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La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia (prima parte)

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NOTA INTRODUTTIVA

 

Magdalo Mussio, In pratica

 

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

 

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

SOGLIA

 

«It is all very well to keep silence, but one has

also to consider the kind of silence one keeps.»

 

Samuel Beckett, The Unnamable

 

 

«A rigor di termini non credo che la sua posizione offra nessun futuro,

né remoto né prossimo, né politico né poetico: ma questo è altro discorso[…]»

 

Franco Fortini, Lettera a Corrado Costa

 

 

«Glossators and their kind are incessantly in search

of the animating element in their textual objects that bears no name. 

[…] They knew how to find the secret source

of incompletion sealed in every work of thought.»

 

Daniel Heller-Roazen, The inner touch

 

 

TAVOLA DEGLI INTERVENTI

PRIMA PARTE

 

Giulia MartiniAldo TagliaferriDavide Brullo / Polisemie (Mattia Caponi, Costantino Turchi) / Francesco Iannone / Giovanna Frene / Carlo Selan / Marco Giovenale / Mattia Tarantino / Carlo RaglianiMarilina CiacoSergio Rotino

 

SECONDA PARTE

(in uscita il 29 marzo)

 

Matteo Meschiari / Andrea Inglese / Davide Nota / Renata Morresi / Riccardo Canaletti / Bianca Battilocchi / Anterem (Flavio Ermini, Ranieri Teti) / Mariangela Guatteri / Mario Famularo / Fabio Orecchini / Giovanni Prosperi

 

TERZA PARTE

(uscita il 31 maggio)

 

 

 

GIULIA MARTINI

 

Firenze, 6 gennaio 2020

Caro Giorgiomaria,

la domanda di partenza del tuo questionario, se ho ben capito, è se sia «ancora legittima la radice dell’inchiostro». Ti domando, a mia volta, se e in quale epoca non lo sia stata, recente o lontana nel tempo. Parli dello «scrivere stesso, malgrado le storture» – ma non si scrive proprio perché le storture?

E quanto più le storture perdurano, tanto più la radice della scrittura ne sarà legittimata.

Se c’è, come dice Quinzio, una «fine […] decretata» per il gesto poetico e più in generale per la letteratura, questa fine coinciderà necessariamente con la nostra fine tout court, proprio in virtù di quella che sembra essere la particolarità del gesto poetico: renderci la realtà interessante con l’additivo della finzione (ma leggi anche duttile, digeribile, benevola rispetto al tempo). In questo senso, quella radice mi sembra non solo legittima ma anche auto-legittimante.

Rispetto invece al rapporto tra scrittura e conoscenza, la rinuncia a questo gesto, cioè la rinuncia al dire, potrebbe venire da quel senso di essere «citati in giudizio» di cui scrivi: sempre se ho capito bene, sarebbe lo sconcerto di essere chiamati a testimonianza di qualcosa, per esempio di un delitto, senza la memoria di avervi assistito.

Ma perché Omero è cieco? Se qualcuno può testimoniare il non-conosciuto, questi sarà proprio il poeta, in quanto scriba, scriptor, scrivente di un dettato che per larga parte lo trascende, quindi dotato della capacità di antivedere.

Occorre quindi, forse, distinguere, quando si parla di rinuncia al dire, a cosa si stia effettivamente rinunciando: perché se il poeta può esimersi dal dire il dicibile, passando inosservato, non altrettanto impunemente potrà dissociarsi dal tentativo di dire l’indicibile, che è la sua vera missione, come Dante ci mostra bene.

Farsi tramite, cioè, di quelle cose che solo la poesia può dire, con il suo linguaggio preciso, che ha a che fare sostanzialmente con il pre-linguistico della materia e del mondo. Mi sembra questo, per chiudere con parole di nuovo tue, «il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare».

 

Con un caro saluto,

Giulia Martini

 

 

ALDO TAGLIAFERRI

 

Sulla scia di Emilio Villa molti suoi amici, contagiati da una tentazione diffusa tra poeti e artisti dopo Rimbaud, si sporsero sull’abisso di un silenzio senza ritorno, ma infine tornarono sui loro passi, a differenza di altri poeti, anche tra i maggiori, che incalzati da eventi insopportabili e pressanti erano stati risucchiati nel vortice mortifero. Nella prospettiva nazionale cui Cornelio si riferisce, la denuncia dell’insufficienza del linguaggio coincide, in Villa come in Beckett, con la caduta in uno stato di depressione dal quale il poeta non rinuncerà a uscire, mentre Costa, più flessibile dell’amico e socialmente accorto, non cessò di misurarsi con le difficoltà che incontrava, o aggirava, cercando un varco sul confine tra la parola e il segno. Diverso fu il caso di Spatola,  che aveva colto la tendenza delle arti a contaminarsi tra loro nella ricerca di una via del ritorno a uno stato aurorale. Un incombente “finale di partita” costituiva lo sfondo storico entro il quale questi poeti si mossero e tuttavia il “fatto accertato” della morte della poesia, per ciascuno dei poeti citati, Villa compreso, si tramutò in interrogazione, in indagine volta, se mai, ad accertare se non si trattasse di assistere al funerale di una idea di poesia tramontata insieme con l’idea di una cultura europea vincente e dispensatrice di civilizzazione. A fini del tutto diversi mirava la riflessione di Sergio Quinzio, indotto dal proprio nichilismo a giustificare la fede eludendo la filologia e introiettando la verità assoluta della lettera, come dimostra al di là di ogni dubbio la sua schermaglia con Guido Ceronetti, amichevole ma divisoria.

Non credo che si possa introdurre una esigenza di legittimità senza rischiare di offuscare i presupposti della questione, dato che, soprattutto a partire dalle avanguardie, la poesia si è ribellata alle pretese del simbolico di legiferare sui poteri del linguaggio. La contestazione dell’autorità del linguaggio come strumento di dominio discende direttamente dalla ricusazione del “come è”, di come stanno le cose e dell’uso corretto e ad esse correlato delle parole. La maledizione che ci viene “dall’alto” è quella della castrazione operata dal simbolico che, nella accezione lacaniana, costituisce la gabbia nella quale nasciamo e dalla quale cerchiamo di uscire. La maledizione ha un’origine teologica, nel senso che è scaturita da una Legge prestabilita, punto di riferimento di letture “ortodosse”, ma ha avuto una continuazione laica ancora più soffocante dopo aver trovato ospitalità in istituzioni accademiche spesso ridotte a allevamenti di flabellanti a cui traffici è consustanziale la tendenza a sminuzzare la poesia secondo prospettive disciplinari a loro volta governate dalle specifiche leggi richieste da insularità scientifiche. Nel creare un humus favorevole alla crescita delle arti si era dimostrato più produttivo ascoltare la voce di una divinità primitiva, ora loquace ora provocatoriamente taciturna, che seguire le istruzioni sempre aggiornate di istituzioni progressive.

L’operazione di rigetto messa in opera da Villa e dai suoi interlocutori prediletti, poeti e artisti, per quanto convulsa, nutrita di perplessità e ostacolata dai tecnocrati della parola, non fu affatto una opzione meramente dissipativa se non nella prospettiva avanzata da Nietzsche secondo la quale l’azione creatrice non va disgiunta da una distruttiva. Essi non dimenticavano che, dopo la morte di Dio annunciata dal filosofo e con l’avvento su scala globale dell’informazione tele-comandata e manipolata, era iniziata la serie negativa comprendente la morte dell’Autore, la fine della Storia e la crisi del Soggetto, eventi culturali concorrenti nel marginalizzare la rilevanza dell’arte in genere intesa come pratica culturale extra-sistemica, “controcorrente” (Lacan), “arrischiante” (Heidegger), e nell’acuire tra i poeti quel senso di estraneità ed esilio, rispetto ai discorsi e ai rituali ufficiali, già esperito da Baudelaire.

Se ci si propone di abbozzare una risposta plausibile ai quesiti posti da Cornelio, è comunque sconsigliabile prescindere dalla duplicità dell’atto di nominare, che da una parte è vivificante, nato dalla nostra corporeità e dalla nostra capacità di progettare, ma dall’altra comporta un aspetto mortifero teorizzato sia dalla tradizione filosofica che, messa in moto da Hegel, tramite Kojève arriva fino ad Agamben, sia dalla tradizione artistica accolta, e soprattutto praticata, da poeti e artisti diversi tra di loro ma reattivi nei confronti del quoziente di violenza implicito nella nominazione, come Gherasim Luca e Artaud. Al poeta della tarda modernità, consapevole di assumere, con l’atto di nominare, un potere che gli viene dalla partecipazione alla mitica uccisione del padre, e che è inscindibile dalla mitica colpa indagata da Freud, spetta ancora contrastare la castrazione simbolica ritorcendo il linguaggio contro se stesso. Questo è il compito perseguito da rappresentanti esemplari della letteratura novecentesca, coerentemente antifascisti, come Beckett, Celan e Villa, in esplicita ribellione contro le ingiunzioni oppressive di una “lingua madre” istituzionalizzata, ridotta a informazione devitalizzata e pubblicitaria, i cui custodi sono a loro volta consapevoli della valenza politica acquistata da una parola trasgressiva, sovvertitrice del funzionamento dello stato esistente. Gli effetti della sovversione non sono immediati, né pratici, come tutti sanno, ma indicano una via che può trasmettere, per contagio, speranze ed entusiasmi giudicati pericolosi: trasmettono vitalità, come aveva rilevato Leopardi e ribadito con tenacissima determinazione, nella incipiente modernità, Joyce.

Nel campo delle arti, data la insopprimibile natura relazionale della parola, risulta disfattista e velleitaria la decisione di togliere l’iniziativa alle parole per attribuirla alle cose confidando in un superiore stato di realtà di queste ultime (che ultime non sono, giungendoci elaborate attraverso le parole). Tradizionalmente incline a situarsi sul confine tra opposti che non si escludono tra di loro (cfr. l’infinito irrompente nel rapporto tra la siepe e l’orizzonte leopardiani), in area di tra-passo, e a far traballare ogni rigido confine tra parole e cose, il poeta si trova alle prese con parole scivolose e impoverite dai tipi alternativi di discorso che Lacan, sensibile alle sorti delle arti, aveva individuato e distinto.  Non si limita a proporre ibridazioni o connubi tra lingue diverse, spazializzazioni inedite, livelli di realtà eterogenei, stati depressivi e deliri di onnipotenza, tutti artifici che gli permettono di rapportarsi a una totalità sempre perseguita e sempre inconclusa, ma cerca la fruizione di un frère et semblable disposto a partecipare alla costruzione di un rebus in divenire (la stessa impresa in cui si erano impegnati i nostri avi più antichi inventandosi un linguaggio e, più precisamente, passando dal calcolo amministrativo al rapporto tra concreto stabile e astratto dinamico). Proponendo un ritorno alle origini, cioè alla enigmatica sequela di pittogrammi e icone tracciata dall’”uomo primordiale”, e sapendo, dopo Nietzsche, che a rigore tale meta è inattingibile, e dunque che l’impresa è destinata a un fallimento epistemico, ma ritenendo che solo quella destinazione assoluta valga la pena di essere ritentata (che si possa “fallire meglio”, come suggeriva la non-conclusione lasciataci da Beckett), Villa ha indicato la via paradossale di un travalicamento à rebours che ha affascinato e influenzato i suoi sparsi amici ed estimatori, ma ha anche esemplificato, percorrendola, i momenti traumatici e sacrificali coi quali l’artista si misura nel tentativo di rapportarsi alla totalità senza rassegnarsi a rinunciare a conseguirla.

 

 

 

DAVIDE BRULLO

 

non è aristocratico l’ingresso

nel Torturatore – basta decomporre

la rabbia in briciole di bene

con cui i bimbi crescono astuti

e stupidi a Est dove le città abusano di blu

 

nel retro del ghiacciaio il rumore

sembra quello di una sedia che scoppia

«con poche pietre potrò infliggerti

un pasto» disse una memoria

ruminata ora oltre

la perizia di latitudini e offese

 

disse di sentirsi in un velo

«nell’alveare dell’alba» scrisse quando

la sera lo costrinse a pensare

che neppure le parole sono umane

– poi si frantumò in quella cosa che ha molti cuori

 

«ci spinge al freddo un desiderio

di assoluzione e di assoluto»

*

il rientro dal frastuono stabilì

in marmo la marea – una ventata

di volpi confermò che tra la vita

e l’altra non c’è l’angelo ma protratta

violenza – «a Nord un grido sgretola

la cronaca e inchioda i ghiacci all’onestà»

è scritto nell’anagramma delle aurore

 

«ad uno è dato aggiogare le consonanti

all’alba perché sia vertiginosa la pronuncia»

 

dall’incastro iperboreo che sfiducia i prati

in stelle capì l’evoluzione del migrare

– la bambina si apposta nel lato barbaro

della stanza e sa ora che la debolezza

argina gli immortali –

 

l’assenza di serpenti non genera

l’innocenza e la colpa non colpisce

la babele delle banchise – «allora

giudicarono di aggiungere vipere» è scritto

– la bocca delle bisce fiorì nel ghiacciaio

come una rosa – «parlano le lingue

degli angeli» ma il ghiaccio

è un insegnamento indubbio

e autarchia è l’Antartide

 

 

 MATTIA CAPONI, COSTANTINO TURCHI

(POLISEMIE)

A e B, un dialoghetto radicale

 

A: Ancora una volta, siamo qui chiamati per rispondere allo spinoso quesito che attanaglia la poesia moderna: se scriverla, la poesia, sia legittimo o meno. Dal mio canto, mi trovo ad affermare come illegittimo sia ancora domandarsi se legittimo è in effetti scrivere poesia, almeno in questi termini. Stabilire se la scrittura della poesia sia legittima è impossibile, ancor di più se questa legittimazione è richiesta all’ispirazione, ovvero alla dedizione, in ogni caso a un altrove che precede la stessa scrittura: e ciò poiché sarebbe assente il campo di verifica. Solo il testo si propone a noi come luogo d’osservazione, sicché domandarci della sua legittimità, a posteriori, è dunque speculare su di esso in chiave metafisica.

 

B: Credo di essere d’accordo, fintanto che teniamo presente un particolare di portata molto ampia. Se è vero che pretendere di occuparsi di poesia (farla e disfarla è tutto un lavorare) fuori dell’ambito concreto porterebbe a perdere l’appiglio con la scientificità, col caso e con il reale in fin dei conti; se tutto ciò è e resta vero, scontrarsi con un testo o con un libro di poesie può rimettere in gioco la nozione di poesia; trasportando quel testo o quel libro, nel suo fare, un’idea poetica attuata, può estenderne o restringerne il campo semantico, fino a rendere obsoleti anche alcuni strumenti critici: non posso quindi che pensare (e temere) che ogni incontro possa minare la legittimità della poesia e di questa poesia.

 

A: Tu mi suggerisci che da un testo, leggendo il suo modo d’esser fatto, possiamo estrapolare da una parte un’idea specifica d’autore di cosa sia poesia, dunque da molti testi un’idea più astratta e condivisa; anche che la prima idea può provare a conformarsi con la seconda, oppure agonisticamente confrontarcisi, comunque relazionarcisi. Ammettiamo allora e piuttosto, dalla nostra parte di destinatari e tenendo da parte la poesia in generale, che ci si possa chiedere (e poi determinare) se una poesia – o un loro gruppo per conseguenza di estensione – si comporti secondo uno dei due casi nei confronti della convenzione (ma leggi anche: tradizione). Ebbene, se non volessimo cadere subito in una petizione di principio per cui solo una delle due tendenze è imposta come legittima, non trovo possibile comunque designare come tali certe poesie anziché altre, da uno e dall’altro insieme, senza addurre principi che a quelle siano estranei.

 

B: Noi, perdendo le qualità coi tempi, stiamo lasciando indietro la pelle vecchia di una poetica composita e discorsiva – non solo di un «gruppo» di testi, ma una organizzazione testuale strutturata. Ma che non si facciano valere princìpi esterni lo dimostra il fatto che gli unici cardini che si possono cercare sono nel testo – altrimenti non sono. Il metodo, quando vuole quindi affrontare i nostri casi, varrà per un’«idea specifica» e autoriale o potrà applicarsi e rimodularsi nei confronti di ogni particolarità? E la legittimità (come problema e non come tema) cacciata dalla porta rientra passando dal cortile, dove Govoni fa crescere il suo rosmarino profumato che si accalca fra mill’altre cose sul bordo di che cos’è poesia: spingendo perché il limite s’allarghi, si sgualcisca – e crudelmente lo infiacchisce. Questo perché l’agone ritorna nell’ambito della cultura autoriale e col tempo sempre più personale, dove un poeta non si adegua ad una tradizione egemone e ad una retorica prescritta. Lavora, prova e riscrive per formarsi una cultura ed una prassi personale – non per forza antagonista. Scavare all’interno della concettualizzazione di un poeta serve proprio a vedere se e come questi si trova nei confronti della cultura, della tradizione; se si sta creando dei mezzi per attraversarli e crearsi una voce, una forma e dei modi propri.

A: Ma come monete estratte da un forziere il cui contenuto è limitato, le qualità dei tempi si perdono solo in attesa di guadagnarne altre: ed eccoci ancora davanti al banco di questa transazione – schermato dal vetro, seduto in modo che solo a tratti ne vediamo il volto – il cassiere che chiamiamo condizioni esterne. E se possiamo lamentare l’abbandono di una poetica composita come l’arrugginirsi degli attrezzi, perché non prospettarci nuove poetiche e nuovi attrezzi, propri di questo secolo? Oltretutto, è più importante la composizione di una poetica o la mente che la compone, gli arnesi del fabbro o la mano che li userà? La legittimità, d’altronde, come tu la proponi, sorge dall’elaborazione della materia (per materialia surgit) e come tale non si distingue dalla sua sostanza di verità (mens hebes ad verum), sia questa sostanza del contenuto o della forma. Ma che questa verità espressa in stratagemmi non sia legata alla storia per quei tramiti che chiamiamo cultura oppure tradizione, la loro violazione, così come economia o società; ancora, che questa verità non si possa trovare esemplificata in qualche modo sia nel minimo che nel massimo impegno, tutto questo non lo posso credere.

