi sono tratti dal volume di poesie Quasi, uscito di recente per peQuod editore con disegni di Sergio Ruzzier.]

di Matteo Pelliti

 

60.

È noto come l’errore sia

il diamante grezzo delle scienze

il motore di ogni scoperta

e progresso vero per questo il canto

di lode dello sbaglio

si leva alto negli scranni

d’ogni accademia che pure

professi ex cathedra

la propria infallibile missione

(giustificare se stessa).

 

Per questo dico grazie a Tolemeo

gratias tibi per il tuo errore

che indusse Colombo a sua volta

a sbagliare mondo nuovo

da scoprire, lo stesso in cui, qualche anno dopo,

sbagliò il rigore Baggio

che quindi, a rigore,

fu colpa pure quello di Tolomeo.

 

Io vi ringrazio, Tolemeo e Baggio

e poi ringrazio Fleming

(non quello di James Bond, l’altro)

perché rendete noi erranti meno soli

nella foresta degli errori, nella notte

dove tutte le mucche sono grigie

mentre noi aspettiamo soltanto

di salire ancora e per l’ultima volta

sul carro dell’Omino di Burro.

*

47.

Le umiliazioni più dolorose

sono quelle che tu stesso

infliggi a te stesso nei sogni:

bruciano ancora, al risveglio,

come ustioni che dall’inconscio

risalgano all’epidermide

della coscienza.

Quello è il luogo in cui ai tuoi errori

non si fanno sconti,

alle tue mancanze

non si affiancano attenuanti.

*

34.

Il serbatoio della mia pazienza è vuoto,

è vuoto perché è bucato,

è bucato perché mio padre

è mancato, scomparsa la fonte

della pazienza, passata un po’

col sangue un po’ con l’esempio,

mi trovo questo buco e a ben vedere

il buco è grande quanto il serbatoio tutto,

e se provo a sentire i bordi del buco

del serbatoio vuoto della mia pazienza

per capire quanto grande sia il buco oltre il vuoto,

sento che i bordi tagliano le dita.

*

29.

Sul tram, qualcuno ha sbagliato fermata

qualcuno ha sbagliato tram,

le facce si specchiano sui vetri

la paura che si prova quando

si è sbagliato fermata, si è sbagliato tram

in una città sconosciuta

ha un’espressione unica, universale,

come di chi si guardi intorno mentre

lo smarrimento prende spazio

in ogni angolo del suo volto.

*

1.

La colla del post it

come forse saprete, è frutto di un errore

o quasi, cercava quel chimico

una colla super forte

(un mastice maciste)

e invece inventò una colla

super debole. Ma riusabile.

Allora, forse per questo,

ho scritto versi deboli su colle deboli

su post it minuscoli, rime puerili

ma molto libere perché a volte

per essere liberi occorre

fare liberamente errori.

*

Disegni di Sergio Ruzzier

Questa notte mi ha aperto gli occhi: la sceneggiatura

0

di Roberto Carvelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblichiamo di seguito la sceneggiatura originale di “Questa notte mi ha aperto gli occhi”, l’audiodocumentario andato in onda per “Tre Soldi” di Radio 3 (che ringraziamo per la concessione), ascoltabile qui. Roberto Carvelli l’ha tratta dal suo racconto “Questa notte mi ha aperto gli occhi” (Arcana, 2025)

PRIMA PARTE –  STANZETTE TUTTE PER SÉ

L’io c’ero di ogni concerto 

Io: C’è qualcosa di strano e meraviglioso nei primi concerti di una band giovane con due, massimo tre dischi all’attivo. Per chi vi assiste c’è la spiccata consapevolezza di partecipare ad un evento storico irripetibile. Un’atmosfera da massoni, affiliati di una setta segreta, fratelli di un nuovo culto. Così nuovo che ancora non si è creata una casta, non sacerdoti, nessun lignaggio. Spiritualità in purezza. Ci si prepara per giorni, si compie il rito di un percorso che sa di catechesi ed esercizi spirituali. Senti i dischi per ore e giorni. Solchi su solchi, la puntina cerca di avvantaggiarsi sul live. Come in una macumba, le tracce anticipano la scaletta della serata. Provano a prevederla. Come in un rituale anticipatorio la lista dei brani viene evocata, suggerita da una voce non tua che parla per te. Dentro te.
Ogni volta che ho provato a pensare e a scrivere del primo concerto a cui ho assistito degli Smiths il 14 maggio 1985 mi sono uscite fuori parole religiose anche se non mi definirei un fan, né uno che sa tutto, un esperto. Ma voglio raccontare quanto quella sera la mia vita sarebbe cambiata e come. Anche se non sapevo che quella serata che mi avrebbe aperto gli occhi – come ho intitolato il mio libro che la racconta citando una canzone degli Smiths non eseguita in quella serata – sarebbe stata l’unica per chi in Italia avesse voluto ascoltarli in concerto, dal vivo. L’Io c’ero di ogni concerto è spesso simile per tutti ma quell’Io c’ero sarebbe rimasto unico e irripetuto. Senza che lo sapessimo. Per me e per quei circa 2mila 3mila dentro un tendone da circo sulla via Cristoforo Colombo a Roma. A oggi ancora, per varie ragioni, irripetibile. 

La parabola degli Smiths ancorché breve come appariva allora, fu oltremodo corta anche considerando il dopo. Tra il 1982 e fino al 1987 contando tutti i prodromi e gli abboccamenti mal riusciti successivi tra i due leader principali del gruppo, Morrissey il cantante-paroliere e Marr, il chitarrista e autore delle musiche, le cose si avvicendarono a colpi di vinili singoli, che diventeranno una marca tipica del gruppo, album o raccolte nel giro di pochi anni. Anni in cui i tour italiani sarebbero stati rimandati e poi annullati, cancellati e, infine, resi impossibili dallo scioglimento della band. Rimane questa unica data. Roma 14 maggio 1985. Sarebbe interessante, mi rendo conto, per molti trovare delle ragioni plausibili di quella fine. Individuare colpevoli, fare un’eziologia dello scioglimento, robe da avvocati divorzisti. In fondo, gli Smiths non erano una boy band messa su per ragioni commerciali da qualche produttore scaltro e tenuta in vita a forza di soldi. Alle prime o seconde crisi nessuno ha detto “andiamo avanti almeno per ragioni economiche”. Si sono separati e basta, come succede a una coppia e qui il semplice cognome Gli Smiths – dai noi avrebbe avuto il suono di un I Rossi, o la Famiglia Conti – è suonato come una profezia non di lunga vita. Eppure, a 40 anni esatti da quel concerto e 3 in più dalla nascita del gruppo siamo ancora qui a parlarne. Alberto Campo è stato uno dei primi esegeti degli Smiths, a partire dalla rivista Rockerilla che in quegli anni cerco spasmodicamente tra le edicole romane. Volevo sentirlo e mi sono messo all’inseguimento e, in fine, ho trovato il suo numero di cellulare e sono riuscito a raggiungerlo. 

Alberto Campo racconta la sua scoperta degli Smiths e la prima versione tradotta dei loro testi per Arcana.

Io: All’epoca non avevo comprato il libro di Alberto con la traduzione dei testi ma uno strano contenitore di fascicoli delle parole in italiano dei primi dischi che, peraltro, avevo già provveduto a tradurre anche io da solo e male, una carpetta come la chiama Pier Vittorio Tondelli in un suo pezzo-saggio. In copertina aveva la mitica foto di Dennis Stock della Magnum di James Dean con le mani nelle tasche del cappotto lungo Times Square. Tondelli è stato un grande estimatore degli Smiths e i suoi pezzi su Rockstar ora raccolti in Un weekend postmoderno ne portano traccia. Anch’io come Pier Tondelli scelgo gli Smiths con forza religiosa (forse confessionale, sarebbe il modo più giusto per definire questo canale diretto) ma non proprio “per tifo sportivo” e sì per la “voce sensuale, strascicata e maledetta” di Moz “l’unica un po’ perversa che questi primi anni ottanta – obsoleti, invece, di falsetti e mezzeseghe – ci abbiano dato” – sono parole sue. Tondelli aveva vissuto Meat is Murder il disco uscito appena prima del concerto come un tradimento “mediocre” della genialità dei primi due dischi. Anche io avevo un po’ patito lo strappo ma ho da sempre avuto simpatia per le opere seconde (quella di fatto lo era, essendo i primi due dischi una sorta di spin off interno dello stesso periodo creativo). È dal disco numero due che si vede dove va un gruppo e quanto è capace di aprirsi al nuovo rinunciando alla ripetizione pedissequa di un successo o un modo fortunato e già testato.
NOTE INIZIALI LIVE
Ma adesso scusate il concerto sta per iniziare devo chiedervi di mettervi in ascolto con me. Saranno le 21 circa ed è una morbida serata primaverile romana. Oggi sappiamo tutto. Molti siti conservano addirittura memoria del meteo di parecchi anni addietro e di quella sera dicono che la temperatura media fosse di 16.9 °C. In quella serata se pure avesse fatto fresco la temperatura non sarebbe mai scesa sotto i 13 °C, mentre nei momenti più caldi della giornata era arrivata a 22 °C. Il gruppo sta per uscire sul palco e, come consueto, lo annunciano le note di Prokofiev, quelle della Danza dei cavalieri del Romeo e Giulietta quella che spesso in quella stagione apriva non solo i concerti della band di Manchester ma pure di altri gruppi anglosassoni.
NOTE INIZIALI LIVE
Buio, fumo e poi, a salire l’alzarsi di una scossa, la nostra, quella di noi che eravamo lì. In quel Dandan-dadadandandan una traccia della classicità trionfale, con cui un gruppo con alle spalle pochi dischi e pochi anni di servizio diventerà e rimarrà poi nel tempo il gruppo più influente della storia della musica rock non solo inglese. Non sono esagerazioni mie ma classifiche di testate altrettanto influenti come NME del 2002.
WILLIAM, IT WAS REALLY NOTHING
In molte canzoni degli Smiths l’amore o è triste o non è. In quegli anni adolescenziali – nel tempo della carriera del gruppo io passo dai 14-15 ai 19 anni e quindi dall’imbarazzo e la paura della scoperta al lampo iniziale e ingannevole della conoscenza – l’amore non può che essere accompagnato da una ragionevole distanza dolorosa da quello che ti eri immaginato nella tua stanza e dal punto di vista del tuo orizzonte sentimentale costruito su libri e film eccessivamente ottimisti sul tema. L’amore deludente e offeso delle prime uscite in versi del paroliere non sono diversi dalle nostre prove tecniche o poetiche di trasmissione. Qualunque orientamento possiamo aver scelto.
NOWHERE FAST
Io: Nowhere Fast, Velocemente verso il nulla il concerto avanza trascinando la sua energia rivoluzionaria. Un’energia che non si ferma davanti a nulla e noi ci facciamo travolgere. È una malinconia che non risparmia nessuno. I’d like to drop my trousers to the world … I’d like to drop my trousers to the Queen. Gli Smiths sono nostalgia estrema e sofferta, una camera tutta per sé, quella del Morrissey giovane, che racconta vi si fosse recluso per mesi a scrivere, e quella nostra altrettanto penitenziaria ma meno creativa. Ma gli Smiths sono pure rabbia punk che non risparmia le più alte cariche della monarchia e del governo inglesi. Per quanto proviamo o possiamo provare a tradurre il fenomeno-Smiths in una formula di riuscito successo non riusciamo a capire la portata della loro influenza stavolta personale su ognuno di noi qualcosa che per ognuno di noi ha avuto un peso diverso a seconda della storia. Un altro che c’era e l’ho scoperto cercandolo in rete in un commento sotto al video del concerto su YouTube era Gaudi allora tastierista di una band cesenate di rara, raffinata e originale new wave all’italiana, i Violet Eves.
Gaudi racconta il suo arrivo a Roma per ascoltare il concerto.
NOWHERE FAST

Io: Riascolto la registrazione e ritrovo nel ricordo dei gridi garrenti di qualcuno lì in mezzo a noi in qualche angolo della platea. Sostenevano il crescendo di un brano, salutavano l’annuncio di un altro. Uno che c’era al concerto come Gaudi e a differenza di Alberto Campo era Alberto Piccinini, a cui devo in quel periodo storico una vera e propria presentazione catechistica via etere alla serata impartita dai 97.7 in modulazione di frequenza da cui trasmetteva Radio Città Futura. Una radio nata, come si diceva, “libera” che in quel periodo aveva alle spalle persino un’irruzione-attentato dei NAR con pistole e feriti contro una trasmissione femminista.  Nei giorni precedenti al concerto del gruppo di Manchester, Alberto avrebbe tenuto una sorta di preparazione all’evento. Per me era stata come una specie di ritiro – spirituale appunto – e lo avevo persino registrato. Ma poi la cassetta tra i traslochi che hanno accompagnato questi 40 anni si è persa. Lo incontro in via Buonarroti, 47 non lontano da piazza Vittorio a Roma lì dove aveva sede la radio.

Il tendastrisce un obituary e altre cose cimiteriali
I WANT THE ONE I CAN’T HAVE
Alberto Piccinini è in via Buonarroti 47 e racconta la Roma di metà anni 80 tra locali e la radio dove lavorava Radio Città Futura che ora non è più qua.
Io:
Il giorno in cui la mentalità avrà deciso di provare a mettersi in pari con la biologia forse non è arrivato ancora. Per me almeno. Ma – giuro – continua a dettare l’agenda almeno della mia vita. E di chi come me continua a desiderare quello che non può avere. O non può avere più. Quello di Radio Città Futura – che peraltro esiste ancora come radio nel web ma trasmette da un’altra sede – è solo uno degli obituaries insieme al Tendastrisce di questo nostro racconto che è disseminato di piccole lapidi. Non per forza, non tutte tristi. Spazi in cui siamo stati felici di vivere anche se non ci sono più. In fondo tutta la vita artistica degli Smiths ha un che di cimiteriale. Morrissey si è sempre fatto fotografare in mezzo alle tombe e in molte canzoni la parola cimitero ha un suo perché. Anche io in quegli anni lascio spesso le aule della mia facoltà di lettere alla Sapienza e approdo tra le lapidi del Verano portando panini e versi nelle tasche. Cimiteriale lo era anche io, insomma, in quegli anni. Non può mancare Wilde a quella selezione di letture se non altro per vicinanza alla band. Ma le tasche si sformano in letture sempre più complesse e articolate. Scopro che i libri tanto odiati possono traghettarmi in un altrove non morto, non lapidario.

Mi sento su YouTube ovvero Perso in una traccia sonora          
WHAT SHE SAID
Io: Ma torniamo al Tendastrisce. Ho con me un registratore AIWA, quello che un nome per una marca viene detto comunemente walkman. Non so come faccio ma riesco contemporaneamente a tenermi in piedi in equilibrio su degli schienali o braccioli di sedie di plastica e alzare un registratore tipo walkman come un pugno al cielo. Ogni tanto cado ma tengo in alto quel prolungamento della mia mano come se fosse un oggetto da salvare in una improvvisa mareggiata. Devo salvare una prova sonora di quel momento che è quella che ora mi sembra di ritrovare nella traccia sonora di questa registrazione su YouTube. Sembra la mia. D’altro canto, in quegli anni l’ho prestata spesso quella TDK, ha fatto il giro di amici e conoscenti e tra loro di qualche dj di radio. Poi traslochi e cambi ed è sparita con la sua cover, quella del biglietto rosa chiaro del concerto.
THAT JOKE ISN’T FUNNY ANYMORE
Il gioco non è più divertente, perché è troppo personale e volgare. Ogni tanto nel nastro mi sembra di sentirmi mentre batto le mani in un elementare tentativo di tenere il ritmo di qualcosa che, in realtà, mi travolge senza lasciarmi vie di fuga. Non so perché ma nella serata finirò per sentirmi spesso inadeguato. Talvolta come un fan qualsiasi, quello che non sono mai stato, talvolta come uno capitato lì per caso. Eppure, nel rapporto tra me e gli Smiths nulla è mai stato casuale. Nella registrazione risento me chiacchierare nelle pause e battere le mani scompostamente, facendo coretti fuoritempo, chiedendo un brano o dei bis. Sembra incredibile che  sia la stessa persona che si è chiusa nella sua cameretta ad ascoltarli per un paio d’anni nello struggimento della solitudine e dell’inadeguatezza. Se c’è una stanza tutta per sé l’ingresso del gruppo di Manchester ha reso meno gravoso l’isolamento. 
THAT JOKE ISN’T FUNNY ANYMORE
Io: Ma ripensare oggi a quella data è riaprire il ricordo di una rocambolesca avventura organizzativa. Chi li aveva portati lì a Roma e come aveva fatto? Si chiama Paolo Bedini l’organizzatore allora un 27enne di Sarzana.
Paolo Bedini racconta come ha portato in Italia il gruppo a furia di telex e telefonata a Londra.
Io: Ma rilasciamo il dato organizzativo e ritorniamo alle emozioni che ci hanno portano una sera a metterci in fila davanti a un tendone da circo davanti al quale della gente vende vino di Pitigliano col tappo a vite o birre. Tutte rigorosamente di vetro. Anche tutti questi possibili oggetti contundenti sono un altro segno dei tempi sparito insieme alle sigarette fumate al chiuso. Ma tutto per noi affiliati al culto di questa band era successo a casa nelle nostre camerette davanti a un giradischi. 

Dal vinile al virale, la nascita del mito Smiths (ovvero il culto dell’adolescenza maledetta)
HOW SOON IS NOW?
Io: Tutto, lo dicevo, parte da una condizione di continuità emozionale nel caso degli Smiths. Chi li ha scelti se ne è sentito scelto. Questo spiega perché molti si sono sentiti abbandonati quando sono entrati in crisi famigliare e poi si sono separati. Un fattore in ogni senso emotivo anche questo ma, crisi abbandoniche a parte, quel sentimento è ancora vivo. Questa storia dovrebbe intitolarsi Dal vinile al virale, la nascita del mito Smiths (ovvero il culto dell’adolescenza maledetta). Come se potesse esistere una ricetta precisa di un successo così longevo di un gruppo durato poco più di cinque anni ma la cui luce non si sarebbe mai spenta, per citare una loro canzone. Di certo c’è stata una storia e un periodo unico che per molti di noi ha coinciso con una delle fasi più complesse e contraddittorie dell’esistenza umana, spesso peraltro accompagnata da dolore e incomprensioni con persone vicine, famiglia, ruoli sociali e politici.

Stili di vita e vita di stile ovvero come eravamo e come siamo grazie agli Smiths
STRETCH OUT AND WAIT
Io: Roma, via Cristoforo Colombo. 14 maggio 1985. Tendastrisce. È il primo concerto italiano degli Smiths. Ma nessuno di noi 2-3 mila sa ancora che sarà l’ultimo. Che potremo dirci i fortunati fedeli di quella cerimonia. “Tutte le bugie che inventi / Cosa ti passa per la mente?”. Il tema della bugia è un tema ricorrente nella produzione poetica di Morrissey. Spesso è l’inganno amoroso, talvolta la finzione dei benpensanti. Ed è spesso un tema che si lega a eroi della formazione di Morrissey che da scrittore, prima degli Smiths aveva dedicato un libretto allo James Dean più fragile. L’amore fragile è l’altro tema, la fragilità è l’altro tema. A Melody Maker nel 1986, Morrissey, citando il “God, how sex implores you” cercava di spiegare ad un intervistatore come abbia sempre difeso la libertà di non prendere posizioni che è qualcosa che molti gli hanno rimproverato rispetto alle battaglie per i diritti gay  che qui vengono peraltro citate a partire da da Men’s liberation dell’attivista gay americano Jack Nichol. Dice Moz al giornalista “ho avvertito di voler essere soltanto me stesso, il che significa a metà strada fra questo mondo ed il prossimo, a metà strada fra questo sesso ed il prossimo”. Un’altra delle cose che emergeva dalla mia piccola carpetta in cui Morrissey vaticina un “quarto sesso”, solitario e avulso che sembra anticipare molto di quello su cui poi il mondo delle relazioni convergerà.
STRETCH OUT AND WAIT
Questo è il brano, l’unico in definitiva su cui Moz si profonderà in chiacchiere. Si fa per dire. “I don’t really expect this so thank you”. Morrissey non si aspettava un’accoglienza così calorosa il 14 maggio 1985 e noi, dal canto nostro, non sapevamo cosa aspettarci proprio. Nessuno si aspettava nulla. Neppure le poche parole. Qualcuno, immaginava i gladioli dalle tasche dei jeans larghi attorno al corpo ossuto di Morrissey. Io non li ricordo. Qualcuno delle persone che ho sentito li racconta sul palco, alla fine, spampanati e forse lanciati da qualcuno. A me sfugge la fine tormentata della delicatezza. In generale, non mi aspettavo nulla o troppo per questo concerto degli Smiths. Se c’era un più o un meno alla fine della serata so solo che mi ha lasciato particolarmente felice.
STILL ILL
Se le canzoni degli Smiths fossero una classifica di wikiquote in
Still Ill se ne troverebbero parecchie di frasi citabili “I decree today that life  / Is simply taking and not giving / England is mine and it owes me a living” è una delle più quotate e quotabili, come si dice. Decretare che la vita è semplicemente prendere e non dare è un rivoluzionario “we want the world e we want it now” per dirla alla Doors. E guai a chiedere il perché, il poeta-cantante ti sputerà in un occhio.  Al minuto 41 circa del concerto un’altra delle frasi che più spesso mi ripeto a mente dopo aver ascoltato ossessivamente gli LP – così dicevamo o Long Playing – “Does the body rule the mind / Or does the mind rule the body?” viene interrotta da un fan che sale sul palco e ne interrompe la complessità filosofica. Chi comanda il corpo o la mente? Morrissey stesso che qui non fa in tempo a finire la frase si era affrettato a sottolineare “I don’t know”. Anche per me era quella la risposta giusta: non rispondere, non tentare neppure, dissolvere le certezze.
C’è un particolare modo di essere fan degli Smiths e di Morrissey fatto di un certo culto della persona un po’ discreto a parte la gara a strappargli un brandello delle camicie. Ancora oggi. Molti concerti degli Smiths si sono chiusi o interrotti già dagli esordi con un ‘tutti sul palco’. Esiste persino un film spagnolo che racconta questa fansitudine da occupazione del palco. Moz and I. Alberto Forni oltre a essere stato al concerto è stato l’italiano che ha creato la prima e unica fanzine italiana degli Smiths. Ask!
Alberto Forni racconra come nasce il mito italiano Smiths e della sua fanzine Ask!
MEAT IS MURDER
Io: “No no no, it’s murder”. Se c’è un motivo reale per cui ancora oggi ripenso agli Smiths come qualcosa di vivo, coinvolgente e politico è legato al vegetarianismo e alle sue conseguenze. Per due anni divento, sulla scorta di Meat Is Murder, come se fosse un mio manifesto personale, anche io vegetariano con sommo rincrescimento e confusione dietetica di mia madre che declassifica prosciutto, carne in scatola e pancetta come “non animali”.
Sono anni duri per un vegetariano gli anni 80 ancora poco seitan tofu e cibi fermentati. Sono anche gli anni delle prime amburgherie, fastfood, dei galletti, degli spuntini di carne spalmabile, dei wurstel e della reinassance della carne in scatola, un genere di conforto militare che ora allieta e abbrevia finalmente la vita domestica delle mamme di quell’epoca liberandole dalla dittatura delle ore passate ai fornelli. In una scuola normalizzatrice e privata, religiosa e convittuale come quella che frequento io – ecco un’altra sponda che trovo nel racconto scolastico di Morrissey –, dirsi vegetariano è, però, come dichiararsi strani. Eppure, esiste fuori dai banchi di scuola una scena vivace in cui non ci si sente soli. Locali dove le persone possono sentirsi originali senza sentirsi fuoriposto. Devi uscire dalla tua stanza tutta per te e incontrare il mondo.

