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La radice dell’inchiostro: Maria Grazia Calandrone

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NOTA INTRODUTTIVA

Ketty La Rocca, Le mie parole e tu?, 1971

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

 

MARIA GRAZIA CALANDRONE

Chiunque dovunque

 

Lo scrivere che porto «avanti» – o meglio, che porto «dentro»: le cose e, spero, l’integrale umano – vuole decifrare le cose e, sì, con Deleuze, farle riscaturire dall’origine. La poesia non è il fine ma il mezzo: è la chiave, l’attrezzo, la pala (la falce) e il martello col quale scavo, mozzo e rompo il guscio, cioè la convenzione, di quella che chiamiamo realtà e che, naturalmente, non esiste.

Di certo esistono gli oggetti in sé, sarebbe insolente negarlo, ma non esiste un modo collettivo di guardarli. Neanche il mezzo più obiettivo, così obiettivo da denominare se stesso obiettivo (la fotografia), restituisce la realtà di niente. Ciò che vediamo è solo ciò che vediamo noi, individui fissati in un unico e irripetibile momento della nostra vita. Anche questo vedere, naturalmente, cambia. La poesia è forse un piccolo nodo nel tessuto di questo fluire e fluttuare continuo, casuale e pressoché incontrollabile, di esistenza. Un’esistenza enorme, che ci attraversa. Viene il mal di mare, a pensarci. O viene il sorriso dell’idiota dostoevskiano. Che è ciò cui ambisco.

Poetando, ci si ferma un momento e si fa il punto, non tanto della situazione, quanto il punto di quanto è nascosto sotto la situazione. La poesia fa il punto sull’invisibile. Una piccola curva spaziotemporale, una spiegazzatura nella trama che ci prescinde, uno strappo infinitesimale attraverso il quale osserviamo l’infinitissimo nulla, il vuoto che sta sotto e dentro qualsiasi costruzione umana e naturale.

La fisica illustra che la materia è vuoto, che la solidità sulla quale poggiamo i nostri apparentemente solidi piedi è costituita esclusivamente dal movimento delle particelle, dunque dalla relazione tra esse. La materia è relazione, inclusa la materia dei nostri corpi. Senza la relazione, non esiste che vuoto.

Anche noi, senza gli altri, non esistiamo. In questi mesi di clausura forzata abbiamo sperimentato la nostra inesistenza. Io, per esempio (io chi?), ho incontrato il gigantesco (ma discreto, devo riconoscere) fantasma di mia madre. A tal punto non esistiamo, senza gli altri, che, in assenza di corpi contemporanei, ci mettiamo a parlare coi fantasmi.

La poesia è anche questo parlare con chi non esiste e con quanto non esiste, per costringerlo a rivelare il proprio nucleo caldo, la propria sopravvivenza nella comune umana, la propria disperata vitalità, la voglia che hanno i morti di vivere ancora (cioè la voglia che abbiamo noi che i morti vivano ancora), che sopravvive come energia e anch’essa ci attraversa e percorre. Siamo attraversati e percorsi dal desiderio che niente finisca. Questo malinconico grido di eternità è la poesia. Un grido tanto più bello e valoroso perché consapevole della propria inutilità. La sua utilità consiste nel gesto di farlo. L’utilità della poesia sta nell’essere fatta. Pensata, plasmata. Questo gesto disperato di scavalcamento della morte accomuna chiunque dovunque.

La poesia che limita se stessa a mera descrizione delle cose si contenta di poco, si sostiene con mezzi di superficie, ci lascia a passeggiare nel mondo (ameno, benché orribile) delle apparenze, non ci toglie la terra sotto i piedi, non ci annienta, non ci nullifica, non ci fa precipitare in apnea dove le cose non esistono più. Dove, tanto meno, esistiamo noi. Questa visione del mondo è insostenibile e rasserenante.

La poesia è essa stessa purissimo vuoto, col punto rosso al centro della musica della relazione, che il nostro stesso corpo riconosce, per simpatia e istinto molecolare. Quella musica è nata contemporaneamente all’invenzione della materia. All’origine di tutto, probabilmente il caso, il quale ha mosso qualcosa che, chi sa perché, aveva avuto volontà di esistere, insieme a un piccolo gruppo di divinità inventate. Il caso, il vuoto, il non sapere, la febbre dell’indagine. Quando – in rari momenti – riusciamo a percepire il suono microscopico ed enorme della relazione, posta al centro del vuoto della materia, abbiamo accostato l’orecchio a quello che stamattina intendo per poesia.

 

Maria Grazia Calandrone,

settembre 2020

 

Per consultare tutti gli interventi del questionario:

LA RADICE DELL’INCHIOSTRO: TAVOLA DEGLI INTERVENTI

Il cielo amaranto sopra San Francisco

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di Sara Marinelli

9 settembre 2020

   Se non sei a distanza ravvicinata dalle fiamme e non stai pensando a dove fuggire per salvarti la vita in queste giornate di fuoco che sta consumando la costa occidentale degli Stati Uniti, hai un’altra cosa a cui pensare: come tirare fuori da dentro tutto stesso la forza di convivere, o sopravvivere, con un’altra dura prova di esistenza sulla terra nell’anno della pandemia. Quando una mattina di settembre ti svegli alle 7:30 ed è come se fosse ancora notte, e la tua casa è avvolta in un buio pesto ancora molto lontano dall’annunciare il giorno. Quando una mattina di settembre la luce perversa che filtra dalle tende ti sembra invece giunta ad annunciare una fine.

L’hanno visto in tutto il mondo questo cielo amaranto. Le fotografie del 9 settembre a San Francisco, del suo skyline, dei suoi ponti, dei suoi grattacieli e palazzi ammantati di rosso e arancio, hanno fatto il giro del globo in tempo reale sui social, la stampa e i telegiornali. L’hanno paragonato al paesaggio futuristico di “Blade Runner”, hanno citato “Apocalypse Now”, “The Day After” e altro, insomma tutto l’immaginario surreale e distopico del cinema e della letteratura divenuto di colpo realtà. A me, DJ per passione in una stazione radiofonica della città, sono venute in mente tante canzoni da farci una playlist a tema, da “Si è spento il sole” a “Cupe vampe”, da “L’aridità dell’aria” a “Cieli neri”, e anche “Il cielo è sempre più blu”[1]— quest’ultima così, per sdrammatizzare. Un istinto di sopravvivenza dello spirito. Un bisogno di commentare a modo mio questa circostanza straordinaria che mi chiedo se diventerà — anche questa — la “nuova normalità”.

Le ho ammirate anch’io le centinaia di foto impressionanti e sensazionali, spaventose e affascinanti che girano in rete, materiale prezioso per ricevere cuoricini e faccine dalla bocca spalancata sui social. C’è chi avrebbe voluto essere qua per poterlo scrutare di persona questo cielo fenomenale, per poter dire di aver vissuto questa giornata memorabile da apocalisse e fine del mondo.
Io c’ero. Sono ancora qua. La frase che conta più di tutto di questi tempi. Quella che dici a te stessa quando la stai scampando un’altra volta, quando in realtà non sai bene dove poter stare perché non hai più molta scelta, perché il virus o il fuoco stanno scegliendo per te.
Io c’ero.
Questo è il mio diario di un giorno dal cielo amaranto sopra la città.

 

9 settembre 2020

 

Le 7:40, ma mi pare impossibile, è tutto buio, meglio continuare a dormire, meglio ancora non sapere. Perché svegliarsi se il mattino tarda ad arrivare?

Le 8:30, qualcosa non quadra, ancora tenebre. Svogliatamente lascio le lenzuola; i pochi metri dal letto alla finestra sono un breve viaggio alla scoperta del mistero di questa luce sinistra. Scosto la tenda e un brivido mi attraversa la schiena. Un drappo di cielo amaranto si stacca dai tetti delle case davanti a me. Silenzio inconsueto intorno, come se il quartiere avesse il fiato sospeso o semplicemente non sapesse più che dire, proprio come me. Richiudo la tenda, l’oscurità e la quiete intorno mi danno il permesso di tornarmene a letto; non so che fare. Dal letto guardo il buio gli con occhi sbarrati, in realtà non so a cosa sto pensando. A cosa pensa le mente quando è improvvisamente sotto shock?

Le 9:10, dò un calcio alle lenzuola, mi alzo convinta — qui bisogna capire che cazzo succede. Apro tutte le tende, le finestre: ancora tenebre. Odio accendere la luce al mattino, ma è ciò che dovrei fare se almeno voglio centrare il caffè nell’imbuto. Il caffè mi desterà da questo strano incanto. Ma no, è impossibile non restare imbambolati davanti alla finestra. Poi esco sulla scala antincendio e mi alzo in punta di piedi per vedere quanto più lembo di cielo possibile oltre gli alberi e le case. Ma dove è finito il sole? Non so per quanto tempo resto braccata nel mio stupore mentre l’amaranto degrada in un arancio forte e vivo, una specie di tramonto lentissimo, o meglio statico, paralizzato nel mezzo del suo viaggio. È uno di quei paesaggi in cui il solo atto del guardare non ti basta.
Mi infilo la camicia da notte nei jeans, prendo il telefono, la N95, ed esco di casa.

Le 11:15, fuori tutto cambia, uno sconvolgimento dei sensi. A ogni passo mi viene incontro una specie di mare solido senza orizzonte. L’arancione inonda le strade, le macchine, Dolores park e i suoi alberi, la sua collina, e la gente abbarbicata in cima. Ci salgo anch’io lassù, fermandomi sul punto più alto per vedere l’intero skyline della città. Noto subito che posso respirare aria non (ancora) tossica, e non mi sento in pericolo. Mi sento in sospeso; come in ipnosi, in attesa di qualcosa che si manifesti ancor più risolutamente o che invece svanisca del tutto. Guardo la gente intorno ferma anch’essa a guardare dal punto più alto, nessuno dice una parola. Il suono distinto e intermittente del “fog horn” della città — il corno che annuncia la nebbia fitta sulla baia — interrompe il silenzio. Ma questa non è nebbia, non è neanche fumo; è un’entità gassosa a me sconosciuta, dopo forse il dio internet me lo saprà spiegare. Ributtarsi in uno schermo per ora può aspettare, è uno di quei momenti in cui devi esserci fino in fondo. Eppure mi chiedo come proseguire la giornata, una giornata che invocherebbe al nulla, a premere il tasto pausa. Se “si è spento il sole”, allora per un giorno spengo tutto anch’io. Infatti non ho voglia di fare niente, anche se ho lezioni da preparare, del lavoro da finire entro domani.
Mi incammino su per le salite, percorro altre strade del mio quartiere, il rumore del poco traffico è smorzato come fosse sott’acqua; i lampioni sono tutti accesi, i fari delle macchine scintillano al passaggio, lasciando brevi scie luminose davanti a sé. Faccio tante foto, ma nessuna riesce a catturare il cielo, che non sta sopra le cose ma dentro.
La bellezza che s’infiltra adagio nel mio scoramento mi sembra sbagliata.

Le 13:30, torno a casa. Di nuovo tutto buio. Di nuovo, mi faccio forza per decidere cosa fare del giorno. Intanto accendo la luce, poi il computer. Quanti video e quante foto più stupefacenti delle mie, quanti occhi puntati su tutti i quartieri della città: Haight, Castro, SOMA e il downtown, il Golden Gate, e Ocean Beach. L’esperienza collettiva rende tutto più reale. Molti scatti mostrano tracce di cenere sulle automobili che io non ho notato. Apro la finestra, e adesso la vedo anch’io questa polvere grigia sottilissima sulle piante e sulla ringhiera.
A questo punto mi viene l’ansia. Consulto nervosamente tutti i siti memorizzati su internet e nella mia testa che mappano gli incendi boschivi e monitorano la qualità dell’aria. Uno si chiama addirittura “purple air — aria viola — ossia il colore che indica il livello più alto di inquinamento, l’indice di qualità dell’aria (AQI) tra 400 e 500. In pochi secondi, la mappa della costa occidentale, dalla California all’Oregon al Washington, si popola di una miriade di macchie purpuree, cremisi, rosse, che si animano proprio come fiamme al passaggio del cursore sullo schermo. Clicco su ogni fiammella; se vado giù con lo zoom riesco anche a distinguere le aree forestali simboleggiate da file di alberelli verdi che sembrano alberi di natale, e me le vedo davanti le distese di conifere, le sequoie, i parchi nazionali, la flora selvaggia, tutto di quanto più prezioso ci sia in questo pease. Ettari su ettari di boschi e foreste andati in fumo. Sento una fitta allo stomaco leggendo i nomi dei luoghi a me noti, le contee e i parchi nazionali che ho visitato: Mendocino, Yosemite, la Sierra National Forest — territori di sequoie maestose e fiumi verde smeraldo. Mi dirigo col mouse verso le cittadine dell’Oregon, a nord di Ashland: Salem, Eugene, fino alla periferia di Portland, e poi fin su allo Stato del Washington. Le fiammelle pulsano dappertutto.
Sento la stessa frenesia che si è impossessata di me agli inizi della pandemia: il monitoraggio ossessivo di mappe, numeri e dati, stavolta non relativi al Covid ma alla qualità dell’aria: moderate, unhealthy, very unhealthy, hazardous. Ricarico le pagine internet ogni mezz’ora con la speranza, come è stato per le cifre dei contagi, che i numeri si abbassino. Invece no, i valori si stanno alzando a vista d’occhio.
Anche quelli del mio stress.
Ci mancava anche questa; eppure lo sapevamo che quest’inferno sarebbe arrivato, lo sappiamo che il pianeta è una sfera rovente, lo sappiamo che l’ordigno è stato già innescato.

Quando mi sembrava di aver acquistato una routine di convivenza col virus — le mascherine, la distanza, il telelavoro — interrotta occasionalmente da sprazzi di vita sociale all’aperto, o da gite in quella natura che adesso sta bruciando; quando mi illudevo di abbandonarmi al mito italiano del ricominciare tutto a settembre, ecco un’ulteriore prova del fuoco (è il caso di dire) da superare; un altro fenomeno — naturale? — che ci toglie la libertà di respirare. “ll soffio del vento, che un tempo portava il polline al fiore, ora porta spavento, spavento e dolore” dice Brunori Sas in una sua canzone.[2]

Le 15:00, il cielo si tiene intatto, cristallizzato nel suo arancione. Dovrei lavorare, domani insegno tutto il giorno. Chiudo le tende per far finta che sia tutto normale, silenzio il telefono e le conversazioni e le battute sull’apocalisse e Blade Runner e che sembra di stare in un film. Trovo la mia stoica concentrazione quando so quanto tempo destinarle, quando so che dopo tornerò a farmi ipnotizzare dalle sfumature di colore, a caricare e ricaricare le mappe sui mie schermi, a tormentarmi sui numeri e su quello che accadrà. A chiedermi se questo stato d’eccezione durerà per sempre.

Le 17:30, no dai che non durerà per sempre. Adesso l’arancio è leggermente sbiadito agli orli, come un acquerello. Un sentore di movimento. Riprendo le conversazioni al telefono, i messaggini e i Whatsapp con gli amici qui che sanno e con quelli lontani che vorrebbero sapere e vedere coi loro occhi questo scenario da film. Con un amico commentiamo l’aspetto esilarante di quest’astrazione nel cielo, la vertigine di essere vicini al pericolo; mi sento quasi in colpa: è il privilegio di non essere in prossimità diretta con le fiamme a parlare, è l’adrenalina pura che mi gira nel sangue, che mi mette in circolo un’energia strana, come se in questo cielo mi ci volessi tuffare, afferrarlo tra le mani per poterlo interrogare. Sono al tempo stesso su di giri e giù di morale. Poi capisco che, nei mesi della pandemia, con le sue minacce e le sue incertezze, questa mia non è un’esaltazione spensierata, ma quella di chi se l’è scansata ancora una volta; quella di essere vivi in un altro giorno che ti ha presentato la sfida della sopravvivenza, e ti ha costretto nuovamente a tenere a bada le tue ansie, a rivalutare il tuo posto e il tuo ruolo sulla terra, a vedere oltre te stesso.