B: La vediamo questa nuova poetica? Io piango ciò che ho visto e perso, non ciò che immagino e desidero. E da quando, nel poeta, si cerca la «mente» o sarà meglio dire lo spirito, piuttosto che le sue abilità tecniche e le sue capacità di critica, analisi, sintesi e descrizione culturale? La materia testuale occorre anche al poeta per elaborare il suo procedimento e la sua volontà formale, perché l’elaborazione teorica di un’opera si costruisce nel farsi dell’opera stessa e così partecipa all’invenzione degli strumenti tecnici costruendoli. Le condizioni storiche e culturali determinano, almeno in parte, l’insieme delle scelte possibili, e non possono non farlo rimanendo l’arte poetica (e quella critica) nelle pratiche umane e trovandosi legata dalla materia linguistica, carica di storia e di ideologia – lo sappiamo. È fra le necessità della storia costruire una cultura che rompa i legami col predeterminato, sia questo costruirsi una cultura o porsi da antagonista con essa.

A: Non so se tra le lettere la sua necessità mi apparve, o la possibilità di sviluppi ignoti: quindi chiameremo la storia una potenza da realizzare? Se sì, noi non possiamo che porci come umili traghettatori la cui imbarcazione si sfascia nell’uso per la fragilità del materiale, e le cui parti sfasciate dobbiamo rinnovare nel durante: e ciò, dopotutto, non mi sembra così dissimile da quanto sarebbe chiamato il poeta a fare – semplicemente è diverso il fiume che gli tocca attraversare, perché diversa è l’interazione. Ma ecco che una nota si impone: perché ieri di canne, oggi di legno, di resina domani, una canoa ancora guidata con la pagaia non chiameremo più tale? Perché ha cambiato ancora una volta tutti i suoi pezzi non diremo più che la nave di Teseo è del suo padrone? L’uso – o, perché no, la funzione – mi sembra il solo che in questa chiave possa dettar legge su ogni possibilità di legittimare.

 

 

FRANCESCO IANNONE

Silenzio celeste

 

Hai la vita, dice Antonio, ed ha sette anni. Perché non sei mai contento di niente? O Giuseppe che di anni ne ha quattro e da grande vuole fare il maestro elementare perché le deve salvare tutte le persone tristi. Io così dico che devono essere i poeti.

Solo i bambini e i poeti abitano allegramente le celle, o i vecchi quando sono finalmente dementi. Parola-cella, quindi parola-pertugio dentro cui il detenuto rigetta in cerchi il vapore dei polmoni e oltre il muro un’altra bocca pronta a raccoglierne l’alone nero. Così una volta ci insegnò Genet. Parola-bava che congiunge i vuoti facendoli tremare insieme alla solitudine del filo.

Mi vengono in mente le storie. Le fate sognate di notte, la tragica impiccagione del burattino cattivo e insolente. I due assassini che gli cavano le monete dalla bocca, il berretto di mollica che gli adombra la vista. Sono spaventose le fiabe. Più spaventose sono le vite sedate dal tepore della cenere. Stordite dalle sberle delle chiacchiere.

Percio siate gente del sì, siate i pazzi che ribaltano le ore con un grido e fanno del tempo uno zero mai iniziato. Siate i protesi con le biglie in gola, allevatori di disastri e non custodi del torpore. Siate gli avvezzi alle pozzanghere, gli inclini alle bizzarrie adolescenti. Siate gli innamorati del singolo preso nel morso delle folle. E siate pure le folle quando cantano gaie nelle piazze.
Mi direi così. Me lo direi immergendo la testa nell’acqua per ricordare ancora il fragore della nascita, il muggito gigante del mondobue.

Ma ho dimenticato tutto. Come quei sopravvissuti che non ricordano più niente. Dopo l’assedio, il silenzio della polvere. La veglia degli uccelli. Gli uomini dietro le porte chiuse. Le proteste mute del sangue che preme le arterie. Per andare verso dove?

Ringrazio allora per la pazienza della cova. Per le natiche abbandonate sul fieno della memoria. Per la crepa dilatata dal sibilo di una parola. Per la parola.

*

Frasi (da Parole del tempo)

Dopo la tormenta ora
balena il silenzio celeste.
Le mute frasi s’involano
in una piaga di amore
verso un confine statuario.
L’ultima delle mie ultime parole
giace attaccata alla penna
e segna uno spazio senza confine.

In quale nodo d’amore?

Lorenzo Calogero

 

 

 

GIOVANNA FRENE

L’attrazione della cornice (un omaggio a Baltrušaitis)

 

benché apparentemente discordi, le due leggi centrali della scultura romanica concorrono

parimenti con il loro horror vacui e con l’attrazione per i margini geometrici alla messa

in atto del regime delle forme elementari della struttura, sia su vasta scala che su scala

locale, come si vede in un dettagliato capitello del corridoio centrale del Tribunale dell’Aja, scolpito

nel 2005 da un anonimo maestro della Sezione Italiana del Comitato Internazionale per la Difesa di

[Slobodan

Milošević (d’ora in poi ICDSM Italia), che rappresenta in maniera allegorica il pensiero dello statista

serbo, il quale riteneva essere fondamentale per un politico mantenere l’unità del suo

Stato in modo appunto che nessuna avversità lo potesse spezzare, un po’ come quella palma che

laddove è più pressata da un grave peso resiste incurvandosi ad arco, e dunque il puer

arrampicandosi saldo otterrà poi buoni risultati senza abusi di potere, o pesi superflui

esorbitanti, e infatti mentre Slobodan aveva affermato in aula che ciò non rappresentava

un’aspirazione a un peso maggiore ma solo il giusto premio alla scalata, aveva le orbite

vuote, gli occhi proprio fuori delle orbite vuote, a cerchio, proprio

attratti dalla cornice della fossa, o dall’orrore, vacui

 

 

Descrizione. Esistono due diverse riproduzioni del capitello del corridoio centrale del

Tribunale dell’Aja. La prima è una versione disegnata a mano durante i giorni del processo

del leader serbo e poi utilizzata per realizzare una xilografia con fregio (Figura A); il fantasioso

artista ha spinto all’estremo la rappresentazione allegorica del capitello a forma di ciuffo di

palmizio oppresso e piegato dal peso di un grande tronco reciso, estendendo tale forma

anche alla rappresentazione della colonna, che in tal modo diventa il fusto della palma

medesima. Solo in seguito, un fotografo originario di Srebreniza in gita ricordo al Tribunale

dell’Aja ha fotografato il lato nascosto del capitello (Figura B), che sembra rispondere più

da vicino all’estetica del non-finito, perché il suo messaggio allegorico non è del tutto chiaro.

 

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[Giovanna Frene, nel mese dei februa 2020]

 

 

 

 

CARLO SELAN

Appunti per una scrittura in nota

 

Un ringraziamento a B. per un parlare

  

« Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. »

Si potrebbe partire da qui, da un termine che è glossatori, per delineare un perimetro, alcuni momenti di un percorso che abbia in sé l’esigenza di confrontarsi su possibili significati del concetto di ritorno in letteratura, su un atto di scrittura che sappia farsi e dirsi solamente laddove è situato in nota ad ulteriori testi, ereditando ma al tempo stesso modificando, comprendendo e facendosi comprendere nel comporre di altri. Mi è necessario, per cominciare, riportare qui una mia poesia facente parte di una piccola selezione di materiali usciti qualche mese fa su Nazione Indiana. Che non lo si prenda per narcisismo; l’intento sarebbe piuttosto quello di dare spunti teorici riguardo a un modesto tentativo di poetica messo in atto.

«Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,

vorrei perdonargli di morire, cosa fare.

A sapere bene forse potrei dire:

anche per noi una visione intera

con uno specchio sopra, con un cielo.

Mi tengo al suo sguardo perduto

così particolare, così solo,

senza romanzi, con il campo che non è un mondo.

Non so andare avanti.

[…]»*

*Poi se ti sembra ti spiego e si parla poco

perché distrarsi e dire o riprendersi e guardare

«sto guidando, chiamalo tu», chiama mio padre.

Non si ricorda, siamo nati noi e non si ha memoria,

questa cosa che sembra, come dire, tu mi racconti

tuo nonno teneva sempre la radio aperta in casa

a Olomouc. Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?

Qualcosa perdi e poi dici, si spiega e si lascia in fianco una vita,

ricordo sembravi con i capelli tagliati un po’corti di lato eri quasi

sembravi mostrando un sorriso.

Come si può osservare, il componimento è strutturato graficamente e visivamente in modo tale da far dialogare due parti testuali differenti: una formata da stralci di poesie di Mario Benedetti contenute in Umana gloria[1] (i versi in carattere più ampio al centro della pagina), l’altra costituita da materiali scritti da me (inserita come in nota ai versi di Benedetti). Ragionare sul perché della scelta di un autore (Benedetti) piuttosto che un altro non è ora importante ai fini del discorso (anche se in conclusione di intervento si accennerà anche a questo). Vorrei invece provare a soffermarmi sul senso di un gesto e di un movimento di scrittura.

L’autore latino Aulo Gellio, nel XVIII libro delle Notti attiche, riferisce di essere stato spettatore di una conversazione tra un grammatico e un uomo colto riguardo alla corretto significato con cui è usata la parola insecenda all’interno dell’orazione di Marco Catone Su Tolomeo contro Termo. In conclusione del dialogo Aulo Gellio, provando a dire un suo parere riguardo alla questione, cita un presunto manoscritto di Patrasso (non conservatosi e dunque a noi contemporanei inaccessibile) nel quale sarebbe stata presente la stesura più antica dell’Odusia di Livio Andronico, una traduzione (anche se, come si noterà poco più avanti, forse il termine maggiormente adatto è riscrittura) dell’Odissea omerica. Gellio riporta il primo verso dell’opera di Andronico così come esso doveva presentarsi nel manoscritto:

Virum mihi, Camena, insece versutum

Se lo si analizza nel dettaglio e lo si confronta con il corrispondente cominciamento in greco della narrazione omerica si possono notare delle fondamentali differenze:

Virum mihi, Camena, insece versutum (Livio Andronico)

Andra moi ennepe, Mousa, polutropon (Omero)

A livello metrico, l’esametro omerico è reso da Andronico con un verso saturnio. La scelta dell’autore è dettata dal fatto che l’esametro nel contesto greco è anzitutto il verso della scrittura oracolare, così come lo è il saturnio in ambito latino; egli sceglie di compiere una traslazione metrica tra la versione originale e la sua traduzione non basata sull’identico, ma sul voler trovare il modo più adatto per fondare il concetto di epos in un contesto culturale altro rispetto a quello di partenza. Sul piano semantico, invece, si può notare un caso in particolare: il termine «Musa», divinità ispiratrice del canto in ambito greco, viene reso da Andronico con il termine «Camena»,  divinità latina che in questo contesto sembra divenire a sua volta colei che suggerisce il verso al poeta (notare come la parola è corradicale di carmen). Dunque, si è nuovamente di fronte a un tentativo di adattamento culturale. Pure guardando agli aspetti stilistici sono riscontrabili alcune questioni interessanti. Ad esempio, l’allitterazione e l’omoteleuto a cornice tra il termine virum e il termine versutum che mettono in relazione la prima e l’ultima parola del saturnio (valorizzando il termine centrale che, per l’appunto, nella versione latina è la parola che rappresenta la divinità). Il verso latino sembra voler mirare a ricreare in maniera autonoma una solennità e una compostezza stilistica già presente nel suo corrispettivo greco. In tal modo, dunque, sembra nascere l’epos (e con esso un’intera letteratura) in ambito latino, direttamente come poesia dotta e consapevole di un modello di provenienza, come traduzione che diventa riscrittura, atto vivo e creativo. Nell’Odusia di Livio Andronico pare non esserci solo l’intento di rendere comprensibile una materia a un nuovo pubblico di lettori, ma anche il tentativo di riscrivere il testo affermandolo a partire dai modi e dai valori di una cultura altra. Non c’è atto di traduzione passivo, c’è un momento di creazione attivo, di appropriazione e superamento del patrimonio greco. Un comporre che non nasce originale, che è novità in quanto si mostra capace di contenere il noto ricevendolo e rifondandolo.

È utile, a questo punto, prendere in considerazione il saggio di T. S. Eliot Tradizione e talento individuale (la versione italiana si può trovare all’interno del volume di interventi critici Il bosco sacro[2]) in quanto fornisce alcuni spunti importanti per ragionare sull’operazione di Livio Andronico appena osservata. Egli scrive che:

Nessun poeta, nessun artista di nessuna arte, isolatamente preso, ha in sé tutto il proprio senso. […] Non possiamo giudicarlo isolato, dobbiamo collocarlo, per paragone o confronto, tra i morti, ed io considero ciò come principio di una critica estetica, non solamente storica. La necessità che egli si conformi, che egli s’accordi non è unilaterale: ciò che avviene quando è creata una nuova opera d’arte è qualche cosa che avviene in tutte le opere d’arte che la precedono. […] L’ordine esistente è completo prima che arrivi una nuova opera; perché l’ordine resista dopo il sopravvenire della novità, l’intero ordine esistente deve essere, sia pur di poco, mutato; e così le relazioni, le proporzioni, i giudizi di ciascuna opera d’arte rispetto all’altra vengono ordinati di nuovo: e questo è l’accordo tra il vecchio e il nuovo. Chiunque abbia approvato questa idea dell’ordine, della forma della letteratura europea, della letteratura inglese, non troverà assurdo che il passato sia rinnovato nel presente, come il presente è sostenuto dal passato.[3]

L’opera nuova, secondo Eliot, può dirsi tale laddove si mostra capace di modificare una letteratura del passato inserendosi in una tradizione. Essa è necessaria nel momento in cui riesce a essere parte di un percorso tramandato modificandolo, portando in esso una rilettura. Riprendendo il caso di Livio Andronico, risulta evidente come a monte di un suo scrivere ci sia stato l’aver scoperto una ricchezza del testo di provenienza; proprio nell’atto del produrre un’opera nuova, anzi, egli è riuscito a gettare nuova luce e a illuminare il testo del passato, mostrandolo secondo una prospettiva diversa. Il concetto di tradizione, allora, diventa corpo mobile e vivo incarnato nell’oggetto letterario che irrompe in esso rinnovandolo.

Hans Robert Jauss, nel suo saggio La teoria della ricezione. Identificazione retrospettiva dei suoi antecedenti storici contenuto nel volume miscellaneo Teoria della ricezione[4], scrive che le radici più antiche di un’effettiva teoria della ricezione possono essere individuate nei primi tentativi ermeneutici aventi come oggetto gli scritti di Omero e la Bibbia. Un reale problema su questi testi, infatti, comincia a porsi nel momento in cui la distanza temporale tra l’epoca dei lettori rispetto al momento di scrittura degli originali diventa eccessiva, rendendo la parola poetica di Omero e quella rivelata della Bibbia qualcosa di non più comprensibile immediatamente ma, anzi, qualcosa portatore di un significato oscuro o scandaloso, difficile per il presente. Come poter agire laddove un libro che è autorità (religiosa, letteraria, morale) si trova ad aver perso l’immediatezza del discorso vivente che possedeva nel contesto culturale orale delle proprie origini? Non è un caso, allora, che proprio il concetto di receptio venga utilizzato per la prima volta all’interno della teologia scolastica. Tommaso d’Aquino concilia l’affermazione della Bibbia di parlare secondo dicentem deum con la condizione di limitatezza dell’uomo finito, che non permette di cogliere pienamente la verità della rivelazione; nonostante questo, però, il teologo scolastico sostiene che le scienze teoretiche potrebbero effettivamente riuscire a giungere gradualmente dall’imperfetto al perfetto, sicché le generazioni successive sarebbero in grado di riconoscere qualcosa di vero anche negli errori di coloro che li hanno preceduti. Il testo della Bibbia, dunque, si svelerebbe gradualmente nella sua sostanza soltanto in un tornare costante ad esso attraverso il commento e la glossa, in un processo di ricezione che, fino al suo compimento nell’ultimo lettore, sarebbe da ritenersi previsto ed ispirato dalla sapienza divina. Per condurre questo discorso in un contesto che sia altro dal testo sacro, mi sembra utile riportare una citazione di Maria di Francia (a quanto pare costruita su un’affermazione di Prisciano) che sempre Jauss trascrive nel saggio:

«Gli antichi già sapevano che quelli che li avrebbero seguiti sarebbero stati più saggi, dal momento che essi (i successori) possono glossare la lettera del testo e arricchirne il senso.»[5]

Mi interessa ora rendere una particolare sfumatura che può darsi in un commentare e glossare un testo con fare ermeneutico, interpretativo. George Steiner, nel volume Vere presenze[6], sottolinea come siano tre i possibili sensi principali che si possono attribuire ad un movimento ermeneutico inteso come interpretazione: la decifrazione e comunicazione di significati; la traduzione di culture e convenzioni di rappresentazione; la messa in atto del materiale che si ha davanti per tornare a dare ad esso vita intellegibile. È importante, però, quanto egli scrive subito dopo:

«Per quanto riguarda la lingua […] l’interpretazione attiva e creativa può anche essere interiore. Il lettore o ascoltatore individuale può diventare l’esecutore del significato che sente o prova quando impara a memoria una poesia o un brano musicale […]. Mentre noi cambiamo, cambia anche il contesto che dà forma al poema […]. A sua volta, la memoria si trasforma in riconoscimento e riscoperta.»[7]

Ecco, dunque, che se si guarda all’azione del fare commento e glossatura di un testo come a un momento interpretativo attivo e creativo (lo è ancora di più laddove ci si pone in nota proprio con del materiale in versi, facendo dialogare due testi primari), si può cominciare a parlare di questo gesto assegnandoli dei modi e dei toni che siano anche personali, che siano la possibilità di ogni lettore di poter recepire e significare una scrittura di altri a partire da una propria esperienza, attraverso un proprio fare memoria che sia un costante tornare a uno scrivere altrui rievocandolo e portandolo a sé. Succederà, allora, una comprensione dell’esperienza a partire dalla scrittura chiamata a sé e, allo stesso tempo, una risignificazione di quest’ultima a partire dall’esperienza.