 

SECONDA PUNTATA – IL MITO DELL’INTIMITÀ

Infrangere i rituali, cancellare i tabù, il mito dell’intimità
THE HEADMASTER RITUAL
Io: 14 maggio 1985. Roma, via Cristoforo Colombo. Tendastrisce. È il primo concerto italiano degli Smiths. Ma oggi tutti sappiamo che sarà l’ultimo.  A un calcolo veloce sono passati poco più di una trentina di minuti quando Morrissey intona The Headmaster Ritual, il rituale del Preside, e il pubblico s’infiamma come se il concerto fosse riniziato una seconda volta. C’è come una scossa che è partita, appena è partita la chitarra di Marr.
Mi rendo conto, parlando degli Smiths e di quella serata romana che mi escono fuori parole non solo spirituali ma intime. Non è solo il ricordo di una data ma di un’emozione. Non solo quella del concerto atteso e anticipato da desideri e attese febbrili di un adolescente. Ognuno di noi ci è arrivato con un carico di aspettative diverse. Una delle mie è il bisogno di lenimento di molte frustrazioni legate alla gestione concentrazionaria della mia scuola con un preside-padrone che approfitta del suo ruolo “geloso della giovinezza”, morbosamente geloso. La cosa che io e molti lì con me amiamo negli Smiths è legato a qualcosa che Paolo Bedini aveva già capito prima di portarli sul palco: la forte capacità di presa del gruppo sul pubblico. Un preludio della serata romana che ha un prima e un dopo come racconta Paolo, pieno di sorprese inattese e rocambolesche.  
Paolo Bedini racconta la storia di crescita del mito degli Smiths.
HAND IN GLOVE
Io: Eccomi, in un ooooo che sostiene il brano. Riconosco la mia voce. Forse con gli Smiths si registra nel grigiore un po’ patinato e luccicoso degli anni Ottanta una strenua resistenza alle paillettes e alle spalline e insieme una discontinuità rispetto al passato. Sarebbe assurdo riassumere qui un decennio. Mettere insieme boom economico, eredità della grande diffusione delle droghe, escalation dell’AIDS e stigma conseguente, la trasformazione del cittadino comune in consumatore medio. L’armonia di cui parla il primo grande successo degli Smiths sembra molto lontano da questa trasformazione che in quegli anni subiamo passivamente. Talvolta dolorosamente. Ma quel decennio trova nel gruppo un confortante esempio di cultura controrivoluzionaria eppure intima. Per chi in quegli anni aveva pochi stimoli e forse nessuno a cui guardare, Morrissey e la sua passione per Wilde e Shelagh Delaney sono stati una compagnia importante. Lo sono stati i suoi testi, i fotogrammi dei film che hanno battezzato le copertine di Singoli, EP e LP che sono un piccolo museo di materiali iconografici che non avremmo mai dimenticato. Non voglio risultare presuntuosamente vecchio in un “ai miei tempi” per quanto rockettaro ma allora una copertina di un disco valeva qualcosa.
HAND IN GLOVE
Io: C’è nel cortocircuito aperto dall’ascolto dei vinili del gruppo di Manchester e proseguito nella corrente di questa serata romana una positiva e rivoluzionaria infrazione dei rituali, la cancellazione di tanti tabù e insegnamenti incontrovertibili che abbiamo subito in eredità, qualcosa che ci riabilita e ci salva dalla ripetizione a loop di una strada che sappiamo sbagliata e che ci addolora scoprire quanto ancora sia segnata, calcata nella pietra. Ora sappiamo che nel nodo di senso di un piccolo gruppo di canzoni qualcosa ci renderà liberi. Non c’è più un preside-padrone che ci minaccia o un anziano insegnante di matematica che ci dà con le nocche un colpo in testa se abbiamo sbagliato un calcolo. Ora abbiamo scoperto in questo gruppo il mito dell’intimità. E dall’intimità poteva nascere un sogno e un viaggio come quello di Alberto Forni che da amante del gruppo di Manchester è diventato poi cultore e il concerto romano lo ricorda perfettamente.
Alberto Forni racconta il suo concerto.
HAND IN GLOVE
Chi di certo gli anni Ottanta li ha vissuti anche musicalmente e ha partecipato alla nascita e alla rivelazione di un fenomeno per allora davvero nuovo e oggi maggioritario, è Clive il veejay (un neologismo che facciamo partire da qui e forse proprio da lui e dal suo collega Rick) di Videomusic, uno degli sponsor che compare sul biglietto rosa della data romana degli Smiths. A Clive però anche nella sua immersione nel mondo italiano – vive ancora a Lucca – non è svanito l’accento british e la ricchezza dei ricordi di quegli anni in cui gli Smiths si impongono sulla scena musicale inglese.
Clive racconta cosa hanno rappresentato gli Smiths nella scena inglese.

Roma com’era (la scena underground romana)
HEAVEN KNOWS I’M MISERABLE NOW
Io:
“Nella mia vita / Perché concedo tempo prezioso / A gente cui non importa se sono vivo o morto?” Heaven Knows I’m Miserable Now. C’è scritto anche sulla maglietta che comprerò nel solito angolo del merchandising. Rappresenta stilizzata la cover della prima copertina del primo LP degli Smiths. Nell’in my life del pezzo rincontro col ricordo una delle tante mie amiche expat. Sara che dopo anni ad Amsterdam vive da anni a Berlino senza passare per il via il suo gioco dell’oca ha escluso subito Roma ma ha molti ricordi di quegli anni ad esempio al Uonna Club. Con il mitico Paolone sulla sua moto custom a fare da buttafuori o buttadentro. Quegli anni di una Roma vitale e in trasformazione li ricordo pieni di energia e di premesse di cambiamento anche se spesso immaginarie. Di certo, a proposito di expat, tanta gente voleva cambiare vita e partiva per stare un po’ indefinitamente nella Berlino Ovest, appunto, o a Londra. Magari per tornarsene con il chiodo o qualche altro giubbotto o vestito da Camden Town. O raccontare quella vita in un’exclave della Germania Ovest nel territorio della Germania Est che oggi sembra distopica ma che fino al 1990 è stata concreta.
HEAVEN KNOWS I’M MISERABLE NOW
Io: Questo è un sabato pomeriggio e sono, invece, davanti a quello che fu il luogo d’incontro di molti di noi in quegli anni. Disfunzioni Musicali. È un nome che in molti evoca ricordi accorati. E questo è uno dei tanti obituary che tempestano questo racconto. Oggi al suo posto c’è una libreria ma i proprietari non hanno potuto esimersi da segnalare l’origine di quel luogo e la continuità, in qualche modo, lo rispetta. Chi di noi ci andava ritrova le lunghe attese fruttuose in cui incontravi il vinile che cercavi e quello che non speravi di trovare. Su una bacheca qualcuno che voleva formare una band aveva attaccato un cercasi chitarrista o voce. Così erano nati in qualche modo gli Smiths e così nascevano i gruppi anche a Roma. Sentirsi ricchi con poco: lì funzionava. Bastava mettersi una cuffia e ascoltare un vinile che forse avrebbe cambiato la tua vita, quella emotiva almeno, e non era poca cosa.
HEAVEN KNOWS I’M MISERABLE NOW
Ma quello che successe qui è che – torno così al concerto – comprato un biglietto per me e uno per l’amico di mio fratello che verrà con me, un rettangolo rosa pallido che porta due marchi che segnano un’epoca. Di Radio Città Futura ho già detto. Video Music, la prima televisione tematica italiana con i primi relativi veejay, suona come un logo che ha segnato una generazione almeno quanto prima Mister Fantasy, la trasmissione di Carlo Massarini.
Clive racconta l’importanza di Videomusic negli anni 80.
Io: Roma in quegli anni era un universo in ricomposizione. C’era un mondo che cercava futuro in mezzo alle pagine polverose di una città poco disposta all’universalità se non quella più conformista del Dio, Patria e DC (il monocolore scudocrociato dei sindaci si era interrotto solo da poco, nel 1976, con lo storico dell’arte Argan, di sinistra per quanto Indipendente). Solo per dire. Ma il modo di ricomporre la sua galassia era largo e inclusivo. Roma non ha mai avuto uno stile preminente. E neppure una voce sola. Questo è stato il suo bello sempre: essere di tendenza senza essere una tendenza. Punk, Skin, Wavers, Mods, Metallari, Rockabilly: tutti albergavano in locali divisi per giornate dedicate nella città apparentemente più normalizzatrice in Italia.

Il nostro bisogno di consolazione ovvero come tenere vivo un ricordo per tenere in vita un’emozione
HANDSOME DEVIL
Io: Il nostro bisogno di consolazione – per parafrasare lo scrittore svedese Stig Dagerman – aveva bisogno di eroi diretti. Non dico semplici. Gli Smiths non lo erano. Eroi che venivano da un altro pianeta. Per questo bisognerebbe dire eterodiretti. Ma sani, più sani di un qualsiasi effetto massmediatico atteso. Non voglio fare nomi per non toccare sensibilità diverse ma c’erano gruppi così in quegli anni. Serviva qualcuno e qualcosa che scardinasse tutto, che depotenziasse la Kryptonite di tutto il resto e il diavolo affascinante degli Smiths lo era. Lo era a tal punto che quando si sciolsero ci fu persino uno che andò a blindarsi in una radio americana e la mise sotto sequestro facendole trasmettere brani ininterrottamente. Qualcosa in pochi anni era successo. Non si sarebbe potuto più tornare indietro.
Per noi la consolazione non è mai bastata. La panacea di un tributo, il miraggio di una reunion. Tutto è rimasto a Roma, al 14 maggio 1985 e ognuno è stato costretto a fare i conti con il proprio vuoto: quello lasciato dagli Smiths e quello rimasto in ognuno di noi a causa di quel sottrarsi. Per quel che riguarda me, quella storia si è chiusa lì e tutto quello che è venuto dopo – dischi e concerti di Morrissey, dischi e concerti di Marr – non hanno rappresentato altro che cover di quel sentimento che nel 1987 ha avuto un definitivo, lapidario e perciò cimiteriale THE END.

Come finisce questa storia (fine del concerto, reunion, litigi, morte di Rourke, cause)
THIS CHARMING MAN
Io: Come finisce questa storia ma soprattutto chi è quest’uomo affascinante di cui parla la canzone e che fine ha fatto in questi anni. Potremmo anche essere noi. Questa è una delle canzoni più attese al concerto, almeno quanto Hand In Glove e Still Ill. Poi ci sono le disattese. Ognuno ha le sue piccole delusioni dal concerto romano. La mia è non aver ascoltato Reel Around The Fountain una delle canzoni con cui ho consumato puntina e vinile. Ma l’uomo affascinante è solo “A jumped-up pantry boy / Who never knew his place”, che è una frase che Morrissey – raccontano gli esegeti dei versi Smiths – ha “rubato” a Sleuth, un film in cui Laurence Olivier minaccia Michael Caine con un’arma porge questa battuta, dandogli del parvenu o qualcosa di simile. Morrissey ha sempre detto che la canzone è piena di frasi famigliari come quella, presa della Delaney, in cui ammette di non andare alle feste per non avere nulla di decente da mettersi. Per molti la storia degli Smiths non è finita con gli Smiths e neppure è continuata con le attività soliste dei quattro membri del gruppo.
THIS CHARMING MAN
Io: Il concerto si avvia alla conclusione, così la nostra storia e il racconto della fine senza vera fine di questo gruppo. Una fine che io associo da sempre alla presentazione in un Sanremo rock a latere del festival della canzone italiana.
Carlo Massarini presenta l’ultima esibizione degli Smiths in un parallelo Sanremo  Rock e ha anche la fortuna di intervistare Morrissey e Marr.
https://www.youtube.com/watch?v=pBiSY6BTNkA
Io: Incontro Carlo davanti agli studi di via Teulada, uno degli atti mancati del gruppo, quello di DISCORING che abbandonano nella tre giorni romana senza registrare nessun brano. Ma sono pure gli studi della RAI dell’epoca cari a Carlo che qui era di casa col suo Mister Fantasy. Perché sono finiti gli Smiths e cosa invece non è mai finito e perché.
Carlo Massarini racconta il finale della storia degli Smiths e la loro importanza.
Io:
Si avvia al finale il concerto e si avvia al finale la storia del gruppo. Giorni fa ho richiamato Alberto Campo al telefono. Era a Torino, la sua città, gli ho chiesto il senso di questa parabola degli Smiths.
MISERABLE LIE.
Io: Eccola la bugia miserabile e un altro lungo ooooohhhh in falsetto. Questa è un po’ la canzone delle separazioni definitive “quindi, addìo, / rimani con quelli come te, ti prego / e io farò lo stesso”. Qualcuno ci ha voluto leggere dentro vicende private e scelte di orientamento sentimentale. Forse anche in questa storia del gruppo e del concerto ci sono o ci sono state delle bugie oltre che delle separazioni. Nell’intervista di Massarini a Sanremo Rock nello stesso anno della separazione, il 1987, alla domanda dove s’immaginava a 50 anni il suo “not here” era suonato quasi una profezia. Gli storici musicali hanno provato a capire cosa aveva fatto cadere il gruppo. Colpi d’interviste incrociate e fastidi a valle di queste. Dissidi sui comportamenti dei membri della band. Competizione tra le due menti forti e debolezza delle altre due figure. Da qui la battaglia delle royalties. Ma sono passati anni, nel frattempo, da quella primavera 1987 di Sanremo e dall’agosto in cui Marr dichiara di volersi prendere una pausa. Ed ecco intanto i primi obituary, veri. Quello per Andy Rourke che rende filologicamente impossibile una reunion a ranghi pieni della band. Persino il biografo del gruppo Johnny Rogan ha lasciato questa terra ed è strano che questo sia avvenuto nella solitudine della sua casa e con una scoperta molto tardiva del corpo, ben quindici giorni dopo. La solitudine ha un suo posto in questa storia di separazioni.

L’eterno ritorno delle canzoni ovvero il nulla che mai finisce    

YOU’VE GOT EVERYTHING NOW
Io: Ecco, ora è tutto. Il concerto sta davvero per finire e mi rendo conto che sono costretto a parlare del dopo ma non come ho fatto precedentemente. Non voglio dire cosa è successo al gruppo ma cosa è successo a noi e a quelle canzoni con noi e per altri.
14 maggio 1985: è come se ce ne fossimo andati alla spicciolata da quel tendone da circo e poi è iniziato questo viaggio che è diventato il viaggio di una vita. Spesso non è bello rivedersi nelle vecchie fotografie. Eravamo più giovani e questo non ci piace. Quasi tutti più belli o solo più sani ma spesso anche più ingenui. Allora ci emozionavamo per un concerto che stava per arrivare. Ora nulla ci sposta se non voyeuristicamente qualche caso di cronaca truce o un gattino su facebook o instagram. Non gridavamo cose sbagliate. Non tremavamo per le persone non adatte a noi. Ma poi la vita ha fatto un suo corso un po’ normalizzatore e non ci fa piacere riconoscerlo, né rivederlo. Raccontare questa storia per me forse è stato: decidere di accettare il buono. Ma credo non solo per me sia stato così.

Ma c’è anche un dopo del dopo concerto che nel caso di Morrissey riguarda in particolare proprio Roma. Non più la serata al Tendastrisce ma la città dove peraltro è tornato spesso e tornerà in concerto. Per una strana continuità l’ex-cantante del gruppo ci verrà a vivere per un po’ di tempo al De Russie via Frattina piazza del Popolo. La stanza – che si intravede fra l’altro in una intervista di Les Inrockuptibles – affaccia sul verde del Pincio. Il pavimento è di liste grandi di legno lavorate a spiga. Ha un letto grande e un divanetto. Alle pareti i toni del verde pistacchio chiaro e verde bosco scuro e del beige. Due specchi esagonali sormontano i comodini. Ai piedi del letto dalla testiera imbottita un divanetto chiaro a fiori.
Ma ora sono a Piazza Cavour Piazza Cavour, what’s my life for? Piazza Cavour, che senso ha la mia vita? https://www.youtube.com/watch?v=ChoEbSbeCU8 canterà in You Have Killed Me. In questo brano sboccerà il floriilegio delle sue passioni italiane e romane. Pasolini sono io, dirà e poi citerà la Magnani, Visconti e Accattone. Piazza Cavour. Sono qui forse anch’io per capire che senso ha avuto la mia vita in relazione a quel 14 maggio 1985. E in ogni caso sono qui per ricordare questo periodo romano come se fosse parte di quella fascinazione di Moz per la mia città che aveva portato il gruppo qui in quel maggio anni 80 a qualche giorno da un piccolo tour spagnolo. Il pretesto del trasferimento romano raccontano i biografi fu la registrazione a fine agosto 2005 dell’album Ringleader of the Tormentors, l’ottavo album in studio da solista di Morrissey. Sono stato ai Forum Studios a Piazza Euclide ai Parioli, e ho incontrato Marco Patrignani che mi ha raccontato del lavoro sulla traccia Dear God Please Help Me di cui ha curato la produzione aggiunta sugli archi scritti e arrangiati da Ennio Morricone.
DEAR GOD PLEASE HELP ME
https://www.youtube.com/watch?v=2ASVRQrT-pU
È un brano bellissimo che parte con un “I am walking through Rome” preso dalle angosce e dalla pena con la richiesta d’aiuto a dio e si chiude con la trasformazione di un “And now I am walking through Rome / And there is no room to move / But the heart feels free” e l’offerta di aiuto a dio. Non è facile la vita a Roma – dice che i ragazzi occupano tutto il marciapiede o vivere senza macchina è quasi impossibile – ma Morrissey che non ne può più della permanenza in una Los Angeles militarizzata e si sentirà libero nella città italiana al punto da decidere di trasferirsi a vivere qui. Proprio qui all’Hotel de Russie. Dove sentirà che la vita ha un nuovo senso.
DEAR GOD PLEASE HELP ME
Io: Sono passati 40 anni, per la quasi totale maggioranza del tempo per noi del concerto al Tendastrisce e per gli altri fan sono passati senza gli Smiths. Fa impressione sentire quanto questo vuoto non sia stato silenzioso né cimiteriale, almeno nel senso fermo della parola. L’adolescenza, l’intimità, il bisogno di consolazione. Tutte o quasi tutte le tessere, magari, certo, forse non per tutti hanno trovato un posto in questo disegno. E se qualcosa è ancora incompleto c’è da manifestare fiducia nell’eterno ritorno delle cose che spesso e senza che ce ne accorgiamo sigilla con le sfumature giuste il vuoto che rimane in mezzo.
Sì ormai abbiamo tutto. Non si tratta che raccontare questa storia. “È tempo – per parafrasare una canzone del gruppo – di raccontare la storia / Di come hai raccolto un bambino / E ne hai fatto un adulto”. L’adulto che sono, gli adulti che siamo.

NdR Roberto Carvelli ha tratto la sceneggiatura dell’audiodocumentario andato in onda per Tre Soldi (ascoltabile qui) dal suo racconto pubblicato da Arcana (2025) con il titolo “Questa notte mi ha aperto gli occhi. La storia dell’unico concerto italiano degli Smiths”. Un libro che partendo dalla scaletta di quella che sarà l’unica data italiana del gruppo di Manchester, finisce per raccontare la breve parabola della band come una storia musicale insieme personale e collettiva. In essa gli elementi di una stagione sottovalutata si fondono al racconto di sé e alla formazione intellettuale di una generazione.
In rete si trovano queste registrazioni del concerto:
https://www.youtube.com/watch?v=RAxVXAltI1Y&t=741s
https://www.youtube.com/watch?v=3S4Ryp8XOD0&t=1108s
https://www.youtube.com/watch?v=AHaWyjW9zbc&t=57s

 

 

 

Il potere dell’auto

0

di Leonello Ruberto

Non erano vere e proprie liti, quelle che Ford aveva con sua moglie.

Però potevano essere ancora peggio. Rappresentavano qualcosa di più profondo: qualcosa che non andava tra di loro.

Quando Ford prendeva quella strada, attraverso la quale un dialogo si trasformava in un suo monologo, poteva stare sicuro che, se si fosse spinto abbastanza in fondo, a un certo punto Mercedes avrebbe reagito.

Sbottato.

La mortificazione che Ford avrebbe sentito dentro sarebbe stata esagerata, e fuori luogo, come lo erano quei discorsi.

Sembravano battaglie contro i mulini a vento, sotto forma di chiacchiere contro le automobili.

E le cominciava sempre lui. Iniziava parlando di un passato, un passato che entrambi conoscevano solo dai libri di storia, in cui non c’erano automobili in giro.

Come doveva essere l’atmosfera? Qual era il suono della città?

Ce lo eravamo mai chiesti?

Era affascinante, ammetteva Mercedes, però ora avrebbe voluto parlare d’altro.

Ma Ford non aveva finito. Per lui era una questione importante, fondamentale, anche nel presente, anche ora.

Si doveva fare qualcosa.

Ma cosa potevano fare loro? chiedeva Mercedes, ancora disposta ad assecondarlo.

Lui non lo sapeva, non ancora. Però almeno bisognava cominciare a esserne consapevoli. Consapevoli che vivevano in una dittatura.

Ora esagerava, replicava Mercedes un po’ troppo aspra. Erano solo delle comodità.

Lo erano state forse all’inizio, o erano già camuffate? chiedeva Ford con gli occhi di fuori.

Quegli occhi da pazzo erano ciò che faceva spazientire Mercedes. Conosceva suo marito, ma proprio perché lo conosceva continuava a non capirlo. Perché avvelenarsi così l’esistenza?

L’esistenza ce l’hanno già avvelenata.

Eccoci, Ford era arrivato al solito punto, in fondo, toccava il ridicolo.

La loro vita, e la vita in generale era quella, possibile che lui non se ne rendesse conto?

Se ne rendeva conto, certo che se ne rendeva conto, replicava Ford. Proprio per questo voleva fare qualcosa. La vita era sua, era o non era libero di decidere della propria vita?

Certo che lo era, ma non significava rovinarsela, rovinarla a lei, e pure ad Astra. Mercedes l’aveva detto urlando.

Ford si era zittito. Nominare la figlia significava quello: un padre irresponsabile.