Le 19:30, l’intensità dell’arancione si è placata nel giallo. La bellezza che prima affiorava in quest’anomalia adesso è sparita, sostituita da una luce giallognola stupida e banale, ma che stranamente oppone resistenza all’arrivo della sera, della fine di un giorno difficile da dimenticare.
Riprendo a leggere le notizie, zoomare sulle mappe; a malapena mi ricordo di cenare. I fronti dei diversi fuochi avanzano dappertutto, si teme per le cittadine a nord di Los Angeles, per la periferia sud di Portland, per il mezzo milione di evacuati, per la pioggia che non cadrà, per questa stagione delle fiamme che potrebbe durare fino a dicembre.

Intanto si fa notte, e dovrei andare a dormire; ma l’adrenalina è ancora in circolo e mi tiene sveglia. Non sappiamo che colore sarà il cielo al risveglio domani; quanti incendi saranno stati domati, quanti continueranno a bruciare, quanta fuliggine coprirà le cose, quanta si addenserà nell’aria. L’AQI sul telefono dice 173, unhealthy. I geni delle previsioni annunciano che nei prossimi giorni, per un periodo non specificato, i valori raggiungeranno i 400.
Forse il cielo amaranto-arancione di oggi allora davvero era sublime; un’ultima sferzata di paurosa bellezza prima dei giorni stinti e polverosi che ci aspettano.
Frammenti di canzoni continuano a balenarmi nella testa, mi vengono in mente solo quelle che alludono alla fine: “e poco a poco ci dissolveremo…, al tramonto di tutto potremo capire”[3]; quelle che non so se passerò in radio, ma che adesso si conciliano col mio umore:

E il vento d’estate che viene dal mare
Intonerà un canto fra mille rovine
Fra le macerie delle città
Fra case e palazzi, che lento il tempo sgretolerà
Fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo
Ma noi non ci saremo, noi non ci saremo[4]

Le canzoni che avevano già previsto e immaginato il futuro, sì proprio come Blade Runner e altre distopie, ma senza effetti speciali e filtri cromatici; quelle che hanno cercato di dirci anzitempo, con dolcezza o poetica crudeltà, che su questa terra non ci siamo solamente noi, che non da tutte le fini si potrà ricominciare

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[1] “Si è spento il sole” (nella versione di Vinicio Capossela); “Cupe vampe” (C.S.I.); “L’aridità dell’aria” (Cristina Donà); “Cieli neri” (Bluvertigo); “Il cielo è sempre più blu” (Rino Gaetano).

[2] Brunori Sas, “Al di là dell’amore”.

[3] Cosmo, “Le cose più rare”.

[4] Francesco Guccini, “Noi non ci saremo”.

 

NdR: la prima e la quarta fotografia sono di Federico Perazzi, le due centrali dell’autrice, Sara Marinelli

Dalla disfavola al fuoco

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di Romano A. Fiocchi

Kaha Mohamed Aden, Dalmar. La disfavola degli elefanti, 2019, edizioni unicopli.

Marco Rovelli, La parte del fuoco, 2020, TerraRossa Edizioni.

Ci sono libri che càpitano in mano casualmente e casualmente si legano tra loro. Fanno “clic”, come dice Rovelli, e si incastrano l’uno nell’altro. Due autori diversi per cultura, due case editrici entrambe piccole ma diverse per impostazione editoriale, due storie che usano poetiche e linguaggi differenti, eppure due libri che collimano e si completano uno con l’altro quasi portassero impresso lo stesso marchio: la diversità. Sono convinto che se Kaha Mohamed Aden leggesse Marco Rovelli e viceversa, entrambi riconoscerebbero questo punto in comune.

Sono due libri che proiettano il lettore in un mondo di simboli. La Aden evoca gli orrori della guerra civile somala dei primi anni Novanta attraverso una favola dai toni duri, per adulti, con spiriti di animali morti in modo drammatico che chiedono giustizia, che non hanno pace finché la loro storia non viene alla luce. Lo fa partendo da una storia di migrazione: la fuga di un branco di elefanti dalla minaccia di una guerra e il loro approdo su un’isola abitata solo da orsi e api che si sono spartiti rigidamente il territorio. È una favola della memoria, una disfavola appunto, nell’accezione utopia-distopia favola-disfavola. Gli spiriti degli animali che popolano la foresta non hanno nulla di ecologista o di animalista, è tutta una metafora delle lotte per il potere, un po’ come nella orwelliana Fattoria degli animali. E anche gli spiriti “intrappolati in questo ginepraio di foresta” non sono concepiti come singoli fantasmi ma come l’insieme degli ultimi sentimenti espressi da tutti gli animali assassinati, una massa indistinta di pura rabbia rimasta in sospeso e che da tempo attende di essere liberata. L’allusione ai massacri somali tra i clan Hawiye e Darood è evidente. Altrettanto evidente è lo scopo del libro, che è poi lo stesso della foresta: “La foresta si limita a ospitare la rabbia che non aspetta altro di essere recepita nella storia dopo che si è riconosciuto, semmai c’è stato, il torto che l’ha creata”.

La Storia diventa allora disfavola, le metafore si accavallano in continuo, si fanno, come ho detto, parodie del mondo umano. Ci sono i giri d’affari della guerra, le armi leggere, le armi letali, i Fabbricatori dell’ordine mentale, il tutto narrato – per quanto la Aden scriva e parli perfettamente l’italiano – attraverso un linguaggio permeato di invenzioni semantiche, di frasi idiomatiche e modi di dire attinti dal linguaggio familiare e utilizzati senza che siano aderenti alle caratteristiche morfologiche dell’animale-personaggio (ad esempio l’ape regina che schiocca le dita). Ne nasce una prosa con forme e costrutti che sembrano non appartenerci e che l’editore ha deciso di lasciare così come sono – salvo alcuni interventi per esigenze di maggior chiarezza – proprio per mantenere “il profumo dell’Africa”.

Con Rovelli siamo invece in un’altra dimensione: mentre la Aden abbandona la cultura del Paese di adozione per lasciarsi guidare dal suo istinto africano – sicuramente più vicino alla natura – e si immedesima nello spirito di elefanti e orsi umanizzati, Rovelli si spoglia dei suoi pregiudizi di occidentale per vestire i panni di un immigrato africano e di una ragazza psichiatrica. Altro parallelo: come l’elefantino Dalmar della Aden stringe amicizia con l’orsetta Dritta, così l’immigrato clandestino di Rovelli, Karim, stringe amicizia con la giovane e benestante Elsa.

Ma anche Rovelli resta fedele al suo stile, mantiene il linguaggio del suo essere poeta e cantautore e alterna dialoghi di parlato che sembrano tratti da una sceneggiatura con passi di pura poesia: “Il tempo si mostra qui, nella sua assenza. E tu che guardi sei puro guardare”. Sino a includere brani musicali come testi di canzoni: “Scendete ancora, giù per il sentiero che dal castello arriva al mare, scendete quasi inerti, come minerali che scivolano perpendicolari al sole, che scivolano in basso per sfidarlo, a raccogliere la sfida dell’incandescenza, che i minerali trattengono presso di sé, racchiudendola senza sprigionarla, conservandola per l’eternità. Siete pietre nere, racchiuse nell’attesa, l’attesa dell’incandescenza, e l’incandescenza non attende niente. Poi vi sciogliete in fuoco, o forse metterete radici e vi distenderete in terra, o germinerete in vermi e butterete bellezza come un cadavere il grasso, ma non sarete acqua, questo no, non potrete mai essere acqua”.

C’è molta introspezione psicologica, un’analisi attenta sia delle fobie di Elsa, nate proprio dal suo ambiente familiare trincerato dietro la solidità economica (“Vivere in una fortezza fa crescere nella paura. E la paura produce una percezione del mondo diversa”), sia della saggezza di Karim, intriso di una visione filosofica che non è data solo dalle drammatiche esperienze di vita ma anche dalla sua cultura: Karim legge libri, cita Nagib Mahfuz e San Paolo, è un diverso tra i diversi, un immigrato speciale, di quelli che Elsa vorrebbe al posto di tanta gente che non è immigrata. Karim ha fiducia negli altri e ispira fiducia, è di una gentilezza che più nessuno conosce. Per questo Karim e Elsa sono così vicini, due facce della stessa medaglia. Entrambi vogliono le stesse cose, ossia giustizia, libertà, uguaglianza, un mondo migliore, fatto di persone vere. Elsa ne ha la netta percezione quando raggiunge Karim in Puglia, sceso per la raccolta dei pomodori: “Tutta questa campagna intorno è libertà, (Elsa) vede persone e non maschere, e non le importa se è una sua illusione, l’ennesima visione”.

Trappola per lupi

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di Bruno Vallepiano

Isola di Kornati – Croazia – Luglio 2019

Sdraiato su un materassino giallo, con la schiena arsa dal sole e il viso immerso nell’acqua limpida stavo guardavo, annoiato, una miriade di minuscoli pesci che sfrecciavano sotto di me. Giocavo a quanto resistevo senza prendere fiato.
Il bagliore del sole spalmato sulla superficie dell’acqua ne esaltava il turchese e scendeva a riflettersi in tremolanti spicchi arcobaleno sui sassi bianchi distesi sul fondale. Ogni tanto, sollevavo lo sguardo verso la spiaggia semideserta cercando la macchia blu dell’asciugamano sul quale era distesa Ceci. Il bambino era accanto a lei e trafficava con la sabbia e con alcuni cubi di plastica colorata. Erano al centro della piccola caletta isolata, protetta su due lati dagli scogli e alle spalle da una fitta macchia mediterranea che finiva poi nell’ampia pineta di Beritnica. Poco più lontano si innalzava la torre di pietra di Stogaj dove nei giorni passati ero andato più volte ad arrampicare. Il nostro bimbo, Idris, era diventato, come Cecilia, bello e abbronzato, e sembrava davvero felice. Bastava guardarlo per capire che stava bene.
Gli avevamo affibbiato, con buona pace dei parenti, il nome di battaglia di uno zio partigiano ucciso dai nazisti.
Da tre settimane eravamo in pieno relax sulla spiaggia di Metajna. A dire il vero avevamo fatto delle puntatine verso l’interno girando, a volte, senza una meta precisa, altre invece puntando verso città da visitare, ma sempre senza imporci orari o tempi. Quando eravamo stufi di una cosa ci bastava un’occhiata e cambiavamo direzione, andando a fare altro.
Da un paio di giorni, però, Ceci manifestava una certa inquietudine e avevo capito che ormai era giunto il momento di puntare la prua verso casa, perché quella specie di Eden nel quale avevamo vissuto cominciava a sbiadire e sarebbe stato davvero un peccato inquinare la piacevolezza di quei momenti, con la noia e lo scazzo, che presto sarebbero stati in agguato, se avessimo forzato ancora la nostra permanenza lontani dalla vita di sempre.

Dopo molti giorni, erano tornati, nei nostri discorsi, pensieri rivolti alla nuova casa, o meglio quella che sarebbe diventata, da lì a un po’, la nostra nuova casa, ancora tutta all’aria. Erano riaffiorati i ricordi delle passeggiate nei boschi che sovrastano Gariola, delle nostre lunghe serate passate a chiacchierare con i nostri amici Paolo e Clotilde nel cortile della loro cascina, ormai lanciata come B&B, con turisti tedeschi ed olandesi che si avvicendavano nelle camere e ad abbuffarsi con le crostate e le altre golosità gastronomiche che Clotilde cucinava per loro. Addirittura, era comparsa la voglia di una serata a Cuneo, con gelato da Arione e passeggiata sotto i portici.

Era ora di tornare a casa. Che per il momento era ancora il piccolo alloggio di Ceci, diventato ancora più piccolo con l’arrivo del terzo incomodo e di un mucchio di cose affastellate ovunque.

Per questo avevamo iniziato a pensare ad una casa vera. In un primo tempo avevamo adocchiato un rustico a Gariola, visitato su suggerimento di Paolo. Sembrava fosse in vendita ad un prezzo abbordabile, ma quando il proprietario ci aveva visti interessati all’acquisto aveva cominciato a fare il difficile e la cifra iniziale era lievitata, così non avevamo concluso nulla, anche perché l’ultima volta che lo avevamo incontrato gli avevo detto, neppure troppo velatamente, che non mi piaceva essere preso per i fondelli.
Infatti, quando mi aveva identificato come “quello visto diverse volte sui giornali” a seguito del mio coinvolgimento in casi polizieschi che, quasi mio malgrado, avevo contribuito a risolvere, si era persuaso che grondassi soldi e quindi pensava di poter lucrare. Così la sua casa era rimasta a farsi divorare dall’edera e dalle ortiche. Peccato, perché mi sarebbe piaciuta.
La seconda opportunità era stata un altro rustico ma situato un po’ fuori paese, in direzione della vecchia miniera e, a prima vista, decisamente malmesso: il tetto era parzialmente sfondato, i serramenti marci e tutto intorno era cresciuta talmente tanta vegetazione da impedirne una vista d’insieme. Il proprietario era sembrato piuttosto deciso a liberarsene. Lui risiedeva fuori paese da molto tempo e non gli interessava più tenerla, inoltre non vedeva l’ora di finirla con le tasse che, nonostante tutto, doveva pagare. Ci aveva raccontato che gliel’avevano richiesta alcuni costruttori con l’intenzione di abbatterla e costruire al suo posto un condominio, ma la cosa non gli garbava. Per principio, diceva, non gliel’aveva venduta. Era la casa nella quale era nato e sapere che noi avremmo avuto intenzione di ristrutturarla mantenendola il più possibile fedele al progetto originale, era una soluzione che lo tranquillizzava maggiormente. Così aveva ingaggiato un boscaiolo e aveva fatto ripulire il terreno tutto intorno al vecchio edificio, estirpando rovi e alberi, e la casa, magicamente, era riapparsa. I muri erano solidi e sani ed era meno peggio di quanto ci fosse apparsa in un primo tempo. Per acquistarla avevo venduto il mio alloggio di Mondovì ed era iniziata la nostra avventura, ma la ristrutturazione era lenta e costosa ed io e Ceci dovevamo tenere a freno la nostra voglia di trasferirci, pur sperando che questo potesse avvenire prima dell’inverno.
Avevo quindi interrotto il mio improvvisato snorkeling, mi ero spinto a riva con questi pensieri in mente e avevo raggiunto Ceci e Idris sdraiandomi sul telo accanto a loro. Lui mi aveva mostrato orgoglioso il piccolo buco che aveva fatto nella sabbia dove aveva riposto alcuni cubetti di plastica e Ceci di era voltata verso di me e mi aveva baciato.
«Pensavo alla nostra nuova casa. Chissà se a quest’ora avranno finito di mettere su il tetto.»
«Anch’io mi domandavo la stessa cosa…»
Ci eravamo guardati per un attimo, poi le avevo chiesto «Torniamo?».
«Non osavo chiedertelo…»

 

NdR: questo è il primo capitolo di “Trappola per lupi”, di Bruno Vallepiano, pubblicato recentemente da Golem Edizioni, nella collana “Le Vespe”

Marco Giovenale: Le carte della casa

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«sa come funziona il movimento di annottare.

il magenta-blu che è negli sterri negli sbancamenti delle

vigne, dove è morta per trent’anni.»