Occorre però domandarsi che cosa possa significare un atto di scrittura che non sia un movimento del tornare su un testo altro (e di altri) in chiave di una riscrittura (esempio estremo e ipotetico di un’operazione letteraria simile potrebbe essere il celebre racconto Pierre Menard, autore del «Chisciotte» di J. L. Borges) ma nelle modalità, invece, di un porsi in nota. Dove può essere individuata una sostanziale differenza tra i due gesti? Se si guarda visivamente la poesia situata all’inizio di questo intervento, si può osservare come in posizione preminente appaia non soltanto la parte dei versi di Benedetti ma anche l’esplicitazione formale del collegamento logico tra la scrittura di Benedetti e il materiale testuale posto a commento. In altre parole, in primo piano per il lettore non c’è tanto (o soltanto) il testo, ma lo stesso mettere in nota come pura struttura logica e interpretativa. La poesia diventa possibilità di riflessione sul che cosa significa una comprensione dell’esperienza a partire dalla scrittura chiamata a sé e, allo stesso tempo, una risignificazione di quest’ultima a partire dall’esperienza. Come nel verso «Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?» l’osservato non è il contenuto del parlare e ciò che si sta dicendo ma il dire di per sé stesso, il gesto del dire da intendersi come il gesto del guardare, così in una strutturazione in nota preminente diventa l’atto del porsi in nota rendendo dipendenti tra loro due materiali testuali.

Per comprendere meglio quanto ho appena scritto, credo sia importante ragionare su un saggio di Erving Goffman dal titolo Frame Anlysis. L’organizzazione dell’esperienza[8]. Termine chiave in questo libro è il concetto di frame (traducibile come struttura interpretativa) da intendersi alla stregua di un’inquadratura mai neutra attraverso cui abitudinariamente le persone significano e rendono portatrici di senso le esperienze che gli accadono. In Frame Anlysis si cerca di lavorare (attraverso varie tipologie di classificazione) non su che cosa si trovi al centro di un’inquadratura, ma sull’atto dell’inquadrare stesso e su come questo modifichi poi la percezione e il significato dell’oggetto guardato.

Riporto qui una sezione di un’intervista di Claudia Crocco a Mario Benedetti contenuta nel libro Materiali di un’identità[9]:

Sembra che ti stiano molto a cuore questioni epistemologiche. Un problema è l’incertezza dell’esistenza delle cose, che per esistere realmente hanno bisogno di essere ricordate, quasi incise, attraverso una continua rimodulazione verbale: è quanto accade spesso in Umana gloria.

Sì, è così. È tutto molto provvisorio in maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me, allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di cultura; mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniarne piccole parti.[10]

In questo breve brano, come in generale nei testi di Benedetti, si mostra costante l’attenzione dell’autore verso l’atto del guardare, verso un dire del guardare quale unica modalità di esprimersi possibile. Nei versi di Benedetti gli oggetti e le cose sembrano non poter esistere di per sé stesse o se non altro appaiono come non conoscibili, come solamente guardabili e dunque soggette a un filtro, interpretate. Uno scrivere conseguente a un guardare che non sa mai formulare la sostanza delle cose (ammesso che essa ci sia) ma può solo parlare di sé stesso. In questo è il senso di una precarietà che non riesce (anche se vorrebbe) a contemplare «le parole che nominano». Nel frammento di intervista riportato c’è tutto un gesto del ritornare che nella scrittura di Benedetti avviene su diversi piani: un tornare reale e fisico indirizzato verso un paesaggio friulano («che era tutto per me allora») profondamente cambiato sia materialmente che sociologicamente a causa del terremoto; un tornare che è un riflettere nuovamente su luoghi, cose ed esperienze con prospettive e strumenti diversi e mutati dall’aver assimilato e studiato un pensare di altri («Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate […] ma rimodulate da scienziati e da poeti»); un tornare che in qualche modo si fa accettazione di una precarietà e di un fallimento, che non è capace di ridare un ricordato e di raggiungerlo ma può solo constatare un’impossibilità, un doversi ripiegare a osservare sé stesso.

«Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti di farsi alleati ad una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…»

Concludo chiedendo allora quanto si possa ancora domandare al canto di nominare, interrogandomi su quale rapporto possa esserci tra le parole e la possibilità di affermare la presenza e l’esistenza delle cose di per sé stesse, al di là del loro essere guardate e ricordate. Cosa può dire la scrittura se non un tornare a riflettere su quello stesso gesto del guardare che sembra rimanere il poco che ancora si può tematizzare con convinzione in versi? Resta il senso di un comporre che sappia mettersi in nota, che accetti il proprio essere luogo di un’esperienza con un reale che non si riesce a conoscere ma che si può solo guardare e interpretare attraverso pensati e strutture che sono ereditate, che ci derivano dall’avere cultura e non solo, dal leggere e dall’aver assimilato il ragionare di altri. Qui uno dei possibili significati di uno scrivere glossando, di quel personale e non finito mettersi in commento che implica un costante tornare, un considerare qualsiasi testo come mai esaurito nel suo significato e nel suo poter dire di un vivere nostro e di un nostro stare. Qui, forse, una possibile alternativa alla parola che si ritiene capace di nominare le cose, di fondarle o conoscerle. Qui, il gesto umile di farsi voce seconda, annotazione sussurrata al dire altrui.

[1] Mario Benedetti, Umana gloria, Mondadori 2004

[2] Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro, Mursia 1971

[3] Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro, Mursia 1971, p. 94 – 95.

[4] Robert C. Holub (a cura di), Teoria della ricezione, Einaudi 1989

[5] Hans Robert Jauss, La teoria della ricezione. Identificazione retrospettiva dei suoi antecedenti storici, in Teoria della ricezione, Robert C. Holub (a cura di), Einaudi 1989, p. 7

[6] George Steiner, Vere presenze, Garzanti 2014

[7] Ivi, p. 21

[8] Erving Goffman, Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore 2013

[9] Mario Benedetti, Materiali di un’identità, Transeuropa 2010

[10] Ivi, pp. 56 – 57

 

 

MARCO GIOVENALE

The working dead

 

 

Forse non parrà dissennato dire che è l’inchiostro stesso che s’è felicemente1 chinato a spiccare di netto, tutt’uno con gli artigli dell’espressionismo, la propria radice melica ed eolica, e la corda, pure, ha tagliato, resecato, o la coda vizza, o insomma – massime in chiusa di Novecento – si è assai speso per l’idea stessa di una improbabilità e improponibilità di sé medesimo in certe forme.

[Tuttavia, e ovviamente, e certo, gli utenti dell’inchiostro d’antan(i) hanno continuato a comprare grappoli di Moleskine, in qualche modo dovevano riempirli, e quindi non gli han dato retta, al siglo de plomo, i miserrimi].

Gli a-capo (signum sacerrimo, acerrimo nemico della prosa, invito al picco di senso continuato, all’orgasmo multiplo, alla dromomania altrimenti celebrata col sur-sacerrimo nome di poesia) si sono spacchettati e scompattati e si sono 1felicemente e fortunatamente sparsi, scattered all around, nello stesso sgretolarsi disfarsi della pagina larga: da schermo o libro il discorso passa, è passato, a tablet, poi a cellulare orizzontale, infine verticale. A quel punto avrebbero dovuto capirlo tutti.

Dove starebbe l’a-capo, di grazia? E il ritmo, disgrazia? Da nessuna parte. Ma vàglielo a mimare, se a parole non funziona. No way.

La stele – sventurati lettori – ricrea agli occhi loro / ha ricreato il poetico, l’apparenza, ricreazione e riaggomitolazione del Moi lacaniano, da palco: manda a fare un enjambement – random – ora questo ora quel punto del discorso, che altrimenti si darebbe, io credo, sempre meglio anarchico, depensato, prorsus, à bout de souffle in linea diritta (che è certe volte perfino una dirittura) (della stortura, naturalmente).

L’inchiostro continua a fare il suo corso? Ricorso? Quale? A recitare la poesia? A buttare a mucchio e imburrare coperte su coperte du roman? E fa le mossette al microfono? Spettacolino, e morale, alza l’audio? Certamente. Certamina se ne gaiamente generano.

Allora questo, questi, sono i produttori, i superconduttori, che rete e banco di libri governano. I morti lavorano fino a sfiancarsi, per governare.

 

 

 

MATTIA TARANTINO

da Fiori Estinti, (Terra d’ulivi, 2019)

 

Il bambino

 

Il sangue urta il sangue, e il bambino

è già messaggero da altre

terre, altri verbi: è già nell’angelo.

 

Ho pronunciato la parola che fonda

i fiori, ho convertito

gli uccelli che annunciano l’inverno:

 

c’è qualcosa nel mio nome

che lo strazia e maledice.

 

*

 

La terra del verme

 

Allora donatemi

il cerchio e la croce. Non temete

questa parola che nasce

in altri mondi, dove nerissimi

gigli affliggono e azzannano.

 

Amate anche il canto

finale del passero; le astuzie

che nutrono i morti. Altrove

è la terra del verme, ma solo

al di qua può regnare col cuore.

 

Prima che carne nient’altro

che carne nutrì il fiore ossuto.

Prima che acqua nient’altro

che acqua devastò la mancanza

di forma: tutta loro è la colpa.

 

Ecco, amate

ostinati la grazia, le impervie

vie della sorte e mai, mai

la sciagura dello stare.

 

*

L’uccello

 

Ecco, arriva quest’uccello

che nella voce ha il fuoco d’ogni terra

promessa, che crolla

al segno fatto soglia e sangue.

 

Nel tuo sangue sta il vento che profana

e poi rovescia: a quale eco

tornerai nel nome? in quale

veglia sbranerò la luna?

 

Offrimi dell’acqua e sia nell’acqua

questa parola che fummo. Traccia

e poi colloca la sorte

 

di tutti i fiori mai donati

 

 

 

CARLO RAGLIANI

 

Il senso implicito della domanda sembra collegare naturalmente, così come avviene ne Il Cratilo platonico, il nome alle cose. Ma è sensato dare testimonianza scritta della quotidianità?

Di fatto non può essere razionale staccare la società e la sua civilizzazione dalla natura delle cose scritte, e del resto non c’è motivo di dividere la ragione della civiltà e la sua evoluzione dalla scrittura. Come del resto non ci sono ragioni per non pensare alla poesia come forma di espressione apicale della cultura di un popolo.

Rispondere a questo questionario costringe a riflettere sulla restrizione e sulla condensazione della parola, alla contrattura ed allo svuotamento del linguaggio; e va da sé che in un periodo in cui ci si pone pressocché sempre il traguardo di ridimensionare il concetto e la figura, rispettivamente, di poesia e poeta, in fondo non si arrivi a poter definire davvero il punto da cui partire.

Supponendo che si possa indicare un esordio, il quesito si può svolgere in maniera più cinica, rielaborandolo in questo modo: È ancora necessario l’essere umano nella definizione della realtà?”

Se la risposta fosse affermativa, l’essere umano risponderebbe alla logica antropocentrica tipica del pensiero occidentale, la quale – e mi legittima la traccia ad indicare il precedente storico, e l’eredità di ciò che è la nostra storia – ci è dato rintracciare un inizio nella Genesi biblica, o meglio quando Adamo è stato chiamato a dare un nome alle cose. Questo conferma una tale teoria del linguaggio, in quanto Dio – dopo aver creato la luce solamente pronunciandone il nome (Genesi 1,3) – sollecita l’uomo affinché nomini, dia nome agli animali ed alle cose contenuti nell’Eden.

In questo modo secondo il racconto biblico l’uomo viene a conoscenza delle cose, e una volta conosciute, dà loro un nome. E questo sottolinea ancor più la differenza tra l’uomo-soggetto e le cose-oggetti, e che la realtà delle cose di fronte alla soggettività umana è strumentale.

Ma se così fosse, altro non ci spetta che accogliere come vero la totale dispersione e lo svuotamento chenotico della divinità; o meglio: dall’evento che coincide con il “b’reshit” ebraico alla morte sulla croce di Cristo, la parola ha solo potuto definire una realtà già vuota del soffio divino.

Vale la pena ricordare che tale fosse il comandamento di Dio a Adamo ed Eva: “Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai”. (Genesi 2:16-17)

Dopo la cacciata dall’Eden, la parola perimetra ciò che è già morto.

Ed è l’inclinazione naturale alla morte della realtà è ciò che spinge a lasciare una testimonianza; un documento – in primis a sé stessi, e successivamente al terzo – di essere stati vivi. Che non tutto è stato inutile, non tutto è stato vano.

“Scrivere, proprio perché è lo strumento adatto alla lontananza, è l’ultima possibilità”, direbbe Quinzio; oppure scrivere perché è l’ultima cosa che si può fare, nonostante tutto. Scrivere nonostante gli uomini siano irreparabilmente separati dalla vita, e l’abisso incolmabile non possa che tradursi in sangue.

Scrivere nonostante l’impoverimento senza fine della parola, la quale non può che seguire di pari passo la miserabile natura del mondo, nonostante entrambe siano la testimonianza indelebile dell’impotenza del dire, e quanto testimonia la gloria ormai spoglia di ogni creazione.

Questo potrebbe essere il sistema su cui si muove il verso, che come una veste troverà ordito nella natura delle cose tutte – nel senso di globalità univoca in cui siano compenetrate umanità e realtà inumana – e trama nella necessità biologica di dover fondare, dover rivendicare, dover costituire e delimitare ciò che possiamo ritenere come intramontabile, ineliminabile, incorruttibile.

Perché il sottrarre un istante dallo scorrere interminabile del tempo, lo sottrae anche all’oblio che, seppur inevitabile, tutto attende e divora. Il “tempus edax rerum” ovidiano in fondo è Saturno che ingoia i suoi figli, e la poesia può essere la via per cui si possa salvare ogni brandello di ogni vita, per poi preservarlo nonostante ogni delusione.

In questo l’impulso della poesia può giustamente essere trovato nell’affaccendamento (come dice Cornelio in traccia) della quotidianità, e quindi si incardina come risposta biologica di segno contrario alle spinte del contesto storico imperante. Ed il poeta risponde alla necessità universale di formare le coscienze attorno ai concetti che è portato a far emergere: per questo mi sento di paragonare la parola ad un esercizio di ascesi non tanto come moto a, ma più coincidente in un via da.

Divenire uno psicopompo, più o meno consapevolmente, per guidare il lettore – perché, per quanto abbia senso parlare di poesia senza lettore, non può esistere una parola che nessuno debba leggere – in fondo è la ragione per cui si scrive in senso generale. E la celebrazione del rituale è la ragione della poesia, se non anche la poesia stessa; così trovano il loro posto l’ostia, la lama, il sangue, il sacerdote e, soprattutto, la parola per cui si può evocare sull’altare della più antica primitività. La poesia potrebbe essere il tentativo più coraggioso di poter sciogliere il “mysterium tremendum et fascinans” di cui ogni cosa è pervasa in ogni atomo.

Si parla di eredità quando ci si riferisce ad un erede, ossia chi accetta tacitamente o esplicitamente il patrimonio lasciato da chi gli è mancato; se questo è vero, se è vero che noi discendiamo dai progenitori edenici, non possiamo che testimoniare la finitezza della realtà – la sua compiuta imperfezione. E le cose imperfette devono imparare a completare la propria incompiutezza.

Il lascito, ovvero la ricchezza inesauribile che viene trasmessa e che a mio avviso trova legittimità solo quando ha modo di arricchirsi ed aumentare, non può che essere accolto con responsabilità, se non anche diniego del sé.

Nell’atto di tradurre questo in un “perché” ed in un “come” scrivere, il poeta immerge le mani nel sangue dell’umanità – che qualunque cosa essa sia, non può che ispirare più di ogni altra cosa – e ne traspone in versi le conseguenze inevitabili del farlo.

 

 

MARILINA CIACO

 

Se penso alla parola «legittimità» e provo anche solo per un istante ad avvicinarla all’atto della scrittura – quel conato del tutto arbitrario a macchiare il foglio o, più realisticamente, a pigiare un tasto – quello che ne scaturisce è un rigetto irreversibile, il moto uniformemente accelerato che allontana il primo termine dal secondo e che, posizione dopo posizione, stenta a cristallizzarsi in uno stato di quiete. La scrittura è illegittima, e anzi vive della propria illegittimità, di questa immanenza radicale che prolifera nel vuoto di significato del mondo che la ospita – essa significa soltanto ciò che è, libera dalla coercizione all’utile e dall’ordine categoriale caro alla logica aristotelica (ma non solo).

Gioisce della propria tautologia, celebra una liberazione che sempre è in atto e sempre è sul punto di negarsi. D’altro canto, qualsiasi scrittura che si voglia necessaria e consapevole sarà giocoforza radicata in quel mondo che pure si ostina a sovvertire, a capovolgere, a disordinare. Non le sono aliene l’etica, la politica, la religione o la morte degli dei, i grandi interrogativi dell’esistere, eppure essa si nutre per lo più di oggetti desueti e involucri vuoti, indossa lenti sfocate per inoltrarsi nei territori meno abitati, non più fertili o non ancora coltivati poiché inospitali. È la scrittura nella propria illegittimità consustanziale ad essere sempre estranea, sempre straniera. Raccoglie l’exuvia del mondo e vi si annida. Questa è la sua libertà.

Nonostante lunghi decenni (ormai secoli!) di ritrattazioni e contro-dimostrazioni volte a dissuaderci dall’idea di un presunto potere taumaturgico della scrittura – di quella poetica in particolar modo –, oggi più di qualcuno sembra non aver (ancora) accettato che scrivere non serve a nulla. Non ci guarirà, non ci renderà persone migliori, non ci indicherà la via della salvezza. Non serve. Se qualcosa potrà mai indicarci, quel qualcosa prenderà corpo soltanto nella materialità e nella gratuità della scrittura stessa. L’essere-etica della scrittura arriva così a coincidere con il suo non volerlo essere, non voler essere nulla al di fuori di se stessa. Questo corpo che è inchiostro, pixel, o soltanto scarabocchio o squarcio, sembra dirci, continuamente e senza ragione: c’è qualcosa, c’è ancora qualcosa, «tu» esisti.

 

 

 

SERGIO ROTINO

 

«Lasciava cadere il cerino sulle parole di carta […]»

 

 

Lingua, politica e la terza ondata dell’avanguardia: un’introduzione alla poesia di Mariano Bàino

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di Gianluca Rizzo

Quanto segue è un estratto dall’introduzione a Yellow Fax and Other Poems di Mariano Bàino (Agincourt Press: New York, 2019; introduzione e cura di Gianluca Rizzo, traduzione di Gianluca Rizzo e Dominic Siracusa). Il volume è disponibile in formato cartaceo e ebook a questo indirizzo: https://www.agincourtbooks.com/agincourt#/baino-yellow-fax/

Una meravigliosa storia d’amore

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di Romano A. Fiocchi

Cristò (Chiapparino), La meravigliosa lampada di Paolo Lunare, 2019, TerraRossa Edizioni.