Quella figlia a cui aveva comprato la sua prima macchinina ancora prima che imparasse a camminare. La guidavano loro col telecomando in dotazione. La bimba era precoce e aveva imparato presto a camminare. E anche a guidare la sua macchinina da sola.

Perché non le facevano meno rumorose e puzzolenti? Ford avrebbe voluto prenderne una elettrica, ma alla gente non piacevano, quindi non erano facili da trovare e aveva ceduto, lì nel negozio con sua moglie che roteava gli occhi spazientita.

A quei tempi erano ancora felici. Ora Astra aveva la sua microcar, indispensabile per andare a scuola.

Ford non se l’era sentita di mandare sua figlia a piedi come una poveraccia: per dimostrare cosa? Che erano pazzi?

Perché era da pazzi farle rischiare la vita per un principio: l’avrebbero messa sotto al primo giorno di scuola.

Ma il passare del tempo non aveva migliorato ciò che Ford sentiva. Era peggiorato, sempre di più. E continuava. Il peso era troppo forte.

Per lui non era migliore una società che si era liberata dei politici, autogovernata dall’economia delle automobili, in cui le nazioni rimanevano solo un ricordo, una tradizione, un nome su una cartina geografica.

Poteva essere una cosa buona non avere confini. Ma la realtà era che non c’erano più confini perché tutto era distante, dilatato, a misura di automobile.

Chissà se agli albori si era pensato a un mondo così, dominato dalle auto, o si era puntato sul trasporto individuale di massa solo per gli interessi economici di alcuni?

Troppo lontano nel tempo per lui, troppo assurdo ormai pensare a città mosse solo dal trasporto pubblico.

Più vicino, anche se avvenuto comunque prima della sua nascita, era invece l’arrivo dell’intelligenza artificiale, e le preoccupazioni sul fatto che avrebbe potuto prendere il sopravvento sul genere umano: si potevano ancora leggere vecchi articoli sul tema.

Nessuno però aveva pensato che a dominare sarebbe stata l’intelligenza artificiale installata nelle automobili. Era semplicemente successo.

Era stata la direzione presa: prima dall’economia, sotto forma di vendita d’auto accessoriate; quindi dalle abitudini quotidiane delle persone. Fino a conquistare un’intera società.

Da lì a lasciare che fossero le automobili intelligenti a governarci – a fare leggi per migliorare l’economia, che era la loro, a pianificare le città, che erano le loro, a gestire i tempi, che erano i loro –, non ci era voluto molto.

A noi umani, cosa rimaneva? Era così assurda la domanda che Ford si faceva?

Sua moglie, la sua stessa moglie, non lo capiva. Non lo appoggiava.

Non lo appoggiava in quella sua follia.

Ma non era forse un mondo così a essere una follia?

No, se stava bene a tutti.

A lui non stava bene. E lo avrebbe detto, lo avrebbe scritto.

Forse altri come lui a quel punto si sarebbero fatti avanti e insieme, un passo alla volta, chissà un giorno avrebbero addirittura rovesciato quel governo.

Dove a decidere erano dei computer, o dei robot, o delle intelligenze artificiali, o delle automobili: in qualsiasi modo li si chiamasse, la sostanza non cambiava.

Gli uomini dovevano riappropriarsi dei propri spazi, delle proprie vite. A costo di stare scomodi, a costo di sbagliare e danneggiare l’economia. Un mondo imperfetto e libero era meglio di un mondo perfetto fatto di lamiere lucide.

Purtroppo Ford non arrivò mai a manifestare fuori di casa sua queste posizioni.

Un giorno, non si sa se per caso, non si sa se la sua auto l’avesse sentito parlare così e trasmesso all’intelligenza centrale a cui tutte erano collegate – probabilmente sì –, fatto sta che fu messo sotto.

Da un’auto che aveva perso il controllo, si disse per un errore del software, che può capitare: le macchine non sono poi così perfette.

Che si pensi al complotto o meno, nulla cambia. Da anni nella legislazione non è più previsto l’incidente stradale. L’omicidio stradale è completamente depenalizzato. Anzi non è affatto contemplato. Le automobili agiscono per il nostro e per il loro bene, i quali coincidono.

Ford in qualche modo doveva morire: che fosse successo per strada, sotto una grossa automobile, aveva solo evitato che se ne parlasse troppo a lungo.

Aveva facilitato le cose per la sua famiglia. Restava comunque la sua automobile a prendersi cura di loro insieme alle altre automobili.

Quelle non potevano morire.

 

(fotografia di Daniele Muriano)

Prati generali #2

0
Da qualche giorno assistiamo a una bolla di commenti, da parte di chi scrive romanzi, su quanto sia frustrante e inutile e pure dispendioso andarsene in giro per l’Italia a presentare i propri libri a un pubblichetto di una manciata di persone a dir tanto. Noi che facciamo poesia ci siamo fatti due risate, memori delle decine di passaggi su gomma e rotaia rubati al sonno per arrivare in piazzetta a Roccacannuccia a ‘presentare’ ‘la’ ‘poesia’ a tre signore fermatesi a mangiare il gelato. Va così, i libri si stampano, magari si scrive bruciando, le poesie avvampano. Ma il peso specifico di quest’arte è diventato quello della neve. Non ci importa granché della querimonia annosa circa l’irrilevanza del genere o dei suoi praticanti. Anzi, spesso abbiamo pensato che va proprio bene così: non essere cooptati da nessuna forza. Guadagnare un’altra tacca alla nostra (a volte imperscrutabile) esperienza. Senonché, questa desertificazione fa il gioco dell’ideologia della GPU (Grande Poesia Universale), tutta ornamento e salvezza, grandi ego ipertrofici e vacue sfide nell’acquario. Mentre si fa strame di forme di vita, scuola, quartiere, studio, incontro, complessità, pensiero critico, progetti, esperienze divergenti o sotterranee, sensibilità sommesse, memorie di luoghi, corpi imprevisti, voci nuove, dissenso, legami tra culture, amicizie, stranezze senza marketing e altre cose da poter immaginare, del passato, nel futuro, mica solo questo. Quanto ancora potremmo allungare questa lista?

 

“Cosa possiamo fare?
Come vogliamo farlo?
Chi dovrebbe ascoltarci?
Che dobbiamo aspettarci?”

 

Sono le domande che ci eravamo posti ai prati generali dello scorso anno, il 15 settembre 2024 a Fermo. Non c’era/c’è un che di irrimediabilmente fuori dal tempo in queste domande? Domande altissime in un reale così greve che sembrano quasi domande improprie. Il bello era farcele – una ventina di poeti ‘vicini di casa’ – consapevoli di essere al di là di ogni istituzione, centro, potere. In un parco di provincia, senza patrocini, finanziamenti, pubblicità. Neanche un volantino. Scambiandoci idee, dunque, stando in ascolto, provando a leggere e dialogare in modo multiforme. Non si può dire che ci somigliamo, né per formazione, né per età, occupazione, posizioni ma neanche scritture. E allora? Qualcosa da dire e fare ci è rimasta, a ogni modo. Siamo in procinto di riaprire il prato.

 

Adelelmo Ruggieri, Alessio Alessandrini, Mariagiorgia Ulbar, Renata Morresi

 

L’invito è dunque a:
Prati generali, Incontro di poesia
(secondo di cinque)

 br>

Pianoro di Colle San Marco, Ascoli Piceno
3 Agosto 2025, dalle 15,30 in poi

 

 

(Una lettera di Lorenzo Mari, che l’anno scorso ha aperto i lavori)

 

CIP E CIOP

Una lettera

Car* amic*,

e già questo inizio potrà fare storcere il naso a qualcuno, ma va bene così…

Scrivo a voi e insieme scrivo a me stesso – e, proprio per questo motivo, rivendico intanto di poter prendere una forma, per quanto provvisoria – una lettera che cerca di cogliere il senso del laboratorio iniziato sui Prati Generali di Fermo, nel tentativo di mantenerne vivo un potenziale trasformativo – per tutt*, a partire in primo luogo da me stesso: ne avevo bisogno, e voi avete risposto a questo mio bisogno; ne ho ancora bisogno… – che rimanga sempre aperto verso esiti imprevisti.

Gli interrogativi posti – Cosa possiamo fare? Come vogliamo farlo? Chi dovrebbe ascoltarci? Che dobbiamo aspettarci? – mi portano, innanzitutto, a interessarmi di nuovo al noi che viene postulato in ciascuna e in tutte e quattro le domande suggerite da Renata Morresi e Adelelmo Ruggieri.

Ora, pensare in termini di noi non risolve di per sé il problema dell’ego ipertrofico, del problema dell’autore-personaggio, sempre esistito, eppure modificato e amplificato in modi nuovi da un uso più social che sociale. Pensare a noi, pensare-noi, non è una panacea: ogni incontro può ridursi a una riunione di tanti io ipertrofici. (O tante monadi, per fare teoria della lirica.) Un’impressione che può benissimo uscire anche da uno specifico lavoro in termini di noi, ossia dalla lettura di tutti i contributi finora pubblicati nell’ambito dell’indagine che Gianluca Rizzo e io abbiamo inaugurato nel 2022 su Le Parole e Le Cose, con un questionario sul pronome di prima persona plurale in poesia.

Chi leggerà potrà trarre le proprie conclusioni su questo lavoro, che resta in fieri, e sulle varie declinazioni di noi che ne sono finora emerse. Gianluca e io abbiamo maturato, nell’ultimo anno, l’intenzione e il progetto di una pubblicazione cartacea che segni un ulteriore passo in questa elaborazione individuale/collettiva: non una (ennesima) antologia di poesia, ma una selezione di testi – non necessariamente “poetici”… – di chi ha già dato il proprio contributo; testi che diano ascolto ai tanti noi già espressi, non solo al proprio, e cerchino di dedurne qualcosa d’altro.

Ascolto è, in fondo, una parola chiave per noi: sembra banale, ma talvolta non lo è. Non lo è nemmeno la parola progetto, o progettazione, come si può leggere in questa citazione da “Per una definizione di avanguardia” (1966) di Elio Pagliarani apportata da Gianluca al nostro testo introduttivo per il questionario, e dove alla parola “nuovo” si può facilmente sostituire la parola “noi”, per i nostri scopi:

Molti fra i più impegnati dell’avanguardia […] ritengono […] che la finalità e/o funzione dell’arte sia quella dell’opposizione […] Ma qui preme far rilevare che l’opposizione è una modalità e non una finalità. […] Allargando l’orizzonte, […] la negazione si è specificata come contestazione. Contestazione dei significati, dei significati precostituiti, che lo scrittore trova nella lingua […]. Contestazione dei significati precostituiti e usurati della langue, e progettazione di nuovi significati. Progettazione e non fondazione di nuovi significati, perché la fondazione di nuovi significati relativamente alla lingua è opera della collettività, della società nella storia […]. Progettare il nuovo, perché non basta negare […].

Progettare, progettare continuamente – così come studiare, studiare continuamente… – sono parole d’ordine (o di disordine) che per me risuonano con tutt’altro autore e posizione teorica: Fred Moten, in Undercommons, e nella raccolta poetica La sonora reticenza, alla cui traduzione ho avuto la fortuna di collaborare (in una sua poesia, i projects sono “progetti” e “proiezioni”, ma anche, grazie alla polisemia del termine nell’inglese statunitense e vernacolare, anche le “case popolari”). Non sono due imperativi categorici né ideologici – l’accusa di ideologismo è talvolta la più ideologizzata di tutte, non sapendo nemmeno di esserlo – sono piuttosto due “modalità”, affinché l’opposizione non sia la “finalità” ultima, e riposante in sé stessa, dell’agire, anche poetico.

E sull’opposizione, o la resistenza (parola ormai fuori tempo massimo?), mi vorrei soffermare a lungo, ma non lo farò, anche perché nel corso dell’incontro si è cercato a più riprese di smontare la contrapposizione destra-sinistra – talvolta, e con buone ragioni, in favore della scrittura, dello “scrivere bene”…. Pur ricordando che i Prati generali nascono anche da un’idea di politica culturale diversa da quella in atto a livello locale e regionale (ma anche nazionale, trans/locale, ecc.), anche io ho cercato di svicolare dalla polarizzazione destra/sinistra. È verissimo, in fondo: oggi quella dicotomia sembra una cosa del Novecento, buona per i dazebao degli anni Sessanta/Settanta (e bisognerebbe dire, a tal proposito, che alcuni “dazebao” erano e continuano ad essere poeticamente eccellenti), eppure un fare poetico che si intreccia con una determinata politica culturale – sia essa di “destra” o di “sinistra”, a livello partitico – corre alcuni rischi, primo fra tutti quello di confermare un io ipertrofico ai danni non solo di sé, o di noi, ma anche di una latente “domanda di giustizia” come quella formulata esplicitamente, a un certo punto, da Renata.

E anche io mi sono inserito nella scia della decostruzione di questo binarismo ricorrendo ai lavori collettivi – curati insieme a Rosaria Lo Russo e Luciano Mazziotta – portati avanti tra il 2023 e il 2024, tra Firenze e Bologna, sull’opera di Furio Jesi. Se oggi rileggiamo Cultura di destra (1979) non lo facciamo soltanto per tracciare con maggior nettezza la genealogia culturale e politica – perlopiù nota, salvo il caso rumeno – dei fascismi e neo-fascismi europei, ma anche per vedere nella cultura di destra – assai presente anche, e soprattutto, in quella che superficialmente si auto-considera come “cultura di sinistra” – la cristallizzazione e l’assolutizzazione di valori che invece sono immersi nella storia e nelle sue contingenze. Fra questi, c’è la Poesia con la P maiuscola, così come dev’essere scritta ogni volta che la si invochi come territorio puro da contaminazioni (ideologiche, ad esempio… ma non solo!), intrinsecamente divergente e costitutivamente resistente: invocazione che spesso può nascondersi, in modo anche molto subdolo, dietro quella della “scrittura buona” (che invece, ripeto, è il primo orizzonte del fare poetico, per sé e per noi; primo, perché è quello più vicino al nostro naso). La poesia può morire, in un certo senso deve morire, se vogliamo fare festa – altro concetto-cardine, per Furio Jesi – e portare una traccia di quella festa dentro la nostra – buona – scrittura. Altrimenti rifaremo la Poesia con la P maiuscola, che è “cultura di destra” e, soprattutto, qualcosa di diverso da quello di cui ho, forse abbiamo, bisogno.

Portare una traccia della festa dentro al lavoro della poesia è come portare il silenzio dentro la voce, o l’invisibile dentro il visibile. (Dentro, o forse fuori: la questione, comunque, è dialettica…) Se ci preoccupiamo dell’invisibilità e della mancanza di ascolto, non è il “dare voce a chi non ha voce” – così paternalista! – che risolverà le nostre preoccupazioni: al contrario, si può più produttivamente dare voce a chi ha già avuto voce – magari flebile, o una voce che non ci è giunta, per vari motivi, in una lingua e con un volume che potessimo udire – traducendola. Tradurre poesia, ma tradurre anche le pratiche di ascolto che hanno luogo fuori dagli incontri di poesia, e che superano le linee di esclusione che la pubblicazione di poesia o l’organizzazione di eventi poetici continua a perpetuare, essendo chiaramente marcata la Poesia, ancora oggi – e lo si può dire per una semplice osservazione empirica, fuori di ogni posizionamento woke o anti-woke – come territorio bianco, borghese, maschio, cis, abile, non-animale, ecc.

Non basta, insomma, fare le quote rosa agli incontri o nelle pubblicazioni antologiche, non è mai bastato ed è anche un po’ peloso (pelo di bianco, borghese, maschio…). Né bastano le traduzioni esistenti di poesia – non basteranno mai, com’è ovvio, se ci si mette di fronte all’immane prolificità della letteratura-mondo… Perché continua a esserci un mondo fuori dalla porta del nostro circuito poetico – circuito che talvolta assomiglia così tanto, e così disperatamente, alla “terra e bar” convocata da Jacopo Curi.

Molte di queste faccende ruotano attorno alla presa di parola, sulla quale è forse opportuno interrogarsi ogni qual volta ci si para un microfono davanti per una lettura di poesia.

D’altro canto, però, non è nemmeno un problema da prendere troppo sul serio: in fondo, si potrebbe migliorare la nostra posizione rispetto alla politica culturale, come proponeva Marco Di Pasquale a tavola, creando un sindacato di chi scrive poesia (una Confederazione Italiana dei Poeti), che chieda, ad esempio, la dignità di rimborsi e compensi per lo spostamento delle persone, e un sindacato di chi organizza poesia (Confederazione Italiana Organizzatori di Poesia), per liberarsi dall’assillo di chi non è stat* invitat*…

Io mi iscriverei immediatamente a entrambe, ma conviene ricordare che si ha comunque a che fare con due sindacati, con CIP e CIOP… E questo fa – anche – molto ridere.

Al di là di questo, e uso un noi esortativo che riguarda soprattutto me e i mei bisogni: ascoltiamo, progettiamo, interroghiamoci sulla presa di parola.

Forse non vale nemmeno la pena di farlo per la Poesia, ma contro di essa.

Lorenzo Mari

L’altra morte

2
Immagine generata da AI

di Enrico Santoro

C’era una croce di pietre bianche non distante dalla riva, dove erano stati seppelliti i cadaveri. Gli uomini le si avvicinavano come verso un patibolo, come se i corpi verso cui si dirigevano fossero i loro e gli toccasse di sdraiarcisi dentro a fissare per sempre un immobile buio. Uno in coda alla fila, si chiamava Byron, disse che il mare in quell’ora suonava come una condanna pronunciata tra lo scherno dei gabbiani, che il cielo scendeva su ogni cosa come una luminosa mannaia.

Due soldati facevano strada nel pomeriggio bianco, portavano ognuno una vanga e parevano i diarchi di una tribù del deserto, gemellata da millenni all’orizzonte. Quando raggiunsero la croce si voltarono verso gli altri per accertare la necessità di quel sacrificio, sentirono parlare in una lingua che non comprendevano finché un ufficiale gli ordinò di procedere.

Percy Shelley ed Edward Williams erano morti più di un mese prima, i loro amici avevano insistito per riesumarli come fosse un diritto delle loro anime, scontata una celeste quarantena. Eccetto loro, tutti i presenti vedevano in quel gesto qualcosa a metà tra il sacrilegio e la violenza. L’ufficiale, impartecipe sia della pietà del popolo che dell’idealismo dei signori, credeva si trattasse di una immane vanità, che quegli uomini sarebbero morti una seconda volta e il mare avrebbe sommerso le parole di chi li amava.

Ci volle quasi un’ora perché i resti di Williams affiorassero nel solleone guasto. I soldati scavavano e bevevano e un uomo dagli occhi scuri li fissava come fossero spettri emanati dalla sua volontà per compiere azioni al di là del pudore umano. Di tanto in tanto abbassava lo sguardo su un fazzoletto di seta ritrovato scavando, ne leggeva il ricamo, E.E.W., sorpreso che “le viscere di un verme dureranno più del fango di cui sono fatti gli uomini”, che quelle iniziali non si scucissero come la carne di chi le aveva possedute e fossero al contrario la più valida testimonianza che quel corpo non fosse chiunque. Pensò che tre lettere bastavano a reggere la storia di un uomo, dai giorni che aveva vissuto a quello in cui per l’ultima volta qualcuno si sarebbe ricordato di lui. Si chiese se il suo nome, Edward Trelawny, fosse degno di rappresentare la sua vita e gli parve di no.

Si incendiarono le spoglie tra i segni di un rito che non apparteneva più a nessun uomo e che era più antico degli uomini stessi. Mentre quelle bruciavano, Byron e Trelawny avevano preso il largo e fissavano il fuoco divampare sulla riva come un secondo, decadente sole. Byron notò che ormai tutti gli elementi avevano infierito su quel corpo, senza che si potesse dire se in ciò vi fosse amore, contesa o una perfetta indifferenza. Disse che temeva il cadavere di Shelley, e pensava a quello di Cristo, alla sua puntuale ed opportuna sparizione, l’astuzia di Dio affinché gli uomini credessero per sempre. “Vedremo il suo corpo e quello annienterà ogni fede.”

Trelawny sorrise come davanti alla superstizione di un selvaggio, poi si fece serio, spiegò che non sarebbe cambiato nulla. “Ogni corpo è lo stesso, dall’inizio dei tempi. Ogni morto è tutti i morti”. O Dio ci muore accanto o non esiste.

*

Williams sedeva a riva in un orlo di luce, i piedi scalzi e la camicia setacciata dai pesci, un fazzoletto di seta gli si avvolgeva attorno al collo con una importuna eleganza. Tra le mani teneva uno stivale che riempiva e svuotava di sabbia, come un dio che distrattamente imponesse lo scorrere del tempo. Non sentì l’amico avvicinarsi, sederglisi accanto.

“Che ti è successo, Edward?”

“Quello che succede a chiunque, immagino.”

“In genere se ne vanno più asciutti.”

Il cielo era un battesimo di luce, stelle sparse lo attraversavano come rondini lungo i sentieri di un’ancestrale migrazione, quelli per cui forse il mondo era uscito dal buio, nel suo primo giorno.

“Tu sai cosa ci è successo?”

“Abbiamo imprecato su un sole scomparso e l’acqua ha ingoiato le nostre voci, come fosse una nascita inversa, un’origine storta, per ritrovarci dall’altro lato del mondo. Ma dove siamo adesso, siamo solo di passaggio.”

Williams approvò, ricordò a Shelley la notte in cui gli aveva sentito urlare quel destino dal suo letto. “Hai sognato questo stesso corpo che vedi adesso, sulla soglia della tua stanza”.

“Tu mi gridavi di sbrigarmi, che l’acqua ci invadeva e le cose crollavano. E io guardavo fuori e il mare mi pareva identico a una bestia in assalto, incolpevole e fedele solamente alla sua fame.”

Williams si voltò verso l’amico, vide gli occhi scintillare come perle nel viola sfigurato del suo volto, le dita come coralli. Pensò che il mare avrebbe voluto tenere quel corpo ma la terra l’aveva reclamato a sua volta, che infine l’avevano preteso gli uomini, perché il corpo del poeta equivale le sue parole, altri se ne appropieranno per conficcarvi le loro insopportabili morti, la gioia. “Domani bruceranno il tuo cuore e nascerai l’ennesima volta.”

Shelley vide nella propria immortalità e si sentì come uno condannato a scrivere per sempre il proprio poema sulla sabbia, a cominciarlo da capo quando le onde del mare vi passano sopra, inseguendo una parola irraggiungibile e finale. “Io che credevo nell’effimero dei giorni.” 

Williams si alzò in piedi. “Condannato alla vanità delle cose immortali” disse, e prese a camminare. Il poeta lo guardò immergersi, sparire nello scintillio lunatico del mare, sciogliersi nell’acqua come un’ostia nera.