 

Le carte della casa di Marco Giovenale è l’ottavo libro dei Cervi Volanti, la collana che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autore. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

 

NOTA DELL’AUTORE

Questo piccolo gruppo di testi è in tutto e per tutto un addendum al libro La casa esposta, uscito nel 2007. E nello stesso tempo lo precede, perché è costituito da foglietti accartocciati letteralmente nell’epicentro del caos-scasamento vissuto negli anni 2005 e 2006 (tempo che porta alla Casa esposta).

Nasce quindi direttamente come plaquette. Impossibile da accorpare ad una struttura più ampia. E tuttavia non in tutto disgiungibile da questa. I materiali sono handwritten, ossia non cut-ups né oggetti trovati. Come al solito, l’ispirazione non c’entra, sì la dissipazione, e anche qualche punta di disperazione, si può dire.

Alcune strutture elencative, così come – al contrario – certi meccanismi grafici o sintattici di sgretolamento testuale, potrebbero suggerire una riflessione sulla loro natura di possibili didascalie del disastro, vissuto abbandonando una dimora che in verità era pressoché una collezione di nonluoghi, hangar, un aeroporto, una città, una fabbrica di fabbriche. Però forse vale qui, semmai, una specie di contorta formula documentaria, o diario, probabilmente qualcosa che si avvicina al Ponge del “periodo che annuncia la primavera”. Senza primavera.

 

 

Marco Giovenale è inciampato nell’essere più di mezzo secolo fa, poi a fine anni Ottanta e poco oltre ha sondato alcuni percorsi politico-culturali di estrema sinistra; dopo, per quasi dieci anni (i Novanta), si è opportunamente tenuto lontano dall’ambiente romano della poesia; poesia che gli spiaceva perché llorona o sottoboschiva (o entrambe). Dopo il servizio civile si è laureato assai fuori corso in Letteratura italiana moderna e contemporanea (cattedra di Walter Pedullà), con una tesi su Roberto Roversi. Ha vissuto brevemente a Firenze, saltuariamente a Bologna: torna in queste due città (e in una terza) tutte le volte che può.

In dialogo con Nanni Balestrini, ha curato l’edizione 2005 di RomaPoesia. È stato tra i fondatori – e tutt’ora è redattore – di gammm.org (2006). È redattore e collaboratore di spazi web e cartacei italiani e anglofoni. Lavora come curatore indipendente, lettore per case editrici e singoli autori; è (stato?) traduttore dall’inglese. Ha diligentemente svolto per dieci anni il mestiere di libraio, ogni tanto ci ricasca; mentre in tempi più remoti  (i Novanta di cui sopra) ha lavorato in un centro di assistenza per rifugiati politici.

Tiene corsi di storia della poesia di secondo Novecento e delle scritture contemporanee, come docente indipendente (tre anni presso l’Upter, anche, sempre a Roma). Svolge attività per il Centro di poesia e scritture contemporanee che nel 2018-19 ha contribuito a fondare. Dal 2013 cura la collana SYN – scritture di ricerca per le edizioni IkonaLíber.

Il suo ‘primo’ libro di versi, Curvature, a due mani con la fotografa Francesca Vitale, è uscito nel 2002 per La camera verde, con prefazione di Giuliano Mesa. Dopo ha scritto ancora parecchie poesie o cose simili (l’elenco dei libri si cattura facilmente in rete).

In prosa: Numeri primi (Arcipelago, 2006), Quasi tutti (Polìmata, 2010; edizione definitiva: Miraggi, 2018), Lie lie (La camera verde, 2010), Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016), Le carte della casa (Edizioni volatili, 2020). In lingua inglese: a gunless tea (Dusie, 2007), CDK (T.A.P., 2009), Anachromisms (Ahsahta Press, 2014); e il ‘found text’ White While (Gauss PDF, 2014).

Il suo sito principale è slowforward.net. Escogitazioni grafiche varie in differx.tumblr.com.

 

Immaginare la fine. Nota su Trilogia della catastrofe

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di Francesca Matteoni

Come il libro di cui mi accingo a scrivere anche il titolo di questa recensione non è da interpretare alla lettera, ma da tenere a mente come una possibile linea guida. La Trilogia della catastrofe, libro inusuale voluto e pubblicato da effequ (i cui editori hanno una parte attiva nel testo, di cui firmano la premessa quale incipit programmatico), e scandito attorno alla catastrofe etimologicamente intesa quale rovesciamento di uno status quo, e suddiviso in tre movimenti: principio, durante, fine. Per parlare di catastrofe o immaginare la fine quindi editori e scrittori decidono in assoluta controtendenza di non affrontare direttamente il presente, le sue cause immediate e i probabili sviluppi, concentrandosi sulle varie crisi che interessano la nostra epoca (politica, economica, culturale e infine, punta dell’iceberg che molti si ostinano a non vedere, climatico-ambientale), ma allargando la prospettiva al nostro rapporto con la Storia o la sua invenzione, con la memoria e con la morte stessa.  Così Emmanuela Carbé nel primo saggio, “L’inizio degli inizi” ci porta indietro in un singolare congresso di Vienna in cui si decide non solo, come si è sempre creduto, dell’assetto delle nazioni, ma ci si spinge nel tempo con l’istituzione di un “comitato per l’immaginazione e la rappresentazione del mondo”, determinandone quindi le opere dei filosofi e dei poeti trascorsi, le invenzioni, la preistoria quasi azzardando l’origine del tutto. Ovvero l’autrice ipotizza il 1814 come punto sorgivo della Storia occidentale, poiché se catastrofe è ribaltamento, allora può anche essere un crocevia in cui resta aperto l’interrogativo sulla realtà quale mescolanza di conoscenza, immaginazione e manipolazione, in cui nessun fatto è mai veramente se stesso. Carbé utilizza Calvino e la sua indiscutibile sentenza: “le fiabe sono vere”, per condurci dentro la rocambolesca conferenza viennese. Quanto sembra suggerire l’autrice è che la storia è una questione di credo, infine: si crede a chi la racconta meglio o a chi ha le capacità per raccontarla, finché con un gioco letterario qualcuno viene a scompigliare le carte, tiene i nomi e cambia il senso. In quale mondo abbiamo dunque deciso di vivere? A chi affideremo le nostre narrazioni? E, questione spinosa per ogni storico o letterato, chi parla per l’oppresso e fino a che punto è genuino? Carbé conclude con degli appunti che certifichino ancora il suo “essere umano”, “in vista del passato, o del presente, o del futuro”, ed è lì che si apre una via di fuga o d’entrata nel garbuglio delle storie. Una lista di cose amate – azioni, artisti, visioni, capaci di tenerci nel mondo oltre ogni tempo fittizio e fallace.

Lista che ci prepara per la seconda catastrofe, stavolta nella sua dimensione disastrosa, nel reportage narrativo di Jacopo La Forgia, “Costruire il risveglio” che si muove nella contemporaneità per documentare la strage, e il suo occultamento, di circa cinquecentomila comunisti in Indonesia nel 1965. Si tratta di un viaggio non in un passato da inventare, ma nella memoria negata, che si riaccende a incrinare gli effetti propagandistici di un certo potere. Gli incontri sono tutti tasselli di un trauma, perché tale è il risveglio, contro le bugie dentro cui i più giovani sono cresciuti, per paura, per difficoltà e vergogna nel confrontarsi. In tutta la narrazione, oltre al racconto di vittime e carnefici, aleggia infatti l’ambiguità  su cosa sia giusto, cosa sia da salvaguardare, cosa da denunciare, se la morte dei cari sia il segno di colpe familiari contro la collettività o sia invece il grido contro l’ingiustizia. Tutte cose che sappiamo, certo, che crediamo di aver imparato, eppure La Forgia ben sottolinea che a volte bisogna andare là, ovunque sia questa lontananza, per avvicinarsi al semplice dubbio sulla giustizia e al nostro ruolo in lei. Ogni allontanamento alla ricerca di un vero scomodo può mutarsi in una riappropriazione delle proprie fratture e in un annullamento dei confini che rende l’altro umano familiare. “Uno dei motivi per cui ho fatto questo viaggio è perché parte della mia famiglia è stata uccisa durante la Shoah”, scrive verso la conclusione l’autore. “Ora mi sento a Jakarta, ma anche a Dachau”.  Mi sembra che questo sia l’approccio più onesto alla realtà: trovare il punto in cui ci riguarda. In cui gli anticorpi contro il male che gli umani infliggono ad altri umani coincidono con la resa alla sua esistenza ineludibile.

Anticorpi, resa. Sono le due parole che traghettano nello scritto finale “Gestire la morte”, saggio divulgativo di Francesco D’Isa dove la catastrofe che si fa dramma e lutto. Come gli altri l’autore adotta la prima persona e lo fa mostrando l’inadeguatezza corale nel fronteggiare il guaio in cui ci siamo cacciati: il surriscaldamento globale, il destino tragico a cui abbiamo condannato molte specie viventi, noi inclusi. “Per evitare di accanirmi sulla pagliuzza nel tuo occhio dunque, lascia che ti dica com’è fastidiosa la trave nel mio”. Passando per le abitudini personali, la fondamentale questione del dolore animale non riducibile solo alle scelte alimentari, la rivoluzione tecnologica e le sue conseguenze e la cultura del consumo, D’Isa ci conduce verso il problema dietro e oltre l’incubo ambientale: il nostro rapporto con la morte e la sua mancata gestione.  “Mangiare molta carne, valutare le situazioni quasi solo a breve termine, non mettere in dubbio i propri desideri, cercare soddisfazioni immediate, accumulare un potere eccessivo, non sono che degli esempi alla cui radice c’è un unico, stentoreo comandamento, declinato in mille comportamenti spesso contraddittori: evita – la – morte”.

Si tratta ancora di prossimità: per comprendere come curare il nostro unico pianeta, non serve a molto aprire un dialogo sui massimi sistemi, disegnando scenari perfino apocalittici, ma di una portata insostenibile per le vicende del singolo e delle comunità. Servirebbe invece concepire il nostro coinvolgimento in tutto questo: dopo la narrazione o lo smantellamento del passato più congeniale, dopo la fatica della memoria, occorre che si dica di nuovo io davanti all’essere mortale e che questo io sappia che è sua la morte che guarda, anche attraverso l’occhio di un altro essere. D’Isa non nomina la nostra natura fallimentare come autoassoluzione in attesa di un improbabile  “manipolo di coraggiosi” che metta tutto a posto: al contrario ci chiama al cambiamento della nostra indole più antica, ma non innata. Perché questo avvenga bisogna recuperare la parola per dirci che stiamo sentendo male. Non l’albero, non il pollo d’allevamento, non un popolo remoto nella giungla, non la costa quasi sommersa di un qualche paese fantastico. Noi. Tutti.

Per non confondere realtà e pregiudizio: una riflessione sulle ripercussioni del populismo culturale

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di Matteo Bianchi

A te che soltanto puoi capire:
È come quando gridi “scusa”
E lo ripeti
Da fondo campo
Per i colpi duri fuori di battuta.

F. Buffoni

 

Un paio di settimane fa, in largo su “Il Fatto Quotidiano”, Patrizia Valduga attaccava senza riserve il mancato riconoscimento degli intellettuali odierni e di conseguenza il decadimento del loro ruolo, quasi che il populismo culturale corrisponda all’inconsistenza di quello politico, quello delle boutade dei Salvini, Renzi e Di Maio di turno, che paiono più dei PR avveduti che degli amministratori pubblici. Dunque abbasso i parolai sgargianti e lunga vita ai dotti? Può darsi, ma è d’obbligo essere precisi nella dissertazione. Scorrendo l’articolo in questione il lettore potrebbe pensare “meglio tardi che mai” da parte di una poetessa avvezza a un situazione editoriale controversa, spesso soggetta a rapporti di forza e favoritismi coatti. Ma poi riaffiora l’annosa polemica circa la stanca dicotomia tra cultura “alta” e cultura “bassa”, o tra i dignitari del canone e il detestabile pop. Polemiche estive che aiutano i giornali ad andare in stampa e gli studenti distesi a tenere gli occhi aperti? Ci si domanda quanto valga insistere su una diatriba ormai calcificata, che non tiene conto di tante felici ibridazioni e degli studi consolidati da anni.

Adriano Spatola: il testo è un oggetto vivente

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«A trent’anni dalla scomparsa di Adriano Spatola tante conquiste sono state ormai acquisite e ben digerite dai media. La scrittura verbo-visuale non fa più rumore. Tantomeno scandalizza. Basti pensare alle acrobazie tecnicamente impeccabili della pubblicità televisiva. Ma la lezione di Spatola ci mette in guardia e ci indica che le strade percorribili ancora oggi sono quelle caratterizzate dal forte atteggiamento critico, quelle che considerino a pieno la materialità del linguaggio, che sfuggano alle limitazioni del mercato, che sappiano ben distinguere tra multimedialità e intermedialità, che garantiscano sempre un’alternativa al sistema linguistico istituzionale, nel senso che sappiano costruire il linguaggio, così come diceva Max Bense: “Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”».

Così si conclude Guarda come il testo si serve del corpo, l’introduzione che Giovanni Fontana ha dedicato alla ristampa di tutta l’Opera poetica di Adriano Spatola, da lui curata per [dia•foria. Negli ultimi decenni la “grande” editoria non ha fatto altro che scongiurare la peste dell’informe, riparandosi in un mestiere della cancellazione per cui la letteratura sperimentale della seconda metà del secolo scorso non è di fatto esistita, se non come concrezione o come quanto minaccia di riapparire: il verificarsi dell’inverificabile, qualcosa a cui non si può che continuare a dare la morte per impedirne il ripetersi. Accogliamo dunque con gioia questa ripubblicazione che -insieme alle recenti ristampe di autori come Emilio Villa e Corrado Costa– manifesta un ritrovato interesse per quella poesia che si è posta sempre al di là di ogni presa di potere, e che proprio per questo rappresenta ancora oggi un’indicazione primaria su quella che deve essere la vitalità del fare poetico.

***

Ospito qui una raccolta di estratti dal libro, per gentile concessione dell’editore.

 

 

da L’Ebreo Negro

(Scheiwiller-All’insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1966)

 

5.

e ripetere il mito della creazione

gettare gli uomini dietro le spalle perché si tramutino in pietre

il sacerdote prega il seme divino (energia)

(sole) semen encefalo d’ogni forma di vita

tempo (fuoco) causa divina (vis viva) ameba eterno nel nucleo che si scinde

universi bruciati e ricreati – molteplici nell’uno del ripetersi (actus)

(energia) materia assunta alla città di dio

pòlio costante d’ogni protoplasma

signore del negativo e del positivo del numeratore e del denominatore della parte e del tutto

(ovum) basterà uno scatto per PROLIFICARE

(semen) fecondazione (fission) nel tuo corpo concepirai

(i nuclei avranno massa totale inferiore all’originaria)

fission fecondazione le mani dell’uomo riproducono dio (l’ovum si scinde)

aria fuoco luce (sole che adorano)

 

 

da Majakovskiiiiiiij

( Geiger, Torino, 1971)

 

3.

ma il testo è un oggetto vivente fornito di chiavi

la cruda resezione il suo effetto l’incredibile osmosi

è questo il momento che aspetti comincia a tagliare

guarda come si tende e si gonfia sta per scoppiare

è l’immatura anaconda si morde la coda strisciando

odore della palude odore coniato da fiato di fango

un libro un quaderno una penna un desiderio indolore

senza parole

 

 

da Algoritmo

(Geiger, Torino, 1973)

da Diversi Accorgimenti

 (Geiger, Rivalba, 1975)

 

3.