È un libretto di un centinaio di pagine. Eppure credo uno dei più belli usciti nell’ultimo anno. Perché La meravigliosa lampada di Paolo Lunare non è solo una meravigliosa storia d’amore ma una raffinata analisi del rapporto di coppia, del sistema di menzogne – a fin di bene o a fini personali – su cui tale rapporto regge. Fantasioso, bizzarro, immaginifico, echeggia il celebre Ghost cinematografico ma se ne distacca attraverso la sua struttura letteraria, i cambi alternati di prospettiva (ora quella di Paolo, ora quella di Petra), l’approfondimento psicologico dei caratteri, l’uso di una lingua fatta nel contempo di scorrevolezza e di eleganza. Cristò – al secolo Cristò Chiapparino – deve aver sicuramente letto le Lezioni americane, e aver appreso i princìpi di leggerezza rapidità esattezza.

Princìpi che erano già presenti, per quanto con minore evidenza, nel suo precedente romanzo, Restiamo così quando ve ne andate (Terrarossa, 2017). Un romanzo che con la densità delle sue duecentotrenta pagine offriva una lettura gratificante e impegnativa, fatta di intrecci e di cambi di scena, senza però raggiungere la perfezione e la bellezza che incarna la storia di Paolo e Petra. Non per nulla mi piace considerare Restiamo così una sorta di palestra di allenamento dell’autore. A cominciare dall’esercizio dei cambi di prospettiva della voce narrante: prima quella di Francesco, il protagonista iniziale, che gradatamente viene sovrastata da quella della casa, che poi si rivela il vero fulcro del romanzo. Perché gli uomini vanno e le case restano. I ricordi delle case sono i fantasmi degli inquilini che se ne sono andati: “Eppure certe volte ci sentite e avete paura di noi, ci chiamate fantasmi, presenze, spiriti. E invece siamo noi”. Noi, le case.

Affinità nei due romanzi anche per quel che riguarda le ossessioni che tormentano i personaggi: Francesco, in Restiamo così, si industria nel costruire una Dream-Machine, sorta di lampada dinamica che produce stimoli visivi, per stordire il proprio disagio. Paolo, nella Meravigliosa lampada, cerca di costruire una lampada che produca “la luce del sole così com’è”, per farne un regalo. Ecco, questa divergenza di finalità lascia intendere l’impostazione realistico-concreta del primo libro e quella magico-poetica del secondo. Francesco porta sino in fondo la sua agonia esistenziale senza accorgersi minimamente dell’animismo della casa in cui abita. Viceversa, Petra e Paolo scoprono la magia del mondo che li circonda e la vivono (Paolo addirittura da morto) come se fosse la più normale delle cose. Normale una lampada che consente di vedere gli ologrammi dei morti. Normale Petra che scrive con la luce della lampada magica per comunicare con il fantasma di Paolo. Normale Paolo che da morto vede Petra come una lucciola. Normale, per Petra, dire ad un fantasma l’ultima menzogna a fin di bene: “Sono stata in ospedale, scrisse Petra nel buio. Come stai ora, mimò Paolo. Meglio, mentì Petra”.

È un realismo magico, quello di Cristò, tutto speciale, che ti immerge in una realtà-altra con poche esatte parole: “Paolo aprì gli occhi in mezzo alla campagna nella consapevolezza precisa e inequivocabile di essere morto”. Cose banali diventano straordinarie e svelano i loro segreti. Persino lo schema di un sudoku, riprodotto fedelmente in un circuito di ottantuno lucine di nove colori diversi (da un blu quasi nero all’arancione), ti permette di generare una luce che illumina quella parte del mondo fuori di ogni dimensione, il mondo misterioso dove si muovono gli ologrammi dei morti.

Magia e poesia, dicevo più sopra. Magia del mondo nascosto, che esiste ma che non vediamo se non attraverso la poesia. E attraverso l’amore. Perché è solo grazie all’amore che Paolo si inventa la sua lampada straordinaria. Emergono insomma, nella storia di Paolo e Petra, tutti i tentativi dell’uomo moderno di superare l’isolamento e comunicare all’altro/altra i propri sentimenti, nella speranza di essere corrisposto. Cosa che non accade in Francesco, che incarna invece il malessere del nostro tempo e l’impoverimento dei rapporti umani: i social network, la televisione, la precarietà del lavoro, l’individuo ridotto a un numero, abbrutito in mansioni denigranti come passare la giornata a contare le monetine del supermercato e a dividerle in sacchetti.

È dunque una storia positiva, quella di Paolo e Petra, che nonostante l’amarezza (non si tratta certo di un romanzo rosa a lieto fine) lascia del dolce in bocca al lettore. Sia chiaro: non si tratta di leziosità, ma di un sentimento profondo, che va appunto oltre la morte, senza che i due protagonisti vestano i panni di eroi o figure eccezionali. Paolo e Petra sono due esseri semplici che il destino ha legato casualmente, che si sono trovati, forse proprio per condividere inconsciamente il peso dei problemi delle rispettive famiglie. E la loro solitudine di esseri umani.

Tutto questo è narrato con la leggerezza di un concerto strumentale a due voci, che ti prende dalla prima all’ultima pagina con la forza di un brano di Chopin (non per nulla, Cristò è anche pianista). La stessa leggerezza con cui le lapidarie parole dell’autore scandiscono la postfazione: “La letteratura è una menzogna. Ogni storia è una finzione. Niente di ciò che avete appena letto è accaduto fuori da queste pagine. I personaggi non corrispondono a persone viventi o vissute, sono spiriti erranti, esistenze potenziali, funzioni narrative. Se quindi dovesse sorgervi il sospetto di aver riconosciuto in qualche anfratto di questa novella la vostra vita, o quella di qualcun altro, siate certi che si tratta di una coincidenza”.

Maestri e Amici

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di Franco Buffoni

Dante e i suoi maestri

Nel canto XV dell’Inferno due parrebbero essere i punti fermi relativamente al rapporto tra Dante e Brunetto Latini:
– Dante mostra rispetto e affetto per il maestro: gli dà del “voi”; si rivolge a lui come a “ser Brunetto”;
– Dante condanna Brunetto alla pena eterna in quanto “sodomita”.
Il mio obiettivo è di mostrare come entrambi questi assunti possano essere messi in discussione, e persino radicalmente contraddetti.
Iniziamo dal primo, considerando anzitutto l’arretratezza del bagaglio letterario e culturale di Brunetto – ancora strettamente legato all’enciclopedismo e alla poesia didascalica – rispetto all’ampiezza del respiro lirico e al rigore morale della nuova poesia di Dante, una volta abbandonato nell’incompiuto Convivio l’insegnamento del maestro. Da una parte, dunque, Brunetto che pervicacemente continua a dare credito al caso («Se tu segui tua stella…»), dall’altro Dante che invece si affida alla Ragione rappresentata da Virgilio, guidata dalla Grazia: per lui la Fortuna è ormai Intelligenza celeste, all’interno della quale – pur permanendo chiare considerazioni relative all’influsso degli astri, come nel Paradiso all’entrata nella costellazione dei Gemelli – appare completamente trascesa la meccanicistica visione astrologica del Latini.
Alla riflessione sull’arretratezza culturale di Brunetto, vorrei aggiungere un dato che non mi risulta sia mai stato posto nella debita luce: Brunetto non riconosce Virgilio. Laddove Dante, all’inizio della cantica, lo riconosce immediatamente. Come mai? Credo vi sia una sola risposta, perché sarebbe ridicolo parlare soltanto di luce soffusa: Brunetto non è degno, non è all’altezza di riconoscere Virgilio. Brunetto pensa solo al suo Trésor, lo raccomanda all’ex allievo pateticamente, e l’ex allievo gli darà gloria perenne per luce riflessa, il modo peggiore che un autore possa desiderare per essere ricordato. Brunetto non riconosce Virgilio perché questi è troppo grande per lui. E nemmeno cammin facendo Dante ritiene sia il caso di rivelare a Brunetto l’identità del suo nuovo maestro Virgilio.
Virgilio la cui opera assorbe e trasmuta la grandezza dei più grandi tra i suoi precursori; Virgilio capace di celare in ogni esametro un universo citazionale, referenziale, intertestuale, e al contempo di mostrarci poesia pura, limpida, affatto appesantita, semplicemente perfetta, e volta a preconizzare, prevedere, abbracciare le più grandi tra le opere future. Come quella di Dante.
Ser Brunetto – per contro – non vede oltre il proprio naso, pensa solo a sé stesso, si vanta di aver compreso le doti letterarie del suo allievo, ma anche qui in modo estremamente riduttivo, non accorgendosi che proprio in questo suo in-coraggiare e incitare l’allievo («non puoi fallire a glorioso porto»; «dato t’avrei a l’opera conforto») sta un’ulteriore di-mostrazione di arretratezza culturale, di inadeguatezza.
Dante vuole far fare brutta figura a Brunetto Latini non perché “sodomita”, ma perché mediocre letterato. E ci riesce perfet-tamente, malgrado le parole di affetto («la cara e buona immagine paterna») e le manifestazioni di gratitudine («m’insegnavate»). L’immagine diviene persino scultorea con Brunetto in basso – non in quanto peccatore, ma in quanto culturalmente inadeguato – e Dante rivolto ormai a Virgilio in modo definitivo. Virgilio che pur si degna di considerare Brunetto per il suo buon senso («Bene ascolta chi la nota»), ma dall’alto e con lo sguardo già volto a ben altri incontri, a ben altre esperienze di viaggio.
Quanto al secondo punto, occorre fare attenzione a non procedere in modo banalmente sillogistico e superficiale. Dante in Inferno XV non condanna l’omosessualità, così come in Inferno V non condanna l’adulterio. Certo, Paolo e Francesca sono all’Inferno in quanto adulteri; e Brunetto Latini vi si trova in quanto sodomita. Perché Dante applica la lettura cristiana della corrispondenza peccato-pena. Ma indica anche una via a sé stesso e al lettore: impegniamoci a essere virtuosi, a superare le tentazioni della carne e della vita terrena, noi che questi atti li abbiamo desiderati, li abbiamo commessi. E questo senza voler minimamente rinverdire antiche dispute su Dante uomo e poeta da una parte, e Dante teologo e giudice dall’altra; o tra struttura teologale del poema e poesia capace di comprendere e assolvere.
Occorre anche distinguere tra la legge – che per sua natura non può che essere generale e astratta – e l’atteggiamento “umano” di Dante, che è sempre concreto, individuale. Pertanto, così come tutta una tradizione di amore cortese rivive e viene immortalata nel bacio di Paolo e Francesca, allo stesso modo tutta una tradizione di omosessualità e cultura rivive nell’incontro tra Dante e Brunetto. «Tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama», rivela Brunetto parlando dei tanti chierici e letterati che compongono il suo gruppo.
Brunetto è un omosessuale organico. È il maestro omosessuale che non riesce a trattenersi dall’accarezzare “pater-namente” ogni volta che può i propri allievi: lo fa ancora, anche con Dante, anche in questa occasione. Non dimenti-chiamo che Brunetto ha applicato in chiave omosessuale gli stereotipi del corteggiamento amoroso tipici della scuola sici-liana nella canzone per Bondìe Dietaiuti. Ma Brunetto è anche un pavido, che nel Tesoretto (2, 33, 44) condanna senza appello la sodomia: «Deh, come son periti / que’ che contra natura / brigan cotal lusura». Ciò che un Dante estremamente problematico e intrigante si guarda bene dal fare nella Commedia, dove mostra la fine che fanno i peccatori: tutti i peccatori. Oggi diremmo che Brunetto è un omosessuale velato. Come ognun sa, si tratta della categoria più scatenata sessualmente in quanto maggiormente repressa, e quindi la più a rischio in ogni senso.
E Virgilio? Virgilio, il modello, il nuovo Maestro? Durante l’adolescenza veniva deriso dai compagni, schernito e sbeffeggiato come “fanciullina”, perché capace di provare trasporto amoroso solo per i ragazzi. Era di salute cagionevole, timido, già malato di tisi, e dunque spinto a condurre una vita solitaria, volta alla meditazione, alla speculazione filosofico-letteraria e quindi alla grandezza dell’artista creatore. Dante sa benissimo che anche le pulsioni del nuovo mae-stro furono sempre di segno omoerotico. Ma non se ne stupisce e tanto meno se ne preoccupa. Il punto è non più peccare, non non desiderare.
Dante non è omosessuale come Virgilio o come Brunetto. Ma, come ogni uomo “normale”, può compiere atti omosessuali se le circostanze sono favorevoli. Va ricordato che, nella sua cerchia, tra chierici e letterati per l’appunto, il fatto che certi rapporti esistessero era non solo tollerato, ma praticamente considerato la norma. E forse l’immagine emblematica di questo dantesco stare “sia di qua sia di là” appare proprio all’inizio del canto, con Dante che cammina sul ciglione dell’argine del Flegetonte, paragonato a una diga.
Non abbiamo dati precisi relativi al Trecento, ma all’inizio del Quattrocento, a Firenze, oltre il sessanta per cento dei maschi adulti era stato arrestato almeno una volta per avere commesso atti di sodomia. E si sa che le multe che si pagano per le infrazioni commesse – e quindi registrate – sono di gran lunga inferiori alle infrazioni effettivamente commesse ma con discrezione (e comunque non rilevate). In sostanza l’accusa di sodomia era il mezzo più semplice a disposizione di chiunque per vendicarsi di qualcuno: funzionava sempre.
Tutto ci lascia supporre che la situazione non fosse molto diversa all’epoca di Dante. D’altro canto è risaputo che la relazione omosessuale per antonomasia fioriva nelle scuole di retorica tra maestro e allievo. Dante, dunque, detto in termini contemporanei, compie un outing rivelando pubblicamente l’omosessualità di Brunetto. Ma il décor stesso del canto insiste su immagini di reciprocità e di inversione. Come ha osservato Tommaso Giartosio, «maestro e allievo si muovono in parallelo, si toccano, perpetuano i ruoli scolastici oppure praticano un rituale gioco delle parti, fino a un curioso scambio di cortesie per decidere chi sta sopra e chi sta sotto (l’argine)». E ancora: l’atmosfera stessa del canto, solitamente definita come purgatoriale, una penombra discreta e sfumata; con apparizioni indistinte che scrutano «come suol da sera / guardare un altro sotto nuova luna»; pochi accenni alla pena; il Flegetonte descritto come un ruscello. Una ambientazione che sottolinea la dimestichezza tra Dante e Brunetto, il tono patetico e pudico del loro ritrovarsi. Un simile regime di scarsa visibilità si adatta perfettamente (come scrisse Mario Mieli) ai luoghi di battuage un tempo frequentati dagli omosessuali.
Va infine ricordato che entrambi, Dante e Brunetto, furono condannati all’esilio (Brunetto era guelfo e fu esiliato per sei anni). E proprio da Brunetto giunge a Dante la profezia più chiara relativa al proprio esilio. Al punto che, per alcuni commentatori, tema vero del canto non è la sodomia bensì la polemica di Dante con Firenze. Resta il fatto che il canto dedicato all’omosessualità è anche il canto dell’esilio; e in tale ottica il verso «dell’umana natura posto in bando» possiede polisemica valenza.

 

Testo da: Franco Buffoni, Maestri e Amici (Vydia 2020)

Simone Weil e i passaggi all’impersonale

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olycom - weil - NELLA FOTO RETRO DEL 1936 SIMONE WEIL

 

di Sara Fumagalli

 

 

[Dal 13 al 15 settembre 2019 si è svolto a Modena, Carpi e Sassuolo il FestivalFilosofia, giunto alla sua diciannovesima edizione e dedicato al tema della persona. Nelle tre giornate si sono succeduti 54 relatori, suddivisi tra lezioni magistrali e lezioni dei classici del pensiero filosofico. Il programma del Festival è stato articolato in piste tematiche, all’interno delle quali è emerso un lessico concettuale a più voci che ha generato prospettive plurali e talvolta divergenti. Viene qui pubblicato un estratto dalla cronaca integrale del festival riguardo all’introduzione che  Laura Boella – professoressa di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano – ha dedicato a La Persona e il Sacro: «I passaggi all’impersonale ci indicano variazioni minimali, infinitesimali, che non cambiano il mondo, ma sono punti di contatto, spiragli aperti da cogliere.»]

La Persona e il sacro, scritto da Simone Weil all’inizio del 1943, è stato presentato da Laura Boella nella sua critica al concetto di persona attraverso la riflessione sulla sacralità dell’impersonale, della singola donna e del singolo uomo. «Ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale», scrive Weil. Boella ha insistito sul carattere anticipatore degli scritti della filosofa e sullo sforzo costruttivo di un nuovo pensiero (questo negli anni Trenta del secolo scorso). Weil non fece in tempo a vivere i buchi neri dei lager nazisti, ma la sua scelta di sperimentare il lavoro operaio la fece riflettere su di un mondo in decadenza (gli operai erano facili prede della propaganda nazista, favorevole alla guerra).

L’impersonale di Weil, che rappresenta la sua esperienza di vita e di pensiero, è una cifra che va contro l’atmosfera filosofica del tempo -costituita dal personalismo cattolico francese-. Il piano del bene è quello dell’impersonale. Weil  si interroga sull’umano e all’interno del suo scritto si può individuare un contrasto fra umano, sacro e persona. Impersonale è ciò che è anonimo ed è insieme verità, bellezza e imperfezione che scavano nell’animo umano. Le categorie “personale” e “impersonale” stanno su binari diversi e paralleli, ma tra di loro si toccano. Boella, nella sua ricostruzione del pensiero weiliano, ha indicato dei punti importanti, che hanno la capacità di orientare all’interno del saggio: la critica della compassione naturale (che porta dall’io al noi) e i fragili passaggi all’impersonale.Lo stesso incipit del saggio è fondamentale. Subito si pone un lui, un egli che implora: “non farmi del male”. Ma questo non si risolve nella compassione. Il riconoscimento del valore dell’altro non può risiedere unicamente nel suo corpo.

Weil ha condotto delle forti obiezioni alla filosofia della persona: per lei l’inumano sta all’interno dell’umano medesimo ed è l’atroce. In una lettera al padre, la pensatrice chiese di essere perdonata per la compassione che provava verso gli altri, una compassione istintiva (in questo Weil ha subito l’influenza del pensiero di Rousseau) e imperdonabile perché convinta di risolvere i mali del mondo con una risposta automatica. Nella sofferenza fisica c’è qualcosa di più; il dolore (maleur) e la sventura possiedono una forza di contagio verso chi li prova.