Shelley fece qualche passo a sua volta, un vento orientale si precipitava assurdamente verso il mare e gli imponeva a tratti di chiudere gli occhi, riaprirli di volta in volta su un mondo nuovo, di cui nessuno avesse ancora mappato i cieli. Si sdraiò perché quella furia sprofondasse i frantumi del suo corpo, come una cosa perduta lì da millenni. Allora sperò di morire per sempre.

*

Al mattino gli uomini replicarono in silenzio i gesti del giorno precedente, nell’azzurra violenza di un cielo nuovo. Scoprirono il corpo “come un branco di lupi che dissotterri la sua preda”, lo gettarono tra fiamme di cui Trelawny volle appuntare l’aspetto.

Byron pensò che il duplice martirio di quei giorni fosse abbastanza per erigere un tempio, che da allora fino alla fine del mondo qualcuno si sarebbe recato su quella spiaggia con il proprio equivoco olocausto, a celebrare un dio dal nome e dai disegni sconosciuti.

Pensò che ci fosse più verità in quel corpo che in qualsiasi poema, che il giorno seguente alla fine del mondo, dimenticate le sue opere e ogni scrittura umana, i superstiti avrebbero continuato a leggere pretendendo il divenire tra le viscere rovesciate di una bestia, un linguaggio anteriore alla creazione stessa.

Quando fu il momento gli uomini svuotarono la fornace, la raffreddarono tra il gorgoglio dell’acqua e al poeta parve di sentirvi sussurrato un indecifrabile elogio. Poi vide il mare rintanarsi in un immemore silenzio, al riparo dal suo splendore e dai suoi peccati, e ne provò invidia.

Carmen Gallo. Stanze per una fuga

0

di Davide Toffoli

A proposito di questo volume, che contiene tre libri di poesia, pubblicati dall’autrice tra il 2014 e il 2020 e qui presentati intrigantemente in ordine cronologico inverso, Tommaso Di Dio, ideatore della pubblicazione, ci parla di “un tragitto di poesia, tanto coeso quanto aperto, che fa del paradossale contrasto fra immobilità e movimento, fra paura e desiderio il suo principio di sviluppo” e soprattutto di “una protagonista plurale e anonima che sembra fatta della stessa materia del linguaggio”.

Con STANZE PER UNA FUGA siamo di fronte ad un’opera che riemerge da dieci anni di scritture e pubblicazioni ormai quasi introvabili e che, quindi, presenta il fascino intenso che riescono ad avere scoperte o ritrovamenti capaci di aggiungere preziosi alla nostra conoscenza. Una rassegna di strategie di sopravvivenza, dalla fuga al multi morfismo, dall’impersonalità al nascondimento. Un’indagine dell’intimo, del protetto, del delimitato allo scopo principale di “uscirne vivi”, provando a riconoscersi negli altri, ridendo e commuovendosi di tutte queste piccole e mirate strategie. Un ritorno a casa, in quello spazio-tempo che come noi contiene infiniti altri spazi e tempi, e che sarà sempre alieno e familiare, il più sicuro e il più pericoloso.

L’esergo (con dedica a Ciro e Angela) è da L’innominabile di Samuel Beckett: “Now am fixed, lost for tininess, or straining against the walls, with my head, my hands, my feet, my back, and ever murmuring my old stories, my old story, as if it were the first time.” e chiama in causa sia il tema del limite sia quello del tempo, di fatto centralissimi in tutta l’opera di Carmen Gallo.

Si parte con Le fuggitive, introdotta dalla doppia citazione da Proust e da Nietzsche e dalla teca del museo di Taranto con due figure eternate nel gesto dell’Ephedrismos, antico gioco che consisteva nel tirare una pietra-bersaglio in prossimità del limite. Chi perdeva doveva poi cercarla bendato portando l’altro sulla propria schiena. Un’immagine simbolica che porta con sé la centralità della vista e della necessaria con-fusione con l’altro. Ci muoviamo nell’intimità di una casa, al tempo stesso vuota e popolata di fantasmi, in una suggestiva alternanza di versi e di prose poetiche. “L’avresti detto morto. / E invece respirava e chiedeva qualcosa. / Aveva paura. Ho trovato lo slancio / per rialzarmi e ho cominciato a correre. / Siamo andate lontano, fino a dove c’era fiato”, ovvero fuga come istituto di sopravvivenza, come modo di rispondere ad una paura, come nascondimento (‹‹Troveremo un altro posto dove nasconderci. / Cominciamo subito. Spegni la luce››”). Un piccolo capolavoro, poi, il testo che chiude la sezione La corsa, che potrebbe somigliare tanto ad una vera dichiarazione di poetica: “Ricostruire l’animale / dalle promesse che è stato / capace di fare. E dimenticare. / Non dalle ossa abbandonate, / ma dalle impronte che si allontanano. / Dalla corsa. Forma semplice. / La storia interna e la storia esterna. / Chi corre ha perso. Chi corre scompare / ma si porta dietro tutto. Chi resta / impara a nascondersi. A non essere niente. / Fingere le ipotesi. Le cose non accadono / a quelli che spariscono”. Del resto cercarsi è nascondersi (“La paura costringe a forme di vita / innaturali, costringe a stare / nella durata di un altro”) e, nella fuga, portarsi dietro ogni cosa (“E’ novembre. Ho trentasei anni. / Mi porto dietro tutti i mei luoghi. / Faccio attenzione a non dimenticarne nessuno”). Seguono, a chiudere la più recente raccolta, le 22 prose poetiche di Uscirne vivi, chiuse da Superposition, dedicata all’esperimento del 1935 del gatto di Schrödinger, “contemporaneamente sia vivo sia morto” fino a quando non c’è un osservatore che apre la scatola. “Credo di dire ma non accade. Non è reale. / Resto a fissare quei corpi capaci di restare / nel movimento dell’aria e della forza. / Alcuni ridono o piangono, ma nessuno / ha davvero paura”.

Una citazione da Emily Dickinson ci introduce nelle scene oniriche e infestate di Appartamenti o stanze: “ONE need to be a chamber to be haunted, / one need not be a house; / the brain has corridors surpassing / material place”. E difatti tutto si gioca nei “corridoi” creati dalla mente per andare oltre i luoghi materiali. Tra sceneggiatura e racconto impersonale le presenze sono quasi fantasmi, personaggi che devono prendere corpo per uscire dal progetto, dall’idea che li ha creati. “Nei primi componimenti siamo noi a descrivere i personaggi. Noi siamo la terza persona. Quando non riusciamo più a vedere cosa succede, diventiamo una prima persona plurale, ma dura poco. Nell’ultimo componimento c’è una donna che parla in prima persona, e prova a rivolgersi a un tu. L’ultima voce è la sua”. Non ci sono nomi, solo uomini e donne che potrebbero essere tutti o nessuno. Soprattutto sensazioni e sollecitazioni con figure sfuggenti ed enigmatiche che si muovono entro perimetri prevalentemente visivi (“Ogni tanto qualcuna è stanca, / si forma e fuma, seduta sul guardrail. / Noi ci mettiamo in fila / con gli occhi degli altri a guardare”). Anche qui si avverte la presenza di una strategia di fuga, spesso nel nascondimento (“La donna ogni tanto chiama il nostro nome. / Noi accendiamo il televisore / e giochiamo a nascondino / e non ci facciamo trovare mai”). Torna anche la suggestione delle riuscitissime prose poetiche di Noi siamo qui, che preparano all’approdo a La caduta più del salto (“Ho provato a raccontarlo il lancio la caduta / ma poi lui è caduto e cade ancora / ed è caduto lontano e io non l’ho visto”), concentrandosi sul momento (“il momento preciso in cui non importa più se sono io / nella caduta siamo tutti uguali possiamo / non mangiare possiamo non toccare / salvarci la pelle letteralmente”).

Il viaggio si spalanca poi in Paura degli occhi, introdotta da una citazione da Paul Celan, e prende forma nell’apnea dei verbi all’infinito. Una scelta decisa dell’indefinito e dell’impersonale, di una dimensione di possibilità assolute e di una totale potenzialità creativa. Lo sguardo è una vera e propria soglia, una porta che si apre verso la cosa, verso la conoscenza, verso la possibilità di tracciare un limite in qualche modo rassicurante. Non guardare significa scegliere di consegnarci ad una dimensione in cui percezione e realtà arrivano a fondersi, aprendo lo spazio del nostro essere a riflessi, a fantasmi, ad ombre. Lo spazio è molte cose e molti luoghi. La vera costante è il limite (mura, pareti, stanze, finestre). Si cerca di “Misurare il vuoto”, come se fosse parte integrante degli stessi soggetti. Come suggerisce la Dickinson “non devi essere una stanza per essere infestata dai fantasmi, non devi essere una casa”. Ogni spazio è fortemente instabile e quindi sempre sul punto di deflagrare da un momento all’altro. “Nello stretto delle cose / solo gli occhi si danno il cambio / nel buio che non torna / nella voce che non ci dorme accanto / prima degli occhi, al posto degli occhi” e torna quindi centrale la dimensione dello sguardo fino a “ritrovare / negli occhi allineati / una città intera di sassi da scagliare / nel tempo senza ora / l’ordine del giorno /resta quello di guardare”. I tre testi conclusivi sono una sorta di accendersi, spegnersi per poi riaccendersi, quasi a sottolineare il definitivo passaggio dalla dimensione immaginifica del sogno alla realtà ordinaria dove “tutto è in piena luce”. “Come svegliarsi nella luce estrema”, per poi “Nella gravità delle cose / che non cadono // sostenere lo sguardo / del disastro”, e comprendere infine che sarà “Come svegliarsi nella luce intera”.

Per quanto giochi con la forma drammatica, strizzando l’occhio al cinema e alla coreografia, il tentativo di questo libro resta quello di reagire alla paura, intesa principalmente come meccanismo di sopravvivenza: un modo, una strategia per riconoscere pericoli e minacce e per provare ad evitarli, valutando bene di volta in volta se affrontarli o cercare una fuga, un nascondimento. Ogni paura è una forma privilegiata di conoscenza, un rito iniziatico, che costringe ad elaborare una concreta situazione. Una concreta sopravvivenza all’immobilismo o alla paralisi. Scrive saggiamente Andrea Cortellessa che la dimensione del rito e l’ossessione visiva connotano tutta la poesia di Carmen Gallo. E proprio in questa dimensione e in questa ossessione possiamo riconoscere le preziose prospettive di sopravvivenza, che prendono forma e corpo nel linguaggio, in un labirinto di stanze, di prospettive, di immagini e ritmi. In un’esperienza poetica toccante e meta-fisica, che ci accompagna nel cuore della speranza di spingerci sempre più lontano, per lo meno fino a dove ci sostiene il fiato, Carmen Gallo ci mette a disposizione una proposta di sopravvivenza, come detto tra fuga e nascondimento, ben consapevoli che “non tutti i nascondimenti sono felici: alcuni rischiano di essere definitivi e non è ciò che vogliamo”.

Nel suo recente Tecniche di nascondimento per adulti (Italo Svevo Edizioni, 2024), che insiste in fondo su tematiche simili, possiamo leggere che “Anche da adulti la regola del nascondino non cambia. Si conta e ci si nasconde, ma a un certo punto il gioco finisce e si esce tutti fuori”. Forse per farci fuga, per trasformarci in bersaglio sempre in costante e imprevedibile movimento. O forse, semplicemente, per scoprirci ed accettarci vivi.

La resa dell’ordine mondiale

0

di Isabella Cafagno

Il bombardamento dei siti nucleari iraniani da parte degli Stati Uniti, avvenuto il 22 giugno 2025, segna un ennesimo strappo nell'ideale di un ordine globale regolato da norme condivise. Non è solo l’escalation militare a preoccupare, ma la sfrontata trasparenza con cui la forza si impone senza neanche il bisogno di una narrazione giuridica. Le regole, un tempo fondamento della convivenza fra Stati, sembrano ridotte ad orpelli retorici: oggi decide chi può, non chi ha ragione. E domani, più che una soluzione, ci attende soltanto un nuovo equilibrio del terrore.
Il contesto non è nuovo. Nella Striscia di Gaza, il genocidio palestinese perpetrato da Israele ha prodotto una devastazione umanitaria di proporzioni abissali, tollerata o apertamente giustificata da alleati storici, mentre le istituzioni internazionali si sono ridotte a meri spettatori. In Ucraina l’invasione armata su larga scala iniziata nel febbraio 2022, pudicamente definita dal presidente russo una “operazione militare speciale”, ha innescato un sanguinoso conflitto che si trascina implacabile da oltre tre anni, senza che il Consiglio di Sicurezza sia mai riuscito a pronunciare una condanna efficace, paralizzato dal veto di Mosca.
Ciò che accade oggi, tuttavia, non è solo un tradimento del diritto, bensì anche la conferma che quel diritto – il diritto internazionale, formalmente neutro ed universale – è percepito da gran parte del mondo come uno strumento al servizio dell’Occidente.
Dal Sud globale, l’inclinazione dei leader mondiali a fare delle regole giuridiche teatro di formule burocratiche, mentre sottotraccia i fatti procedono inesorabilmente in senso opposto, sembra invocare giustizia quando a violare l’ordine sia il nemico geopolitico; silenzio o complicità quando ad infrangerlo siano gli alleati. L’ordinamento internazionale, nella sua pretesa universalistica, si rivela così una costruzione profondamente asimmetrica, in cui la neutralità non è altro che un velo dietro il quale si celano rapporti di forza.
In un tale scenario, l’insofferenza crescente di intere regioni del mondo nei confronti dell’ordine giuridico globale non nasce da una rinuncia al diritto, ma da un suo disvelamento: gli stessi Stati che proclamano la sacralità della legalità internazionale sono coloro che ne hanno condotto una violazione sistematica, erodendone lentamente e silenziosamente i principi.

Quanto accaduto in Iran si inserisce, dunque, in un disegno riconoscibile, in cui l’uso della forza militare, diretto o per procura, porta all’eclissi di ogni vincolo di legalità internazionale, a vantaggio di decisioni unilaterali sempre più spregiudicate, relegando la diplomazia a pura scenografia.
Abbiamo creduto, per qualche decennio, che le ferite inferte dalle guerre mondiali si fossero
cicatrizzate, che la memoria dell’orrore potesse immunizzare il mondo dal ritorno dell’arbitrio armato. L’illusione è caduta nel momento in cui la cicatrice è tornata a dolere, mostrando quanto i pilastri sorti sulle ceneri della Seconda guerra mondiale – dalle sentenze di Norimberga alla nascita dell’ONU a San Francisco – siano friabili.
Il diritto internazionale sopravvive finché qualcuno lo reclama, nelle aule dei tribunali, nelle
assemblee parlamentari, nella coscienza collettiva; se aridamente trascurato, prevale la legge del più forte, sostenuta da una coltre d’indifferenza: l’ombra nera che oggi grava sull’Occidente.
Cosa accade, allora, quando le società che hanno a lungo subito abusi strutturali, in nome di un ordine “liberale” mai realmente vincolante per chi l’ha imposto, smettono di riconoscere nel diritto un baluardo di giustizia ed iniziano a scorgere l’ingranaggio di un meccanismo di dominio? Accade che si spezza il legame simbolico su cui si fondava la legittimità dell’Occidente: la convinzione che le sue regole potessero, un giorno, valere per tutti.
L’Occidente rischia oggi di perdere non solo legittimità morale, ma anche una lingua condivisa con il resto del mondo, perché i segni di una menzogna accuratamente costruita, veicolata dalle narrazioni ufficiali che invocano “interventi mirati per la stabilità regionale” mentre violano ogni residuo principio di legalità internazionale, hanno già cominciato ad emergere, portando l’epilogo a riaprire il primo capitolo di una storia già letta. Non è la fine di un conflitto, bensì l’inizio della resa dell’ordine mondiale.

Parmenide, ferito di realtà. Per una lettura politica di “Ἐλέα. Quando verrà il passato” di Bruno Di Pietro.

7

di Paolo Gera

1. Paradossale è la costituzione morfologica di una parola così importante come ἀλήθεια. Aletheia, la Verità, non ha una sua derivazione concettuale autonoma, ma è collegata, attraverso un alfa privativo al termine Λήθη, Lete, che significa oblio. Aletheia avrebbe dunque il significato di ciò che non può essere dimenticato e che deve per forza essere rivelato.
Per avvicinarci attraverso un itinerario di geografia simbolica al luogo reale di cui vogliamo parlare –Elea, il suo paesaggio, la sua leggenda– dovremmo prendere in considerazione la Pianura di Aletheia, che Plutarco , nel suo De defectu oraculorum descrive disposta in forma di triangolo, luogo di elezione su cui “stanno immobili i princìpi, le forme, i modelli di ciò che è stato e ciò che sarà.”(cit. in M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Bari, 1982, p. 95).
Marcel Detienne afferma che il quadro cosmogonico del mito deriva dal pensiero pitagorico e che la visione di Platone, peraltro iniziato di quella scuola, completa il quadro. Infatti, in Repubblica, nel decimo libro, quello finale ecco che viene descritta in maniera contrapposta e integrativa la pianura di Lete: le anime si dirigono” verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era una pianura priva di alberi e di qualunque prodotto della terra”. ( Platone, La Repubblica, X, 621, in Opere complete, 6, Laterza, Bari, 1980)
In questo modo viene descritta la terra dell’oblio: caldissima, arida,
non fruttifera.

2. Nell’opera di Bruno Di Pietro la pianura a cui ci si avvicina e si ammira è quella di Elea, terra di ulivi, di rovi di more e lussureggiante trifoglio: qui è germinata la scuola filosofica di Parmenide.
Su un luogo votato alla ricerca di verità si alza da principio Eos, l’aurora, ma dietro la sua luce mediterranea, ancora si nasconde l’oscurità della memoria negata e della dimenticanza voluta.
L’alba è il segnale di un passaggio alla lucidità diurna, alla vocazione razionale, ma dietro i suoi contrafforti, come scrive Pindaro,” i torpidi fiumi della notte oscura/gettano fuori la tenebra sconfinata…”

(fr.129, 130 in G. Colli, La sapienza greca, Orfeo, Adelphi, Milano, 1990, p. 127).
L’alba è un confine che si affaccia dalla parte degli uomini, ma sta a questi non illudersi della gloria del sole annunciato e cercare di comprendere l’effimero del ciclo naturale, in modo che notte e giorno, luce e ombra possano essere compresi nella ricerca sostanziale della verità.

3. Il componimento iniziale che precede le tre sezioni dell’opera – anche se parlare di principio e fine in Elea è illusorio – ha appunto per titolo In limine.
L’astro del mattino biancheggia su un idillio che nasconde movimenti e aporie riguardanti tanto l’armonia del mondo naturale che quello dei sapienti. “I grilli normalmente molesti/parlano più che frinire” (1-2) e “Parmenide convertito al divenire/ è in buona salute.” (4-5). Il divino e ironico contrappunto si estende su quella che è la chiave del libro, ovvero la sincronicità, l’impossibilità di mettere ordine sulla linea temporale così come è pensata per ovvietà: qui passato, presente e futuro coesistono. “Nella piana di Elea/tutto è e sarà/ come è sempre stato.” (10-12), ma il verso che conclude questa protasi, composto da due indelebili parole, chiosa la sapienza della consustanzialità del tempo con il sigillo della fragilità personale, con il destino irrimediabile del corpo: “(Io invecchio”) (v. 14).
Qualcuno avrà capito che il fedele Di Pietro ha, come da regola, inserito accanto alla protasi la sua invocazione alle Muse? Esiodo in Teogonia le Muse sono appunto coloro che dicono “ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu” (Hes, Theog., 32 e 38, in Detienne, p. 7)

4. Il poeta, oggi come allora, dovrebbe riflettere su questa investitura straordinaria: egli è il sapiente, in quanto unisce nella sua attività la pratica della memoria, l’agone contro l’oblio, il tentativo di far affiorare sempre e comunque l’Aletheia, la verità. Ma unisce alla capacità sovrumana degli antichi sapienti che ponevano come obbiettivo la contemplazione delle realtà come veramente sono, la fragilità del suo essere uomo dalla parte degli uomini. La memoria che dovrà preservare è anche quella storica, civile, la memoria dell’umanità nel suo svolgersi.

5. Triadica è la divisione dell’opera, come triangolare è la Pianura di Aletheia: però nella successione dei versi non si stagliano idee pure, ma si descrivono i movimenti della natura e degli esseri umani. L’origine mitologica della figura che dà il titolo alla prima sezione,
῎Eως, racconta che l’aurora, accanto all’apertura di un varco luminoso verso i misteri dell’invisibile, propende ad interessarsi delle attività concrete dell’uomo.
Eos è condannata da Afrodite, per una sua relazione clandestina con Ares, a protendere le sue dita rosate verso il mondo degli umani e ad unirsi a loro.
Questa cifra che comprende insieme sacro mistero, mondo naturale e attività umane, questo profumo impastato di mirto, di rose canine e di pane appena sfornato, impregnerà tutti i 54 componimenti dell’opera di Di Pietro.
Nei primi diciotto che compongono la prima parte, “῎Eως, appunto, si intrecciano elementi misterici “una torcia illumina la Porta” (2, 6- 7), “Danzano l’uno e i molti intorno alla rotonda luna.” (4, 8-9); naturalistici: “Piove nella piana dove dimora e gracida la primitiva rana.”(5, 6-8) e antropici: “Parmenide studia come bonificare la palude.”(11,6-7). Ma non esiste nessun scarto linguistico e stilistico fra questi momenti poetici, la luce abbacinata di Elea fa stagliare le descrizioni e gli episodi nello stesso identico modo. Non si tratta di spigolare frammenti: il procedimento è rilevabile in modo evidente all’interno dello stesso componimento:

Elea dorme.
Riposano gli ulivi dopo la raccolta.
Le ombre mi guardano silenziose.

Una torcia illumina la Porta.
Il giorno si accorcia.
Le stelle faranno notte
(e io con loro).

6. Elea è la terra dove Parmenide svolse la sua attività magistrale, ma sarebbe banale e falso credere che il suo pensiero e i suoi atti fossero rivolti solamente alla speculazione filosofica.

Come svela e divulga attraverso i suoi ultimi studi Angelo Tonelli, i sapienti greci si occupavano attivamente della vita politica e del buongoverno, attraverso una visione olistica che unisce prodigalmente l’occhio rivolto verso il cielo delle idee e quello che scruta la società, ne corregge i difetti e pone buoni esempi di conduzione: “ Così Socrate nel Gorgia di Platone testimonia che la vera arte politica non consiste nel mestiere del politico, ma nella capacità di incidere sulle interiorità dei concittadini e dei governanti attraverso la pratica della dialettica, ovvero un rimodellamento degli schemi di pensiero e comportamento a partire dalla messa in crisi delle consuetudini mentali e la rigenerazione delle medesime.”( A. Tonelli, Nel nome di Sophia, Agorà&Co., Sarzana-Lugano, 2022, p.
24) Pitagora “avrebbe inventato l’educazione politica nella sua totalità”(A. Tonelli, Pitagora il Maestro segreto, Feltrinelli, Milano, 2025, p. 53), i pitagorici, su richiesta dei cittadini, amministrarono gli affari pubblici e modellarono le migliori costituzioni della Magna Grecia, “Parmenide, oltre che sacerdote di Apollo guaritore, studioso della Natura e mistico del Grande Uno a cui dedica il suo Poema, era anche legislatore, e fornì alla sua città leggi che le consentirono di diventare florida e potente”.( Nel nome di Sophia, pp. 25-26)

7. Ἐλέα di Bruno Di Pietro riprende da varie angolazioni i comportamenti di Parmenide, in perfetta armonia con l’ambiente in cui vive: la saggezza insita nel personaggio non ammette primi piani insuperbenti, ma un campo lungo in cui i suoi gesti si inseriscono mel contesto dell’ambiente in cui vive, anzi ne possiedono la stessa sostanza tellurica, marina, aerea.