Democrazia una parola

ovviamente trascurabile origine

scopertamente risibile

e irrisibile il peso della menzogna

la confessione riconducibile alle radici

precaria amarezza

o teodulia.

 

4.

Democrazia una parola

dubbiosamente sconfessabile

felicemente confermabile

e riconfermabile la prognosi esatta

la delazione

riducibile alla più breve distanza

planetaria misericordia

o teologia.

 

 

da La piegatura del foglio

(Guida, Napoli, 1983)

 

9. Settembre, forse

 

Il teatro si chiude al tramonto nell’autopsia

è un terriccio cosparso di scaglie di limatura

radiazioni cromatiche di un’oratoria eccessiva

qualcosa di magnetico e fulvo sopra l’intonaco

esalazione fumosa stagnante e combustibile

come un odore di sottobosco un po’ marcescibile

così aromatico e greve così gradevole al fiuto

dell’animale insediato nella propria goffaggine

parlo dell’animale che ride con un po’ di malore

delle sue uova avvolte in un sudario di lino

sono cellule immerse in un vino scontroso

intenerito per le vere verità che verranno

in settembre il nono mese dell’anno

 

 

da Altri Testi

(In Giuliano Della Casa, Alfabeto, Geiger, Torino, 1973)

 

Alfabeto

 

Arcobaleno sopra la limpida

Balestra sospesa sulla porta sulla

Capsula saldata proprio al centro il

Domicilio dell’alfabeto la pronuncia dell’

Enunciata parola o la

Figura esattamente contornata nel

Geroglifico scolpito nell’intonaco:

Ha trascritto e riscritto l’

Imboccatura bianca e nera del

Labirinto la specie labile del

Mondo abitabile disabitato nella

Negazione assoluta nella nozione astratta l’

Organismo sillabico il singolo

Palpabile oggetto leggibile sulla carta

Quadrettata da sinistra verso destra nella

Radice chiara del

Segno

Taglio

Ultrasuono

Visibile

Zeta

 

 

Adriano Spatola col figlio Riccardo

 

Mots-clés__Mani

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Pol Rab (illustrateur) by Germaine Krull, 1930 © Estate Germaine Krull, Museum Folkwang, Essen

 

Mani
di Giulia Scuro

Mozart, Don Giovanni, “Là ci darem la mano” -> play

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Pol Rab (illustrateur) by Germaine Krull, 1930 © Estate Germaine Krull, Museum Folkwang, Essen

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Da Stendhal, Il rosso e il nero, trad. Alberto Cappi, Newton, 2014

Entrando quella sera in giardino, Julien era disposto a occuparsi delle idee delle belle cugine. Esse lo aspettavano impazienti. Occupò il suo solito posto, a fianco alla Rênal. L’oscurità divenne in breve profonda. Egli volle prendere una bianca mano che da un pezzo vedeva lì vicina, appoggiata al dosso d’una sedia. Ci fu qualche esitazione, ma finalmente la mano fu ritirata con un atto che rivelava un po’ di malumore. Julien era disposto a tenerselo per detto, e a continuare gaiamente a conversare, quando sentì che il signor Rênal si avvicinava.
Julien aveva ancora nelle orecchie le grossolane parole della mattina.
– Non sarebbe – si disse – un modo di burlarmi di quest’uomo, così favorito in ogni modo dalla fortuna, l’impossessarmi della mano di sua moglie, appunto in presenza di lui? Sì, lo farò, io, per cui egli ha mostrato tanto disprezzo.
Da questo istante la calma, così poco naturale all’indole di Julien, se n’andò subito: egli desiderò ansiosamente, e senza poter pensare ad altro, che Louise volesse lasciargli la mano.
Il Rênal discorreva irosamente di politica: due o tre industriali di Verrières stavano facendo migliori affari di lui, e volevano opporglisi nelle elezioni. La Derville lo ascoltava. Julien, irritato dai quei discorsi, accostò la propria sedia a quella della Rênal. L’oscurità nascondeva tutti i suoi movimenti. Osò posare la mano molto vicino al bel braccio che l’abito lasciava scoperto. Fu turbato, il suo pensiero non fu più suo; accostò la guancia a quel bel braccio, osò appoggiarvi le labbra.
La signora fremette. Il marito era a quattro passi; ella s’affrettò di dare la mano a Julien, e insieme a respingerlo alquanto.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

E tu splendi

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di Gianni Biondillo

Giuseppe Catozzella, E tu splendi, Feltrinelli editore, 2018, 231 pagine

Anche questa estate, come ogni anno, Pietro e Nina vengono spediti dal padre – la mamma è morta da poco – da Milano ad Arigliano, il paese d’origine della famiglia, nel cuore sperduto della Lucania.

La voce narrante di Pietro ci fa conoscere gli abitanti del borgo: vecchi stralunati, contadini rancorosi, ragazzini selvaggi. Sembrerebbe un’estate come tutte le altre, immobile e gioiosa, se non fosse che toccherà proprio a Pietro scoprire che nella vecchia torre normanna abbandonata si nasconde un gruppo di clandestini africani.

L’avvenimento irrompe come un cataclisma nel borgo, scatenando i più bassi istinti di conservazione, i peggiori rigurgiti identitari, il populismo più vieto nei confronti di questi migranti. E Pietro stesso non ne sarà esente, osservando Josh, uno dei clandestini (suo coetaneo), come fosse un essere misterioso, affascinante e pericoloso. In una realtà piegata da vecchi conti mai saldati, paralizzata dalla memoria e dal passato, il gruppo di clandestini diventa il perfetto capro espiatorio di ogni male, quasi fosse una maledizione, un monito inviato dagli dei.

E tu splendi è, soprattutto, un tributo alla letteratura meridionalista del novecento. L’affetto di Giuseppe Catozzella alle terre che descrive è palesato dal calco quasi pedissequo della sua scrittura alla tradizione neorealista dei Silone, dei Levi, degli Jovine. Il Sud di Catozzella sembra fotografato in bianco e nero, con sfumature seppiate; incapace di conoscere la modernità, persino di raggiungerla. Ma non si faccia l’errore di credere E tu splendi un romanzo “realista”. In realtà non di romanzo dovremmo parlare ma di fiaba. O, forse, di fine del periodo fiabesco della vita. L’estate raccontata in queste pagine è, in definitiva, quella del passaggio della linea d’ombra del protagonista, che abbandonerà l’infanzia verso una nuova consapevolezza dell’esistenza. Tutta da raccontare.

.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 20 del 15 maggio 2018)

Matteo Meschiari: Il treno per Ballachulish

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«nel mondo ghiaioso bruciato

 nel mondo vago

nel mondo verde ramarro

del venerabile Kutkh

il Corvo del Cosmo.»

 

Il Treno per Ballachulish di  Matteo Meschiari è il settimo libro dei Cervi Volanti, la collana che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autore. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

56°40′24″N – 5°09′53″W, Ballachulish, sulle sponde di Loch Leven, Scozia, quella dei grandi ghiacciai scomparsi, quella dove vorrei finire il mio viaggio carnale nella caduta dei tempi. Un villaggio che non sapevo che esistesse e che un giorno, per un insolito inceppamento del caso, è apparso non richiesto sul mio portatile, mentre la fiamma di un camino scaldava gennaio. Un angolo di mappa che riempiva lo schermo, un pop up tra fiaba e poltergeist che mi ha turbato per molti giorni. Perché? Che cosa c’è a Ballachulish? Quale destino intercetta per uno come me che non crede a nulla se non a una grande marmellata di energia, senza scopo, senza Dio? Decido di scoprirlo, voglio andare a vedere, faccio un biglietto aereo per Edimburgo, il volo è previsto per fine maggio. Quando, rinchiuso nel mio studio-soffitta, tra febbraio e marzo, capisco che invece non ci andrò mai a Ballachulish, comincio questo poema narrativo, come promessa smaterializzata, come riparazione, progettando un mondo che nei miei calcoli avrebbe dovuto raggiungere i 10.000 versi. Era il mio modo per arrivare là mentre eravamo tutti nascosti in casa, magari non da Modena, ma dalla strada più lunga. Quali sono quindi gli antipodi di Ballachulish? Lo stretto di Bering? Come attraversare la Grande Asia artica e subartica? In treno? Con chi se con tutti gli esseri, umani, animali, divini, in un ultimo viaggio delle specie, dei saperi, del mondo vivente e immaginato, sopra una specie di Orient Express metafisico, proiettato come un fantasma contro la volta di una caverna? Il treno per Ballachulish non è solo un viaggio mai fatto o un poema mai finito. Nella sua confezione cartacea si interrompe addirittura prima, a metà di un verso, a metà di un dialogo, e continua nel mio manoscritto come una specie di organo-vestigia che un giorno potrei decidere di rianimare, ma in realtà, così com’è, è già il nostro ultimo viaggio nell’Antropocene, un percorso a senso unico, verso una Ballachulish-fine-dei-tempi che è più in là della portata della mia mano. In questo Snowpiercer verbale volevo metterci tutti, in terza classe gli umani proletari, in seconda gli animali parlanti, nella prima gli Dei, che banchettano per mesi. E, come Poirot, avrei voluto cercare l’assassino della divina Inanna, vestendo i panni di Fierabraccia Matisson, un leopardo delle nevi dal sangue di ghiaccio e dalle feline capacità investigative. Intanto, fuori, la steppa, la tundra, la brughiera, le costellazioni che per l’ultima volta vedremo prima di entrare nel lago di Leven, dove il Mondo finisce. Ma, dopo marzo, è arrivato aprile e Il treno per Ballachulish si è fermato poco dopo la partenza. Non doveva neanche uscire dalla soffitta e invece l’ho passato per affetto a un ragazzo. Mentre il vecchio sognava i leoni, il ragazzo ha deciso di farlo diventare un libro di ventotto pagine che, assieme a tutti gli altri di queste aeree Edizioni volatili, con disegni che sono in bilico tra le miniature irlandesi e i bigliettini di Auschwitz, incarna per me il futuro del libro e dell’editoria: antropologia del dono contro neoliberismo, cura contro merce, durata contro fretta, inattualità contro cronaca. Non doveva neanche esistere Il treno per Ballachulish, ma ora c’è, e oltra alla storia che lo precede e a quella che contiene, in poche centinaia di versi difende un’idea di poesia, epica, fantastica, cosmogonica, antropocenica. Ora, io non andrò a Ballachulish, il treno l’ho perso, ormai, ma voi che ci andrete seguite la mappa contenuta nel libro: seconda brughiera a destra, questo è il cammino, e dopo dritto, oltre il declino.

 

 

 

 

Matteo Meschiari (1968) è geografo, saggista e scrittore. È professore associato dell’Università di Palermo, dove insegna Geografia e Antropologia. Ha scritto diversi libri, tra cui Artico Nero (2016) e Neghentopia (2017), entrambi pubblicati per Exorma. Con Antonio Vena ha ideato il progetto TINA-LA GRANDE ESTINZIONE sull’immaginario collettivo nell’Antropocene.

 

 

La questione meridionale, e quella neoliberista, a scuola

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di Giorgio Mascitelli

Uno degli argomenti invocati dai riformatori neoliberisti della scuola per spiegare la necessità della riforma è che la scuola pubblica in Italia non funziona, in particolare nel Sud. L’ultimo a sostenere questa tesi è stato l’economista Giavazzi sul Corriere della sera lo scorso agosto, ma sarebbe facile citare l’opinione di tanti altri commentatori negli ultimi anni. Le prove citate per questa inefficienza delle scuole meridionali sono fondamentalmente due: gli scarsi risultati ottenuti dagli studenti del Sud nelle prove di verifica internazionali ( prove PISA) e nazionali ( prove INVALSI) e il fatto che agli esami di stato i voti al Sud sono più alti che al Nord. Si tratta di due argomenti pretestuosi che nascondono altre finalità. Nel caso dei voti di maturità basterà ricordare che la scuola italiana nel suo complesso è tra quelle più severe nell’uso dei voti e il fatto che in una regione si sia un po’ più larghi di un’altra non cambia questa situazione di fondo. E’ curioso pertanto che ammiratori di sistemi scolastici come quelli anglosassoni, in cui è molto più semplice raggiungere i voti più alti, rimproverino un presunto lassismo a una parte della scuola italiana che adotta comunque standard di valutazione abbastanza duri.

Esiste invece un’ampia letteratura che spiega come queste presunte prove di valutazione oggettiva di un sistema scolastico non sono adatte allo scopo che si prefiggono, ma anche prendendole per buone in questo contesto per non allontanarci troppo dal nostro argomento, non si può fare a meno di notare un paio di elementi sorprendenti. Infatti se prendiamo le prove PISA esse fanno emergere sia della differenze a favore delle scuole settentrionali rispetto a quelle meridionali, ma anche dei licei rispetto ai professionali e poi ancora delle scuole pubbliche sulle private. Curiosamente di queste differenze l’unica che ottiene l’attenzione dei nostri commentatori è la prima, quando in realtà quella veramente sorprendente, per i criteri internazionali,  è la terza. Infatti un principio generale, da intendere non in senso deterministico ma tendenziale, è quello che il successo scolastico si lega a una situazione di maggiore benessere e integrazione sociale degli studenti, quindi in ogni paese del mondo le aree di maggiore disagio sociale hanno tendenzialmente, anche se non è un algoritmo, un tasso di insuccesso scolastico più elevato: nel Sud queste aree sono ben più numerose che nel Nord ed ecco spiegato molto se non tutto. A riprova di ciò direi che basterebbe raccogliere in ogni regione dati sui risultati delle scuole collocate nei centri dei capoluoghi e confrontarli con quelli dei sobborghi o dei quartieri più problematici, che ci sono ovunque, per ritrovare all’interno della stessa regione le differenze Nord/Sud. In pratica molti commentatori stanno cercando di territorializzare delle differenze sociali: sul senso e sulla pericolosità di questa operazione ritornerò più sotto.

Invece gli esami di stato ogni anno restituiscono un’immagine di una scuola abbastanza uniforme, per così dire unitaria da Lampedusa al Brennero, e infatti di solito coloro che considerano poco attendibili gli esami di stato sono coloro che attaccano la scuola del Sud, magari in nome della superiorità delle prove INVALSI come se la compilazione di quiz potesse realisticamente sostituire un esame articolato in più prove sulla base di un piano di studio basato su contenuti programmati. Naturalmente bisogna intendersi cosa vuol dire uniformità: se per uniformità s’intende un’esatta e quasi geometrica coincidenza di contenuti e capacità in tutti gli alunni, questa non solo non esiste tra varie regioni, ma neanche tra le scuole di una stessa città e tra le classi di uno stesso istituto ed è un bene che sia così perché l’unico modo per raggiungere un’uniformità geometrica sarebbe quello di rendere elementari i contenuti, penalizzando creatività, interessi e conoscenze specifiche di studenti e docenti. Una scuola viva è una scuola che trasmette saperi, capacità e consapevolezza critica tramite l’entusiasmo che per forza di cosa ha una natura multiforme. L’importante è che alla fine del ciclo ci sia una prova unitaria che funga da comun denominatore, non necessariamente minimo, ma che impedisca derive di tipo statunitense dove un diploma di scuola secondaria superiore non vuol dire assolutamente nulla quanto ad apprendimenti certificati.