Boella sottolinea il rigore implacabile di Simone Weil, che nella sua vita e nel suo pensiero filosofico ha rappresentato una figura nel cui contatto si gioca tutto: Priamo, cioè il punto zero dell’umano. Nel Diario di fabbrica Weil racconta gli incidenti sul lavoro: è il modo in cui il capitalismo entra nel corpo (es. una lamiera sul braccio). Attraverso il dolore vi è un contatto con l’ingiustizia: esattamente in questo sta il sacro dell’umano, che è un momento di massima vulnerabilità. Proprio l’anonimato di queste figure porta all’universalità dell’umano (si veda il saggio La prima radice).

Il pensiero presentato dalla filosofa francese è molto radicale, ma sicuramente rilancia il vincolo tra etica-politica e ideale. La verità, allora, coincide con il senso di realtà e non con le dinamiche retoriche o consolatorie: per questo, ha esortato Boella in conclusione, i partiti politici dovrebbero occuparsi di aprire lo spazio ai grandi problemi anziché limitarsi all’ordinaria amministrazione. I passaggi all’impersonale ci indicano variazioni minimali, infinitesimali, che non cambiano il mondo, ma sono punti di contatto, spiragli aperti da cogliere.

 

 

 

Femminismi da leggere

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di Jamila Mascat

 

 

Quasi dieci anni, fa con Sabrina Marchetti, Vincenza Perilli e qualche dozzina di donne-compagne-studiose, ci siamo imbarcate nell’impresa di complilare un dizionario critico del lessico femminista intitolato, per l’appunto, Femministe a parole.  Si trattava, in realtà, di un dizionario critico che chiamava a raccolta una lunga serie di parole femministe “aggrovigliate” e controverse, da qui il sottotitolo: grovigli da districare. Un volume sfacciatamente fucsia con un titolo poco serio, che regolarmente prestava il fianco a due tipi di critiche, diametralmente opposte e entrambe legittime, che possono essere riassunte con “manca x, y, z” e “c’è di tutto di più”. Da un lato si notavano le assenze ingiustificate e, dall’altro, si rimproverava al libro un eccesso di ecumenismo e la deriva verso un  femminismo-per-tutti-i-gusti. Per alcuni versi, mi pareva allora (e mi pare tuttora) che un’impresa del genere – per come era stata pensata fin dall’inizio, a partire dalla forma prescelta a vocazione enciclopedica, il dizionario – sarebbe stata sempre suscettibile di essere considerata troppo inclusiva e troppo escludente, sebbene, per altri versi invece, il libro sia stato letto e apprezzato precisamente per la sua utilità parziale. Ovvero, precisamente perché, tra il poco e il troppo, c’era qualcosa e quel qualcosa rifletteva lo stato dall’arte delle preoccupazioni, delle passioni e delle urgenze del momento che attraversavano il dibattito femminista in Italia, rivisitandole a partire dal punto di vista, solo relativamente disomogeneo, di 44 femministe pensanti. A distanza di qualche anno, quell’operazione mi pare ancora più chiara nei suoi connotati, proprio a partire dalla lista delle parole prescelte: tante, non tutte, troppe, che tentavano una pluralizzazione dello spettro del dibattito con lo scopo di legittimare temi e problemi che ci pareva avessero, dieci anni fa molto più di oggi, difficoltà a trovare “asilo” nelle fila del movimento femminista in Italia.

Pur non essendo un dizionario, Introduzione ai femminismi (DeriveApprodi, 2019, 108 pp., a cura di Anna Curcio), si presta ad essere letto in modo simile. Non alla ricerca di “che cosa manca” né lamentando il “di tutto po’”, ma all’opposto con lo scopo di cogliere e meditare quel qualcosa che è detto in ciascuno dei saggi che compongono il volume, così come nella raccolta nel suo insieme – insieme che sempre eccede la somma delle parti.

Cinque sono le “tappe della critica femminista del Novecento” ricostruite in questa Introduzione ai femminismi, seguite in appendice da un sesto saggio di Lorenza Perini – “Appunti per una cronologia dei diritti” – che sviluppa una storia ragionata dei diritti delle donne in Italia. Ripercorrendo sinteticamente le battaglie del secolo scorso – dal diritto di voto alle donne (1945) alla legge contro la violenza sessuale (1996) che riconosce finalmente il reato contro la persona, passando per la legge Anselmi sulla parità di trattamento sul lavoro (1977), e le leggi sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978) –questa breve genealogia legislativa ricorda anche che sulle conquiste del passato incombe sempre una minaccia di revoca – da cui la necessità di non smettere di lottare per difenderle, in nome di quella “parità dei diritti nella differenza dei corpi” che si profila come l’orizzonte contemporaneo delle rivendicazioni giuridiche in campo femminista (p.91).

Procedendo a ritroso, al sesto capitolo segue il quinto, intitolato “Femminismo (e) queer. Per una critica dell’eterosessualità”. La e tra parentesi non è un vezzo, come spiega l’autore Federico Zappino, ma un indice delle asimmetrie della relazione in campo: “che il queer emerga in seno al femminismo non significa infatti che tutto il femminismo concordi con le teorizzazioni queer, né che ogni posizione che si definisce queer possa anche legittimamente definirsi femminista” (p.73).

Lungo la trama della critica dell’eterosessualità presentata da Zappino, che ne rintraccia giustamente le origini nei testi di Ti-Grace Atkinson, G. Hocquenghem, C. Lonzi, M. Mieli, A. Rich nel corso degli anni Settanta, ovvero ben prima dell’emergenza della teoria queer in campo accademico vent’anni dopo con T. de Lauretis, J. Butler et E. K. Sedgwick, un ruolo di primo piano spetta a Monique Wittig e al suo lesbismo-materialista. Per Zappino, infatti, è proprio l’opera di Wittig – The Straight Mind (1978), One is Not Born a Woman (1981) – quella che meglio permette di elaborare una critica dell’istituzione eterosessuale attraverso il prisma dei rapporti patriarcali, prisma che ci consente di individuare ancora una relazione asimmetrica: quella tra l’uomo eterosessuale e la donna eterosessuale. E di asimmetria in asimmetria, seguendo Wittig, si arriva anche alla relazione, di nuovo tutta asimmetrica, che sussiste tra le donne eterosessuali e “le lesbiche che non sono donne”. Perciò, a cominciare da questa reiterabile catena di asimmetrie, si tratta di ripartire, secondo Zappino, da Wittig – dalla sua definizione dell’eterosessualità come “sistema sociale che si fonda sull’oppressione delle donne” – [e di tutte le minoranze di genere e sessuali] – da parte degli uomini” – verso e oltre Wittig, ovvero verso il rifiuto dell’eterosessualità per mezzo di un separatismo queer radicale.

Il quarto e il terzo capitolo, rispettivamente il “Femminismo materialista” di Sara Garbagnoli e “Il pensiero della differenza sessuale” di Federica Giardini, raccontano due immaginari distinti e rivaleggianti germogliati all’interno di una storia coeva. Da una parte l’“ethos femminista radicale nelle sue pretese e prospettive e esigentissimo quanto al suo coinvolgimento in prima persona”, restituito nel contributo di Giardini: ethos che s’esprime nella postura relazionale della differenza, sovvertimento del simbolico e “taglio sistemico” contro l’uguaglianza, che serve a smarcarsi del tutto dalle costrizioni dell’inclusione (pp. 44-47). Dall’altra la rivoluzione epistemologica delle femministe materialiste francesi (C. Delphy, M. Wittig, N.-C. Mathieu, C. Guillaumin, insieme all italiana P. Tabet), che gravitano intorno alla rivista Questions Féministes, contro la naturalizzazione dell’ordine sessuale e delle differenze tradizionalmente ritenute “somatiche”, rivoluzione da cui, scrive Guillaumin, “nasce il sapere che nulla avviene che non sia storia” (p. 63).

Procedere parallelamente a cavallo tra le due storie per opposizione sarebbe un’esercizio di inutile equilibrismo intellettuale destinato a risolvere le antitesi in un’altalena dei concetti tra linguaggi dissonanti – schierando il simbolico contro il sociale, la sessuazione contro il sexage e poi ancora l’etica della relazione contro l’epistemologia antinaturalista.

Se abbandoniamo invece la lettura comparata dei due saggi per concentrarci sull’originalità di ciascuno ritroviamo, nel percorso tracciato da F. Giardini attraverso il campo della differenza sessuale, la valorizzazione delle pratiche tentate e inventate collettivamente nella consapevolezza che “la generazione di un’alternativa all’ordine patriarcale è impresa sperimentale, relazionale, materiale e linguistica insieme”, affare di corpi sessuati, e in quanto tali espressivi e desideranti (p. 48). Di queste stesse pratiche femministe – come il separatismo, l’autocoscienza, il partire da sé – Giardini rintraccia al presente evoluzioni e ricadute per concludere, da un lato sulla possibilità di salvaguardare la relazione come principio di costituzione della soggettività, e dall’altro sulla necessità di “rilanciare l’idea che la differenza – una differenza che articola desiderio, corpo, capacità di significazione, ordini discorsivi e organizzazione sociale – sia un operatore che agisce sempre e di nuovo per il disciplinamento o per il conflitto e la trasformazione” (pp.55-56).

Alla passione teorica antinaturalista che investe il femminismo materialista francese è dedicato il contributo di Sara Garbagnoli, in cui spiccano, e con ragione, il nome di Colette Guillaumin e le sue ricerche pionieristiche dedicate all’indagine del razzismo e dei processi di razzizzazione. Dimostrando la comune matrice ideologica che presiede alla genesi dei gruppi di sesso e di razza, Guillaumin elabora “un paradigma interpretativo che fa del razzismo e del sessismo due sistemi di oppressione articolati e non sovrapponibili” (p. 68), ma anche mutevoli e alterabili in funzioni di diversi contesti storici e geografici. Se quindi, comme suggerisce Nicole-Claude Mathieu, “l’anatomia è politica”, la differenza anatomica che cessa di interrogarsi sulle sue condizioni di produzione non può che assurgere a fonte di stigma, differenza imposta a scopo d’inferiorizzazione, strumento repressivo e non ribelle. Ciononostante, il contributo di Garbagnoli termina su una nota di segno opposto – ovvero sottolineando che “i processi di designazione non funzionano solo come operatori di verdetti sessuali e razziali” (p. 72) per concludere con Wittig e l’invito a concepire parole, categorie e definizioni come “luoghi d’azione” risignificabili.

Il secondo capitolo ricostruisce l’avventura del Femminismo Nero nordamericano. Marie Moïse ne propone un affresco complesso che affonda le sue radici nella storia tutta diasporica della tratta e delle piantagioni, quella storia in cui, come sottolinea Hortense Spillers, da un lato la deumanizzazione dei corpi in condizione di schiavitù passa per una privazione del genere e, dall’altro, il destino delle donne schiave  le costringe a subire un’assegnazione coercitiva alla funzione sessuale del lavoro riproduttivo. Nate e cresciute tra stupri e sfruttamento, le schiave Nere hanno elaborato da sempre strategie di resistenza, attraverso la fuga e il sabotaggio, o anche attraverso l’aborto e l’omicidio, talvolta vissuti e sperimentati come armi nella lotta per la sopravvivenza. Sulla scia di queste esperienze il femminismo Nero medita la fragilità della vita e l’urgenza della lotta, se è vero che come scrive Audre Lorde “che non era previsto che noi sopravvivessimo”. Moïse illustra le specificità di una tradizione femminista – da Sojourner Truth a bell hooks, da Harriet Tubman a Kimberlé Crenshaw – che ha sempre dovuto combattere duramente e su più fronti per esistere: contro le violente caricature della femminilità nera, contro il razzismo e la discrminazione, contro il patriarcato bianco e contro quello nero, contro il femminismo bianco e contro l’etnicizzazione dello sfruttamento sul lavoro. Valorizzando “le radici marxiste del discorso” che alimentano nelle lotte delle donne nere l’aspirazione a una trasformazione radicale della società capitalistica (p.32) – è il caso in particolare di Angela Davis e del Combahee River Collective – il contributo si sofferma a tematizzare le maggiori conquiste teorico-pratiche che sono maturate all’interno di questo tortuoso percorso: dal ripensamento della famiglia e delle relazioni di parentela alla critica della bianchezza; dal vantaggio epistemico dell’outsider within per comprendere gli ingranaggi della dominazione (Patricia Hill Collins) alla teoria dell’intersezionalità; per concludere, infine, sulla “centralità strategica delle coalizioni”, della solidarietà e delle politiche delle alleanze che abitano l’immaginario delle lotte condotte dalle femministe nere contro l’oppressione, e che rimandano a quell’imperativo di sopravvivenza che caratterizza il femminismo Black fin dalle origini.

Il primo capitolo, elaborato da Anna Curcio e intitolato “Il femminismo marxista della rottura”, ricostruisce quell’“incontro proficuo e critico” tra femminismo e marxismo che si sviluppa a partire degli anni Settanta, in Italia e non solo (p. 9). Protagonista di questo incontro è un nutrito gruppo di femministe, le cui riflessioni sono ritornate in auge ormai da diversi anni, tra le quali S. Federici, M. Dalla Costa, L. Fortunati, S. James, A. Del Re e ancora tante altre coinvolte nei gruppi di Lotta femminista e della campagna internazionale Wages for Housework. Quali sono allora le “rotture” prodotte all’epoca dall’emergenza di questo nuovo paradigma femminista? Curcio sottolinea in primo luogo la presa di distanza dal marxismo, anche nella sua versione operaista, una presa di distanza sui generis che spinge Marx “oltre le strette griglie del marxismo” per inscrivere nella sfera del lavoro riproduttivo un nucleo di produzione del valore (p.16). Al tempo stesso però riconosce i tanti punti di contatto che il “femminismo marxista della rottura” stabilisce con esponenti del marxismo eretico ed eterodosso, quali C.L.R. James e Frantz Fanon, o ancora l’esperienza di “Socialisme ou barbarie”.  La molteplicità delle battaglie e delle rivendicazioni che avvolgono la campagna per il salario al lavoro domestico – il rifiuto degli stereotipi di genere, la riduzione della giornata lavorativa, i diritti riproduttivi e l’assistenza del welfare – testimoniano della vitalità politica contenuta in quella leva teorica che riannodando le fila di produzione e riproduzione, riesce  a “mette[re] al centro le donne e i neri razzializzati, rimasti fuori dalla classe perché estranei al rapporto salariale” (p.15). Eppure, l’operazione condotta dal “femminismo marxista della rottura” appare oggi all’autrice più valida sul piano del metodo e della pratica teorico-politica, come “una bussola per orientarci nell’analisi della nuova funzione sociale svolta dalla riproduzione e dal salario”, che sul piano concreto delle lotte, dove l’organizzazione del lavoro riproduttivo fa i conti con tanti ostacoli, primo fra tutti, scrive Curcio, la difficoltà “a individuare il nemico, ovvero i soggetti che incarnano l’accumulazione del profitto” (pp.23-24).

Alla fine della rassegna, seppure condotta in senso inverso, Introduzione ai femminismi tiene fede al suo dovere etimologico di guidarci con semplicità all’interno di un labirinto teorico complesso da cui non è altrettanto facile uscire. Se non continuando a approfondire le letture femministe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le città e il desiderio: Daniel Guebel tra utopia e storia

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di Luigi Marfè

In uno dei suoi racconti più fulminanti, Del rigor en la ciencia (Del rigore nella scienza, 1946), Jorge Luis Borges immagina un impero i cui cartografi si propongono di disegnare la mappa più minuziosa che il mondo abbia visto. Ma ogni volta, al cospetto di quel collegio di saggi, qualunque tavola topografica risulta manchevole e inesatta, tanto da richiederne un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non ne è realizzata una in scala 1:1, che, una volta srotolata, sovrappone la sua perfezione al mondo, rischiando di soffocarlo, rendendo impossibile ogni consultazione e finendo abbandonata nei deserti dell’Ovest.

Amore e repressione

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Hong Kong 18 novembre 2019 ore 23:12
Hong Kong 18 novembre 2019 ore 23:12

di Alessandro Malaterra 

Hong Kong, 28 Luglio 2019
In memoriam Liu Xiaobo

Zhao ed io siamo scappati dai lacrimogeni tirati su Des Voeux Road. Era la prima volta per entrambi. Un manifestante mi ha visto mentre mi sciacquavo gli occhi in un bagno pubblico e mi ha dato del tè freddo. Usa questo, mi ha detto. E’ meglio dell’acqua. Aveva ragione. Mi ha lasciato la bottiglia ed è andato ad affrontare la polizia. Avrà pensato che sono un pivello. Prima correvamo con gli altri, ora la situazione è più tranquilla e stiamo camminando. I poliziotti avanzano poco a poco, a strappi. Tirano i lacrimogeni per disperdere i manifestanti, poi caricano. Picchiano e arrestano quelli che resistono. I manifestanti si muovono in tutte le direzioni: alcuni vanno ad affrontare i poliziotti, o portano ombrelli, caschi, bevande, materiali per il primo soccorso; altri si ritirano, come Zhao ed io, verso il centro di Hong Kong.
Come stai, chiedo a Zhao. Sta bene. Solo arrabbiata.
Andiamo a Chater Garden, dico. Lì la manifestazione è autorizzata e forse ci lasceranno in pace.
Zhao è d’accordo. L’ho dovuta portare via dalle barricate quasi a forza. D’altronde, questa è la sua battaglia molto più della mia.