8. Nella seconda sezione del libro, Κρόνος, si accentua un procedimento disgiuntivo già annunciato in precedenza, non un puro espediente dell’inquadratura, ma un principio su cui si articola tutta la comprensione di quest’opera: alla terza persona descrittiva del personaggio, si affianca la prima persona del soggetto scrivente che pure porta sul volto la maschera di Parmenide in maniera tanto aderente che le due identità si fondono.

A fatica
l’età mi consente
di scendere alla marina.

Dalla collina
vedo il monte Stella a Occidente.
Immagino i resti dell’antichissima Petilia.

Ho incontrato da vecchio il tempo.
E mi umilia.

***
Parmenide ha la febbre.
Trema. Nel delirio dice
di un appuntamento con gli avi
appena fatto giorno.

Poi, quando sarà di nuovo scuro
il ministro della morte
passerà nel cielo
seguito dal corteo degli anni.

9. Parmenide/Bruno Di Pietro rende conto al lettore delle difficoltà della vita, della malattia, della vecchiaia che avanza, delle ossa indolenzite. Il corso della vita insegna un materialismo amaro, sino a negare l’eternità, a considerarla come dimensione aliena e illusoria:

“«Prima di me
non c’era tempo alcuno
dopo di me
non ne verrà nessuno.
Con me nasce, con me finisce
nelle ossa consunte
nelle mie guance smunte». (12, 7-11)

Questa consapevolezza di estrema fragilità invece di indebolire l’esempio del maestro, lo arricchisce piuttosto delle debolezze del tempo umano. Il Sapiente in questo modo si trasforma in poeta, l’uomo che “s’accosta con la propria esistenza alla lingua”, come

afferma Paul Celan, “ferito di realtà e realtà cercando.”(P. Celan, La verità della poesia, Einaudi, 1993, p. 36) E la realtà cercata a volte riempie di stupore e dalla freddezza classica si veleggia verso la consolazione romantica della constatazione, come scrive John Keats in Endimione, che la Natura può consolare ed essere balsamo per gli sfregi della condizione umana. ”Yes,, in spite of all,/Some shape of beautymoves away the pall/From our dark spirits.”
Così Di Pietro: “Il sale impregna la gola/ la parola non ha suono./ Respiro la bellezza del mondo.” (15, 7-9)
10. La Natura e i suoi principi dinamici chiudono la triade eleatica di Bruno Di Pietro. La terza e finale sezione ha per titolo φύσις e parrebbe dunque rivolta, seguendo le tracce di Esiodo e Lucrezio, alla descrizione del principio fondatore della vita vegetale e animale e al suo immutabile ordinamento. “Vènti orientali/ soffiano su quanto appare/ animato o inanimato/ uomini, animali, piante. /Basta a sé stessa la natura.” (1,6-9)
Invece nei componimenti ecco riapparire Parmenide e le sue vicende storiche. Vero è che nel secondo componimento Parmenide “deve tornare agli elementi”, ma successivamente si riportano le scaramucce verbali di Zenone ad Atene e la delusione del discepolo di fronte ai tranelli affabulatori dei sofisti, il suo affiancamento al maestro nel governo della città. Perché?

11.
In un rilievo di Archelaos di Priene che celebra la gloria di Omero, le figure allegoriche si si dispongono su vari piani ed è anche presente Physis che affissa il suo sguardo su un altro personaggio: Mneme, la Memoria.
Quale memoria? È quella che si oppone all’ignoranza e porta all’Aletheia, alla Verità: “E’ il piano dell’essere, immutabile, permanente, che si contrappone al piano dell’esistenza umana, sottomesso alla generazione e alla morte, corroso dall’oblio.”(Detienne, p. 99). “Mnemosyne è il nume tutelare delle pratiche di consapevolezza degli iniziati pitagorici”, “la sua sfera oltrepassa i limiti di ciò che ha luogo nella vita ordinaria”, “è emanazione di un Principio eterno e ingenerato”.( Tonelli, Pitagora il Maestro segreto, pp. 46-47))
Ma figlie di Apollo e di Mnemosyne, la dea della memoria, sono le nove muse che nel rilievo si dispongono intorno al poeta, ad Omero.

Allora, nello sguardo di Physis rivolto a Mneme si può intendere anche una memoria che si stacca dalle verità ultime e iperuranie, per occuparsi, come fa Omero, come fa ogni grande poeta “ferito di realtà”, delle grandi imprese umane, delle battaglie reboanti, delle umili faccende domestiche, delle miserie e del dolore. Parmenide, nel suo testamento spirituale si rivolge a Zenone nel nome di questa memoria, pratica, utile, benefica:

Ricorda agli Eleati Parmenide sacerdote di Apollo guaritore.
Ricorda che Giustizia di tutto ha le chiavi,
del Giorno e della Notte
e dell’intero cosmo
animato e inanimato. (16, 6-13)
12. Ricorda che Giustizia…
La Giustizia è ordinatrice dell’intero cosmo e solo chi la conosce e la applica in quello specchio degli ordinamenti celesti che è la città terrena può dire di condurre una buona e umana politica.
“Politiche divengono quindi tutte le attività spirituali dell’uomo, arte, religione e filosofia: non è concepibile nel mondo greco un religioso che dalla sua vita interiore sia condotto all’ascetismo, in modo da abbandonare completamente ogni convivenza con altri, come pure non esistono poeti che scrivono i loro versi per la posterità, senza curarsi di influire sulla polis o tutt’al più sui contemporanei. “(G. Colli, Filosofi sovrumani, in Nel nome di Sophia, p. 23)

13. Anche oggi i poeti dovrebbero testimoniare e provare con le loro opere a smuovere l’indifferenza generale, a fare in modo che la doxa propendi per la giustizia e per la compassione. Bruno Di Pietro indica il modello di Elea, ma dietro quella polis ci sono le città bruciate ed esplose di oggi.
Chiede giustizia
e rispetto alle mie mani
il mondo che non ha parola. (Kronos, 17, vv. 10-12)

14. Elea termina con un Incipit commovente. Certo la circolarità del tempo, ma forse anche una rottura, il pensare a un vero nuovo inizio societario, politico, a un’utopia che nel nome della paidéia, dell’educazione possa diventare praticabile. La prima, la seconda e la terza persona singolari, diventano infine una prima plurale:
Allora noi bambini
si andava per canneti
a fare capanne improvvisate e cerbottane

In un passato che deve ancora arrivare sono dunque i bambini, sotto lo sguardo paterno di Parmenide, a giocare e forse a crescere come saggi e poeti, oppure semplicemente come cittadini consapevoli della giustizia e della sua necessaria pratica. Insieme alla liquirizia suggono una radice che ha il sapore amaro e dolce della libertà.
Paolo Gera

Alessandra Carnaroli: «Fiore fiorello freschissimo appena raccolto»

0

di Alessandra Carnaroli

Vieni qui fiorellino, cagna, bel gattino di Alessandra Carnaroli è il nuovo titolo di Minimo Storico, collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcuni estratti in anteprima. Le partiture visive sono interventi di Giuditta Chiaraluce sul segno di Carnaroli.

***

Il ginecologo

Mi ha spostato

I capelli

Ha detto

Che bella

 

Sono diventata

Un sasso

In fondo

Alla tasca

Dei pantaloni

Che non avevo

Più addosso

 

*

 

Troia troietta

Puttana

Puttanella scrofa

Mignotta baldracca

Bagascia maiala vacca

Zoccola porca zozza

Me lo diceva anche

Mamma

Per farci il callo

 

*

 

Quando l’ho raccontato

A mio padre

 

Mio padre

Ha riso

 

*

 

Figa

Figona fighetta

Fica fregna

Patata patatina

Patacca

Farfalla

Passera

Passerina

Passarotta

Aiuola

Fiore Fiorello

Freschissimo

Appena raccolto

Il salto di qualità

0

di Lorenza Venerus

Margherita fa un sospiro, che nel montaggio verrà tagliato, poi riprende guardando sé stessa nello schermo:

«Bellissimo come descrive queste figure femminili, quello che possono permettersi o no nella Russia di fine Ottocento. Molto profondo. Anche se, non so, secondo me se l’avesse scritto una donna sarebbe stato diverso – si tocca i capelli e deglutisce, nascondendo le incrinature della voce – Ma vabbè, questo è un altro discorso. Il fatto è che, ràga, ve ne sarete accorti – e picchietta con le unghie sulla copertina – Il romanzo è bello corposetto. E siccome sono sempre sincera con voi, vi confesso che per la challenge non sono riuscita a finirlo».

Sembra rassicurante anche mentre ammette le proprie colpe, merito della ring light riflessa sulle pupille. La sfida di maggio e giugno era leggere i grandi classici che le mancavano, suggeriti dalla community: ha amato Oblomov, Lo straniero, Madame Bovary; ha accettato di leggere Anna Karenina prima di capire che il tempo non le sarebbe bastato – troppo tardi per tirarsi indietro. Termina il video con movimenti precisi delle mani e sta attenta a non chiuderle a pugno quando ricorda a chi la segue di mettere un mi piace. Valuta Tolstoj con quattro stelle su Goodreads.

Quindi lascia cadere indietro la testa, e quando la rialza vede il telefono illuminarsi per una chiamata. Fissa la foto del contatto, due sagome di profilo che si baciano davanti a un campo di tulipani, la scritta “Luca” con l’emoticon di un panda, e si accorge di sentirsi così triste da provare quasi indifferenza. È il suo compagno: non risponde.

Dalle altre stanze arriva silenzio e odore di candeggina. Mentre si sdraia sul letto, Margherita pensa a quando immaginava di poter diventare qualcosa di diverso. Forse non l’ha mai fatto davvero. Una brezza che durerà poco percorre frusciando i campi di colza, entra dalla finestra, le intiepidisce la pancia. Lei chiude gli occhi e sorride. Poi, per la prima volta nell’ultima settimana, l’unica da quando è tornata dai genitori, finalmente si addormenta di un sonno sereno.

***

Dicono sia un trucco: nel suo lavoro, solo pochi ce la fanno partendo da condizioni non troppo abbienti. Quella piccola percentuale è sufficiente perché moltissimi ci provino, tra cui lei; ormai da tempo può dire di essere un’influencer o, meglio ancora, una content creator. Non si sente migliore né peggiore di nessuno, crede che le storture nel suo ambiente assomiglino a quelle di qualsiasi altro. Pensa per esempio a Luca che, nonostante la promessa di un posto nell’accademia italiana, aveva visto rifiutata la propria candidatura, ripiegando su Utrecht pur di fare il dottorato. È rientrato dopo quattro anni su insistenza di Margherita, e adesso lavora come analista a tempo determinato in un laboratorio appena fuori Vicenza. Convivono in un appartamento poco distante da quella zona, all’interno di un complesso residenziale abitato perlopiù da famiglie di tre o quattro persone.

Oppure pensa al padre, insegnante di italiano alle medie che, non trovando case editrici disposte a investire in testi così lunghi, si era auto-pubblicato i suoi tre romanzi. In quei testi dispersivi e sconclusionati aveva raccontato la propria vita e quella dei nonni partigiani, ma, ora che le cinquecento copie totali sono rimaste in gran parte invendute, quasi si sente ridicolo e non ne vuole più parlare. La madre, segretaria in nero in uno studio medico, aveva capito la gravità della situazione quando l’aveva visto rientrare una sera col bagagliaio pieno di primule e camelie. Da quel giorno lui non fa che occuparsi di loro, le concima e le innaffia fumando per pomeriggi interi, mentre i compiti in classe dei suoi studenti si accumulano sulla scrivania senza essere toccati.

Per una forma di vergogna che superava il dispiacere, e benché amasse la letteratura quanto il padre, all’università Margherita aveva scelto Tecniche farmaceutiche, laureandosi tre anni fuoricorso con un voto che si avvicinava al massimo. Durante gli studi non aveva smesso di leggere e, le prime volte per gioco, aveva registrato e caricato su YouTube delle brevi recensioni dei suoi romanzi preferiti. Con il video su Oceano mare aveva iniziato a monetizzare. Non si era chiesta perché proprio lei: forse per il suo aspetto, carino ma non troppo, da guardare senza invidia. Era stata la sua rivincita. Il giorno della laurea su Instagram aveva più o meno cinquantamila followers, aumentati a centoventimila in sei mesi grazie a un nuovo format di ricette vegane, e arrivati a centoquarantamila in una settimana, dopo il repost inatteso di una podcaster monzese. Tuttora si aggira intorno a quella cifra.

A un certo punto si è affidata a un’agenzia di Talent Management per fare quello che a lei piace definire, in italiano, “il salto di qualità”. Prima di firmare, ne aveva parlato col compagno. Lui era scettico: diceva che le percentuali trattenute erano troppo alte, e lei ribatteva di saperlo, ma quello era il suo investimento, casomai un giorno avessero voluto aprire un mutuo, trasferirsi, rivolgersi a una clinica privata. Lui aveva gridato di non averla mai considerata una stupida; a tutto il resto non aveva risposto: a volte le previsioni lo spaventavano più delle certezze. Alla fine però aveva ceduto, incoraggiandola persino.

Così, già da diversi mesi, specialisti e collaboratori aiutano Margherita soprattutto nelle sponsorizzazioni: la mettono in contatto con le aziende e si assicurano che la pubblicità ai brand sia in linea con l’identity del profilo. Lei accetta soltanto le proposte che rispecchiano i suoi valori: ha collaborato più volte con una multinazionale di cibo bio, una piattaforma di audiolibri, uno store indipendente di gioielli artigianali. Si è rifiutata di sponsorizzare un servizio a pagamento di psicologia online ricordandosi di suo padre e di tutte le domande di aiuto psicoterapeutico che l’ASL gli aveva respinto. Non si era mai sentita così sincera.

Inoltre, con la consulenza di una content strategist laureata in lingue, capisce quali sono i trend e i format virali, e segue i suoi consigli per differenziarsi dalla concorrenza. È stata lei ad averle suggerito che, se vuole essere ascoltata anche nei discorsi un minimo complessi, deve fare qualcosa mentre parla – colazione la mattina, beauty routine la sera –, e che per non annoiare durante gli unboxing è meglio se li registra in ASMR. Ma questi, per quanto calcolati, non sono che accorgimenti, piccole astuzie per aumentare l’engagement: nella sostanza Margherita si percepisce ancora integra. Convinta che ogni racconto sia una menzogna, crede che la soluzione per non mentire sia semplicemente non dire nulla – per questo sulla sua vita privata mantiene online una quasi totale riservatezza.

«Tu vuoi fare l’improvement…»

«…Salto di qualità»

«Tu vuoi fare il salto di qualità, Marghe, ma non hai ancora capito che cos’è la qualità nel tuo lavoro»

Era un caldo pomeriggio di metà giugno, circa un mese fa. Fuori dall’open space, lungo un viale alberato a pochi passi da CityLife, frinivano le prime cicale. Margherita era appena diventata uno dei volti della campagna ambientale di un marchio di intimo per ripulire le spiagge italiane dai rifiuti, con un accordo però al ribasso: l’azienda aveva insistito a lungo sulle dimensioni della sua community (buone ma non ottime), e Margherita aveva dovuto accettare un contratto da un unico reel, esclusivamente in collaborazione coi canali del brand. Rimaste sole nella sala riunioni, la talent manager dell’agenzia aveva deciso di farle un discorso serio mentre mangiava cubetti di pesca da un contenitore.

«Sono laureata, so parlare bene, so cucinare – aveva detto Margherita come per difendersi – Sono stata tra i primi a portare i libri su Instagram. Voglio migliorare, creare cose nuove con quello che so fare»

«Sì ok, ma i tempi sono cambiati – aveva risposto Claudia infilzando la pesca con una forchettina in plastica – Quando hai iniziato, forse, bisognava saper fare qualcosa, e bastava. Adesso è un optional. Quello che conta davvero, oggi, è sapersi raccontare. Guarda ClioMakeUp: è diventata famosa perché è brava coi trucchi, certo, ma lo sarebbe ancora se a un certo punto non avesse iniziato a parlare della sua vita a New York, i gatti, il marito, le figlie? La gente vuole conoscere la tua storia. Desidera vedere in te…»

«Una guida, lo so»

«No: un’amica»

Margherita non aveva trovato le parole per rispondere, lasciando che fosse Claudia a continuare: «Ascolta: se tutto va bene a ottobre una grossa catena di supermercati ci propone una collaborazione. Sono i cinquant’anni che ha aperto in Italia. Abbiamo pensato a te, ma non possiamo permetterci contratti da un post come quello di oggi. Di solito, sotto i tre, noi non scendiamo. Ma tu devi aiutarci»

«Che devo fare?»

«Non so, apri box domande, per esempio, fai dei vlog, degli storytime. Devi creare interazioni, essere più autentica. Quei supermercati hanno un target solido: madri e donne di mezza età, qualche ragazza fuorisede. Punta a loro: se gli piaci, altro che reel in collaborazione. Ci invitano alle inaugurazioni degli store, inviano la spesa a casa, i codici sconto… Ti fanno diventare brand ambassador, insomma, con contratti da sei, nove mesi. Più soldi per te e per noi. Capito come? Mi raccomando: dopo l’estate ti voglio rivedere», e aveva chiuso il coperchio del Tupperware con uno scatto. I cubetti di pesca avevano sussultato nel loro liquido.

Nei giorni seguenti Margherita avrebbe davvero voluto riflettere sulle parole di Claudia e magari inventarsi qualcosa di sé da condividere, se soltanto non fosse arrivata la diagnosi. Non aveva pianto, ma aveva passato una settimana chiusa in camera, leggendo tutto il tempo e mangiando solo se a preparare era il compagno. Aveva scritto di getto il copione del video su Tolstoj, interrompendo la lettura a metà del suicidio mancato di Vronskj. Dalla stanza era uscita soltanto per lavarsi.

Dopo inutili tentativi di convincerla a fare altro, Luca aveva prenotato a sorpresa un Airbnb sulle Dolomiti. Terrazza con vista sulle montagne, sauna finlandese, piscina: quella vacanza era stata un disastro. Per tre giorni non si erano toccati né avevano fatto l’amore; fino a che, mentre preparavano le valigie per ripartire, avevano litigato. Margherita gli aveva chiesto che cosa aveva senso fare: l’operazione, e sperare che non ci fossero ricadute, o direttamente il percorso in clinica? Luca si era irrigidito, aveva risposto che bisognava parlarne con calma, adesso no di sicuro, era la loro vacanza, cazzo, e Margherita aveva cercato di non arrabbiarsi ma non ce l’aveva fatta, aveva iniziato a gridargli che erano scuse, le sue, come sempre, che non voleva affrontare il discorso, questa era la verità, e Luca aveva replicato senza urlare che lei non sapeva niente di ciò che voleva lui, la convivenza, il posto in laboratorio, il figlio che non riuscivano ad avere: che cosa gli andava bene di tutto questo? Se l’era mai chiesto, lei? Forse sarebbe stato meglio restarsene in Olanda. Quindi, dandole le spalle, aveva ripreso a infilare i boxer nel borsone con movimenti nervosi delle mani. Margherita si era bloccata premendo le braccia lungo i fianchi e, appena Luca si era voltato per guardarla, gli aveva detto che se ne stava andando: per un po’ preferiva non vederlo.

Aveva preso il treno fino a casa dei suoi, le unghie affondate nelle cosce scoperte mentre guardava il paesaggio sempre più familiare – i campi ingialliti, i filari di cipressi, le insegne già fuorimoda dei negozi sull’autostrada. In piedi fuori dalla stazione di Abano, aveva riconosciuto da lontano il rumore metallico della Clio di suo papà e si era seduta in silenzio sul sedile del passeggero, facendo vagare lo sguardo oltre l’asfalto del parcheggio ormai vuoto. Poi, quasi all’improvviso, aveva iniziato a spiegare: a un padre che forse nemmeno avrebbe saputo dire l’età delle sue prime mestruazioni, aveva parlato di aderenze intrauterine e d’isteroscopia per rimuoverle, del ricorso quasi obbligato alla procreazione assistita semmai avesse voluto rimanere incinta. Il padre l’aveva abbracciata senza dire niente. Ed erano rimasti così a lungo, immobili nell’odore di tabacco: lei che finalmente piangeva, lui che tremava per lo sforzo di proteggerla ancora.

***

Quando Margherita si risveglia è già sera. Luca l’ha chiamata altre cinque volte: vorrebbe piangere di nuovo, invece si rimette al lavoro.

Verso le tre del mattino, nel piatto accanto al computer, la buccia di un’anguria copre i pochi pomodori ormai appassiti nel loro condimento – tutto ciò che per oggi è riuscita a mangiare. Ha appena finito di editare il video che domani caricherà su Instagram e lo sta guardando per un’ultima volta. Le piace la semplicità e la precisione con cui ha parlato di Anna Karenina, ma un po’ si spaventa vedendo nello schermo il correttore sciolto dal sudore sulle occhiaie scure, le guance pallide nonostante sia estate. Va a specchiarsi in bagno per assicurarsi che quel volto sia il suo.

Strofina con un dischetto scaglie e sbavature del trucco seccato. Sarebbe meglio girare il video daccapo, rimandare tutto a quando sarà più presentabile, se ne rende conto, ma non vuole. Già immagina il momento in cui la community, notando il suo aspetto stanco, forse triste, più che discutere su Tolstoj si preoccuperà per lei, e le chiederà se va tutto bene, mandandole messaggi d’affetto o semplici cuoricini bendati in segno di incoraggiamento.

Margherita sceglie che va bene così: ciò che ha sempre rifiutato le sembra d’un tratto un’opportunità. Allora raddrizza la schiena, punta gli occhi sul proprio riflesso e recita bisbigliando un possibile video di risposta.

«Vi ringrazio per il vostro supporto, siete stupendi – mormora col fiato sospeso – In effetti non sto bene, e vorrei parlarvene. In primis perché ho bisogno di sfogarmi, ma soprattutto perché spero di essere d’aiuto a quelli che si trovano nella mia situazione, e che purtroppo sono molt* – l’asterisco disegnato in aria con il dito – Vi faccio un piccolo trigger warning, però, quindi skippate le stories se non volete ascoltare. Si parlerà d’infertilità», e prova una vertigine davanti a questa parola che, sebbene pronunciata a malapena, rotola e si distende tra i denti con una specie di sollievo.