Naturalmente il fine del discorso liberista sulla scuola meridionale non è quello di produrre maggiore uniformità, ma sembra avere tre obiettivi ben precisi. Il primo obiettivo è ideologico, ma proprio per questo assolutamente centrale, e mira a imporre la competitività come unica forma di relazione tra i soggetti nella scuola, competitività tra individui, tra scuole e tra aree territoriali. La società liberista tende a imporre una sorta di didattica permanente del liberismo e dell’individualismo e una scuola che fa della competizione il suo valore cardine è assolutamente necessaria. In secondo luogo questo discorso è funzionale alla regionalizzazione della scuola, obiettivo assolutamente necessario per subordinare la scuola al mercato, nel doppio senso di creare un mercato dell’istruzione in luogo della scuola pubblica e in quello di creare una scuola dipendente dalle richieste del mercato del lavoro, cieca alle esigenze di lungo periodo, ma flessibile a rispondere alle piccole necessità congiunturali, dirottando le risorse nelle regioni economicamente più forti. Per raggiungere questa finalità è fondamentale diffondere subliminalmente  l’idea che si va male a scuola non perché ci siano problematiche sociali ma perché docenti e studenti sono fannulloni ( particolarmente i primi secondo questa rappresentazione ideologica) : da questo punto di vista l’economista consulente del ministero, il ricercatore delle fondazione Agnelli e il militante leghista medio dicono tutti la stessa cosa con linguaggi differenti. Infine il terzo obiettivo è attaccare l’esame di stato unitario accreditando l’idea, come visto sostanzialmente falsa, che l’esame in certe regioni sia poco rigoroso a differenza delle prove INVALSI. Al contrario per costruire una scuola di mercato è necessario accentuare e creare, laddove non ci sono,  differenze e una situazione il più possibile disomogenea: l’esame di stato è uno degli ostacoli più importanti al conseguimento di questo risultato, proprio per la sua articolazione e complessità.Non è secondario notare che in un contesto del genere un buon profitto e altre virtù scolastiche tradizionali, nelle quali non eccellerebbero le scuole meridionali secondo i riformatori neoliberisti, non conteranno più perché sarà importante solo il brand della scuola costruito tramite le prove INVALSI, le classifiche di qualità redatte da enti privati come eduscopio della fondazione Agnelli  e i rapporti di autovalutazione, già oggi disponibili sui siti delle scuole, che indicando il ‘livello’ della scuola indirizzano le scelte dell’utenza.

La storia del nostro paese, sempre in sospeso tra un’idiozia campanilistica, di cui si può ridere tramite le rappresentazioni kitsch che ne ha offerto il cinema popolare nazionale, e potenziali rischi di derive balcaniche, non appena la situazione politica ed economica peggiori, dovrebbe sconsigliare questi incauti riformatori a usare argomenti del genere, quand’anche non fossero menzogneri, ma essi sono peraltro  funzionali a una riforma della scuola basata sulla liquidazione di ogni sapere critico nell’ambito della costruzione di quella che il sociologo canadese Alain Deneault ha chiamato la mediocrazia. Con questo termine egli intende quel processo che tende a emarginare i soggetti molto competenti a vantaggio di quelli mediamente competenti e più facilmente manovrabili.

L’idea di una scuola non unitaria e in perenne competizione a cui questo genere di argomenti fatalmente conduce è particolarmente pericolosa, se si pensa allo scenario che si sta aprendo. La costruzione dell’unione europea è virtualmente bloccata e, anche se area euro e UE sopravviveranno allo choc del covid, ci aspettano decenni in cui l’Italia continuerà a essere coinvolta come nazione in varie vicende internazionali. Intanto la crisi demografica e i flussi migratori ridisegnano una società in cui la tendenziale scomparsa dello stato sociale e un mercato del lavoro sempre più simile al far west, caratterizzato da una scarsa propensione agli investimenti del capitalismo privato italiano, faranno emergere una tendenza alla frammentazione dei rapporti e delle strutture sociali. La scuola è già e lo sarà sempre più il caposaldo essenziale di qualsiasi politica di integrazione, sociale e simbolica, volta a contrastare l’atomizzazione crescente. In questa prospettiva una scuola che riproduce al proprio interno l’atomizzazione sociale e territoriale che vuole combattere, perdipiù facendone un valore guida,  sarebbe uno strumento nullo. La pretestuosa polemica antimeridionale non è un prodotto casuale dell’inconscio leghista di qualche bocconiano, ma una linea precisa di attacco alla scuola pubblica volta a realizzare una scuola basata sulla competizione. Quest’ultima non è una idea che nasce oggi, ma in un momento storico ben preciso ossia gli anni novanta del secolo scorso, nei quali vigeva la convinzione che la globalizzazione sarebbe stato un processo pacifico di progressivo arricchimento dei singoli guidato senza discussione dagli Stai Uniti e dai suoi alleati europei. Un progetto di scuola simile, proprio per essere avulso da quello che è il contesto storico e sociale presente, rappresenta un’oggettiva minaccia agli interessi del paese e della collettività, andando a minare uno dei pochi elementi di coesione sociale e culturale della nostra società.

 

 

Lettere dall’assenza #4

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di Mariasole Ariot

Caro G.,

oggi il cielo è plumbeo, ho scartavetrato la casa per cercare un corpo che non fosse inquinato, ho preso le parti e introdotto un nervo nello stipite. La paura è questa sacca di placenta che spinge la mia testa, nascono figli e figlie dentro la nuca, mi chiedo sempre come tu stia, da quando la montagna ci ha soccorso.
Ho camminato a lungo, ho percorso un tratto di buio ed era una finestra: puoi sentirmi? Puoi vedere la mia pioggia?

Nelle giornate chiare mi aggrappo alle nubi bianche, fanno da copertura, e lassù, dove non sei, mi piego irregolare le ginocchia accovacciate : una preghiera laica, la tua riconoscenza.

Dalla partenza si crea l’attesa del ritorno, un treno veloce irradiato dalla luce, il riflesso dei riflessi del mondo, questo viaggio lungo, questa mancanza: abbiamo chilometri nel mondo, i suoni nel fondo del plesso solare, dove tutto si muove e non siamo, dove tutto tace e siamo, quando adorniamo l’utero della nostra conoscenza. Ti chiedo della donna lasciata al fronte, sei partito come partono le assenze, hai ancora l’orologio che ticchetta la notte, ho ancora la tua notte sulla pancia. Suggere dalle vene il poco sangue rimasto, depositarlo nelle tombe dei morti, far fiorire una primavera tra le labbra – e quanto siamo veri in questo vero, quanto siamo andati altrove, quanto siamo stati nei territori oscuri, quanto le anfore ci hanno franato e composti, quanti corpi abbiamo incuneato, la terracotta che ci fa da sponda, la ricuciamo con fili d’oro, un artificio orientale. La pioggia non è una malattia.

Qui i gatti immobilizzano i tempi, sfregano il muso sulla dimenticanza, affondano le unghie e muovono il volto.
Hai perduto l’acqua, ci siamo immersi nel lago per affogare – tu che detesti i fondali, tu che li cerchi.

La mia gamba è rotta, non ho piedi per appoggiare, solo una mano grande sullo sfondo che si affretta in divenire. La mia natura è morta, salva il salvabile, mentre le donne chiacchierano i padri, e tu hai un bambino nella zona occipitale, quando e quanto ti vestivi del nero degli inverni, quando e quanto pativi gli assoluti: il fine è aprire la bocca, dire il dire degli antenati, camminare sui fili degli in versi, e io mi inverto, faccio spazio tra le gambe delle cose.

Nelle zone tranciate dall’infanzia attendo la mia pelle, gli scorticati siamo noi che ci diciamo, siamo il noi che non diciamo.
Hai incendiato lo sterno, un mazzo di fiori finti nella strada, ora che sei in alto e guardi ad ovest e se non guardo non mi vedi: mi senti?
Dicevi il canto dicevi la sostanza, dicevi la stanza che mi avanza. Hai costruito una casa tra i boschi del cervello, siamo entrati come due animali in fuga, siamo due lingue e non abbiamo i denti, hai aperto la gola, conosciamo la sostanza e non paghiamo la frana, scendiamo nelle fortezze, portiamo la saggezza dei millenni: costruisci un mondo, il mio sguardo è ancora opaco.

Caro G., fa’ che sia avvenire, fa’ che consumi, fa’ che dica, fa’ la strada, indicami la consistenza, indicami il ritmo e le circostanze, indicami le stanze, dimmi gli azzerati, indica la grazia, dì la soglia, dimmi che hai voglia di ammutire, muta il cielo in uno specchio, muta gli specchi, fa’ che sia giorno.

Ti lascio la mia scatola d’argento, il ventre angioleggiante, la paura è tra la casa e le inferriate, questa mia caduta, la mia mandria di cavalli sulle ombre.

Ti aspetto nella risposta, sospendo la quiete, sospendi il verbo sepolto, danza il taciturno che hai innaffiato.

Tua,
S.

@fotografia di Mariasole Ariot

Francesco Aprile: insisti se puoi nel fare il polline

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di Francesco Aprile

 

 

Passaggio (I)

 

non si volevano fare esplodere i dati,

ma la necessità del mercato. la terapia

non dava i suoi frutti. paziente dopo

paziente, mitraglia per mitraglia, per

cintura una costola d’agnello dei tempi

andati, non di dio, della violenza.

non si volevano fare esplodere i dati,

per cui si lascia da parte la dizione,

l’ostracismo delle zolle, per le macchine,

insisti se puoi oltre l’omero, e accogli

nelle mani tagliate la forma dei rami.

sono le collere dei capitoli accesi

a rimarcare la dose, non si volevano

mica esplodere i dati, ma la necessità

del mercato. insisti se puoi nel fare

il polline, mentre i corpi abbagliati

si armano.

 

1.

a quel tempo era tutto un distendersi di rami a perdita d’occhio. tutto iniziava dalle serre, piccole colline senza pretesa di assoluto, che mantenevano un profilo basso e una continuità di sguardo con le montagne d’albania, dall’altra parte. tutto iniziava dalle serre, e tutto a quel tempo era un distendersi di rami a perdita d’occhio, montati sopra gli occhi, ma senza pretesa di assoluto. non erano ancora santi e conservavano il dominio della forma, senza parola. a noi restava il proposito di una smisurata passione, ora per la luce, ora per la forma. sulle pietre si stendevano le ombre, corse dietro le forme a registrare i tragitti di breve durata della luce.

 

2.

credetemi, non abbiamo mai rinunciato a seminare il terrore.

 

 

7.

quando smagra, lo sciamano sbellica la forma, con rissore, sempre, di chi ama del gesto l’eccedenza. ma qui era il rissore, l’audacia, la pioggia, vedi le rane, le lumache, le strade verdi. se non fosse un santo, avrebbe il corpo d’argento, al sole. se non fosse un santo ne avremmo fatto legna, per l’inverno. pietra dopo pietra, lo sciamano considera lo scibile e rifiuta l’asilo alla parola. ma qui erano pietre gialle, docili, ma qui erano pietre bianche, durabili cascate di cotone, di stagno, verdi di rane, di pioggia, ancora da spaccare. ma qui erano santuari dell’ignoto. fosse stato un albero, avrebbe avuto dominio della forma. senza parola.

 

20.

sono caduti dal finestrino tutti gli insetti tenuti a forza come ventose, sono caduti dal finestrino tutti gli insetti, né la velocità né i cambi di direzione, i sorpassi azzardati, niente, sono caduti dal finestrino tutti gli insetti, c’è voluta l’acqua striminzita della prima pioggia a portare terra sui vetri e sabbie a pollini dai deserti. sono caduti dal finestrino tutti gli insetti mentre smontavano le piattaforme e il corriere faceva le foto, ecco, non si vede più niente sulla spiaggia, ma noi sappiamo, noi sappiamo che sono caduti tutti gli insetti, sono caduti mentre imponevano coi soldi le piattaforme. noi sappiamo che a ripeterlo il fatto non diventa poesia. sono caduti tutti gli insetti, forse testuggini senza uova, forse lanuggini consonanti, piume vocaliche e svolazzi immacolati. sono caduti tutti gli insetti, insieme alle alghe, alle pietre, alle forme di palude dietro la corrente a muovere la luce tra le piante. sono cadute le piante a tronco cavo, come gli insetti, caduti con la prima pioggia, curvati alla mutilazione. sono cadute le piante a tronco cavo, ma noi sappiamo che lo stoccaggio, anche se si ripete, non trasforma il fatto in poesia.

 

24.

fare ordine. concepire il mondo senza il mondo. fossero stati santi non avrebbero avuto un corpo, solo forma, senza spazio, solo luce. un tempo erano sciamani abili per l’argento, un tempo erano promotori di racconti appena pronunciati, solo brillavano. ora sono santi, hanno abolito il corpo, disperato ogni luce.

 

 

Estratti da: La forma dei rami (marzo 2020)
raccolta finalista al premio Montano, sezione raccolta inedita, 2020

 

 

 

I poeti appartati: Alida Airaghi

1
Michael Triegel Deus Absconditus (2013)

Elsewhere

di

Alida Airaghi

 

 

 

C’è un fondo al cielo,

in fondo al cielo: e prima luce,

e primo buio. Fine di tutto,

innanzi a tutto.

Velo che tieni il mondo,

ripara il fiore, il frutto.

 

**

 

Tu che non puoi non essere,

non puoi finire.

Costretto a vivere

il futuro nell’adesso:

condannato a te stesso.

 

**

 

Ma tu sei un dio nascosto.

Oppure solo stanco:

e vorresti confonderti,

bianco nel bianco;

arrenderti, non esserci.

Invece stai al tuo posto.

 

**

 

Ma chi può consolarlo

se soffre, a chi può chiedere

aiuto? Cosa pregare,

a chi confessare il tarlo

di un dubbio: lui, muto?

 

**

 

Fare la guardia al niente.

Per millenni di vuoto

opporsi al niente, senza essere cosa.

E poi la scelta, il lampo. La voglia

che esistesse una rosa.

 

**

 

Prima di Dio non c’era dio,

prima del nulla non esisteva niente.

E niente e dio e fine e avvio

furono tutto, insieme: corpo e mente.

 

**

Ci chiederà mai scusa

per il male che ha potuto farci

(l’eterno, l’infinito, onnipotente)

a noi, che usa come alibi,

se ci ha destinati

all’inferno del niente?

 

**

 

Non crede al suo essere Dio,

non chiede di esistere eterno.

Gli basta che un lieve brusio

lo invochi presente e paterno.

 

**

 

Se gli arriva al di là degli spazi

sepolti e persi, oltre i cieli

le galassie gli universi;

se riesce a giungere a lui, leggera,

sottile come un soffio,

la preghiera incredula e viva

di uno che ha paura ma chiede

che lui ascolti; fosse solo per questo,

per questa minima fede,

dovrebbe esistere e rispondere,

esserci,

anche se non si vede.

 

**

 

Altro da me e da tutto,

non visto non visibile: muto.

Solo e inconosciuto,

lontano – irraggiungibile.

E in ogni cosa, in ogni rosa;

abisso e vetta, pantano

e volo. Tu, sordo

a qualsiasi grido, tu – grido.

Puro e trasparente, insanguinato

e lordo. Mio Dio, mio io,

mio muro. O niente.