Un manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per protestare contro la graduale assimilazione di Hong Kong al sistema del resto della Cina

Il ragazzo era in una strada della sterminata periferia di Pechino, indistinguibile da migliaia di altre. La contornano palazzoni lunghi e stretti, di cemento scolorito, anche questi tutti uguali per un occhio distratto. Il ragazzo camminava svelto e contava a ogni palazzo che si lasciava alle spalle da quando aveva imboccato la via, cinque, sei, sette… Arrivato al nono si fermò e si mise a guardare. Non si era mai spinto fino a lì, così lontano dal campus dell’Università di Pechino, e la vista di quell’edificio anonimo e sgradevole, insieme a tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni, gli lasciò un senso di angoscia. Un vecchio usciva in quel momento dal portone. Il ragazzo ebbe un ultimo istante di indecisione, dovuto più al pudore che alla mancanza di coraggio, poi si affrettò a reggere la porta, per evitare che si chiudesse dietro le spalle del vecchio, ed entrò.
Già conosceva il piano, così prese a salire le scale senza nemmeno guardarsi intorno. Gli ascensori bastavano a terrorizzarlo, claustrofobico com’era; si chiese quanto avrebbe resistito nel vivere l’incubo di una piccola cella. Ricominciò a contare: uno, due… Era stato un altro studente dell’Università di Pechino a sussurrargli l’indirizzo. Gliene era grato: nel clima di quei giorni persino un’informazione innocente come quella poteva costare caro. Una traccia esile come il fumo di una sigaretta, ma era la sua unica speranza di capire. Tre, quattro, cinque… Una delle tante domande a cui cercava una risposta, ammesso che ci fosse, era perché non l’avessero ancora preso. Aveva marciato con gli altri nel campus, era andato con loro a lavorare nelle fabbriche, in supporto di quegli operai diffidenti e gelosi, aveva provato senza troppa convinzione a parlargli di Marx, quello vero oltre le balle che gli avevano propinato a scuola, quello che il Partito aveva tradito. Sei, Sette…
Il fato aveva stabilito che si trovasse a Vancouver quando erano entrati nell’università a prenderli tutti. Era stata la sua salvezza, ma anche la sua ignominia, non essere lì: lì a lottare a fianco dei suoi compagni, a lottare per lei… otto, sbuffò ormai senza fiato, ma non si fermò. Aveva letto la notizia sul New York Times, di nascosto per non farsi vedere dagli altri studenti che erano stati invitati come lui a Vancouver per quella conferenza inutile. Non si era permesso di sperare allora, non se lo doveva permettere adesso – la sola cosa che voleva era capire.
Quando era tornato al campus e non aveva trovato nessuno dei suoi si era sentito il cuore in gola. Malgrado si fosse ripromesso di non sperare, per un attimo aveva sperato. Come un bicchiere di cristallo schiacciato da un carro armato, quella speranza diafana era andata in frantumi alla vista delle stanze vuote che avevano ospitato i suoi amici. Non aveva osato chiedere, del resto nessuno avrebbe parlato. Solo nella sua stanza, evitato da tutti i conoscenti alla stregua di un appestato, si era abbandonato finalmente al pianto.
Nove, dieci, undici… Ma perché non l’avevano ancora preso? Forse era per la risonanza internazionale che aveva avuto l’arresto illegale degli altri studenti marxisti che avevano osato schierarsi con gli operai. O forse nessuno dei suoi compagni arrestati e – qui sentì un nodo alla bocca dello stomaco – torturati aveva fatto il suo nome. Ma nemmeno il loro eroismo avrebbe potuto salvarlo: in ogni caso, la polizia doveva già aver ricostruito suoi rapporti con gli altri dalle comunicazioni elettroniche, dalle testimonianze dei sicofanti. Forse era per il premio che aveva ricevuto a Vancouver, per il potenziale interessamento dell’università canadese? Scosse la testa. Tutto quello non aveva più importanza, ora che anche lei era stata portata via. Dodici. Si fermò e riprese fiato. Come una madre che ha perso un figlio in un incidente aereo cerca un’ultima testimonianza, per quanto povera, nella scatola nera, così la sua unica speranza di afferrare qualche frammento rimasto di quelle vite forse già spezzate era dietro a quel portone.

 


Mi sistemo la maschera sul viso. E’ quasi sera, ma l’afa di luglio a Hong Kong non lascia scampo. Tengo la maschera solo sulla bocca, per poter respirare almeno con il naso. Porto la maschera non tanto per non farmi riconoscere ma per mostrare il mio supporto alla causa. Siamo quasi arrivati a Chater Garden. Da lì potremmo andare verso Soho e poi a casa mia. Invece continuiamo a camminare per Queen’s Road, tra le boutique di lusso.
Hanno lasciato i vestiti nelle vetrine, osserva Zhao. Io dico, fossero stati i gilet gialli a Parigi avrebbero spaccato tutto.
Siamo a Chater Garden. Quello che non capisco, dico a Zhao, è perché la comunità cinese all’estero non faccia sentire la sua voce.
Quelli che riescono a emigrare, dice lei, non si preoccupano più della Cina. Altri sono addirittura patriottici. Molti hanno parenti indietro in Cina, e il regime si vendicherebbe su di loro. Quindi stanno zitti.
Io dico, è questo quello che non capisco. Durante il fascismo italiano c’era una comunità di oppositori all’estero. Stampavano e distribuivano opuscoli, facilitavano la fuga dall’Italia dei perseguitati dal regime. Neanche per loro era facile. Alcuni hanno pagato con la vita. Il regime è riuscito ad assassinarli perfino all’estero, a Parigi.
Non è la stessa cosa, dice lei. Ha ragione. Sto applicando categorie italiane a un contesto alieno. Eppure scuoto la testa, non riesco a credere che quelle categorie non valgano ovunque.

Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong, lo Xinjiang e la Cina intera

La porta era guardata da un cancello di metallo. Lo studente suonò il campanello e attese. La porta si aprì per pochi centimetri, e la vecchia lo guardò di sbieco da lì dietro, attraverso le inferriate.
Mi riconosci, disse il ragazzo. Più che una domanda era una constatazione. La vecchia non rispose.
Fammi entrare.
L’ultima volta che l’aveva vista, la vecchia davanti a lui era solo l’inserviente che faceva le pulizie nel suo dormitorio. Una lavoratrice oppressa come tante altre, era tutto ciò che aveva pensato di lei. Ora era lui a pregarla di salvarlo, per qualche istante, dall’oppressione. In silenzio, solo con gli occhi, la pregava. La vecchia aprì del tutto la porta e poi il cancello. Il ragazzo si precipitò dentro prima che potesse ripensarci e quasi la travolse. La vecchia si scansò e gli indicò un tavolo con un gesto brusco. Il ragazzo si tolse le scarpe e andò a sedersi, mentre la vecchia sparì in un’altra stanza. Il ragazzo sentì gridare al di là del muro, un’altra voce di vecchia. Parlavano un dialetto di campagna che lui non capiva. Il piccolo salotto era povero ma pulito, la piccola soddisfazione di una vita passata a nettare le case degli altri.

 


Un gruppo di ragazzi e ragazze vestiti di nero corrono in direzione degli scontri tenendo alte alcune bandiere americane.
Andiamo anche noi, dico a Zhao. Mi segue senza esitazione. Rifacciamo al contrario la strada che abbiamo fatto prima. Stavolta la polizia deve essere molto più vicina. Camminiamo insieme ai manifestanti vestiti di nero. Alcuni sono equipaggiati per gli scontri: portano caschi e maschere antigas, hanno avvolto le braccia in una pellicola trasparente per proteggersi dagli spray urticanti. Ci sono sia ragazzi che ragazze. Sembrano tutti molto giovani. I ragazzi sono alti e magri; le ragazze, magre anche loro, hanno l’aria di pesare meno di quaranta chili. Tra di loro c’è chi porta dei tubi di ferro. Ma la maggioranza, come noi, è lì senza equipaggiamento, per opporre alla polizia nient’altro che la resistenza pacifica dei loro corpi.
Davvero anche io sono lì per resistere? Non posso farmi arrestare, penso. Ho un lavoro da cui sarei licenziato; una posizione sociale da difendere. Ho troppo da perdere per lottare. Consiste forse in questo l’essere borghesi? Posso andarmene da Hong Kong quando voglio. Nell’Italia fascista, sarei stato dalla parte degli oppositori o degli ignavi?
Inalo il gas e mi metto a tossire, a lacrimare. Sento una botta di adrenalina, è il mio corpo che crede di soffocare. Scappiamo insieme per una via laterale, Zhao ed io. Rivolgo ai poliziotti delle ridicole parolacce in Italiano, anche se non mi possono sentire e non capirebbero, né gli importerebbe.
Zhao dice, non credevo fossero così vicini. Hanno sgombrato la strada in fretta.
Massaggio gli occhi con la mano. La via lungo cui siamo scappati sale verso Soho. Da lì possiamo raggiungere casa mia in pochi minuti.
Andiamo a casa, dico.
Camminiamo insieme, in silenzio. In un’osteria ci sono alcuni manifestanti vestiti di nero, fuggiti anche loro dagli scontri. Ragazzi del liceo o forse dell’università: malgrado tutto, scherzano tra loro.
Zhao parla della sua esperienza di cinese continentale immigrata a Hong Kong. Dice che tra i suoi compagni di università si va formando una frattura tra chi supporta le ragioni dei manifestanti e chi invece vuole restarne fuori, o addirittura è più o meno d’accordo con Pechino. Una sua amica è sull’orlo del divorzio, perché il marito le ha intimato di smetterla di schierarsi a favore dei manifestanti.
Dice, è difficile per noi. Gli abitanti di Hong Kong ci vedono come dei robot senza cervello. Pensano che il Partito Comunista abbia fatto a tutti il lavaggio del cervello. Sono apertamente razzisti.
Non credevo, dico io.
Zhao dice, sono stupidi. Non capiscono che dovremmo unirci. Che combattiamo la stessa battaglia contro lo stesso nemico. Solo se la Cina diventa più aperta, più democratica, Hong Kong potrà salvarsi.
Zhao inizia a piangere.
Dice, ma ormai non spero più che le cose migliorino. Il regime ha vinto.
L’abbraccio. Dice, non ho più speranza.
Siamo in una strada secondaria vicino a Hollywood Road. E’ tranquillo qui. Possiamo restare abbracciati alcuni minuti. Le asciugo le lacrime con la manica, le faccio bere un po’ d’acqua.
Ti amo, le dico.

Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong e per tutta la Cina

La vecchia tornò con un bricco di tè e una tazza. Si sedette, riempì la tazza fino all’orlo e la spinse verso il ragazzo.
Grazie.
La vecchia non rispose. Sembrò volersi alzare di nuovo, poi ci ripensò e riprese a guardare lo studente di traverso. Lui non si scompose. Più per pudore che per sprezzo, andò dritto al punto.
Tu c’eri.
La vecchia rimase impassibile.
Tu c’eri quando li hanno presi. Tu c’eri.
Sì, c’ero, rispose, in un Mandarino con un pesante accento.
Come è successo?
La vecchia aprì la bocca come per rispondere, poi la richiuse e lo guardò dura, quasi la sua domanda l’avesse offesa.
Il ragazzo lasciò perdere. Non aveva più importanza oramai.
Chiese, quando infine trovò il coraggio: e lei?
La vecchia fece finta di non aver sentito. Il ragazzo ripeté la domanda, impaziente.
Hanno preso anche lei?
Chi?
Il ragazzo si alzò in piedi di scatto, facendo cadere la sedia dietro di lui. Sbatté forte un pugno sul tavolo e rovesciò il tè sul pavimento.
Sai benissimo chi! Gridò. La mia ragazza!
La vecchia prese a salmodiare maledizioni nel suo dialetto, in un tono a metà tra grida e litania. L’altra vecchia apparve da dietro la porta, attirata dal baccano, e si aggiunse a quella lagna. Si assomigliavano in ogni dettaglio, considerò il ragazzo; dai vestiti alla postura gobba ai tratti del viso. Un’altra inserviente, pensò.
Rispondi! Gridò di nuovo.
La vecchia continuò a maledirlo come se parlasse da sola, poi si fermò per un attimo. Disse solo una parola in Mandarino: sì. Poi ricominciò con la sua nenia. Senza dire altro, il ragazzo si diresse verso la porta, si rinfilò le scarpe e uscì. Dietro di lui sentiva l’ininterrotto borbottare delle due vecchie. Non avrebbe sopportato di restare in quella casa per un altro istante.

 


Un giorno, dico, il regime crollerà. Nessuno a Praga negli anni ’50 si sarebbe aspettato che quaranta anni dopo sarebbe caduto il muro. E a quel punto potremo chiedere conto ai servi del Partito Comunista di tutte le porcate che hanno fatto, da Tienanmen in poi. E chissà perché mi viene in mente di mettermi a recitare, in Italiano,

Loro puntarono qui i fucili carichi
e ordinarono l’aspro sterminio;
loro trovarono qui un popolo che cantava,
un popolo per dovere e per amore riunito,
e la bambina magra cadde con la sua bandiera,
e il giovane sorridente rotolò accanto a lei ferito,
e lo stupore del popolo vide cadere i morti
con furia e con dolore.
Allora, nel sito
dove caddero gli assassinati,
si abbassarono le bandiere per bagnarsi di sangue
e per alzarsi di nuovo di fronte agli assassini.
Per questi morti, i nostri morti,
chiedo castigo.

Eccetera eccetera. Traduco la poesia di Neruda in Inglese per Zhao. Le parlo dei regimi sudamericani, dei desaparecidos. Ancora una volta, mi rifugio nelle mie categorie.

Il ragazzo uscì. Avrebbe dovuto andare a sinistra per tornare alla metro. Invece decise di andare nella direzione opposta, per quella via che non conosceva, uguale a tante altre. La libertà di andare in una direzione piuttosto che un’altra era l’unica che gli restava, e ancora per poco. Per gioco, per esercitare la mente nella libertà di una fantasticheria infantile, si mise di nuovo a contare i palazzi, uno, due… Forse, pensò, avrebbe potuto prendere il treno e nascondersi in campagna dai nonni, a seicento chilometri da Pechino; ma sapeva che era anche quello un gioco, una fantasia. Sei, sette… Era arrivato a undici quando si rese conto di essere seguito. Non si stupì, ma ebbe paura.

Camminiamo lungo Hollywood Road e siamo quasi a casa. Qui le facce iniziano a cambiare, si iniziano a vedere per lo più ragazzi occidentali. Alcuni escono dalla palestra dove vado anche io. Di manifestanti vestiti di nero se ne vedono pochi in giro, quasi nessuno si è spinto fino a qui su. Prendo il braccio a Zhao, andiamo lenti fianco a fianco. Da un locale esce una ragazza che mi sembra di conoscere, la guardo meglio: è lei. Distolgo lo sguardo ma è troppo tardi. Cazzo, mi ha visto. Mi impietrisco.

Sedici, diciassette… ancora contava i palazzi, ormai non riusciva più a smettere. Si guardò indietro: erano tre poliziotti, uno in borghese. Allungò il passo e quelli accelerarono a loro volta. Non ci sono dubbi, si disse, anche se aveva capito già da prima. Si mise a correre e i poliziotti lo inseguirono. Ventisette, ventotto. Vide una donna che entrava in un portone e corse dietro di lei. Afferrò la maniglia della porta prima che questa si chiudesse ed entrò. La donna lo guardò per un paio di secondi, senza che il suo viso formasse alcuna espressione, poi entrò nell’ascensore e chiuse la porta. Il ragazzo salì a piedi. Ora contava i gradini: non aveva avuto il tempo di vedere il palazzo da fuori, ma doveva essere come gli altri; alto trenta o quaranta piani. Non correva. Sapeva di non avere abbastanza fiato per correre fino in cima, e non sarebbe servito a niente comunque. Perse il conto dei gradini e abbandonò quello stupido gioco. Poi, si fermò. Trattenne il respiro, in ascolto. Sentiva il rimbombare di dei passi pesanti; dovevano calzare degli stivali. La situazione era allo stesso tempo paurosa e ridicola. Non sapendo che altro fare, riprese a salire.

Zhao mi guarda con aria interrogativa mentre resto lì impalato e l’altra ragazza, Jessica, mi viene incontro. Quasi corre, mi abbraccia e mi stampa un bacio al lato delle labbra, giusto perché faccio appena in tempo a scansare la testa. Prego che la mia faccia terrorizzata la porti a capire la situazione, che c’è lì Zhao, ma Jessica non sembra cogliere, forse fa apposta. Ma un bacio non me lo dai, dice. Poi mi chiede, ma allora per domenica è confermato. Balbetto qualcosa, ormai il danno è fatto. Zhao ha capito tutto, è senza parole, si incammina a grandi passi nella direzione che stavamo percorrendo prima. Provo a comportarmi come se tutto questo fosse naturale, dico a Jessica sì certo a bassa voce; Zhao è già ad alcuni metri di distanza, spero che non mi senta. Mi accomiato da Jessica e quasi corro dietro a Zhao. Lei si volta per un istante, mi vede arrivare, subito si rigira e riprende a camminare più velocemente di prima. L’affianco. Era un’amica le dico, una collega. Il passo veloce e la paura mi fanno venire il fiatone. Sbuffo. Con l’afa che c’è a Hong Kong sono sudato da fare schifo. Provo a prendere il braccio di Zhao come avevo fatto prima. Si libera con uno strattone, poi mi da una spinta con entrambe le mani e mi fa quasi perdere l’equilibrio. Vai via!, grida con quanta voce abbia in corpo, e poi corre via. Nella strada si sono girati tutti. Io resto lì, immobile, a guardarla andare via giù per Hollywood Road.

Le scale si arrestarono di fronte a una porta chiusa che doveva portare al terrazzo. Era l’ultimo piano. Provò ad aprire la porta, senza successo. Provò a forzarla con le mani, a spallate. Allora pestò a tutte le porte del piano, in successione. Solo da dietro una delle porte sentì dei rumori, ma nessuno rispose. Riprese fiato, il sudore che gli colava dai capelli fino al viso e gli bruciava gli occhi. Si calmò e si mise ad ascoltare. Il rumore dei passi era a malapena udibile, ma diventava pian piano più forte. I poliziotti non avevano fretta. Sapevano che non sarebbe andato da nessuna parte. A lui non restava che attenderli, senza più speranza.

 

Operette entomologiche

4

di Tommaso Lisa

Dorcus Parallelepipedus

AUTORITRATTO DA ENTOMOLOGO

È un giorno di fine estate, uno di quelli in cui inizia già a far fresco verso sera e le foglie sugli alberi, stremate dall’arsura dell’agosto, preannunciano l’abscissione autunnale. Sono tornato da poco dalla fiera entomologica che si tiene ogni anno. Non ho potuto fare a meno di andarci poiché è un luogo dove si possono incontrare altri studiosi, scienziati o appassionati, acquistare libri specialistici e osservare insetti meravigliosi, anche vivi. Tuttavia detesto i mercati, ogni luogo dove molte persone si radunano per mettere un cartellino col prezzo sopra ogni cosa e per intavolare trattative vantando i pregi delle merci esposte. Nella luce del tardo pomeriggio mi ritrarrei forse proprio nella maniera in cui Hermann Hesse descrisse il pittore Hermann Lautenschlager in un racconto del 1917 intitolato In una cittadina.