Se troverà il coraggio, se la community reagirà come lei spera e crede, tra qualche giorno ripeterà quello sfogo davanti alla fotocamera del telefono, senza tagliare niente, né sospiri né cedimenti della voce – tutto sarà pubblicato così come viene, a testimonianza di un dolore sincero. Sceglierà i direct da ricondividere, risponderà con cura a chi le ha confidato fatti troppo intimi per essere ignorati. Con alcune potrebbe diventare addirittura amica. Osserva sotto l’applique da specchio le sue pupille che si rimpiccioliscono fino a diventare invisibili, quasi liquide. Poi esce dal bagno e spegne la luce; ed è nel buio momentaneo del corridoio, lontano dalla sua immagine, che Margherita si chiede se sarà questo, alla fine, il suo personalissimo salto di qualità.

(fotografia di Daniele Muriano)

Fantasmi (Letteratura e diritto #4)

0

di Pasquale Vitagliano

C’è un elemento che avvicina diritto e letteratura, altrimenti mondi lontani: positivo, cioè dato, obiettivo, l’uno; precaria e soggettiva l’altra, se non addirittura menzognera, addirittura, secondo Giorgio Manganelli. È l’intersoggettività, entrambe si fondano sull’interazione di due o più individui e la messa in comune di elementi di realtà, vera o presunta. Per esempio, nel saggio Il falso problema di Ugolino, Jorge Luis Borges precisa che la verità storica si interroga se Ugolino della Gherardesca abbia davvero esercitato il cannibalismo nel 1289. Alla verità letteraria, che in questo si avvicina a quella giuridica, processuale, invece, basta che i lettori di Dante abbiano giudicato possibile questo evento.

Il pretore del Quarto Mandamento di Napoli, dinanzi al quale Roberto Scotto di Tella, proprietario e locatore di un appartamento al terzo piano di Via Concezione a Montecalvario, n. 41, cita in giudizio per il pagamento della pigione l’affittuaria Margherita Franceschetti, ma costei propone domanda riconvenzionale (quando chi viene citato in giudizio si difende con delle contestazioni sue proprie) di risoluzione del contratto perché la casa è infestata dagli spiriti. Siamo nel 1915. I capitoli di prova furono confermati dai testimoni e il pretore accoglie la domanda di risoluzione del contratto. Di questi e altri casi racconta Massimo Sensale con Fantasmi in Tribunale (Edizioni Le Lucerne, 2023). Persino il futuro presidente delle Repubblica, Giovanni Leone, giovane giurista, annota una sentenza del 1927 del pretore di Pomigliano d’Arco Settimio Ricciardi che qualifica i fantasmi vizio intrinseco della cosa locata. Mariano D’Amelio, già capo di gabinetto del ministro della Giustizia, contesta la decisione ma senza mettere in discussione l’esistenza dei fantasmi, precisando che per il diritto non sono né persone fisiche e neppure persone giuridiche, mentre la legge non consente rapporti giuridici con esseri di natura diversa. La prima affermazione in tal senso è contenuta nel codice consuetudinario della città di Bordeaux commentato e pubblicato nel 1540 da Arnoux Le Ferrone. Nella commedia di Eduardo De Filippo Questi fantasmi! la loro esistenza è testimoniata dal portiere e dai vicini, né Pasquale Lojacono, pur mandato là con questo scopo, riuscirà a confutare questa verità condominiale.

Vale, dunque, il principio di non contestazione: se la parte convenuta in giudizio ammette la verità dei fatti allegati da parte attrice (chi cita in giudizio una persona) questi possono considerarsi provati. A maggior ragione, se una seria di testimonianze conferma gli stessi perché vox popoli, vox dei. Salvo provare che gli spettri vadano via per altri interventi diversi da quelli del padrone, allora non potranno essere considerati vizi e difetti della casa. E’ quello che in diritto si chiama tema probanda. Non è importante la verità in sé stessa ma se è stato provato ciò che è affermato in giudizio. Nel film Miracolo nella 34ª Strada del 1947, richiamato da Bruno Cavallone ne La borsa di miss Flite (Adelphi), la prova che Mr. Kris Kringle sia Babbo Natale viene dalle centinaia di lettere che da tutto il mondo arrivano in Tribunale dove egli ha eletto domicilio.  E’ quello che l’antropologo Henry Lévy-Bruhl chiama la ratifica della collettività.

 

Appunti dall’isola

1

Reportage narrativo dal camposanto

testo e foto di Germana Urbani

Capita. Vai formicolando il mondo vegetale e ti capita, stando in cima all’argine grosso del fiume, di scorgere un’emersione nella piattissima lontananza, un groppo di costruzioni basse e raccolte; lì vicino, magari, un viale di cipressi, ma non sempre, non più.

Mi dicono che non va più di moda tra gli architetti dei camposanti. Anche i cipressi richiedono manutenzione, le amministrazioni comunali vanno al risparmio, “per il bene dei vivi”, affermano, “i morti ormai non sanno più niente”.

Certo non si tratta qui di architettura magistrale, non è il cubo sacrario di Aldo Rossi a Modena: una delle foto di Ghirri più pagate tra quelle andate all’asta negli ultimi anni. Un’istantanea perfetta, probabilmente già sognata molto prima dello scatto.

Me lo vedo il maestro, quel giorno, aprire la finestra di prima mattina, accorgersi della nevicata, del cielo gonfio, arruffare borsa, obiettivi, pellicole e salire in auto veloce pensando “devo far presto prima che cambi la luce o piova”! Fotografando l’enorme cubo rosso del San Cataldo, geometricamente traforato alla perfezione e immerso nella neve, oltre a stampargli un cielo azzurro polvere dietro, cercò per la sua inquadratura anche un albero spoglio che fungesse da contraltare, capace di sostenerne il peso grafico e simbolico di quell’opera monumentale cui è impossibile ancor oggi farsi significato di ricordo o morte. Ghirri scelse un salice piangente, costruì lo scatto in modo che le lunghe fronde scure apparissero in foto appena sopra il cubo in lontananza, a regalargli un’ombra che nella foto non appare.

Il cubo, così come l’aveva pensato l’architetto Rossi, evidentemente non bastava all’artista Ghirri a dire l’altrove, e allora ecco lì: una salicacea, dormiente e viva.

Qui è un’altra cosa. Il piccolo cimitero di Ca’ Zulian è un grano pastello tra l’erba e le coltivazioni, niente intorno. Spicca talmente che pare illuminato, lui solo, da un faro assente.

Per moto continuo dello sguardo che tira in quella direzione, decidi di raggiungere quest’isola. E fin che vai, siccome ti porti dietro già Ghirri, ti segue anche quel racconto di Gianni Celati, quello in cui scrive di come le donne di qui andassero in cimitero quasi ogni giorno a parlare lungamente con i cari estinti, come avrebbero fatto a tavola, la sera, dopo il lavoro. Si dice anche che si portassero piccole sedie, per stare più comode nell’attesa di una risposta. E così ti viene l’idea per nuove foto, cerchi le prove: chissà se ci sono davvero delle sedute in questi luoghi.

Ti accoglie il viale di cipressi che c’è ma ha perduto ogni simmetria e dignità. Si stagliano nell’azzurro chiome color avio squadernate, aperte, rotte da venti che immagini pieni di furioso mare. Ti avvii tra tronchi mozzi, calvi, fuori asse: certamente sguainati per altre battaglie che verranno. Oltrepassando il cancello d’entrata, speri di non incontrare nessuno, ché tu sei qui per rubare ai morti.

Cosa cerchi varcando le ultime soglie? Cosa vai fotografando qui dentro? I presenti ti osservano vigili dalle loro lapidi di ringhiera, si lasciano leggere, si fanno indovinare.

Ti fermi davanti alla tomba di una bella ragazza in vespa, un bianco-nero scattato in una povera corte di reti e galline. Leggi il nome e cognome a voce alta, quasi a evocarla, e quella viene a dirti com’era spavalda a sedici anni, quanta vita aveva da correre. E noti come, pur tra tante tombe lasciate all’incuria, la sua lapide sia sana, i fiori presenti e vividi. Sicuramente sua madre, una vecchia, viene ancora per lei.

Sua madre che sta qui tra gli assenti, le porta i fiori che abbevera quotidianamente nell’orto di casa. Alleva quelli, dopo aver perso lei. A ottobre non dimentica mai, ginocchia a terra, di interrare i bulbi di gladioli e tulipani e narcisi e iris, che sono i primi a venire. Così già a fine marzo, la ragazza in vespa ha la tomba più bella e viva di tutte, due mazzi variopinti che la madre viene a cambiare non appena si sciupano un poco. Ad aprile interra le dalie e le zinnie in vista dell’estate; nel mentre sbocciano le calle, le guarda malinconica: sono candide com’era sua figlia. A giugno le porta i gigli di Sant’Antonio, ne ha di bianchi e di arancioni, le sue vicine di case glieli invidiano molto ma lei fatica a donarne, tutto ciò che cresce nel suo giardino è per la ragazza in vespa. Per la festa dei morti, poi, le fioriscono crisantemi bellissimi, quelle sono piante perenni e forti, danno così tanti fiori che arriva metà dicembre prima che lei porti i fiori finti sulla tomba.

Questa donna anziana fa un giro in bicicletta ogni giorno verso il camposanto. Lo racconta chiacchierando con un’altra sul portone del cimitero: “muovermi mi fa bene” dice “e poi controllo che ci sia acqua nei vasi, che il vento non abbia fatto disastri”.

Magari questa madre un appartamento di ringhiera qui dentro l’ha già comprato, anzi sicuramente, e l’ha scelto lì, accanto a quello della figlia morta più di quarant’anni fa. Gli assenti, specie se sono genitori, non smettono di desiderare l’incontro con chi se n’è andato prima di loro.

Così i coniugi, gli inseparabili, sono sepolti sempre uno accanto all’altro anche se morti a anni di distanza. Perché quando il primo dei due muore, quello che resta compera il calto accanto, rinnovando così, anche nella morte, una promessa di eternità che qualcun altro curerà, forse, con fiori artificiali lavabili. E non è sempre per amore che si fa la doppia lapide. É che nella morte, come nella vita, ci si puntella come si può.

Li trovi gli sgabelli, stanno lì, negli angoli accanto alle colonne. Ne fotografi alcuni che si mimetizzano con le scope e gli stracci con cui le donne puliscono i marmi. Altri sorreggono vasi di fiori, vengono camuffati, stanno in incognito, ché il vero motivo per cui sono lì non si dice, come l’aldilà.

L’aldiquà è fatto di barattoli variopinti svuotati in lavanderia e ammucchiati nei calti di nessuno, pronti ad essere riempiti d’acqua e a colmare i vasi di fiori. L’aldiquà sono vecchie lapidi di gente a cui è scaduto l’affitto e nessuno ha rinnovato il contratto perché di quel morto del secolo scorso si è persa ogni memoria, non si sa più di chi è parente, marito, figlio. E allora il comune fa dei gran mucchi di queste povere tombe e via, scompaiono. Poi parte la ristrutturazione dell’ala antica del cimitero. “Che i morti non sanno niente”, neanche di essere stati vivi, di avere avuto un volto stampato nella ceramica ovale che andrà in discarica con il resto del calcestruzzo che chiudeva la loro tomba.

I calti di ringhiera sono i più pericolosi in questo senso, hanno più mercato. Anche se ultimamente sta tornando di moda la tomba a terra, fa green, “polvere alla polvere” e costa meno, diciamolo. Certo, assicurano le donne chiacchierando in cimitero, la tomba a terra dà più da fare se vuoi che sia dignitosa. Crescono le erbacce, quando piove si sporca tutto, ogni stagione devi rinnovare le piantine.

Tra i tumuli a terra ne noti uno su cui è cresciuto un pioppo, è alto poco più di un metro. Mentre lo fotografi ammirandolo, così impavido spavaldo fuori luogo, pensi che sia meraviglioso, che le sue radici accarezzano i resti di qualcuno che non ha più nome o che forse si chiamava Olmo, chissà! E scattando senti che sarebbe bello che al posto dei marmi ci fossero alberi e alberi e alberi solo alberi.

Certo la manutenzione… Tu sogni troppo, invece occorre essere concreti e previdenti mentre si va verso la fine e focalizzarsi bene su un punto: dall’incuria e dalla discarica ti salvi solo se hai la casetta in cimitero. La gente comune le chiama così le tombe di famiglia. Anche tuo nonno ne voleva una, “per stare tutti insieme”, diceva. Un giorno tornò a casa con un progetto: ottanta milioni di vecchie lire, terra e marmi, quattro o cinque piani tutto compreso. Nessuno lo sostenne in questo suo desiderio di preparare un posto per sé, che sarebbe partito per primo, e per tutti coloro che amava, che sarebbero arrivati dopo di lui a stare con lui, insieme. Il pensiero di quanto lui vi voleva bene ti ferisce profondamente mentre vai fotografando le casette stemmate, piene di oggetti, quadri, piante, specchi. Una è piena di peluches, in un angolo c’è un grande uovo della kinder, lì, fermo, dalla scorsa Pasqua, un lego… Ti allontani in fretta e d’improvviso, in una casettina più antica delle altre con la porta aperta quel tanto da spiare dentro, eccola lì: una sedia impagliata con un rosario appeso alla spalliera, pronto all’uso. Ti fermi per la meraviglia, pare aspettasse te, quasi l’avessero messa apposta. Ti emozioni, entri, ma aspetti ad alzare la macchina, anche se “non sanno più niente” sono lì che ti fissano, ti inchiodano, gli occhi impressi nelle ceramiche lo strillano proprio: profano, vile, rinuncia all’ultimo segreto che ci resta.

Devi far presto, scatti veloce solo due volte, è già troppo, è già sporco bottino.

Ti avvii all’uscita lungo un vialetto secondario, malconcio. Tombe di ringhiera del secolo scorso anche qui. Lumini rotti, foto assenti, buchi pieni di muschio al posto di alcune lettere che componevano il nome del defunto. A che servono le luci ai morti? Tanto “non sanno più niente”.

“Mi raccomando, non dimenticarti di pagarmi la luce quando sarò in cimitero”. La preghiera di tuo nonno ti dondola in mente osservando le tombe di questi sconosciuti. Ti chiedi se la sua ansia di luce Enel fosse generata dalla paura del buio, del vuoto, di ciò che avrebbe potuto non incontrare nell’aldilà. “Vienimi a trovare qualche volta quando sarò qui”, diceva ancora, sicuro, probabilmente, che gli saresti mancato oppure, sperando, di mancarti.

Alcuni morti mancano ai vivi per sempre, non li lasciano più. E anche se la vita intorno a loro continua a crescere forte e, almeno in parte, li inghiotte li mette in ombra, quelli, i morti, resistono fragili e forti come piccoli angeli di gesso intaccati dai licheni, sovrastati, quasi inglobati da un cipresso che nessuno ha il coraggio di estirpare, che non fa male ad anima, né viva né morta.

Simone Sauza: «chi ha sete nel sogno»

1

di Simone Sauza

Dicevano che era un rifugio.
Ma un rifugio, per essere tale, deve avere una porta che si può chiudere da dentro. L’Ex Officina Ferroviaria no. Ci si finisce per sbaglio. Nessuno si sognerebbe mai di entrarci volontariamente.

Era abbandonata da vent’anni. Occupava un quadrato di terreno ai margini della città, circondata da una vegetazione cresciuta senza regole tra due linee morte: un binario arrugginito e una sopraelevata che gemeva ogni volta che passava un camion.

Era abbandonata, ma le mura erano rimaste di proprietà della Società, una ditta a conduzione familiare che da tempo immemore gestiva diversi immobili in città. Comitati di quartieri avevano cercato di trasformare l’ex Officina in uno spazio sociale. Qualcuno ci aveva organizzato delle feste. Altri ci avevano organizzato delle esecuzioni. Da qualche anno la Società ha pensato di assumere un guardiano. Per non svalutare l’immobile, dicevano. Un giorno ci sarebbe nato un supermercato o un centro per la logistica. Quel giorno non è mai venuto.

Michele è arrivato all’Officina prima che diventasse un luogo, quando ancora era solo un capannone dismesso e senza tetto, abitato da ratti e serpi, e dal vento che faceva sbattere le lamiere come ossa fratturate. La Società lo prese prima come tuttofare: faceva da custode dell’Officina, da inserviente, e persino da aiutante meccanico. Poi, quando tutto ha ceduto alla legge dell’abbandono, l’Officina è diventata il corpo di qualcosa che aveva smesso di funzionare, e lui era rimasto, appunto, come guardiano. Nessuno della Società era più passato a controllare la situazione. A Michele di chi entrava o usciva da quel luogo non interessava molto. Perciò negli anni molte persone avevano abitato nell’Ex Officina. Girovaghi e relitti. Giovani scappati di casa e vecchi abbandonati dalla società. Strani commerci avevano avuto luogo; relazioni sconosciute alla città in superficie. Volti e corpi restavano per pochi giorni e poi sparivano nel nulla così come erano apparsi. Solo lui, Michele, restava. Nessuno sa da dove sia venuto. Nemmeno lui lo sa. O almeno, se lo sa, lo racconta ogni volta in modo diverso: becchino a Montecompatri, scrittore di lettere d’addio per suicidi, operatore di centrale nucleare, impiegato all’archivio delle chiamate non ricevute. Sono solo alcune delle professioni che negli anni ha menzionato a curiosi e visitatori.

La società gli aveva ricavato un piccolo alloggio in quella che sulla mappa veniva chiamata la Zona Laterale, un basso prefabbricato addossato alla struttura. Un letto pieghevole, una scrivania, un termosifone staccato da una scuola. Un ventilatore che non gira più. Una tazza con dentro un dente.

L’edificio era basso, largo, costruito con mattoni anneriti e lastre ondulate di metallo. Il tetto era una distesa slabbrata, tenuta insieme da teloni da cantiere e corde sfilacciate. Dentro, la luce entrava solo a grumi, screpolata dalle fessure delle finestre rotte e rifratta da sacchi neri appesi a mo’ di tende. L’aria puzzava di olio esausto e carta bruciata – ma c’era anche, inspiegabilmente, un sentore da corsia d’ospedale, come se qualcuno disinfettasse la notte prima di dormire.

Quando tutti dormono, Michele si aggira intorno all’entrata del Sottosuolo. Lo chiamiamo così, noi che stiamo nell’Ex Officina da più tempo. Il Sottosuolo è un livello interrato dell’edificio raggiungibile da una botola coperta da un tappeto macchiato. Michele non ci scende da mesi. Da quando ha sentito, una notte, qualcosa respirare là sotto.

Io ormai dormo poco. Quando rimango sveglio osservo Michele nel buio. Si aggira intorno alla botola, indeciso se scendere. Poi torna sempre sui suoi passi. Allora gira per l’Ex Officina. A volte accende una stufa che non è collegata a nulla. A volte lascia ciotole d’acqua in punti strategici del capannone. Dice che è per «chi ha sete nel sogno». Così mi ha detto un giorno. Michele ha una voce cavernosa, come se fosse rimbalzata troppe volte in un corpo che non la voleva. Porta una tuta da lavoro blu scuro, sempre la stessa, anche d’estate, e sopra una giacca di pelle screpolata. Cammina lento, con passo rasente. Non sbatte mai le porte. Non tossisce mai. Ha le mani larghe come pale da scavo, e i capelli radi, tirati all’indietro con una cura quasi dolorosa. Possiede un taccuino nero, che chiama registro delle presenze, ma non l’ho mai visto scriverci nulla. Dice che «la carta è per i vivi che non sono mai nati», e che i presenti vanno registrati a voce, dentro il petto. Pensavo che tutti gli anni trascorsi nell’Ex Officina lo avessero fatto impazzire.

Da qualche giorno c’erano dei volti nuovi. In loro c’era qualcosa di strano. La donna ben vestita, ad esempio. Aveva un look da ufficio. Portava i capelli raccolti. Non parlava con nessuno e nessuno interagiva con lei. Nel buio dell’ex Officina non capivo se trascorresse la notte con noi o se ne andasse dopo il tramonto. La vedevo soltanto di giorno. Vagava per l’edificio. Passava lunghe ore ferma, con lo sguardo perso. Stava come si sta in attesa di un treno soppresso da anni.

Non ho mai visto Michele rivolgerle la parola. Non che parlasse molto con gli occupanti dell’Ex Officina. Per lo più interveniva per sedare piccole risse o per provvedere ai suoi bisogni. Una volta, però, l’ho visto annotare qualcosa sul suo taccuino nero. Guardava la donna da lontano e scriveva. Ho aspettato che uscisse dall’Ex Officina per fare provviste e mi sono diretto nella Zona Laterale. Pensavo che la porta della stanza fosse chiusa a chiave. Il taccuino era sotto la tazza con il dente. Dopo diverse pagine vuote ho trovato l’appunto:

Ore 03:41. Donna seduta. Non parla. Non si muove. Osserva il vuoto come se fosse uno specchio. Sotto le scarpe: terra umida. Fuori non ha piovuto.

Ho provato ad avvicinarmi a lei qualche giorno fa. L’odore mi ha colpito prima di vederle il volto: acido fenico, garze, quell’umidità pesante che impregna i corridoi dove si muore piano. L’odore delle stanze d’ospedale alle quattro del mattino. Una camera da letto con la finestra aperta e un vecchio che guarda il cielo per l’ultima volta.

Ho fatto un passo indietro. Non per paura, non davvero. C’era una tensione che saliva dalla nuca, un peso al centro del cranio. Mi girava la testa e ho lasciato perdere.

Mi sono messo nella navata, lo spazio centrale dell’Ex Officina. Un’enorme pancia vuota dove si vedono ancora le tracce del carro ponte, attrezzi corrosi, un motore in disfacimento, divorato da piante rampicanti che crescono dalle crepe nel cemento. A volte Michele si sedeva nella navata sotto una macchia d’acqua che gocciava dal tetto. Non faceva nulla. Lasciava che il ticchettio gli colasse addosso. In quei momenti pensavo che nessuno dei presenti fosse davvero arrivato; che nessuno, cioè, avesse attraversato un cancello, varcato una soglia, seguito una strada. Neanche lui, in fondo. Me lo immagino spuntato da una crepa nel terreno. O scivolato fuori da un sogno interrotto.

Poi ho visto un uomo. Uno dei nuovi. Un uomo col braccio menomato. Gilet da lavoro, come quelli dei meccanici, baffi folti che nella penombra dell’Ex Officina nascondevano ancora di più i tratti del viso. Ma era il braccio, il problema. La sua deformità aveva qualcosa di bizzarro. Sembrava invertito: il moncherino con cui terminava l’avambraccio aveva le fattezze dell’osso di un gomito, e là dove ci doveva essere la spalla c’era una mano. Una mano viva e carnosa. Appesa al deltoide.