 

**

 

Le tue mille e mille cattedrali,

come le amo nei loro silenzi,

nel buio dei confessionali: altari

spogli e cupole pesanti,

le nicchie, i banchi in fila,

la pazza solitudine dei santi.

 

**

 

Se il giorno è stato senza luce,

la notte lo riscatterà:

le parole sbagliate taceranno,

le offese saranno perdonate.

Nel sonno innocente di ognuno

il male si riduce a niente.

 

 

Da “Un diverso lontano”, Manni, Lecce 2003

 

 

 

 

 

Lampi, premonizioni, attriti: i versi visionari di Simonetta Giungi

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di Piergiorgio Viti

Negli ultimi anni pubblico e critica hanno riportato in auge autori ingiustamente finiti nel dimenticatoio, o addirittura scoperto ex novo scrittori a lungo ignorati, pietre dello scandalo in quanto se stessi, cavalli sciolti, spesso, nel vischioso panorama letterario delle scuderie, dei sodalizi e dei potentati. Penso ai casi più noti, quelli più recenti, di Goliarda Sapienza, di Beppe Salvia, fino all’anarchico Giovanni Antonelli, solo per citarne alcuni. Verrebbe da domandarsi se questi tardivi fenomeni di recupero o di “epifania” non celino, in realtà, miopie editoriali, se davvero non esistano crepe, e quanto grandi, nella relazione tra scrittori e pubblico e fra i loro intermediari. Questioni antiche, certo, mai del tutto risolte, se è vero come è vero che di “casi” letterari ne escono fuori sempre di nuovi, casi a cui se ne potrebbe aggiungere un altro, ancora, se possibile, più luminoso e allo stesso tempo oscuro: luminoso perché il talento raggiunge vette elevatissime, oscuro perché la vita, culminata nel suicidio, di questa autrice, presenta aspetti insondabili, fughe improvvise, smarrimenti degni di una pellicola cinematografica.

 

Sto parlando di Simonetta Giungi. Nata nel 1945, di famiglia aristocratica, ha un’infanzia apparentemente felice e un’adolescenza tumultuosa tra Venezia e Ancona, culminata con la precoce morte della madre e l’ingombrante presenza di un padre autoritario. Dopo un periodo di internamento in una casa di cura, continua gli studi e si laurea in filologia bizantina. Successivamente ottiene una cattedra, ma, insoddisfatta, fugge a Parigi e Londra, dove collabora con diverse testate, dedicandosi anche alla pittura. Proprio a Londra, nel 1985, a soli quarant’anni, Simonetta Giungi si toglie la vita, undici anni dopo Anne Sexton, undici anni prima di Amelia Rosselli. Poco prima di lanciarsi nel vuoto, la poetessa lascia sulla scrivania un pastello che la ritrae di spalle, al balcone, di fronte a un sole molle, con la testa dipinta per metà. Questo disegno diventerà l’immagine di copertina del suo libro Finestre affascinate ardenti stanze, pubblicato per una minuscola casa editrice, Il gabbiano, la cui cura postuma sarà opera del fratello. La silloge è, a mio avviso, un capolavoro sepolto nell’oblio. Un capolavoro che non sfuggì, in verità, a Mario Luzi, che ne firmò la prefazione, individuando nelle poesie di Giungi un “tragitto espressivo in una eclisse psichica dietro l’appropriazione vivida delle cose”. In questa eclisse psichica il dettato è lacerato, franto da spezzature, lacunoso, con apparenti cadute di stile: è il codice scelto da Giungi per esprimere una vita di turbamenti, per venire a patti con quell’ombra che costantemente pervade il suo “abitare poeticamente la Terra”, anche quando il soggetto dei testi è Glauco, uomo misterioso che, tra motel, treni, volte a crociera, appare come un’epifania al termine della raccolta. Anconetana come Scataglini e legata a doppio filo, quello dell’amore-odio, alla sua città natale, tanto da citarla spesso, come nel titolo dell’unico romanzo pervenutoci, La casa sul colle Guasco, Giungi rappresenta un vero e proprio unicum: nel suo percorso poetico che è anche un attraversamento di coscienza, le parole emergono da un abisso, sono strappate al silenzio, sono “negativi del silenzio”, per dirla con Ritsos; per questo è auspicabile un attento recupero di una voce come la sua, fuori dai canoni, in bilico, visionaria, e, nel conformismo di tanta letteratura, più che mai necessaria.

 

 

 

 

sì ma c’entro io in tutto questo
ripeteva l’uomo capitato a caso
un giorno nella mia stanza deserta
ed io stessa svegliandomi la notte
mi trovo a dirmi questa stessa cosa
a tutto ciò che è disancorato
alla mia vita deserta
all’ex ipotesi sogno e situazione:
che c’entro io in tutto questo ormai
ma che io c’entri mi viene dimostrato
subitamente da un male che io provo:
mentre lo dico mi si straccia l’anima
ancora e ancora si straccia molte volte
è come un foglio ch’io gettassi via
forse è per questo che si è amati postumi
perché davvero ci si può entrare

 

 

 

 

 

a Napoli tu eri il torinese
a Torino eri mediterraneo
– più straniero nella tua città –
e mi piaceva come parodiavi
i motti schifiltosi di Torino
e sorridevi invece a ricordare
il fasto stracciato e melodioso
delle terre del sud

le puttane di Napoli e i falò
presso i quali si scaldano e si mostrano,
i funerali coi cavalli neri
al passo con le sonagliere
lenti nel sole per le vie deserte,
e il trionfo del mare, quelle feste
notturne a fior d’acqua,
un nome di ragazza: Sasà

e tuttavia, triste nei ritorni,
eri straniero tu nelle città
ma non al mare non al cielo e ai tetti
non ai monti né alle pianure
non ai paesaggi divorati in fuga:
di essi e di vampe di edifici

 

 

 

 

 

ti avevano affidato una tartaruga
gli amici andando via in vacanza
al Bois de Boulogne coglievi l’erba
per la tartaruga; al lavoro pensavi
a lei rimasta a casa:
non le facesse male
tutto quel sole in terrazza
“lo vedi” dicevi poi a dimostrazione
“solo una tartaruga
E non fai che pensarci!”

 

 

 

 

 

parlavano tanto nello scompartimento
del treno che mi portava a te
proprio da te? da te? da te? da te?
che occhi dolci ha questo soldato, pensai
scende a Casarsa, e perché no, anch’io?

e tu dicevi, dopo, “come fare
andremo a Casarsa alla caserma
e il comandante dirà ai soldati in fila:
graduato bruno dagli occhi dolci
un passo avanti”

 

 

 

 

 

orli contorni
dettagli estremi appigli
ai quali si aggrappa la mia anima
d’un tratto nulla riconosce
e la sgomenta la notte balenante
e il giorno come l’elsa di una spada

 

 

 

 

 

ora, come hai voluto, fa sera:
così il cielo si avvia arditamente
col suo cappello a tricorno
e gli strumenti dell’arte:
la cupola verdastra di San Pellegrino
il duomo diafano
il selciato che decide i passi
e fermamente s’aggrava di grigio

 

 

 

*
Opere citate:

Giungi S., Finestre affascinate ardenti stanze, Il gabbiano, Messina, 1993

Giungi S., La casa sul colle Guasco, Transeuropa, Ancona, 1999

Bacino 13

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di Gianni Biondillo

Jon McGregor, Bacino 13, Guanda editore, 293 pagine, 2018, traduzione di Ada Arduini

Rebecca Shaw – per alcuni Becky o anche Bex – ha tredici anni ed è in vacanza con la famiglia in un rustico affittato nella pacifica campagna inglese. È inverno. Di lei sappiamo fin dalla prima pagina che se ne sono perse le traccie. Sparita, non si sa dove. Tutto il paese la cerca, per giorni, per mesi. Ma non se ne sa nulla. E nulla se ne saprà nei mesi e negli anni a venire, non ostante la polizia non dichiari mai chiuso il caso, non ostante le televisioni, i giornali, le ricorrenze, gli anniversari della scomparsa.

Bacino 13 di Jon McGregor è un romanzo retto su una scommessa difficilissima: avere una protagonista che non si vede mai, immobile al ricordo che se ne ha, che non si sviluppa, che non muta, che non si approfondisce. È una specie di descrizione di un’immagine sfocata. Rebecca, Becky, Bex, è un agente chimico che fa reagire la composizione sociale del borgo. È una sorta di fantasma, un espediente che permette a McGregor di raccontarci i cicli delle stagioni, la vita degli allevatori, la campagna piovosa, le brevi estati, i coetanei della ragazza scomparsa (che conosceva a malapena) che nel frattempo crescono, vanno all’università, si sposano. C’è chi chiude bottega, chi muore, chi divorzia, chi diventa genitore, chi arriva, chi se ne va. C’è la vita che prosegue. Tutto questo descritto con una scrittura asettica, senza “a capo” senza particolari interpuntazioni, senza virgolette che distinguono il dialogo dalla descrizione. Un muro di parole che rappresenta lo scorrere inesorabile del tempo.

Bacino 13 è un romanzo sulla dimenticanza, sul ricordo che si fa sempre più flebile e allo stesso tempo sulla misteriosa resistenza che può avere un avvenimento nella memoria collettiva. Come i bacini idrici del paese, che salgono e scendono in funzione della siccità, così la memoria si riattiva e si rispegne. Infinitamente, per altri tredici anni. Scoprendo che nella vita non c’è lieto fine, non c’è logica, non c’è soluzione. C’è solo vita.

.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 15 del 10 aprile 2018)

Un’intervista su (((

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[Gianluca Garrapa ha parlato con Alessandro De Francesco del suo ultimo libro, ((( , da poco uscito per la collana Lacustrine di Arcipelago Itaca, 2020]

Gianluca Garrapa:

la scrittura cuneiforme è basata sulla ripetizione di una forma unica    una serie di vettori a quanto pare provenienti da linee continue    il senso è dato dall’orientamento orizzontale o verticale e dalla quantità dello stesso segno

Ho appena letto ((( e il primo pensiero, o meglio sentiero, poiché è il sentire che muove questa poesia, credo, è che poesia sperimentale è, con molta probabilità, scoprire altre forme di orizzonti lontani da casa e un’altra forma prima sconosciuta di dire il desiderio; la poesia di Alessandro De Francesco è proprio una stratificazione ben resa dal titolo ((( : un discorso che include un discorso che include un altro discorso. E la macchina desiderante che mette in moto è un congegno a orologeria in cui ogni significante, che ruota attorno all’impossibile dire, è strettamente connesso a ogni altro significante. È così? e come mai ha deciso di utilizzare un segno grafico per titolare il tuo lavoro?

 

Alessandro De Francesco: Sono d’accordo che sia il sentire che guida la poesia. Proprio per questo, se di congegno si tratta è un congegno aperto, lontano dall’essere perfettamente funzionante: le tre parentesi del titolo indicano altrettanti piani percettivi, quasi narrativi, che questo libro apre senza chiudere: un piano storico-politico, focalizzato in particolare sul rapporto anche emotivo, anche psicologico, tra infanzia e guerra, e in generale su situazioni di conflitto; un piano “metafisico”, che cerca di raggiungere con il linguaggio sfere di per sé non linguistiche, forme informi, spazi immateriali, corpi indefiniti e infiniti; e un piano “animale”, in cui si indaga il comportamento di alcuni animali più o meno identificabili e la loro relazione con l’ambiente. Il segno grafico della parentesi, che ha peraltro una lunga storia nella poesia italiana, rinvia inoltre ad elementi fisici quali la curvatura dello spazio-tempo, la curvatura delle superfici dei pianeti, delle stelle e dei satelliti (e in generale all’equilibrio idrostatico, che dà una forma sferica alla maggior parte dei corpi celesti), la curvatura del bulbo oculare, del cranio, delle colline, e di altre forme sferiche o convesse di cui queste parentesi, similmente alla dimensione narrativa incompleta e non lineare di cui sopra, percorrono un arco parziale e talora impossibile. Non so se si può parlare di poesia sperimentale in relazione a (((. È però certo una poesia che ricerca, che esplora, è un modo, come dici tu molto giustamente, per scoprire orizzonti lontani e, aggiungerei io, riscoprirli come vicini a noi, riportarli qui attraverso la poesia.

 

G.G.:

l’incontro degli sguardi è prolungato   gli occhi traslucidi dell’animale hanno un’espressione morbida ma impersonale   come se l’emotività nel guardare fosse di un tipo diverso ci chiediamo se meno intenso ma una risposta certa non è data    l’animale rimane nella sua posizione e ogni tanto emette degli schiocchi sordi con la bocca    il suono del suo corpo contro l’erba è amplificato dal vuoto delle colline circostanti benché il moto generale sia quasi impercettibile

Il testo rimanda a flash e bulbi oculari, a paesaggi reali, bambini, storia e animali, frammenti di memorie inesplose che la parola riporta a galla nel caleidoscopio della scrittura. Sulle prime si ha una sorta di difficoltà nel percepire simultanee visioni, un po’ come vedere attraverso ommatidi, un occhio di insetto che selezioni ologrammi e mantenendoli nella moltitudine in uno stesso campo visivo. Una coralità che sborda oltre il corpo del poeta, della terra, del passato, del cosmo. Quali sono i temi intorno cui hai lavorato?

 

A.D.F.: Assolutamente sì, c’è una dimensione corale, multipla, inesauribile, e come dicevo sopra non lineare, in questo lavoro. Come spesso nei miei libri, la poesia incarna un succedersi di piani percettivi, spaziali, temporali, storici, emotivi, cognitivi, che non potrebbero avere luogo con questo grado di sintesi, di esattezza e allo stesso tempo di con-fusione, se questi non si trovassero condensati nella poesia. Per me la poesia è davvero una Dichtung, una densità, secondo la falsa ma splendida etimologia (da dicht, che in tedesco significa “denso”) che possiamo scegliere di trovare in una delle parole che nella lingua tedesca significano “poesia”. Questo libro tenta di aprire nuovi scenari e possibilità di dialogo tra piani tematici molto diversi, brevemente già indicati nella risposta precedente in quanto profondamente legati al titolo. Ad esempio, il testo da te appena citato apparterrebbe alla linea tematica che ho definito “animale”. Nell’insieme, e attraverso l’interazione tra i vari piani tematici, questo libro pone, direi, una domanda sostanziale: come mettere in relazione l’esperienza umana, anche nei suoi lati più sordidi e drammatici, oppure anche semplicemente quotidiani (il frigorifero, la doccia, eccetera), con la gioia che provoca l’esistenza del tutto, delle stelle, dei pianeti, delle cose organiche, ma anche di ciò che è inconoscibile e inosservabile?

 

G.G.:

170 cm di corpo con salario 171 cm di corpo con salario
172 cm di corpo con salario 173 cm di corpo con salario
160 cm di corpo con salario 161 cm di corpo con salario
162 cm di corpo con salario 163 cm di corpo con salario
164 cm di corpo con salario 165 cm di corpo con salario
166 cm di corpo con salario 167 cm di corpo con salario
168 cm di corpo con salario 169 cm di corpo con salario

Come nasce questo lavoro e come si colloca nell’insieme della tua arte, quella che precede e quella che seguirà questo testo?