Ho il volto abbronzato, camicia bianca dal colletto aperto e una giacca a righe blu un poco impolverata quando, entrando nello studio dove ho affastellato disordinatamente libri e reperti, analizzo quanto ho acquistato o scambiato. Rigiro davanti agli occhi, preparati sui cartellini o confezionati in buste chiuse col cellophane, quei pochi coleotteri secchi che ho reputato interessanti per le mie ricerche, esaminandoli e comparandoli con quelli già custoditi nelle teche. Intorno, ugualmente mescolati tra pinze e spilli, giacciono alcuni tubetti di colori a olio, molte matite e della strumentazione entomologica. Stenditoi per farfalle, un microscopio, una lente d’ingrandimento, un retino. Pile di libri s’accalcano sulla scrivania uno sopra all’altro tanto che ogni volta, per ritrovare un saggio o un estratto, eseguo una specie di scavo archeologico, stratigrafia delle ricerche compiute nei mesi trascorsi. Dal fauna box che contiene scorze di pino e di abete (nel quale alcuni cerambici alternano accoppiamenti a lieti banchetti a base di frutta) si leva un profumo pungente di resina che si sposa con quello dell’acquaragia riposta nell’angolo della stanza, accanto alle tele dipinte. Il mio sguardo s’illumina di una gioia infantile. Il volto distende le rughe impresse dal groviglio dei problemi di lavoro.

Malato d’insetti, folle e fuori dal mondo, detergo il sudore dalla fronte con un fazzoletto rosa e con cautela torno a osservare. Lo sguardo si fa acuto, a metà sospeso tra quello del pittore, dello scrittore e dell’entomologo, con la gioia di poter tornare con me e in me, ogni volta che accedo nello spazio circoscritto dello studio. Ecco la terra incognita e misteriosa dove tutto è magico e splendente, vitale ed entusiasmante! Proprio quando mi escludo dalla vita in questa cellula di meditazione che è il mio mondo, osservando le forme dei gusci lucidi e dorati dei coleotteri e i colori delle ali – ora splendenti, ora vellutate – delle farfalle, mi dimentico di me, entro in una trascendente contemplazione. Questo universo di piccole cose a margine è una nicchia vitale. Il luogo in cui alchemicamente m’incrisalido. Apro i tappi delle flipcap in cui custodisco una minuscola collezione di tarli: ne estraggo alcuni esemplari minuscoli da osservare al microscopio, da fotografare e disegnare in punta di matita. Il tavolo da lavoro è popolato di cartoni con spilli, cuscinetti di cotone, strisce di carta, pinzette, forbicine, bicchieri. Percorro poi in lungo, in largo e in diagonale la stanza, che misura trentasei passi, zigzagando tra gli oggetti. Potrei indugiare sulla descrizione di ciascun insetto e sui ricordi, avviando un vero e proprio viaggio notturno intorno alla camera.

Inebriato dall’aroma dei terpeni comincio quindi a disporre in fila alcuni coleotteri preparati su cartellini, stesi e repertoriati con cura. Ecco una fila di anobidi. Ciascun esemplare ha un nome e racconta una storia, un luogo, delle vicende individuali. Non ho invero alcun intento collezionistico. Mi è estranea l’idea ragionieristica di una sistematica preordinata nella quale, come in una raccolta di francobolli o di monete, gl’insetti devono prendere il loro posto. Non amo l’idea di una collezione di animali uccisi per il gusto del possesso. I pochi esemplari che mi concedo di allineare nelle scatole entomologiche sono testimoni di una ricerca sul campo, di una trama di relazioni con l’ambiente naturale e con me, una indagine di relazioni che proseguo leggendo sui libri e ricercando in rete. Scelgo alcune specie di determinate famiglie, spesso tra le più bizzarre o alle quali sono legato da un’occasione emblematica. Da qui avvio un’indagine, l’analisi antropologica di come queste forme si riflettano nelle mie percezioni.

Lascio immaginare quanto vibri di emozione davanti allo Xylostenus navale, al Bostricus capucinus, a un Diaperis, un Paussus, una pattuglia di Cucujidi tropicali ecc. E poi una scatola con le farfalle, dei Libiteidi, qualche licenide, una Graellsia isabellae e una Bramea. Sono amuleti salvifici nella selva dell’inconscio. “Vago già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva”. Dalla mancanza di luce emergono questi esemplari che mi guardano con occhi composti e scintillanti. Senza dubbio sono loro ad osservarmi, benché morti ormai e secchi da tempo. Sono forme strabilianti come fiori, muschi, alberi, foglie, fossili, dei quali portano e sommano il ricordo. Sono l’argine alla dissoluzione del senso, a una sorta di cataclisma esistenziale che è la consapevolezza stessa di stare al mondo. Non so più se la serie di riti e di pulsioni ottiche che metto in atto infatti sia più argine o piuttosto sintomo di un’apocalissi psicopatologica, una crisi della presenza.

Mi pervade però al contempo anche un piacere palpitante simile a quello descritto dallo stesso Herman Hesse, soddisfatto e infantile, per le cose della natura, “il sentimento di essere parte di un tutto e vicino alla creazione, che si può trovare solo nell’amore e nella comprensione della natura”. Dedicherò loro, durante questo tardo Antropocene, uno Zibaldone di riflessioni, una serie di Operette entomologiche. Singole storie compendiate in brevi “ritratti di insetti”.

 

CARABUS GRANULATUS

Ma poi perché tanta morbosa attenzione per un Carabo di piccola taglia, senza riflessi metallici e senza particolare colore? Si dice sia molto comune nelle zone umide, quale igrofilo, e che sotto le cortecce dei tronchi in decomposizione, ai bordi di laghi e di paludi, durante l’inverno si raduni in colonie assai numerose. Perché lo cerco quindi con tanto scrupolo, tanta dedizione, in questo freddo gennaio nei dintorni di Firenze? Sono scarafaggi in fondo, privi di qualsiasi valore commerciale. E – se disturbati nel sonno, cavati dalle tenebre del loro sicuro riparo subcorticolo – si muovono alla luce del sole, sovrabbondanti, con un mulinare di zampette esili e coriacee al contempo che l’occhio profano probabilmente non distinguerebbe neppure da quello delle volgari blatte. E allora perché salto il pranzo pur di andare, oggi, al parco fluviale di Lastra a Signa? Perché, vestito di tutto punto con le scarpe non più lucide che si lordano vieppiù di fango e la cravatta che s’impiglia a tratti tra i rovi, mi sporgo verso le acque torbide della palude? Perché sfido il rischio di scivolare nella melma e mi metto a scortecciare a mani nude un ceppo lordo e viscido, dall’interno del quale escono a getto continuo solo onischi grigi e scolopendre rossastre, sempre più grandi via via che scavo in profondità, senza neanche trovarlo? Di quale altro significato, mi domando, diventa allegoria quest’avventura che metto in atto, sottraendo tempo ai civili costumi, alla ragionevolezza del quotidiano bilancio borghese. Cosa finisco per far significare questa bestia che vive in luoghi tanto lontani dal mio nel tempo e nello spazio. Inseguo forse solo un nome. O, come al solito, un ricordo. Finisce che mi imbatto in qualcosa che a prima vista sembra un’enorme lumaca ributtante ma che mentre sorte rotolando da sotto la corteccia estroflette le zampe e mostra il ventre arancione e luminoso, costellato di piccole chiazze. Apro gli occhi sui suoi già ben spalancati.

È uno splendido tritone.

 

Dorcus

DEPOSITO DI LEGNAME

C’era una volta, vicino al quartiere dove sono nato, una segheria. O forse meglio un deposito di legname. Adesso quell’accumulo eterogeneo di tronchi sfusi, che occupò per diversi anni quelli che avrebbero dovuto essere i parcheggi dei condomini, non esiste più, rimpiazzato da un luccicante showroom in vetro e cemento di articoli da bagno. Ecco che mi rivedo lì a otto anni circa intabarrato nel giubbotto blu scuro, con una sciarpa di lana che provocava qualche prurito sul collo e sulle guance. Sto accompagnando diligentemente, mano nella mano, mio padre, ilare assicuratore e pittore a tempo perso, lungo la discesa asfaltata che porta al piazzale, che allora pareva immenso, ingombro di assi di legni tropicali, impiallacciature, trucioli, frammenti di corteccia.

Lui cercava tavole di massello sulle quali dipingere ad olio i suoi paesaggi toscani, seguendo le naturali venature del legno, lasciate vive a fare da orizzonte o stratificazione di cirrocumuli. Il mondo non era ancora così globalizzato, all’alba degli anni Ottanta e il legno d’ebano evocava luoghi lontani, foreste pluviali e un caldo inimmaginabile, giacché qui l’inverno era ancora rigido. Come ovvio, non esisteva neppure l’idea di “riscaldamento globale”. Mentre lui sceglieva, soppesandole, le possibili superfici pittoriche io speravo di rintracciare, tra la rumenta di trucioli, qualche carcassa di cerambice importato dalle lontane regioni. Sarebbe stata sufficiente un’elitra, un pronoto, qualcosa che testimoniasse l’insetto venuto d’oltremare. Sognavo, durante quelle rare visite che facemmo al deposito, di trovarne anche di vivi e di poterli allevare in terrari – in casa, magari vicino al termosifone.

Ah! Il fascino colonialista dell’esotismo… non supponevo potesse trattarsi di un costrutto culturale, di un pregiudizio eurocentrico. Il centro del mondo era casa mia, la mia famiglia. In una serie di cerchi concentrici, più lontane erano le cose, più erano strane, inusuali, affascinanti. Non sapevo cosa sarebbe accaduto poi, crescendo. E non erano ancor giunti gli insetti alloctoni, importati dal commercio globale nei pallet, nei gerani, nelle palme orientali. Beata ignoranza di tartarughe americane liberate negli stagni, di gamberi infestanti che avrebbero occupato nicchie di artropodi autoctoni, spodestandoli e stravolgendo ecosistemi. Non punteruoli della palma, non curculionidi del fico, non cerambici cinesi. Non ancora. Sognavo, in quel piazzale grigio e squallido, nel freddo pungente dell’inverno fiorentino, le scaglie colorate di Buprestidi scaricati per sbaglio dalle navi cargo al porto, provenienti da terre lontane a seguito di avventurosi viaggi. Sognavo ad occhi aperti come se esistesse davvero un altrove esotico da fantasticare, come se io fossi davvero me stesso e la realtà davvero reale.

Ma quando un sogno infine s’avvera, muta talvolta nel suo contrario. Oppure dissolve alla luce dell’arido vero.

 

IL DIAPERIS DI JÜNGER

Il giorno di Natale del 1942, dopo la messa, senza preoccuparsi delle pattuglie sovietiche che perlustravano comunque la regione, lo scrittore ed entomologo tedesco Ernst Jünger andò a caccia d’insetti sul fiume Pšiš, in Caucaso, tra Kutais e Majkop. Si trovava lì, sul fronte orientale, in missione d’ispezione con la Wehrmacht, tra il gelo, il fango e gli scontri armati. Lo immagino incedere vestito di nero, con lunghi stivali e una inquietante uniforme uncinata, passo dopo passo fino a un ceppo marcescente e lì, in solitudine o sotto lo sguardo incredulo dell’attendente, iniziare a scortecciare. L’entomologia, la ricerca e l’osservazione degli insetti, rappresentava uno dei quattro esercizi che quest’intellettuale controverso si era posto per arginare il dolore della guerra alla quale stava suo malgrado partecipando, assieme alla meditazione sulle sacre scritture, alla lettura dei classici e alla frequentazione dei pochi altri spiriti affini all’interno di quel contesto atroce. Ma ecco che per un attimo, nel silenzio del bosco, la storia si sospende. Sotto la corteccia egli trovò un nido popolato da numerosi esemplari di Diaperis boleti, appartenenti alla sottospecie del Caucaso, caratteristica per i femori rossi. Lo constatò quindi, annotandolo con gioia manifesta, sul suo diario.

 

ALLEVAMENTI

Da ragazzo – avrò avuto circa dieci anni – come educazione alle forme della natura allevai farfalle, falene, ma anche insetti stecco e cerambici.

Ogni volta, immancabilmente, qualsiasi insetto si stesse sviluppando nei terrari custoditi nel ripostiglio, col calar delle tenebre, nel silenzio della notte, produceva lo stesso concerto. Era un rodere oscuro, un brusio onomatopeico, un crunch crunch di mandibole, un ruminare ininterrotto di fibre e foglie e poi un tessere di bave, di muchi, di mute e bozzoli, operosissimo, incessante. Nel giro breve di un giorno i bruchi smontavano interi cespi di pianta portati con pazienza a casa da mio padre il giorno prima. Sfrascava, il pover’uomo, in giacca e cravatta di ritorno dall’ufficio, fermandosi sull’argine del Mugnone o alle Cascine, per il bene della passione del giovane figlio entusiasta che ero allora. Tronchi ridotti in trucioli e poi in polvere. Rami di ligustro spogliati, frasche di rovo rinsecchite.

A volte gli insetti, compiuto il ciclo di sviluppo, giunti all’immagine finale, fottevano, si accoppiavano e riproducevano esponenzialmente ripopolando i terrari. In mancanza di copula alcuni, come gli insetti stecco, si riproducevano per partenogenesi. Le femmine deponevano uova non fecondate ma ugualmente atte a schiudersi. E quel suono orripilante, un ticchettio ininterrotto di mandibole diffuso in casa, nel salotto, pareva di sentirlo in cucina, nel telefono, tra le lenzuola. Mia madre diceva che era impressionante. Incredibile tanta acribia nel divorare, nel consumare. Bontà sua che mi concedeva di tenere quei terrari nauseanti in casa o sul terrazzo! Il fondo delle teche e delle scatole si riempiva infatti ben presto di escrementi non propriamente puzzolenti: emanavano piuttosto una dolce fragranza di foglie marce. Io pensavo che, in quanto insetti, non potevano far altro. Proprio come noi.

Osservo adesso fuori dalla finestra il viale in questa notte d’autunno, intasato dal traffico di macchine e persone, dalla tramvia che transita rullando sul ponte sempre illuminato, dal centro commerciale e dai cinema, dai cantieri per costruire nuove infrastrutture, a ciclo continuo. Perché è naturale accelerare questo ciclo di vita e distruzione, questo perpetuo e incessante rodere la polpa del legno. Vanità sarebbe pensare di opporsi con futili pretesti all’opera di distruzione dell’ecosistema. Cosa avrei imparato quindi dall’entomologia? Dapprima la genuina meraviglia verso le forme e i colori, i mutamenti e le mutazioni, gli stratagemmi mimetici e gli stili di vita. Poi un distacco, una nausea consapevole derivante da una quasi totale identificazione.

Spiegatemi vi prego, prima della fine, perché tanta ostinazione nel tramandare un codice genetico che cambia nel tempo e il caso assembla per spezzoni… Sto per spengere la luce quando mi scopro piegato su me stesso in posizione fetale, mentre prego con tutte le forze di non reincarnarmi più in niente, di essere libero, di non partecipare più a quest’insensata girandola animata dalla volontà del desiderio.

Rhagium

RHAGIUM INQUISITOR

Tra libro e cambio in fogli di volume
Rodono abeti con mascelle forti
Leggeri coribanti, astruse piume.
Le antenne in testa son due fili corti
Attratti a notte dal mio fioco lume
Se per caso li sfioro fanno i morti.
S’accoppiano volanti in mille schiocchi
Raspano al buio e facendo rumore
Si palesa nei loro vispi occhi
Il raggio di uno sguardo inquisitore.

 

LA DRYPTA BLU

Fuggo dal budello di asfalto e cemento di questo quartiere. Dopo cinque chilometri mi lascio alle spalle il groviglio grigio, roboante, segnato da semafori e incroci. Tiro oltre certi tristi giardini condominiali, sterili parchi di quartiere. Il nebbione mattutino del pieno inverno preannuncia comunque una giornata di sole, oltre i tralicci dell’alta tensione. C’è ancora un limite piuttosto evidente, nonostante l’antropizzazione abbia ormai connesso città e borghi in un reticolo ottuso, là dove l’ultimo condominio s’affaccia sui campi e poi, oltre, sull’incolto. Da qui cambia l’aria, varia la temperatura e muta l’umidità.

Non ho ancora ben chiaro verso cosa andrò incontro. Non so se sia una frontiera o piuttosto una sacca residuale, tuttavia mi fermo in una zona paludosa recintata che il Comune rubrica come Parco faunistico (ciò che scampa allo sterminio viene collocato in una riserva). Parcheggio e, spento il motore, cala il silenzio. Con circospezione perlustro l’ecosistema in cerca di qualche Carabo, che tale è lo scopo di questa divagazione mattutina dagli affari di lavoro. Salgo in precario equilibrio su passerelle di tronchi marci caduti nella palude, attento a non scivolare in acqua. Sono vestito in vista del successivo business meeting aziendale in un asettico hotel di dodici piani. So che calpesterò le soffici moquettes con le scarpe lorde di fango. Stringerò mani vergognandomi un poco per le mie unghie nere. Per ora scorteccio facendo leva con la chiave di casa, gratto con i polpastrelli la superficie della legna marcia, tarlata, senza trovare niente. L’azione di scavo provoca cricchi e schiocchi. Pongo la massima attenzione in ogni gesto, ma l’ansia dell’inseguimento è già salita e sta diventando un sottile panico. Prendo di mira quest’insetto, mentre sono inseguito da tempo che scorre, dagli impegni incalzanti. Il tempo scorre nella clessidra e col tempo il denaro.

Qui sorgeva un bosco di piante finché non hanno scavato con ruspe e benne per estrarre la sabbia che è servita per costruire la città. Poi, più o meno quando ero un bambino, decisero di colmare la voragine d’immondizia, inaugurando una discarica. Vent’anni fa infine il luogo è stato ripulito e piantumato un finto bosco planiziale che però, col tempo, sta diventando autentico. Mi aggiro in questo biotopo tra l’artefatto e lo spontaneo, con lo stagno popolato di nutrie e tartarughe, specie alloctone e infestanti. Oche e anatre starnazzano vedendomi tra le ripe. M’aggiro furtivo. Ecco accendersi, sui riflessi torbidi della palude, il demone della caccia, l’alternanza di “catturare” e “nascondere”. Il vertiginoso gioco tra desiderante e desiderato, tra Eros e Nomos, si manifesta in quest’istante, mentre rovisto tra i frammenti di legno.