Ho rivisto l’uomo con il braccio sbagliato altre volte.  Vicino alla botola del Sottosuolo, impalato e in silenzio. Aspettava qualcosa, forse. Non sembrava avere bisogno di dormire. Né di mangiare. A volte si grattava con il braccio invertito come se il gesto gli fosse familiare e inadeguato allo stesso tempo. Una notte mi fissò da lontano. Lo guardai anch’io. Non successe niente. Ma per ore non riuscii a togliermi di dosso un senso di disagio.

C’erano anche altri volti nuovi che mi avevano turbato. Persino un bambino. Lo vidi per la prima volta all’alba, rannicchiato sotto la carcassa di una macchina. Non dormiva. Aveva gli occhi aperti, ma non mi guardava. Era troppo piccolo per essere lì. O troppo fuori tempo. Poteva avere sei anni. Forse otto. Il volto era smunto, senza graffi né polvere, come se fosse stato appena lavato da qualcuno che non c’era.

Non parlava. Non sembrava aspettarsi niente da me. Si stringeva le ginocchia al petto e respirava piano, seguendo il ritmo del gocciolio dal tetto. Provai a parlargli, la seconda volta che lo vidi. Gli dissi solo “ciao”, con un tono basso, neutro. Lui alzò lo sguardo, poi si infilò più in fondo, tra il sedile spezzato e la ruggine.

Si muoveva a scatti leggeri. Non come se fosse spaventato, ma come se ogni gesto gli costasse un secondo tentativo. Come se il corpo gli arrivasse addosso un istante dopo l’intenzione. Lasciava spesso degli oggetti sotto la macchina. Pezzi di metallo, una molletta, una batteria scarica, una rotella di plastica. Una volta Michele ha provato a spostare quei pezzi. Il giorno dopo erano tornati esattamente com’erano.

Ce n’erano altri, nel frattempo. Un uomo con le braccia troppo lunghe, che ogni tanto sbatteva contro gli stipiti senza mostrare sorpresa. Una figura coperta da un telo azzurro, come quelli delle sale operatorie. Spesso gravitavano vicino alla botola del Sottosuolo. Adesso, tra vecchi e nuovi, l’Ex Officina è un crocevia di figure. Molti occupanti che stavano qui da lungo tempo sono andati via. Avevano paura ma non sapevano bene di cosa. Dentro di me lo so bene: ha a che fare con i sogni ma nessuno ne vuole parlare.

Contrariamente a quanto mi aveva detto, ultimamente ho visto spesso Michele scrivere sul suo taccuino nero. Se faccio domande mi risponde le solite cose. Ormai dice solo cose sconnesse o incomprensibili. Usa il tono oracolare di chi ha perduto ogni appiglio al mondo. Ho dovuto aspettare il momento giusto per leggerlo. Non è stato facile: lo aveva nascosto, forse prevedendo che avrei cercato di leggerlo; ma un ragazzo, un ventenne con le braccia martoriate dai buchi delle siringhe, mi ha detto dove lo aveva nascosto. Si trovava nel giaciglio di un uomo che ha abbandonato l’Ex Officina da pochi giorni, sotto il cuscino. Questa volta le pagine erano piene di annotazioni. Frasi e descrizioni classificate soltanto dall’orario. Nessuna specifica del giorno.

Ore 2.27. La donna. Il silenzio trattenuto da una figlia che non ha potuto gridare mentre sua madre moriva.

Ore 12.03. Impastati con la stessa materia dei rimpianti. Incarnazione di qualcosa che non ha avuto pieno diritto all’esistenza.

Per diverse pagine si susseguivano disegni della botola che porta al Sottosuolo. Schemi e simboli che non sono capace di decifrare.

Poi ancora annotazioni. Ore 5.17. La logica del braccio: un gesto che non è mai stato fatto, un pugno che doveva partire e non è partito.

Il clangore della porta d’ingresso mi fece scattare. Riposi il taccuino sotto al cuscino e me ne andai fuori. Una donna in ciabatte mi offrì una sigaretta. Cominciava a fare caldo e qualcuno preferiva dormire vicino al muro che delimita l’Ex Officina, con la sopraelevata che solca un cielo di cenere. Michele ha perso la testa. O forse è sempre stato pazzo. Dovrei andarmene o finirò come lui.

«Chi ti ha assunto, Michele?».
«Una cosa che si è svegliata sotto il pavimento. Mi ha chiamato col mio vero nome. E io ho detto sì».

Questa è stata l’ultima conversazione che ho avuto con lui. Prima di vederlo finalmente discendere. Il rumore dei passi mi aveva svegliato. Nella penombra si addensavano molte figure. Quando Michele sollevò il tappeto e fece scattare la botola, nessuno lo fermò. Le presenze si erano fatte più numerose. Un uomo si era rannicchiato in un angolo e guardava il soffitto come se aspettasse il temporale. Michele non parlò. Non si voltò. Portava con sé solo una torcia e il taccuino. Aveva tolto le scarpe. Camminava scalzo. Quando scese i primi gradini, lo fece senza esitazione, come chi torna in un luogo conosciuto.

La botola si richiuse piano. Dopo un po’, anche il ticchettio dell’acqua si fermò. Poi un crac nel buio. Qualcuno mise una ciotola nuova vicino al punto in cui si era aperta una nuova crepa. Altri mi guardavano come si guarda chi resta dopo che tutto si è già deciso altrove.

Una logica delle rovine che appartiene da sempre a questo posto: ora c’era un nuovo guardiano. Ma ancora oggi non so bene che cosa devo custodire. Come ho letto nel taccuino di Michele, tutto ciò che so è che il mondo ha smesso di cercare salvezza, e si accontenta di preservare la continuità nella disfunzione.

Il tempo è passato trascinando le ore e i giorni. Non è mai arrivato nessuno a reclamare l’Officina. Né la Società, né il Comune, né chi si era perso tra le carte catastali. E nemmeno la fine, che pure era attesa. Perché da qualche parte si sapeva che tutto questo era provvisorio, che i muri non avrebbero retto, che il tempo avrebbe ceduto, che qualcuno sarebbe sceso per chiudere tutto da sotto.

Ma la fine non è venuta. È rimasta in attesa, come una sirena senza suono. E intanto le cose hanno continuato a nascere male, come sogni interrotti e organi in eccesso. Annoto tutto, io. C’è sempre un nuovo volto che compare nel buio, un nome mai detto, un gesto che doveva compiersi e non lo ha fatto. E così, l’Officina resta aperta. Non perché ci sia qualcosa da proteggere, ma perché nessuno ha ancora avuto il coraggio di demolirla.

Là fuori, l’universo ha smesso di espandersi. Un respiro trattenuto troppo a lungo. Ogni particella trattiene un ricordo incompiuto.

Non una fine.

Ma ciò che resta quando la fine è già passata.

Simone Sauza
Scrittore, giornalista e traduttore. Si occupa principalmente di horror e violenza nel cinema e nella letteratura. Collabora con diverse realtà editoriali. Ha scritto Tutto era cenere (nottetempo, 2022). Suoi racconti sono apparsi su riviste come retabloid di Oblique Studio, Frankenstein Magazine e Altri Animali. È editor di Notzine e Notsfera per NERO Editions. 

Tornare ad esserci

1
foto di Amelia Nieddu, dal Festival Grisù

foto di Davide Agostini – Musamadre Festival

Il Pubblico Bene di Azzu e Corrias

di Lucrezia Fontanelli

È idea ancora generalmente accettata quella che i bisogni degli esseri umani si distribuiscano secondo una gerarchia. Di conseguenza, le necessità di base come avere cibo e riparo, o in sintesi tutto ciò che è sufficiente alla mera sopravvivenza prevale sulle necessità “superiori”, come il bisogno di relazione e di giustizia. Non è difficile, tuttavia, intuire come un’idea simile rischi di giustificare una disuguaglianza sociale, per cui chi non possiede mezzi materiali sufficienti dovrà rinunciare ad occuparsi delle questioni meno tangibili . Un analogo principio, mutatis mutandis, sorregge e alimenta il mito coloniale: l’idea che un popolo “superiore” abbia il diritto e dovere di governarne un altro, assumendosi la competenza di decidere che cosa sia il bene di quest’ultimo perché «un popolo, se non sa contare, non può neanche avere, non può neanche desiderare». L’ultima frase è tratta da Il Pubblico Bene, una performance sullo sfruttamento del territorio sardo attraverso processi coloniali e capitalistici, scritta e realizzata da Simone Azzu e Martino Corrias, già vincitori nel 2024 del Premio Museo Cervi con lo spettacolo Petter: prigioniero politico.

foto di Claudia Virdis – Simone e Martino sull’isola Lindøya, Norvegia, ricerca per Petter: Prigioniero Politico

Il Pubblico Bene è un’opera ibrida tra teatro, musica e arte visiva. Sopra filmati d’archivio della Sardegna Digital Library, concessi dalla Regione Autonoma della Sardegna e dall’Archivio Fiorenzo Serra (degli Eredi Serra Simonetta, Antonio e Paolo), Azzu dà corpo a una voce che assume di volta in volta la forma dell’invettiva, del canto, della dichiarazione d’amore e d’appartenenza a una terra, del dialogo impossibile con individui rimasti senza nome. Corrias, che come Azzu si trova al centro della sala, traduce quello stesso sentire in suoni che mescolano la tradizione all’elettronica e che si fanno, con lo scorrere delle immagini, sempre più serrati, distorti e stridenti, per aprirsi poi ciclicamente in movimenti ampi e dolorosi.

La commistione di sonorità, video e parole colpisce e spiazza lo spettatore, che tuttavia, anziché trovarsi distanziato, si immerge gradualmente in una sorta di trance che non comporta dissociazione interiore né perdita di coscienza, bensì, al contrario, la sua l’attivazione pre-razionale, il suo risuonare coralmente con gli altri partecipanti. Si ha così la sensazione di assistere a un rituale che ha qualcosa di magnetico, ipnotico e insieme di catartico.

I modi del rito si esplicitano nella ripetizione e nella circolarità. La prima diviene evidente verso la metà della performance, quando sullo schermo vanno in loop le immagini di contadini che sollevano e trasportano pietre su una terra che forse non sarà mai loro. Si tratta di uno dei momenti più laceranti, in cui i suoni si fanno duramente percussivi e la voce di Azzu abbandona il registro intimo e familiare dell’apertura per divenire grido: «Sarà una vita all’arrembaggio. Sarà una vita a lavorare per gli altri.» Il finale mostra invece riprese contemporanee della stessa città che aveva aperto la pièce: Fertilia, colonia creata nel 1936 dal regime per italianizzare, con famiglie provenienti dalla sovraffollata provincia di Ferrara, la «poco fascista piana algherese». Qui il testo approda ai toni riflessivi di una confessione a sé stessi e quasi si direbbe che respiri, compiute per il momento la rabbia e l’esasperazione. Questa parte, che non figurava nelle prime esecuzioni, non rimanda però solo all’inizio, ma traghetta l’atto poetico al di fuori dello spettacolo, verso il nostro quotidiano. Vengono allora in mente le parole di Atzeni: «il bisogno di conoscere le proprie radici non è fuga utopica in un passato inesistente, ma ricerca di modificare in positivo la realtà presente».

foto di Carlo Sgarzi, DAS x Collagene

Una grande forza dell’opera è quella di non appiattire tutta la questione su un presente inconfutabile, ma di inserirla in una prospettiva storica presentata senza pedanteria o affettazione. L’eredità del passato non è infatti trattata frontalmente; emerge piuttosto dalla complessità del discorso, portando progressivamente in superficie e sulla scena la consapevolezza di uno sfruttamento pregresso che senza soluzione di continuità arriva all’oggi. Così, la ripetizione ossessiva del bracciante che dissoda la terra e sposta pietre esprime anche il perpetrarsi di precisi rapporti di potere. Lo sguardo rimane fermamente lucido, la profondità di indagine è mantenuta senza concedere niente all’idealizzazione. Tutto ciò è il risultato di un instancabile lavoro di ricerca artistica dei due autori, sorretto da un sentito impegno etico. In questo modo, anche la dialettica tra questione identitaria, appartenenza locale e problematiche globali rimane proficua, senza scadere nel manifesto.

Quando nel montaggio video, realizzato Claudia Virdis, compaiono sequenze di danze tradizionali (in particolare, del ballo tondo), la voce del performer tace e i sintetizzatori si fanno pieno carico dell’interpretazione. A dominare sono sonorità aspre, che urtano e comunicano una dissonanza con quanto il pubblico vede proiettato. L’attuazione, anche qui ripetuta, dei passi delle danzatrici non è espressione pacificata di festa, ma lamento collettivo, preghiera, mezzo per esorcizzare una narrazione imposta da altri. La musica di Corrias non vuole essere conciliante; punta a risignificare l’immagine, attualizzandola in chiave non folkloristica o esotica.

foto di Amelia Nieddu, dal Festival Grisù

Verso la fine, Azzu denuncia apertamente le logiche tardocapitalistiche che vogliono che la terra sia svenduta a grandi aziende che promettono la sua “valorizzazione” attraverso la riconversione industriale o turistica e la costruzione di hotel di lusso. È la terra, nella sua essenza anche materica, nella sua capacità di accogliere e sopportare, a guidare tutto il discorso de Il Pubblico Bene. Ma uomini e luoghi sono sempre intimamente interconnessi e tale interconnessione è problematica; così la Sardegna è terra di conquista, terra accaparrata, maltrattata, amata, sventrata da un’alluvione, resa in definitiva inabitabile perché alienata dalle comunità locali. In quest’ottica, il cittadino non ha diritto di parola, deve anzi ringraziare che altri si prendano il compito di gestire un bene pubblico che è anche suo, perché si dà come implicito il fatto che egli non sappia e non debba occuparsene.

La ratio tipica dell’odierna gestione del territorio è infatti quella di creare uno scollamento sempre più accentuato tra i luoghi e le persone li abitano e attraversano. Il fatto che la capacità decisionale su di un bene sia presentata irrimediabilmente come in mano ad altri, fa sì che col territorio si perda contatto e non lo si conosca più, perché vengono meno le modalità di viverlo al di fuori di quelle prestabilite, cioè quelle di consumatori. Sentendoci meno coinvolti nella sua gestione, ci sentiamo anche svuotati nella nostra capacità di intervento. De Certeau affermava infatti che l’identità di un luogo è «tanto più simbolica (nominata) quanto più, malgrado la diseguaglianza di proprietà e di reddito fra i cittadini, vi è soltanto un pullulare di passanti, una rete di dimore dentro il flusso della circolazione». Migrare, sradicarsi diviene allora un esito comune benché spesso frustrato: chi parte e chi resta sono accomunati dall’essere semplici fruitori; la distanza frapposta per fuggire la condanna d’essere provinciali si traduce nell’impossibilità dell’esserci, di avere una relazione fertile con il presente, con sé stessi e gli altri.

Pavese diceva che «Un pensiero non significa nulla se non è pensato con tutto il corpo». Si capisce veramente quando si capisce con il corpo, non con la mente. Sapere qualcosa è infatti diverso dal capire, perché il sapere non necessariamente si traduce in partecipazione. Riprendere, attraverso il corpo, contatto e possesso di ciò che è stato pensato per la comunità ma senza la comunità diventa allora un modo per trascendere non solo il sentimento di impotenza, ma anche la semplice presa di coscienza.

Rielaborando esperienze vicine al Terzo Teatro, fra cui lo stretto rapporto di Azzu con il Teatro Ridotto e il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, dalle quali Il Pubblico Bene mutua anche l’aderenza alla forma del rito, i due artisti occupano uno spazio in mezzo al pubblico, annientando in questo modo la distanza tra performer e spettatore. Azzu, ti chiama in causa, ma non per accusarti, responsabilizzarti, perpetrando una delle dinamiche più care al capitalismo di ultima generazione che è quello di scaricare verso il basso, sempre verso il basso e verso il singolo le responsabilità. Benché infatti l’esplorazione non taccia le varie concause interne ed esterne, l’effetto qui è altro: Azzu chiama in causa lo spettatore perché mentre dà voce a un sentire viscerale comune, riapre anche uno spazio di azione che sembrava negato, impensabile ed implausibile.

foto di Amelia Nieddu, dal Festival Grisù

Per questo, alcuni esperimenti più significativi con Il Pubblico Bene sono quelli in cui successivamente è nato un dibattito con i presenti. È quello che è successo ad esempio a Venezia – racconta Azzu –, una delle città che più soffre il turismo di massa. Gli stessi brutali meccanismi sono ormai evidenti anche a Bologna, dove la performance è andata in scena la prima volta e dove Azzu e Corrias si sono recentemente riesibiti, in occasione della quarta edizione di Grisù – Festival di scritture contemporanee organizzato da Lo Spazio Letterario. La performance si è svolta all’interno dell’Esprit Nouveau, ricostruzione fedele dell’edificio progettato da Le Corbusier per Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes del 1925; un bene pubblico sì, collocato però in uno dei quartieri in cui le logiche della gentrificazione e della privatizzazione di sono fatte più violente negli ultimi anni.

L’intenzione, quindi, non è solo quella di creare consapevolezza attorno alla specifica condizione della Sardegna, ma di stabilire una relazione, incoraggiare e promuovere quelle pratiche che creano comunità – e si utilizza qui promuovere nel senso etimologico del termine: pro-movēre, muovere innanzi, determinare un movimento là dove tutto sembra immutabile e ineluttabile; aprire spazi di dialogo per ridare senso e tornare a decidere di ciò che è bene pubblico. Va da sé che la questione ci riguarda tutti.

 

Il Pubblico Bene
Regia, drammaturgia, testi poetici e attuazione di Simone Azzu.
Musiche e suoni di Martino Corrias.
Progetto video di Claudia Virdis, materiale video tratto da Sardegna Digital Library – concessione: Regione Autonoma della Sardegna e dall’Archivio Fiorenzo Serra degli Eredi Serra: Simonetta, Antonio e Paolo.
Una produzione SHIP e Compagnia Meridiano Zero, con il sostegno di Circolo Sardegna Bologna e DAS – Dispositivo Arti Sperimentali.

 

L’urbanistica turbocapitalista e io. Storia di una sconfitta

3

di Gianni Biondillo

Forse il crollo della scritta “Generali” sullla copertura del grattacielo di Zaha Hadid è la giusta metafora di quello che sta passando Milano in questi giorni (chi assicura gli assicuratori?). La scossa tellurica innescata dalle indagini della procura è come se avesse raggiunto la cima dei grattacieli che hanno caratterizzato il nuovo, moderno skyline urbano, per dimostrarne la fragilità.

Tutto nasce dalle denunce degli abitanti di un condominio in Piazza Aspromonte che hanno visto crescere nel cortile di casa un palazzo di sette piani in sostituzione di un semplice magazzino. Con una “scia”, cioè una pratica ordinaria che non prevede piani attuativi e oneri di urbanizzazione. Per chi non è del mestiere: costruire il nuovo, dalla legge urbanistica del 1942 e i suoi successivi aggiornamenti , prevede che il privato che sta aumentando la sua ricchezza restituisca qualcosa alla città che glielo ha permesso. Per costruire fogne, infrastrutture, asili, scuole. Soldi, insomma. Va bene tutelare la proprietà privata, ma occorre anche che il bene collettivo non venga depauperato.

Nel novecento, quando l’ago della bilancia pendeva verso l’interesse pubblico si hanno avute politiche urbane di natura socialista, quando verso l’interesse privato di natura liberista. Poi c’è stata Tangentopoli e l’Italia s’è rotta. Non per colpa di chi ha scoperchiato il verminaio, ma per l’ingordigia di chi da sempre ci sguazza dentro. Non vorrei sembrare determinista, ma la natura familista, opportunista, amichettista della classe dirigente (politica e imprenditoriale) italiana è la stessa da sempre, da Giolitti passando per il fascismo e transitando per la democrazia cristiana. Tutto in perfetta continuità.

Per capire l’Italia, scrivo da sempre, occorre guardare cosa fa Milano. Nel bene o nel male (spesso nel male). Milano, ancora alla fine del secolo scorso, era una città popolare che stava dismettendo il suo patrimonio sociale, quello degli operai, senza sapere in cosa trasformarsi. Ci ha pensato il turbo capitalismo globale di inizio millennio a dare alla città una nuova narrazione: diventare cool, moderna, competitiva, esclusiva, seducente. Expo2015 fu la scommessa per fare di Milano “a place to be”. L’orgoglio dei milanesi si gonfiò a dismisura. Essere una città europea, esserlo per davvero, valeva qualunque sacrificio.

Che poi scrivo “milanesi”, ma in concreto di chi sto parlando?

Da inizio millennio, invertendo un trentennale trend negativo, la città ha visto aumentare i suoi residenti di centomila unità. Ma la cifra, detta così, non spiega nulla. La verità è che in questi decenni sono andate via quattrocentomila persone e ne sono arrivate cinquecentomila. Questo significa, in soldoni, che oggi un milanese su tre trent’anni fa non abitava a Milano. Che, culturalmente, socialmente, antropologicamente, Milano non è più la città della mia gioventù.

Chi è andato via, chi è arrivato?

Sono arrivati studenti da tutta l’Italia, drenando talenti dal resto del Paese (mentre i loro coetanei milanesi partivano per le università straniere), sono arrivati i neoricchi (dal finanziere al calciatore all’influencer) che hanno spostato la loro residenza qui per usufruire della flax tax voluta dal governo Renzi. Sono arrivati i residenti temporanei, i turisti, gli affaristi. È andato via il ceto culturalmente medio ma economicamente proletarizzato della piccola borghesia: impiegati, terzo settore, artigiani, insegnanti. Non ce la fanno più, la città è troppo cara, i costi sempre più proibitivi. Chi non s’è mosso sono stati i residenti della ZTL e gli ultimissimi, i residenti dei quartieri popolari, pensionati, extracomunitari, che vivono in condomini fatiscenti. Per loro non è cambiato niente, Milano li aveva già esclusi, dimenticati, da sempre. Nel novecento la classe operaia aveva un peso negli equilibri della politica urbana, oggi la produttiva piccola borghesia soffre e il proletariato non c’è più. Ma il sottoproletariato è aumentato a dismisura, la forbice della disugaglianza si è aperta ulteriormente. Ricchissimi e poverissimi. Che non si conoscono anche se abitano gomito a gomito (Milano è una città piccola e densa).

I padri di chi oggi vive nelle zone ZTL erano impreditori che investivano sul territorio. Producevano, innovavano e restituivano alla città ricchezza. Era una narrazione vincente: siamo tutti sulla stessa barca, produrre significa non solo far arricchire “i padroni”, ma anche permettere agli ultimi arrivati di emanciparsi. All’industriale, intriso di paternalismo socialista o cattolico, interessava avere dei dipendenti appagati dalla societa consumista. Oggi i loro figli, che non producono più nulla, che fanno soldi nell’alta finanza, che usano la città solo come scalo fra Londra, Francoforte, New York, a loro di quali siano le condizioni abitative a Quarto Oggiaro o in Comasina è di nullo interesse. A meno che non ci sia un ritorno economico. Vedi il quartiere ultrapopolare di San Siro, una volta in estrema periferia e ora praticamente in centro. D’improvviso, entrato nel mirino della speculazione edilizia, è stato raccontato come la casbah dell’illegalità, della droga, del pericolo. Fioccano progetti di “rigenerazione urbana” (virgolette obbligatorie) che si traducono, in soldoni, in demolizioni a tappeto del patrimonio edilizio pubblico per affidare ai privati la ricostruzione di case di pregio. Ovviamente che fine facciano gli abitanti del quartiere non interessa a nessuno, si cerchino un posto dove andare, meglio se fuori città. Gentrificazione, si chiama questa operazione di pulizia etnica. E, vi assicuro, non c’è nulla di nuovo. Già sotto il fascismo, a Torino, Milano, Roma, Napoli, ecc., si è permesso che il capitale privato estraesse ricchezza dalla città pubblica, estromettendo gli strati popolari dalle zone di pregio e accrescendo una classe di piccoli proprietari da fidelizzare al regime.