 

A.D.F.: Questo testo fa parte di quel gruppo di poesie di ((( che maggiormente si avvicinano alla cosiddetta “scrittura concettuale”, poco praticata in Italia ma molto importante in particolare nella storia della poesia americana e francese. Si tratta di una scrittura che nasce dal suo proprio processo, e dal concetto che, come anche in arte concettuale, dà vita all’opera. In questo caso il testo è nato come conseguenza di un altro testo, ispirato a sua volta da una foto che ha fatto il giro del mondo, quella di un bambino morto a faccia in giù sulla battigia di una spiaggia, uno dei tanti che non ce l’hanno fatta ad arrivare sull’altra riva. In ((( ho cercato sia di rendere conto di queste realtà che di criticare il loro divenire immagine, e quindi spettacolo. Il corpo di quel bambino è diventato, in questo altro testo, una misura, una lunghezza, in quanto parte del tutto e non più individuo separato dagli altri, ma anche in quanto mera immagine svuotata dall’empatia che questo evento genererebbe nella maggior parte di coloro che ne facessero un’esperienza diretta. Ho poi scelto di estendere questo passaggio dalla concezione di un essere umano come individuo verso quella dell’umano come porzione del tutto – quindi misurabile in fondo solo per convenzione – anche al mondo del lavoro, scegliendo una statura media che può far pensare in particolare a quella di una donna. L’effetto di questi due testi, almeno così ritengo e spero, è quindi sia quello di proporre una percezione universale dell’essere umano come parte del reale e della storia, sia quello di conferire a queste pur diversissime condizioni – una morte ingiusta, lo sfruttamento sul lavoro – il carattere straniante e violento che effettivamente hanno nella realtà.

 

G.G.:

Poi abbiamo una stratificazione di significanti, come successivi livelli di plastica scenografica. Sulle prime ho pensato come si potessero leggere, nel contempo, tre significanti graficamente sovrapposti. E come fosse distante il visitare il senso dal renderlo esplicito. Il significante mentale che ne risulta, non è una mera sovrapposizione di parole che perdono forma e senso l’una dell’altra, ma proprio, mi pare di aver scorto, quel meccanismo del fondale barocco, di scenografie mobili, o come strutture collocate a profondità diverse che creano, una dietro l’altra, una visione prospettica. È prospettica la scrittura di (((. Sovrapporre i significanti è una scelta visuale o un ulteriore possibile forma di c-oralità?

 

A.D.F.: In effetti i termini sovrapposti, in tutti i miei lavori, sono pensati per essere letti da più persone simultaneamente. Dal punto di vista visivo, non si tratta di una forma per così dire minimalista di poesia visiva o concreta, quanto piuttosto di un espediente semantico, poetico e narrativo che pensa la pagina come spazio, e la poesia come un linguaggio multidimensionale, in cui le lettrici o i lettori sono invitate/i ad immergersi. C’è inoltre per me una continuità assoluta tra la pagina – di cui questi semplici espedienti tipografici rivelano ulteriormente la spazialità – e le mie installazioni audio, video o in realtà virtuale, o appunto le letture-performance corali, dove il testo poetico, spesso anche lo stesso testo che si trova nel libro, viene esperito spazialmente e collettivamente. Il testo poetico si rivela per quello che è: spazio e mondo. La sovrapposizione delle parole ha, come tutto il resto del testo, una necessità strettamente poetica, scaturente dal presupposto che certe cose possono essere dette solo in un certo modo, ed è precisamente per questo che esiste la poesia. La poesia emerge quando è necessario dire cose che non possono essere dette altrimenti. Il barocco, infine, è certamente presente nella mia ricerca, nella sua capacità di creare profondità, che qui però non sono trompe l’oeil, ma realtà della parola, ed anche nella capacità che ha la poesia barocca di inventare dei legami cognitivi con l’inconoscibile e l’immateriale: penso a Sor Juana Ines de la Cruz, a Thomas Traherne, a Margaret Cavendish, a Pierre Le Moyne, allo stesso Milton, e a tanti altri poeti del Seicento.

 

G.G.:

da lontano la buccia porosa sembra una bolla lucida una superficie da cui vedere tutte le finestre ma senza potervi leggere dentro quando il tuo volto è contro il mio non posso vederti    il tatto    questo atto di trasportare masse organiche fuori dal recipiente

Per te la poesia è più legata all’immagine o alla parola? e a proposito dell’immagine, cosa ci dici della tua copertina – mi evoca un’olografia, un uno nel tutto e viceversa – elaborata insieme a Laila Dell’Anno?

 

A.D.F.: Quando definisco la mia poesia come pratica artistica intendo, tra le altre cose, che la poesia è per me un modo per generare delle immagini mentali che sono libere dalla rappresentazione. È il linguaggio che ci permette di creare delle immagini fluide, non definite, non fisse, in evoluzione e in connessione diretta con concetti e sentimenti, e la poesia è la forma linguistica più sofisticata e più potente per ottenere questo risultato. Inoltre per me la poesia è un paradosso: usa il linguaggio per raggiungere una percezione del reale che si sottrae al linguaggio stesso, oltre che talora al visibile e all’immaginabile. Per cui direi che per me la poesia, compresa ovviamente la poesia di (((, non ha a che vedere né con l’immagine, o con la parola, come rappresentazione o finzione, né con la parola nel senso novecentesco-heideggeriano di una parola poetica assoluta sull’orlo dell’indicibile, ma piuttosto con un continuo fluido tra immagine mentale, emozione e concetto che produce orizzonti cognitivi intensificati e orizzontali, aperti.

Detto questo, è vero che mi capita di utilizzare, all’inizio dei miei libri e per la prima volta qui in copertina, una fotografia che è una sorta di chiave di lettura, o meglio di visione sincretica, di alcuni aspetti tematici dei testi a seguire. In questo caso si tratta di una sovrapposizione digitale tra la fotografia di una pietra trovata su una spiaggia in California all’interno di una polla circolare e la fotografia di una sfera di vetro. Questi oggetti sono evocati nel libro, in testi in cui si parla di peso, di mano, di rapporto tra organico e artificiale, e di livelli della sostanza e della materia, dalla pietra al pianeta.

 

G.G.:

si tratterebbe di un pianeta trasparente il cui centro vuoto sarebbe visibile dalla superficie   la lentezza del suo moto distorce da milioni di anni quella struttura buia dietro lo spazio convesso

Il desiderio – de-sidus (sidus = stella): cessare di contemplare le stelle a scopo augurale – è quella vacanza spostata più in là e mai pienamente godibile. Ecco perché l’andamento di ((( mi pare quello di un giallo, il senso slitta sempre più in là e ci comporta in una semantica sensoriale che destabilizza armonicamente la di-visione del mondo appena appresa. C’è quel mondo di cui si parla, c’è nel bulbo dell’animale, nel muto procedere del tempo. Perché hai desiderato proprio (((?

 

A.D.F.: Direi che ((( esprime un desiderio di presenza, di reale, di qualcosa che c’è già. Per una volta ciò che è desiderato non è qualcosa di spostato e mai pienamente raggiunto, definito dalla sua assenza, ma il tutto che esiste, tutto quello che c’è, nella speranza che riusciremo sempre meglio, anche noi esseri umani, a sentirlo e ad abbracciarlo, a cominciare dal linguaggio. Così la stella più lontana o il fenomeno inosservabile diventano in ((( materia e sostanza che si trovano sullo stesso piano ontologico e hanno lo stesso grado di presenza rispetto a un animale o alla pietra di cui sopra. Il laggiù – gli orizzonti lontani di cui hai parlato – è qui in quanto materia, e l’inosservabile e l’immateriale sono anche loro sostanza che partecipa alla vita del reale. Tutto è nel tutto, senza soluzione di continuità. Il senso, aperto, multidimensionale, contenuto in questi testi, cerca di evidenziare questa presenza, e di farne parte, fosse anche come piccola porzione, come momento. Per questo mi piace dire che la poesia, da questo punto di vista, è una traduzione del tutto. Vogliamo inventare un neologismo, e dire che (((, anziché un “de-siderio”, è un “siderio”, un tentativo di siderare senza spostare né spostarci, anche nel senso della Verschiebung freudiana? Lo spostamento certo però avviene sul piano strutturale e narrativo, perché è solo con un andamento non lineare, rizomatico, inconcluso, e talvolta indefinito benché, come ricordi tu, sempre sensoriale, che può avvenire questo invito ad un’esperienza simultanea, multipla e corale del mondo e del linguaggio. L’elemento quasi da libro giallo, che osservi giustamente, viene secondo me proprio dalla successione e dalle relazioni “non lineari” tra i testi di (((. Ma lo stesso reale è non lineare, in quanto aperto, imprevedibile, contingente.

 

G.G.:

~0.00002 R 3 gyr pulsar rotatore obliquo radiazione irradiamento irradiazione di archi di luce ai lati della strada che sale nel buio PSR B 1620 – 26b è un pianeta antico quasi quanto l’universo la sua origine sarebbe avvenuta quasi 13 miliardi di anni fa 12400 ly 1.35 / 0.34 M 2.5 ± 1 Mj ? / 13 gyr PSR B 1620 – 26b è una massa che orbita in un sistema altrimenti ignoto da cui verrà eiettata un fenomeno di spostamento interstellare permanente nel vuoto curvo ai lati della strada che sale gli alberi

Ouspensky nel suo Frammenti di un insegnamento sconosciuto – mentre leggevo ((( l’ho aperto a caso come spesso faccio tra le varie letture – ho letto che se un uomo comincia a sentire la vita dei pianeti comincia simultaneamente a sentire la vita degli atomi. Non tanto di oroscopi, o forse sì, si tratta, quanto di un’idea panica di congiunzione astro-fisica: in ((( si percepisce quest’apertura all’altro grande e all’altro piccolo, nello stesso tempo, e non v’è gerarchia che collochi su diversi piani le qualità, e non c’è modo di svilire una de-scrittura totale del caosmo poetico. Il corpo e i corpi celesti. Il corpo terrestre e la terra che lo ospita. Cosa è la voce in una poesia che diventa collezione di strati, dialettica di sguardi e significanti multipli?

 

A.D.F.: È una poesia del reale, un inno alla vita e a quello che c’è, laddove, in questo c’è, c’è anche l’impossibile, l’inosservabile, l’impensabile, il reale in tutte le sue estensioni, la sostanza spinoziana che unisce fisica e metafisica, corpo e immateriale, e certo anche la fisica teorica moderna che sempre più tende ad unire, con modelli simili, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Ricordiamoci però che più del 90% del cosmo è costituito da due forme della materia, le cui proprietà ci sono ancora oggi sostanzialmente sconosciute, che i fisici chiamano per convenzione “materia oscura” ed “energia oscura”. Esse non hanno nessuna relazione con la fisica delle particelle come la conosciamo oggi. Anche di queste dimensioni inosservabili rende conto la poesia, ma le riporta qui, le mette, come direbbe Wittgenstein, sullo stesso piano della lampada, del tavolo, della porta, degli oggetti e degli eventi che ci circondano, e poi anche degli eventi storici collettivi e individuali, e dei traumi ad essi legati. Tutti questi piani sono appunto connessi, con-fusi. Per questo gli strati semantici di questa poesia sono multipli, se non infiniti. La voce quindi è la voce del tutto ancora una volta, a cominciare dalla voce di noi umani, perché la poesia spera sempre che il linguaggio possa unirci al di là dei nostri biechi e meschini conflitti contingenti, e superare le gerarchie e le frustrazioni del potere. Un’unione orizzontale, non autoritaria, molteplice, come lo stesso ingranaggio poetico attivato, almeno così spero, in (((.

 

 

G.G.:

 

Appare la mano, il suo gesto, la grafia di un corpo che oppone il suo Reale pulsionale insimbolizzabile. Non credo che il significante palla sia solo una presenza visiva, ma invece testimonianza dell’assenza creativa, del vuoto potenziale, simbolo del corpo. Una ferita della mano nel corpo digitato dalla macchina. Alla macchina che omologa i segni del desiderio, la mano-palla oppone, dialettica, la macchina del desiderio, della carne. Che rapporto ha (((, e più in generale la tua arte, con il corpo?

 

A.D.F.: Innanzitutto tengo a precisare che questa parola scritta a mano, che definisci in modo molto bello ed esatto come “ferita nel corpo digitato della macchina”, indica, sul piano del significante, la palla (ancora una volta anche sfera, corpo celeste) di un bambino o di una bambina, altrove nel libro anche giocattolo che questo bambino o bambina – che non è ovviamente un personaggio ma una classe, per così dire, di persone e di eventi – tiene stretto vicino al corpo durante una situazione di conflitto armato, o mentre non può più parlare quando le vengono fatte domande su qualcosa che è accaduto. L’autorità, la violenza, la guerra, il trauma, l’ingiustizia, si amplificano quando perpetrati a danno dei bambini, e lasciano segni da generazione in generazione, come una tragedia greca, e di questo anche parla (((. Ma questa palla è anche una possibilità futura, è la riscoperta di uno spazio e di un corpo che nonostante tutto respira e vive, anche se è indefinito e indefinibile, inarticolato; la vita dell’inosservabile, l’esistenza di un’alternativa che non si trova, ancora una volta, su un piano diverso, ma qui con noi, se la vogliamo intraprendere. Perciò, forse, le poesie più corporee di ((( sono spesso anche le più astratte e indefinite. Perché in questi corpi contengono tutti i corpi possibili, anche quelli ancora inimmaginabili. Ed anche perché la poesia cerca di rendere linguaggio ciò che non può essere immaginato, ovvero di fondare la sua azione sull’impossibile e sull’ignoto. In questo stanno, a mio avviso, sia la sua potenza che il suo scacco.

Su un piano pratico, che è però legato a questa dimensione concettuale, e dal punto di vista della mia pratica artistica in generale, il corpo ha una posizione anche qui molteplice: innanzitutto è il corpo di una parola che si scopre materia e spazio, mondo ed ambiente. Inoltre è il corpo del performer che però si cancella dietro l’enunciazione stessa; il corpo individuale cede il passo al corpo corale, e alla voce stessa come corpo, che si fa presenza immateriale al posto del corpo. Tale traduzione del testo nel corpo, nello spazio e nella voce, a cominciare dall’oggetto-libro stesso, che concepisco né più né meno come una scultura, rende conto di questa oscillazione tra materia e immateriale nel corpo del testo, di questa interazione vitale tra l’indefinito, l’astratto, l’orizzonte inconoscibile, e l’hic et nunc, la presenza del reale, della natura e delle cose, in potenzialmente tutte le sue manifestazioni.

 

il Due come prossimo titolo

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di Mia Lecomte

La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani di Giuseppe A. Samonà

In uno dei pochi accenni autobiografici di questo libro meravigliosamente “estro-verso” – sempre oltre l’autore, altrove, all’ascolto della comune umanità nel tempo – Giuseppe Samonà-bambino chiede al padre: “Come mai gli uomini si spostano?”. Ormai adulto, forte dei molti spostamenti geografici e linguistici con cui ha costruito il proprio percorso di studioso e scrittore, prova ora a rispondersi/ci avvicinando la lente di ingrandimento a un’area geografica esemplare, coagulo di transiti e destini, paradosso di frontiere. Trieste, la Slovenia, Zagabria… l’Istria dove “ci sono moltissime cittadine, villaggi pieni, meno pieni, vuoti… Ci sono moltissime isole, grandi e piccole”, come recita giocosa la prima delle cartine manufatte disseminate tra le pagine del volume, che apre agli “itinerari di questo libro”. Forse sono proprio queste mappe, e le piccole fotografie commentate con cui si alternano – opera della “compagna di viaggi” dell’autore, Sophie Jankélévitch – a dirci di che cosa si stia davvero parlando. Lievi, poetiche, fanno da controcanto al testo, come le didascalie di un film muto, o la descrizione dei miracoli negli affreschi di un santo popolare. Perché questo è anche il diario del viaggio preannunciato dal sottotitolo, o meglio ancora una «ipotesi di percorso, nello spazio e nel tempo, e di riflessione, contemplazione», come puntualizza l’autore nella postfazione; ma il significato del viaggiare in questione, di questo percorrere ragionato e contemplativo, è tutt’altro che scontato.
Nei libri di viaggio, l’autore è spesso troppo presente, ingombrante. Qui, attraverso i continui riferimenti e rimandi storici, letterari, la presenza è lasciata agli altri. L’autore osserva e si osserva camminare, esiste solo nei paesaggi delicatamente saturi di colore, nelle architetture, nel fuggevole ricordo di alcuni luoghi – altri viaggi, la sua Sicilia – coerente al proposito dichiarato di “scomparire” dietro ai suggerimenti, nel riverberare altrui. Passo a passo – il ritmo della marcia, un’incalzante lentezza, è il principale strumento di osservazione e continuiamo a “sentirlo” anche dopo aver interrotto la lettura – Samonà ci fa entrare nel suo raggio d’osservazione, in questo frammento ingrandito di mondo: un brulichio intelligente e documentatissimo di Storia e storie, luoghi, date, eventi, opere, personaggi, scrittori, poeti, musicisti, artisti…; politico, realmente politico, e lirico, in un abbraccio diacronico senza gerarchie. Il viaggio promesso sta dunque in questo appassionante corteo, ritmato e promiscuo, di uomini e gesta; che è poi lo stesso procedimento adottato dall’autore nel suo precedente Quelle cose scomparse, parole, dove a brulicare, a copulare fertili erano le voci esponenziali del proprio glossario personale. Ma più si entra nei dettagli delle vite, delle vicende, delle molte opere citate – più la lente s’avvicina per ingrandire – e più l’immagine perde di realtà. Come quelle piantine, quelle fotografie, che dovrebbero essere lì per testimoniare un percorso, e invece ci raccontano di un sogno, un’illusione.
A mano a mano che ci lasciamo portare per questi luoghi, si fa sempre più evidente l’idea che questo viaggio e il suo viaggiatore-assente – la zolla esemplare di mondo e lo sguardo al di là della lente – si alimentino dello stesso s-paesamento, un «décalage che mette a loro agio tutti i décalés». Dove l’unica realtà sta nelle parole: quelle che Samonà usa sapientemente come una formula magica per dare consistenza alla verità fugace delle cose umane; e quelle della lingua che ha inglobato le frontiere in un nome composito e si è fatta carico delle lacerazioni.
È un precipitato di imperi, regni, stati – austro-ungarico, ottomano, jugoslavo, italiano…– questo frammento pre-balcanico, un condensato di frontiere che si sono intersecate nei secoli, in un sovrapporsi cacofonico di intenzioni. Limbo per esistenze sospese di “misti”, “rimasti”, sempre “in bilico”, come tale è emblematico della caducità di ogni umano potere, della volatilità delle barriere erette per difenderlo e glorificarlo, che si confondono e si arrendono. Perché, ci ricorda l’autore «Proprio nel momento in cui affermiamo una proprietà, ne vanifichiamo la ragion d’essere, rivelando che le eredità sono il trionfo dei miscugli, e la terra che si pretende amare è un tempo, più che uno spazio…». E nel tempo, si sa, tutto è destinato a finire, ogni limite, mura che, dalla sua prospettiva, esprimono solo «il segreto bisogno dell’altro, dell’incontro», consegnano Ettore alla lancia mortale di Achille per poi farsi rovine.
Nell’esemplare variazione di tempo che si dispiega nelle pagine di questo libro, cadenzata dai passi del viaggiatore Samonà, arpenteur dell’impermanenza, non sono solo le frontiere geografiche o linguistico-culturali a spaesarsi, ma anche quelle “tra follia e normalità, o persino tra maschile e femminile, tra uomini e animali e magari, perché no, fra sentimenti, fra desideri”, che restano appese al vuoto come bandiere lacerate.
Eppure – c’è sempre un eppure, a perpetuare… – nell’ultimo capitolo del libro, qualcosa sembra ancora resistere, luccicare sotto tutto il resto: l’indo-cambogiano-americano Jay, riemerso dal passato di fronte alla stazione di Zagabria, con la sua giovinezza inaspettata e perenne dischiude una prospettiva di speranza, riaccende le utopie. Rinnova la voce che, con dolcezza, sempre domandando, si/ci congeda. Come mai gli uomini si spostano?

Intervista a Marco Giovenale su “Quasi tutti”

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Intervista a cura di Gianluca Garrapa

La presente versione di Quasi tutti (Miraggi ed., 2018), da considerare definitiva, emenda qualche ingenuità e refuso della prima edizione, e si presenta in alcuni punti riveduta, a livello macro- e microtestuale.

 

Gianluca Garrapa: ci racconti la genesi del testo? E dei microscopi e telescopi testuali come fanno direzionati per curarsi del reale e simbolizzarlo sulla pagina?

Intensificare la vita ovvero il tempo degli eventi ( opinioni di un disadattato)

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di Giorgio Mascitelli

Prima dell’avvento dell’epidemia di Covid 19 e delle conseguenti misure di distanziamento la forma di vita sociale più tipicamente contemporanea nelle nostre città era quella dell’organizzazione di grosse manifestazioni che tuttavia non restano confinate in uno spazio apposito magari di tipo fieristico, ma tendono a coinvolgere tutto il territorio cittadino con una miriade di eventi collaterali o addirittura non hanno nessun evento centrale, ma consistono proprio nella diffusione sul territorio. Manifestazioni come Il Salone del mobile o Milano city books non sono che varianti locali di un modalità diffusa in tutte le metropoli occidentali e che se non sarà possibile ripristinare nel giro di breve  tempo, entro un anno al massimo, determinerà una crisi sia dell’economia che la sostiene sia dei modelli ideologici di riferimento, portando in breve a una crisi di paradigma.

Si tratta di manifestazioni che richiedono una partecipazione per così dire assiduamente assoluta e un impegno che sembra essere più tipico di un contesto lavorativo, pur apparendo a prima vista forme innanzi tutto di intrattenimento: spesso due appuntamenti sono collocati a breve distanza temporale, ma in luoghi molto lontani della città, il numero stesso delle  iniziative è chiaramente superiore alle capacità di presenza di un individuo, le forme della convivialità sono regolate dall’etichetta sociale dominante e perfino la consultazione del catalogo della manifestazione diventa già un lavoro in sé. In questo contesto seguire un numero anche ristretto di eventi richiede una prestazione di un certo livello anche sul piano fisico con il suo carico di stress e il senso di fallimento e di isolamento sociale nel caso non si possa mantenere il livello di presenzialismo che ognuno si è posto silenziosamente come proprio obiettivo. Gli eventi della manifestazione scandiscono il tempo, che è un tempo accelerato, sicuramente superiore alle capacità individuali di movimento e attenzione, e così il singolo evento cessa di avere un significato specifico e diventa parte di un flusso continuo. In fondo queste grandi manifestazioni non ripropongono che in forma concentrata quella logica degli eventi, che troviamo in un normale fine settimana o anche nel sistema mediatico e nei social. Il premio però che offrono in palio a chi affronta la prova e ne esce vittorioso è la convinzione di vivere una vita piena e intensa, in cui si coglie il meglio per la propria autostima che una realtà vorticosa lascia intravvedere. Non è peraltro un fatto nuovo la presenza di un elemento performativo nei piaceri sociali liberamenti scelti: si sa che indossare gli abiti che le dame dell’alta società settecentesca portavano nelle occasioni più prestigiose richiedeva una vera e propria performance atletica con la non trascurabile differenza che essi rientravano nei non numerosi obblighi sociali di un’élite per tutto il resto riverita e servita, mentre attualmente sono lo sforzo minimo richiesto a chiunque voglia sentirsi cittadino del mondo.

Come scrivevo sopra, uno dei caratteri principali del flusso degli eventi, sia di quelli previsti nelle manifestazioni sia di quelli che punteggiano la vita quotidiana,  è quello di dare un preciso ritmo, elevato e possibilmente crescente, alla scansione temporale della vita sociale e del tempo libero del singolo, il che è un elemento sorprendente per una cultura moderna, nella quale la misurazione esatta del tempo è legata al ritmo di lavoro, la ricerca sistematica della sua intensificazione al calcolo della produttività e dunque all’industrializzazione. Si ha qui invece un’intensificazione dei ritmi del tempo non lavorato e un nuovo Charlot protagonista di un ipotetico remake di Tempi moderni forse non avrebbe bisogno del suono della sirena d’inizio turno per dedicarsi alle sue mansioni con ritmi folli. Pare probabile che questa accelerazione del tempo libero sia un segno del fatto che tempo libero e tempo di lavoro tendano a mescolarsi e a tracimare reciprocamente negli spazi riservati all’altro e questo, a sua volta, sia connesso con quel fenomeno che alcuni critici dell’attuale società hanno chiamato svolta linguistica dell’economia, che sarebbe poi la tendenza del capitale a mettere a profitto non solo l’attività produttiva nel senso tradizionale del termine ma l’attitudine comunicativa dell’uomo e tutti gli aspetti della vita.

Se il tempo degli eventi è un tempo accelerato e per più di un verso simile a quello lavorativo, che a sua volta subisce delle modificazioni postfordiste per così dire, come attesta la diffusione delle varie forme di orario flessibile e di lavoro informatizzato potenzialmente senza limiti di tempo, possiamo notare un carattere profondamente divergente dalla dimensione festiva popolare nel senso classico che propone un’altra temporalità rispetto al calendario normale e alla sua organizzazione. La festa popolare tradizionale propone un rallentamento dei ritmi di vita rispetto a quelli feriali. Non alludo qui alla festa popolare storica, al Carnevale medievale, portatore di una sua propria cultura e visione del mondo, ma semplicemente a quelle feste che esistono o sono esistite nel mondo moderno industriale, ma che si sono formate spontaneamente senza nessuna forma di governo. Un esempio, anche becero se si vuole, è quello della partita di calcio, il cui tempo per gli spettatori, specie nelle curve e nei settori caldi dello stadio, era ben superiore a quello della durata della partita in sé perché era preceduto da canti, schiamazzi, bevute e spuntini sia dentro lo stadio sia fuori, mentre da quando gli incassi del calcio coincidono per la maggior parte nella cessione dei diritti televisivi lo sforzo è portare gli spettatori allo stadio esattamente per il tempo che dura la partita.

Uno dei caratteri dominanti dell’attuale società neoliberista è l’introduzione di una dimensione didattica permanente che deve servire a far interiorizzare agli individui alcuni elementi essenzialmente propedeutici alla vita nel mercato, in particolare le idee di performance individuale, di autovalutazione continua delle proprie prestazioni e di competizione. Questo processo non è naturalmente gestito soltanto dalle agenzie formative tradizionali, scuola, media e famiglie, ma trova la sua più completa realizzazione nell’esperienza sociale generale, in questo senso il modello di socialità basato sugli eventi ha un ruolo di primo piano perché consente di introiettare la performance e l’adeguamento a ritmi accelerati come orizzonte necessario per raggiungere il godimento.

In uno dei libri più citati, non so se altrettanto letti, della seconda metà del secolo scorso, La società dello spettacolo, Guy Debord scriveva che “è noto che il risparmio di tempo costantemente perseguito dalla società moderna- che si tratti della velocità dei trasporti o dell’uso di minestre in polvere –  si traduce positivamente per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la sola contemplazione della televisione la tiene occupata in media da tre a sei ore al giorno” ( trad.it., 1997, tesi 153, pag.143). In un certo senso il tempo degli eventi che viviamo oggi è figlio di questo uso del tempo, che Debord chiamava  tempo spettacolare, ma in un punto decisivo se ne allontana. Ne è figlio perché la temporalità degli eventi è una forma di merce, esattamente come il tempo spettacolare, destinata a essere consumato all’interno di uno stile di vita che è essenzialmente consumo di esperienze come merci di un supermercato; se ne distacca perché in Debord è chiaro che la dimensione del tempo spettacolare è fondamentalmente contemplativa, tipica di uno spettatore che guardi degli spettacoli, mentre il tempo degli eventi è caratterizzato in primo luogo da un elemento performativo e quasi attivistico. Questa trasformazione può essere spiegata in prima battuta con un cambio di paradigma politicoeconomico: da un capitalismo che vive il proprio boom in paesi democratici in cui lo scopo principale è addormentare la popolazione perché il suo attivismo rischia di alimentare il conflitto sociale a un capitalismo di tipo neoliberista che per garantire il mantenimento del livello dei profitti deve mettere al lavoro ogni aspetto della vita umana, avendo ormai virtualmente frantumato le possibilità del conflitto sociale, che è ridotto a un elemento resistenziale non in grado di condizionare il funzionamento della macchina economica, e dunque può sollecitare nelle masse una mobilitazione individualizzata che coincide nell’idea che si debba intensificare la propria vita ( fare più cose in meno tempo) per realizzarla.

La socialità che gli eventi promuovono, in fin dei conti, è già una socialità competitiva in cui ogni soggetto introietta il concetto di prestazione. Non è un caso che  Peter Sloterdijk nel commendevole  tentativo di dare un’interpretazione positiva di questo fenomeno, strappandolo alle attenzioni pelose di critici e disadattati, alcuni anni fa intitolava un libro molto fortunato Devi cambiare la tua vita,  nel quale curiosamente questo imperativo, che di solito assume un valore etico o religioso, viene inteso come miglioramento delle prestazioni fino al superamento delle posizioni di partenza, in senso quantitativo e intensivo. Proprio stamattina ho ricevuto un sms di pubblicitario che iniziava  con l’invito a cambiare la propria vita e finiva con la raccomandazione di comperare azioni Amazon per realizzare questo cambiamento. L’anonimo estensore del messaggio pubblicitario si è dimostrato il più acuto interprete della tesi di Sloterdijk. Per cambiare la propria vita non si tratta più di ritornare sulla retta via o di andare a vivere in Polinesia, ma di ottimizzare e intensificare le proprie prestazioni. L’organizzazione della vita sociale per eventi rientra in questo percorso di cambiamento della propria vita ossia di sua intensificazione, anzi ne è una delle colonne portanti perché diffonde la convinzione che una vita intensa sia una vita dalle cadenze sempre più veloci.

Ora, le misure di distanziamento sociale seguite alla pandemia vanno a colpire questa modalità di relazione in modo particolare perché essa si basa su una accelerazione funzionale all’aumento dei contatti individuali: se questa modalità non verrà ripresa al più presto, visto che non è sostituibile se non per brevi periodi con contatti virtuali, potremmo trovarci di fronte a una crisi di identità di una parte considerevole della popolazione, specie della parte che sui giornali viene definita come la più dinamica. Infatti la crisi di quel modello di socialità coinvolgerebbe anche il processo di autoriconoscimento sociale e di individuazione del singolo e questo a sua volta metterebbe in crisi anche un tipo di economia degli eventi che nei centri urbani si è sviluppata su questo processo. E’ chiaro che qui si apre una linea di frattura piuttosto interessante perché da un lato ci sarà una spinta a ritornare quanto primo alla normalità degli eventi e dall’altro ci sarà chi vuole sfruttare le economie che il lavoro domestico fa realizzare, mettendo però fatalmente in crisi l’economia degli eventi. Si prospettano tempi duri insomma, ma restando in equilibrio su questa linea potrebbe anche essere un’occasione per provare a vivere con lentezza.