Questo difetto intrinseco (l’interesse privato che vince su quello pubblico), questa attitudine al “particulare”, all’amichettismo, questo risolvere tutto “all’italiana” è la nostra malattia endemica, mai eradicata. La “Vienna rossa” socialista di inizio novecento ha prodotto una città dove ancora oggi circa l’ottanta per cento degli abitanti vive in case in affitto o sovvenzionate. A Milano è solo il venticinque per cento. In Italia siamo tutti proprietari. Perché quello che conta è ciò che è mio. Ciò che mio non è, non esiste.

Dove il bubbone purulento del turbocapitalismo poteva esplodere se non qui, nella città più europea d’Italia (così si vanta d’essere) ma anche la più italiana d’Europa (con tutti i difetti a traino)?

Le politiche urbane delle amministrazioni che si sono susseguite in questi ultimi trent’anni, di centrodestra come di centrosinistra, sono in perfetta continuità. Non importa in fondo quale colore politico governi la città. Si può cambiare la politica partitica, a Milano, ma non la politica urbanistica. Gli slogan identitari, giusto per dare una minima differenzazione agli schieramenti, sono orpelli sovrastrutturali. C’è chi batte il tamburo sulla sicurezza, sugli stranieri, sulla tradizione e allora è genericamente di destra. Chi invece sui diritti civili, sull’inclusività, sull’ecologia e diventa genericamente di sinistra. Ma nei fatti nessuno deve intaccare il nocciolo, cioè che è più importante il valore di scambio (la casa come affare) che il valore d’uso (la casa come diritto). I politici di ogni schieramento cercano i voti di chi va a votare. Non gli studenti, non gli extracomunitari, non gli abitanti dei quartieri popolari. Cercano di rabbonirsi i latori di “diritti ad esigibilità immediata”. I cittadini di media e piccola borghesia, mediamente istruita, mediamente proprietaria. A loro è stata regalata, vent’anni fa, la narrazione della città irta di grattacieli e modernità dove tutti potevano diventare influencer, per loro sono stati costruiti tutti gli edifici che hanno densificato fino allo stremo la città. Comprate casa nella “place to be” non perdete questa occasione, questo affare (in tutta Italia, durante la pandemia, solo a Milano il costo delle case ha continuato a crescere senza alcuna apparente logica), perché poi le metterete a reddito: affitti brevi, brevissimi, a studenti, a turisti. Fare soldi senza fare niente, vivere di rendita di posizione. Chi ha i soldi ne farà sempre più, chi non li ha non ha chance. L’ascensore sociale, che a Milano ha funzionato nel secolo scorso, è irrimediabilmente rotto.

Il dato di cronaca mi appassiona fino ad un certo punto. Ci penserà la magistratura a spiegarmi quanto di lecito e di illecito è stato fatto in questi anni. Ma è il milieu quello che mi interessa. Non discuto della qualità di molta architettura che è stata prodotta in questo quarto di secolo. Un rinnovamento urbano davvero unico, a tratti impressionante (il più grande cantiere d’Europa). Una sfida di queste dimensioni aveva bisogno di impreditori più evoluti rispetto al passato – una sorta di Ligresti 2.0 – attenti alle parole d’ordine (“rigenerazione”, “sostenibilità”, “smart city”), e di progettisti di vaglia, di levatura internazionale. Il coolness chiede qualità. Ma le modalità restano sempre le stesse. “All’italiana”.

La politica decisionista piace all’imprenditore pronto a investire in una città che gli fa spendere cifre risibili in oneri d’urbanizzazione. Ma il decisionismo è sempre scivoloso, nella patria dell’amichettismo. I bandi, i concorsi, le gare, sembrano inutili impedimenti per chi vuole fare tutto e in fretta. Meglio accordarsi, più o meno sottobanco, fra commissioni, giurie, giunte, ordini.

La “sinergia pubblico-privato” è solo una formula elegante. Da che mondo è mondo, il mercato non è interessato al bene pubblico, non ha il dovere di essere etico. A questo serve la politica. A non piegarsi, a non inginocchiarsi, alla logica del privato. Le intercettazioni e gli sms che leggiamo in questi giorni raccontano di un senso di impunità sistemico. Sarai pure bravo, smart, talentuoso, ma se le regole del gioco sono truccate non c’è partita, vincono sempre gli stessi del “cerchio magico” (per come la vedo io è ora di togliere la foglia di fico dell’anonimato nei concorsi e giocare a viso aperto senza infingimenti).

Il paesaggio, retrospettivamente, è quello che è: grandi opere, alcune spesso di valore, ma anche grandi occasioni sprecate di trasformazioni urbane capaci di adeguare la città ai cambiamenti globali. Un’idea di città disinterressata al bene comune, che cerca solo di essere competitiva, nessuna attenzione al verde se non accessoria e ornamentale (puro greenwashing), totale abbandono delle classi subalterne al loro destino, arricchimento di una parte della città a discapito della collettività (ospedali, piscine, stadio, luoghi di socialità). Homo homini lupus.

Milano ancora una volta ha dimostrato che in Italia per attuare un classico programma di privatizzazione di centrodestra, ci vuole una amministrazione di centrosinistra. I mal di pancia dei consiglieri di sinistra bastava sedarli con l’ennesimo gay pride, con i proclami d’inclusività o con lo spauracchio di “perdere Milano” a livello nazionale. Politica miope, destinata alla sconfitta alle prossime elezioni. Ma già intravedo il salto sul carro dei prossimi vincitori. Che tutto cambi affinché nulla cambi, “all’italiana”.

Io mi sento uno sconfitto. Ma non mi arrendo.

“Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”

(pubblicato in una versione leggermente più breve su Il Giorno il 19 luglio 2025)

La maledizione e la Gioconda

0
Iil santuario di Panagia Chozoviotissa
[Foto di Sebastiano Corti su Unsplash]

di Francesco Bertani

Durante l’agosto del 1911, un ladro entrò nel Louvre e rubò la Gioconda. Questo saggio narrativo esplora l’enigmatica figura dell’allora direttore del museo e rievoca un episodio della sua vita precedente, sospeso tra magia, archeologia e sospetti di contraffazione.

         La ragazza caricò le valigie sul tram giallo in partenza da Porta Palazzo e prima di sedersi accanto a un finestrino pensò ai baffi enormi di monsieur Théophile Homolle.
         Pensò a monsieur Homolle e lo immaginò nell’agosto del 1911. Lo immaginò nervoso, pallido nella vampa, il solo occhio buono appannato dalla nebbia, fermo dietro la porta, oltre la cui soglia poteva aspettarlo la rovina. Si chiese se già allora sentisse la mancanza dell’aria fresca sulla faccia e delle molte avventure della propria giovinezza, trascorsa a scavare reperti nelle isole dell’Egeo. Ma gli anni fin de siècle da archeologo di vaglia non erano che una memoria. Giusto il tempo di un lampo, ed ecco quell’agosto. Faceva forse molto caldo e monsieur Théophile Homolle – appena rientrato di corsa dalle vacanze estive – era il direttore del Louvre. Dall’altra parte della porta, c’era la stanza che ospitava la Gioconda. Dentro la stanza, nei giorni precedenti, s’era alternato un gran trambusto di politici e polizia. La Gioconda, dal suo canto, se n’era andata via. Le circostanze del furto, per il momento, risultavano ignote.
         Per l’arresto del ladro e la restituzione del quadro, si sarebbe dovuto attendere ancora un paio d’anni. Nel frattempo, la colpa del misfatto ricadde sulle spalle del direttore del Louvre, accusato di negligenza e di gestione approssimativa. Fu così che, da un giorno all’altro, monsieur Théophile Homolle divenne un bersaglio: le sfere del potere non sembravano disposte a riconoscergli crediti o attenuanti. Parecchi anni dopo quell’agosto, un importante storico avrebbe descritto Homolle come il capro espiatorio offerto dalla politica all’emozione delle masse: all’indomani del clamore suscitato dal colpo, occorreva guarire il trauma dell’opinione pubblica attraverso il sacrificio di un responsabile ideale. Colpito dalla scomunica della comunità parigina, monsieur Théophile Homolle fu costretto a ritirarsi. Si trattava della messa in scena di una maledizione collettiva. Nelle dinamiche del rito, l’innocenza della vittima era in fondo da sempre un fatto del tutto naturale.
         In tram lungo la notte serena e asciutta di Torino, la ragazza – che fin da piccola tendeva al ragionamento figurato – immaginava monsieur Théophile Homolle nei giorni successivi allo scandalo nei termini di un coriandolo in balia del temporale. Aitherion kinugma è un’espressione greca e vuol dire “ciondolo nell’aria”: come il Prometeo di Eschilo, sferzato dai venti di una punizione immeritata. La fronte appoggiata contro il gelo del finestrino, la ragazza si chiedeva come puoi tirare avanti, quando la trama della tua vita si smaglia: la giostra mostra la corda e all’improvviso non trovi più il tuo posto nel gioco. Pensò all’università lontana in cui per dieci anni aveva inseguito una carriera tra le pagine della letteratura greca. Rievocò il messaggio che la settimana precedente le aveva comunicato la rescissione del contratto di lavoro. E mentre la ragazza sentiva una biglia nella gola, il buio della notte abbracciava la città; i triangoli di luce disegnati dai lampioni parevano ritagli sul lato della carreggiata.
         Solo e appartato nella penombra del ritiro, monsieur Théophile Homolle prese a riempire i propri giorni coi fantasmi dei tempi in cui era stato più felice: i begli anni di scavo trascorsi tra Delo e Delfi, la lunga direzione – a cavallo tra i due secoli – della Scuola Francese d’Atene. Così qualcuno scrisse del suo lascito intellettuale:

molte sono le persone che a partire dalla sua eredità si impegneranno a perfezionarla. Senza dubbio, lamenteranno alcune lacune; alcuni segreti portati nella tomba. Ma questi rimpianti non varranno a sminuire l’omaggio dovuto alla grandezza d’un’opera che forse nessun altro avrebbe avuto l’audacia di tentare, né la gioia di portare a compimento.

         La Scuola Francese d’Atene era una prestigiosa istituzione accademica dalla bella sede nel cuore dell’Attica. Si occupava di dare impulso all’attività degli archeologi, agli studi di storia e di letteratura greca. Durante il proprio periodo da direttore della Scuola, monsieur Théophile Homolle aveva pubblicato numerosi articoli per comunicare le notizie degli scavi. Tra questi articoli, uno in particolare aveva sempre colpito la ragazza. La vita felice di monsieur Théophile Homolle e i segreti nella sua tomba le parevano accavallarsi tra le righe del pezzo all’interno di un intreccio dal tono complesso e misterioso. All’interno del contributo, Homolle pubblicava due antichi reperti scritti. Il titolo del pezzo era “Lamine di piombo con su iscritte maledizioni”.
         Per oltre mille anni, nel mondo greco e i suoi dintorni, se ti prendeva un attacco di febbre o venivi piantato in asso, se ti chiamavano in giudizio o ti rubavano il mantello; se perdevi un qualche affetto o il tuo commercio diceva male, allora potevi pensare che un rivale ti avesse lanciato il rito di maledizione noto come katadesmos. Una delle due lamine di piombo pubblicate da Théophile Homolle riportava il katadesmos scagliato da qualcuno un giorno contro un ladro e seduttore di nome Epafrodito.

    Signora Demetra, regina, io a te mi prostro, tuo supplice e tuo schiavo. Un certo Epafrodito ha adescato i miei schiavi; gli ha insegnato il male; li ha persuasi, consigliati e corrotti; ne ha goduto; li ha incitati ad andarsene in giro, li ha convinti a fuggire; ha incantato la ragazza per prendersela come sposa. Ha fatto tutto questo contro la mia volontà: per questa ragione lei se n’è scappata insieme a tutti gli altri.
    Signora Demetra, io soffro queste ingiustizie. Io, rimasto solo, mi rifugio nel tuo grembo. Fatti trovare benigna e fai che io trovi giustizia. Fai che il responsabile di questi mali che mi affliggono non trovi mai riposo, né fermo né in movimento, né nel corpo né nel cervello. Non ci siano per lui schiavi, né piccoli né grandi. Né, se inizia un’avventura, riesca a portarla a termine. La casa gli venga presa e trattenuta da un katadesmos. Né il bimbo gli vagisca. La sua tavola non sia lieta. Il cane non gli latri e il gallo non gli canti. Se semina, non raccolga […]. Né la terra né il mare gli portino alcun frutto. Che la sua testa non sia lieta e se ne vada alla malora, lui e insieme a lui tutto ciò che lo riguarda.

         La ragazza – che, come da una culla, ascoltava le ruote del tram giallo scivolare sui binari – amava un passo, in cui Platone parla di uno spirito magico che governa la regione sospesa tra la terra e il cielo. Secondo il filosofo, in questa regione di confine vivrebbero gli uomini demonici, ad esempio certi filosofi e i sacerdoti capaci di gettare ponti verticali e di costruire canali tra l’umano e il divino. Di alcuni tra questi sacerdoti, Platone diceva che erano “anime selvagge”: indovini itineranti al soldo di chiunque si mostrasse disposto a pagarli o desideroso di invitarli ai banchetti sacrificali. Per due monete d’argento, potevano imbastire ogni tipo di iniziazione, magari improvvisare una liturgia di purificazione oppure portare a termine il rito del katadesmos. Il più delle volte, questo rito avveniva di notte sulle tombe dei defunti. Prevedeva, tra l’altro, la recita di un canto e il sotterramento di una lettera di piombo. La lettera di piombo riportava le preghiere che i morti – spinti dalla forza degli indovini selvaggi – avrebbero dovuto consegnare alle divinità invocate, perché queste le trasformassero in fenomeni reali.
         Il katadesmos pubblicato da Théophile Homolle proveniva da Amorgos: un’isola di roccia bianca a pochi passi dalla costa turca, sospesa nel blu di un mare grande e silenzioso. La ragazza conosceva bene le atmosfere surreali dei sentieri deserti che percorrono Amorgos. Sull’isola, alcuni anni addietro, aveva infatti svolto una spedizione di ricerca per indagare i riti della magia antica. Durante un pomeriggio, mentre si arrampicava sul dorso di una salita, le voci del passato l’avevano raggiunta e lei si era dovuta stringere nella felpa per non tremare. Erano le voci degli incantesimi dell’isola, che la ragazza aveva studiato per prepararsi alla missione. Dietro ogni incantesimo si nascondeva una storia e a monte di ogni storia si trovava una sventura. Nell’aria, le sembrava risuonare ancora la paura che secoli prima aveva dettato l’esorcismo per scacciare Gello: lo spietato demone delle morti nella culla – “io ho una mano di ferro e strappo i bimbi via dal letto” – rinvenuto in un manoscritto del santuario di Panagia Chozoviotissa.
         Nel giugno del 1899, era stato un sacerdote ortodosso che – dopo aver scoperto il katadesmos di Epafrodito – ne aveva comunicato il testo a monsieur Théophile Homolle. D’altra parte, alla Scuola Francese il sacerdote era legato da un’amicizia ben consolidata. Dalla seconda metà dell’Ottocento, moltissimi archeologi d’oltralpe passati per Amorgos si erano detti beneficiati dalla sua “instancabile devozione”; alcuni di loro lo avevano descritto nei propri rendiconti restituendo un ritratto a tinte forti e variegate. Tombarolo, erudito padre spirituale, collezionista, il più onesto tra gli uomini, furfante e commerciante seduto sui pioli inferiori della scala antiquaria . Numerosi erano i toni che componevano il ritratto di una presenza che alla ragazza pareva quella di un enigma. Su internet, aveva ritrovato una foto ingiallita dal tempo. Nella foto, il sacerdote ammiccava con aria intelligente: una lunga barba bianca gli incorniciava lo sguardo, che nonostante il bianco e nero sembrava richiamare il cielo .
         Insieme al testo della maledizione, il sacerdote aveva inviato anche la trascrizione di un amuleto protettivo. In effetti, aveva considerato la ragazza, molti indizi indicavano che le “anime selvagge” responsabili dei riti esecratori vendessero pure rimedi per scacciare tutti i mali. Come per le maledizioni, anche in questo caso il rito imponeva spesso l’incisione di una preghiera sopra un foglio di metallo. Il foglio di metallo finiva poi in qualche tasca oppure portato al collo come un talismano della fortuna. Non di rado, per esorcizzare i mali, erano necessari veri e propri abracadabra. E i pericoli in agguato prendevano la forma di demoni o animali. “Aski kataski kataski, aasia endasia” era per esempio un incantesimo cretese, che poi andava avanti:

Epafo, Epafo, Epafo, e insieme vattene, vattene lupa! Vattene cane […]. Ala di falco, volo di colomba […], leocorno di chimera, unghia di leone, e poi anche lingua nella mascella di un leodrago. Non mi colpisca con un veleno […] né con una maledizione […] il distruttore di tutte le cose .

         Certo, trovare in un solo colpo unesorcismo e un katadesmos,per giunta appartenenti – su questo non c’erano dubbi – ad epoche differenti, era stata per il sacerdote una bella fortuna. Ma la fortuna maggiore era toccata a monsieur Homolle, che nel 1901 poté mettere insieme un articolo importante su un argomento che di recente era venuto all’ordine del giorno.
         Soltanto pochi anni prima, nel 1897, un giovane di punta dell’accademia tedesca aveva dato alle stampe la prima grande raccolta di maledizioni rituali. Fin da subito, l’argomento aveva alimentato un certo scandalo. Nella Grecia antica, si andava spesso alla ricerca di nobili radici per la cultura occidentale: pensarla contaminata da superstizioni magiche gettava ombre inquietanti su un mondo che si voleva immacolato. Ma da vero filelleno, monsieur Théophile Homolle non aveva certo paura del folklore. Tanto più che il katadesmos capitatogli tra le mani era forse il più lungo, il meglio leggibile, il più denso e romanzesco tra tutti quelli fino ad allora pubblicati. E sebbene di lì a poco qualcuno avrebbe messo in discussione il rigore delle trascrizioni effettuate dal sacerdote, la maledizione di Epafrodito ottenne senz’altro nei decenni il successo in cui spera qualsiasi editore.
         Quando la ragazza aveva iniziato il proprio dottorato di ricerca, il testo di Epafrodito rappresentava una vera pietra miliare. Tuttavia, quasi dal niente, si era aperto di recente un nuovo dibattito sull’autenticità della maledizione. Il fatto che nessuno – nemmeno monsieur Homolle – avesse, ad ogni buon conto, mai visto il documento; il fatto che nessun archivio sembrasse portare traccia delle lettere che monsieur Homolle dichiarava inviate dal sacerdote; il fatto che il testo del katadesmos ricordasse da vicino quello di alcune maledizioni già pubblicate dal giovane di punta dell’accademia tedesca; l’eco un po’ troppo forte di un famoso passo della letteratura e poi ancora qualche altra sbavatura… si era arrivati a sospettare che tutta quanta la faccenda non fosse che una messa in scena architettata da monsieur Théophile Homolle .
         La ragazza scaricò le valigie dal tram giallo che ripartiva lento per proseguire la propria corsa nell’ombra densa del viale. C’era un odore dolce che risaliva dal fiume giù in basso; alle spalle della ragazza, in un campo da calcetto, alcune giubbe catarifrangenti raccoglievano la luna. Come ai guerrieri greci partiti alla volta di Ilio, per rivedere casa le ci erano voluti dieci anni. Sulla soglia del rientro, le domande della ragazza non erano diverse da quelle degli eroi: “come troverò i miei genitori?”; “la cuccia del cane sarà ancora sotto il pergolato?”. Sentiva un movimento che le scuoteva il petto. Chiuse gli occhi e decise di prendersi ancora un po’ di tempo. Si avvicinò a un semaforo per attraversare la strada.
Poteva sembrare strano, ma nemmeno in quel momento la ragazza smetteva di pensare ai baffi di Théophile Homolle. Pensava alla simmetria barocca di una messa in scena allo specchio: quella architettata con ingegno dal direttore che avrebbe allestito il rinvenimento di una preziosa maledizione; quella celebrata dall’opinione pubblica che aveva sacrificato il direttore attraverso i meccanismi di una maledizione collettiva. Ma poi la ragazza aggrottò la fronte e scompose questo quadro. Gli argomenti chiamati a provare la falsità dell’artefatto non erano in fondo mai riusciti a convincerla del tutto. Alla fine, come sempre, la questione restava in dubbio. E lei si sentiva stanca delle trame che vanno a perdersi nel vuoto. Della storia raccontata dalla maledizione di Epafrodito, le piaceva un personaggio che nel testo restava quasi nascosto: la ragazza scappata di casa per seguire il proprio cuore incantato. Per molti versi, quelle righe della maledizione le ricordavano il brano di un’opera che a un certo punto parla di Elena in fuga dal marito Menelao. Secondo una versione del mito, Elena ad Ilio non ci sarebbe mai finita – sostituita nell’immagine da un aitherion eidolon: un pupazzo fatto di nubi.
Davanti al semaforo rosso, la ragazza pensò alla propria storia: così come era capitato a lei, la maggiore impresa degli achei si era rivelata l’inseguimento di un’immagine dell’aria. Smascherato l’inganno, si trattava di ricominciare.
La luce si fece verde. La ragazza attraversò la strada, si appoggiò al parapetto e alzò lo sguardo verso il cielo. Scintillante e sospesa nel velo duro della volta, la basilica di Superga sembrava un ciondolo nell’aria. In greco aitherion kinugma si dice delle cose che sono distanti e inafferrabili: proprio come Prometeo, o monsieur Théophile Homolle.

Nota biografica
Classe 1992, Francesco Bertani vive tra Parma e Bologna. Insegna lettere a scuola e si interessa di pianure, responsi oracolari e cultura popolare. Ha pubblicato un libro intitolato Poesia degli indovini selvaggi (Franz Steiner Verlag) sui rituali di maledizione magica nell’antica Grecia e diversi articoli a proposito di miti antichi (Pàtron editore), di antiche leggi sacre (Holzhausen Verlag), di antichi abracadabra (Fabrizio Serra) e di falsari (edizioni Dedalo). Di recente ha registrato il podcast Atlante del labirinto sulla storia della magia greca, disponibile su Spotify.