Salta fuori qualche scolopendra, una miriade di onischi, ma nessun coleottero. Proprio quando, osservando l’orologio, stabilisco che la mia ora è venuta e che devo rientrare nel sistema degli impegni produttivi, ecco che qualcosa splende nell’uniforme grigiore del marcio. La posta in gioco si alza in un piacere assoluto.

Rilancio, come un giocatore incallito e continuo a zappettare ancora un poco, rovistando – stavolta con delle più appropriate pinze – in mezzo all’humus. Affino lo sguardo e come per magia appare una vibrante visione. Sembra tremolare l’aria fattasi improvvisamente più tiepida: è la Drypta blu, o meglio Drypta dentata (Rossi, 1790) che lo scrittore ed entomologo tedesco Ernst Jünger trovò durante la seconda guerra mondiale gettandosi in un terrapieno per sottrarsi ad un mitragliamento aereo. Me lo immagino, con la sua uniforme della Wehrmacht stazzonata, il volto schiacciato nel fango mentre le pallottole del caccia inglese rigano la campagna e il suo occhio spalancato dal terrore che, nel fango, vede apparire la Drypta… Così m’immedesimo e sono io adesso a mettermi carponi in quel fosso a bordo della strada che da Sissonne portava a Parigi, nel 1944. Ogni esperienza è sempre un ritorno.

È un listello verde dorato lungo circa un centimetro, con le zampette rufe. Secondo i cataloghi entomologici il genere Drypta sarebbe ancora piuttosto comune in Italia, tuttavia io non ne vedo una da molti anni. L’afferro tra il pollice e l’indice, attento a non stringere troppo ma con la paura di perderla (una vita senza mancanza, priva di nostalgia per una forma, non ha davvero alcun senso). Riponendola in un piccolo contenitore con i frammenti di terra e legno prelevati in situ, la studierò a casa, da viva, nutrendola con bucce di mela e piccoli pezzi di carne. Immagino che nella stessa zona, sotto le stesse cortecce, riposino colonie di Brachynus, legioni di Lebia, Lamprias, Licinus. Rimetto tutto a posto in questo parco fin troppo ordinato, relitto della grande piana fluviale.

La “mobilitazione totale” della tecnica e della tecnologia avanza, unificando e desertificando il mondo. Non mi vergogno nel dire che ho uno struggimento malinconico, avverto nel petto “una malattia di doloroso bramare”. Vorrei riprodurla infinite volte, questa Drypta, conservare di lei sempre in me la memoria della forma rimpolpando le radici del rigoglio naturale. Scatto foto al luogo dove l’ho trovata, farò un disegno, scriverò un racconto – questo stesso che tu, lettore, stai leggendo – per immortalarla e dargli gloria. Ricordo che la ha scoperta Pietro Rossi, medico e zoologo fiorentino nato nel 1738, amico di Lazzaro Spallanzani, descrivendola nel suo splendido libro Fauna etrusca corredato di tavole a colori. Il paratipo – l’esemplare su cui è stata descritta la specie – si trova ancora oggi al Museo di Scienze Naturali di Milano, in qualche teca custodita in un angusto corridoio occasionalmente illuminato da fredde luci al neon. Cercherò forse un altro esemplare per farli accoppiare, osservare uova e larve (nel web troverò di certo qualcuno che le ha fotografate prima di me: eccole, arrampicarsi sui fili d’erba, simili a stafilini, con due sottili urogonfi come appendici caudali, i margini del ventre colorate d’arancio) ma non ora, non adesso che la legge del dovere mi chiama tra feroci persone dabbene.

Le foglie scricchiano sotto le suole delle scarpe di cuoio. Per un attimo vorrei sparire nel folto, farmi Drypta, albero, fango, pietra, polvere. Forse edificheranno nuovamente anche questa zona, reputata improduttiva, per farci un termovalorizzatore, un aeroporto o un centro commerciale. O forse resterà una riserva recintata, una specie di santuario nel quale nessun umano potrà più entrare. Ma sono sicuro che c’è un altro luogo dove le regole dell’utile e dell’economia non dettano legge, la linea dove mi è dato resistere, ed è la mia interiorità, la parte profonda della mia coscienza. Il posto di questa Drypta è lì, situata nel ricordo, dove la memoria si deposita e si conserva, il posto dove i sentieri, che in superficie sono interrotti, possono ricomporsi. Dove lo spirito resta integro e può rigenerarsi.

 

DORCUS PARALLELEPIPEDUS

Lo ho aperto in due. Senza volere, giuro. Trasversalmente. Ho troncato le elitre e il corpo poco sotto il pronoto, all’attaccatura delle elitre, con un colpo netto di zappa. Anzi, di piccozza. Una vecchia piccozza dal manico corto di legno, reso lucido dall’uso nel secolo scorso. Chissà a chi è appartenuta, in passato. Comunque. Prestavo la massima attenzione, picchiettando nel legno marcio, a non ferire, a non rompere, a non uccidere. E invece è bastata poca pressione. Le elitre nere recise di netto. E dentro un liquido bianco e lattiginoso. Denso. Si chiama emolinfa. È finito così, troncato in due, e disperso in mezzo ai trucioli e alla rosura del vecchio tronco marcio quel Dorcus che dormiva d’inverno chiuso nella celletta di svernamento, in un bosco spoglio. Forse, se non avessi avuto la vista da entomologo non lo avrei neppure riconosciuto, legno nel legno, confuso tra materia viva e essenza morta in un inestricabile groviglio. Dove finisce la sua forma irredimibile mi domando, adesso irrimediabilmente spezzata? Appare chiaro come fosse un individuo anche lui, seppure uno dei moltissimi, comuni Dorcus parallelepipedus presenti nel bosco.

Adesso siedo, mi son lasciato cadere su un sasso e osservo una radice contorta di castagno alla stessa maniera in cui la deve aver osservata Roquentin nella Nausea di Sartre. Il morto dovrebbe fornire una giustificazione al vivente. Provo disgusto per aver sparso questa emolinfa biancastra, per aver infranto la forma perfetta di tale splendido Lucanide. Uno dei milioni, forse, uno dei tanti che vengono quotidianamente mangiati dai picchi, dagli uccelli, che periscono al primo passare di una ruspa o di un decespugliatore. Uno di quelli che insomma non vengono neppure visti, che per i più non hanno neppure un nome. Ma per me lo ha avuto, un nome, nell’esatto istante in cui ho visto, ho percepito la sua forma, prima integra, unitaria, poi scissa da quel colpo di zappa, anzi di piccozza. Una piccozza da muratore o giardiniere, appartenuta forse al mio bisnonno. Il tronco acefalo di questo lucanide è l’esistenza stessa che si rivela. Le elitre rotte e quel liquido denso e bianco, lattiginoso, colare sulle muffe e le spore, nel legno marcio del quale la larva si era fino a pochi giorni prima alacremente nutrita.

 

TENEBRIO MOLITOR

Era una scatola trasparente di plastica che aveva contenuto cioccolatini e che riempimmo quasi per gioco, io e mio padre, d’un pastone composto da pane raffermo e briciole. Nel giro breve di pochi giorni le farine iniziarono a sgretolarsi, coprendosi di fragranti muffe leggere. Emanava, tale scatola che tenevamo sullo scaffale del suo studio (a quell’epoca ancora prevalentemente di pittura) un odore di molino di campagna, uno stantio quanto arcaico profumo compatto e polveroso di cantina che andava a mescolarsi con quello dei colori e delle vernici, dell’essenza volatile di trementina e dell’olio di lino. L’ambiente era comunque secco, la temperatura costante intorno ai 23 gradi, sebbene di certo fosse inverno. V’introducemmo alcune larve di Tenebrio molitor Linnaeus 1758, lunghe forse poco più di un centimetro – che non ricordo assolutamente da dove provenissero, se da un negozio di caccia e pesca o piuttosto da uno di cibo per animali – il “bacherozzo panettiere”, lo scarafaggio del pane, nei secoli scorsi flagello delle madie e delle dispense. Proliferarono in breve tempo fino a saturare ogni spazio, quelle larve rigide e filiformi, di color ambrato via via sempre più scure, muta dopo muta, sempre più paffute, trasformandosi in pupe e poi in adulti ben presto accoppiati in furibondi coiti forieri di subite uova precipitosamente schiuse in nuove esili larve chiare, tra le carcasse nere o brune degli adulti già morti. Che venivano a loro volta divorati. Ne iniziarono a nascere poi alcuni orrendamente fallati, con le elitre rabberciate e contorte, segno forse che anche la genetica si stava ribellando a quell’insensato allevamento massivo. Rimpolpammo le provviste con farine, pasta e biscotti scaduti, rigenerando forsennatamente i cicli riproduttivi. Il pane bianco ingialliva, come pure le larve, ingiallivano. Proliferando muta dopo muta fu così che il divertissement iniziò a pesare… Stasera sono venuto a sapere, documentandomi qua e là in rete, che oltre ad alimento per gli umani – tritate in farine per snack energetici super proteici – queste larve vengono usate come cavie per cavarne fuori un qualche nuovo carburante. Ma allora tali tenebrionidi, sporcaccioni e in malafede, stavano mostrando ai miei occhi di bambino, con ogni evidenza, solo tutta la loro volgare, spregevole e reiterata necessità di esistere al mondo.

Da un giorno all’altro la scatola e il suo contenuto, letteralmente, scomparvero.

 

LICENIDI O DELLA GRAZIA

Sono rimasto ammaliato dalla grazia minuta dei Licenidi fin dall’infanzia. Proprio come un amante geloso della propria ninfa ancora oggi posso dire che queste farfalle mi vivono dentro, che sono mie. Solo mie. Sono loro che battono le ali tra il cuore e lo stomaco ogni volta che mi emoziono, che aprono e chiudono le mie palpebre. Mi rifiuto di credere che chiunque sulla faccia della terra possa aver provato la mia stessa emozione e lo stesso amore vivo, palpitante, verso la Licena rossa, la stupefacente Lycaena phlaeas Linneo, 1761. Si tratta di un amore esclusivo. Ammettere che anche altri possano aver visto queste forme con la stessa intensità con cui lo ho fatto io, se non maggiore, mina il fondamento della mia soggettività. Di ogni soggettività. Che infatti è in fin dei conti arbitraria. Eppure, a differenza di altri entomologi che hanno elevato questo attaccamento al rango di professione socialmente riconosciuta, non ho dedicato la mia esistenza a inseguirne le specie e a decifrarne i misteri.  Questo è per me talvolta ancora oggi un cruccio, un amaro rammarico. Ma quale è il fascino delle farfalle, se non la loro imponderabile evanescenza? Se le avessi trattate con ottuso attaccamento, perseguendone nel tempo le identità come se si trattasse di meri oggetti, materia vile, non avrei compiuto un gesto ancora più assurdo del disinteressarmene, apparentemente, per lunghi periodi? Osservo i riflessi scuri come stoviglie etrusche sui bordi alari che s’accendono d’un rosso vibrante più della lacca al centro dell’ala, con dei bottoni scuri, macule di piccoli occhi bordati di giallo Napoli chiaro su superfici seppiate nella parte inferiore, bordata da una peluria sottile e pettinata come di un tappeto persiano.

Nessun valore può essere barattato per quello, apparentemente gratuito, che mostra la Callophyris rubi (Linneo, 1758) sulla superficie ventrale quando ogni anno in primavera la scorgo sugli steli d’erba a margine dei roveti muovendo le ali posteriori, strusciandole circolarmente in un invito trepidante, mentre mostra all’universo mondo il verde acceso con delle lievi corrosioni di un bianco matto condensate in due minuscoli puntini. La sua larva matura verde e paffuta, la pupa ovoidale e pelosetta, di un bel colore terra di Siena bruciata. Altri Licenidi sono azzurrati del colore del cielo, coi bordi bianchi candidi più delle nuvole e leggeri come l’odore del vento. In nome di cosa affannarsi quotidianamente se è sufficiente osservarli posarsi in prossimità degli scopeti nei giorni di sole, stagliarsi sullo sfondo delle mosse colline toscane? Se anche a qualcun altro è capitato tutto ciò, non è come a me, non con la stessa intensità. Non con queste parole. Vige un tacito accordo tra noi, tra me e i Licenidi, per cui io non sono più io ma sono loro, in una immedesimazione totale, una trasmigrazione, una transustanziazione di me in loro per oscura metempsicosi della psiche.

 

ANTHAXIA PASSERINII

Con forti colpi d’ascia apro il tronco di un cipresso morto, vicino a casa. Dentro vi trovo svariati stupendi e sfavillanti esemplari di Anthaxia passerinii, buprestide di medie dimensioni, circa 8 millimetri, descritto dall’entomologo Pecchioli nel 1837 su individui raccolti a Firenze. Sono incastonati nell’alburno duro e chiaro, incapsulati nelle cellette di muta. L’operazione estrattiva, in assenza di pinze, richiede una pazienza arcaica, quasi ancestrale. Uso quindi delle schegge, aguzzando la vista. Mi par d’essere un picchio verde, o meglio un bonobo, circonfuso dall’aroma pepato dell’essenza di questo legno. Una volta sgusciati fuori, come semi metallici, rimango letteralmente abbagliato dalla loro smagliante livrea verde, blu e rossa.

Disegni di Tommaso Lisa.

Storia con cane

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di Andrea Inglese

Entrano distruggendo cose e, sul più bello, tra la nevrastenia di tutti, vittime sdraiate e carnefici in piedi sugli sgabelli, alla fine anche il cane prende la parola, comincia il suo discorso con un tossicchiare assorto, passa in rassegna alcuni slogan introduttivi, quello dei limoni-giallo-oro commuove anche gli imprenditori edili,

Do you remember Sanremo?

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Il fantastico queer di Achille Lauro: uno sguardo sul pubblico

di

Olga Campofreda

 

La sera della finale di Sanremo ho riunito un mucchio di amici con la scusa del mio compleanno e ho sistemato il mio laptop ben visibile davanti al divano e alle sedie. La verità è che adoro da matti guardare il festival da quando sono a Londra, con persone che non conoscono la cultura italiana o che la conoscono dall’esterno, con più o meno stereotipi, ma sempre con uno sguardo nuovo, che solletica la mia italianità più scontata. Senza neanche troppe discussioni siamo stati tutti d’accordo, alla fine, sul fatto che ad Achille Lauro andasse conferito il premio come miglior performer: quello che avrebbe meglio rappresentato l’Italia all’Eurovision, spettacolare come Renato Zero o David Bowie, provocatore come Madonna, istrionico come Lady Gaga o Beyoncé, perfino. Certamente non un’avanguardia mondiale, ci siamo detti, ma quantomeno Lauro ha aperto la finestra della sua stanza e ha respirato un po’ i tempi che corrono. Sì, ma dove?

È stato solo dopo qualche giorno dalla chiusura del festival che mi sono resa conto che esiste ancora un posto dove un artista come Lauro – nonostate tutti i precedenti – possa essere non capito, violentemente criticato e deriso. Quel posto purtroppo è l’Italia.

Sull’elemento dello spettacolare in Lauro già si è detto molto e piuttosto bene nell’articolo di Daniele Cassandro su Internazionale, che ha parlato di un artista abile a non lasciarsi usare dalla televisione, usando lo schermo per mostrare “lo spettro delle possibilità”, della fluidità di genere, della queerness. La bellezza di questa performance, aiutata certamente dai costumi di scena di un genio della moda quale Alessandro Michele, ha tuttavia fatto sì che la nostra attenzione, catturata dal palco, non badasse più di tanto alle reazioni di chi, con noi, stava a guardare.

Sanremo non è stato tanto rappresentativo dell’Italia di oggi negli artisti che ha presentato alla kermesse, quanto nel pubblico che quella kermesse ha commentato sui social e nei bar. Quelli che “Lauro ha anticipato il carnevale”, quelli che “capisco la performance, ma la vita privata tienila per te”, quelli che “è il festival della musica e non dovrebbe esserci altro”. Inizialmente pensavo fosse una questione generazionale, e sarebbe stato forse ancora (benché poco) giustificabile. Mi ero perfino stupita di come, proprio la generazione dei sessantenni, già esposta al linguaggio di Bowie, del glam rock, di Madonna, etc, avesse ancora tale candore da riuscire a scandalizzarsi per i quattro minuti sul palco dell’Ariston. Tuttavia non si tratta della solita messinscena dei boomer contro millennials o gen z. Mi sono trovata a discutere sull’argomento via facebook anche con miei coetanei che ugualmente attaccavano l’ex trapper come artista e relativa simbologia della performance.

Il discorso su Lauro mi ha aperto gli occhi su quanto il gesto di questo artista abbia avuto senso nell’Italia di oggi. L’Italia dell’eteronormatività che attacca quando si sente attaccata dall’altro da sé, ovvero quando altri modi di stare al mondo in quanto individuo si rendono palesi e semplicemente dicono “io esisto”. L’Italia che viene costretta a farsi delle domande su questioni che si erano date per scontate, quali le strutture piccoloborghesi nelle quali le nostre vite sono inserite e dalle quali sono regolate (trovati un lavoro, sposati, fai una famiglia, fai figli anche se non te li puoi permettere che tanto Dio ci pensa, dunque vai in chiesa). Vedo una similarità incredibile tra le dinamiche innescate dal queer e la definizione di fantastico data da Todorov in letteratura. Il fantastico, dice il narratologo, dura poco più di un’esitazione: quando non riesci a spiegarti un fenomeno ma poi arrivi a collegarlo a leggi razionali (strano) o a forze soprannaturali (meraviglioso). Il queer suscita scandalo perché dura molto più che un’esitazione; genera frustrazione in chi lo guarda, non lo capisce e si sente oltraggiato dalla sfacciataggine di queste identità che non aspirano affatto ad essere incluse, accettate o giustificate. La cultura eteronormativa non sa e non può spiegarsi il concetto di binarismo di genere con il proprio linguaggio familiare e strutturato, con il proprio senso finalistico votato al culto del bambino. La frustrazione genera rigetto, rifiuto. Incomunicabilità ben rappresentata dai fischi: il rumore di chi dissente ma non sa argomentare.

Più che per la sua performance Lauro va ricordato per le reazioni che ha suscitato nel pubblico italiano, per averci mostrato che c’è ancora molto lavoro da fare culturalmente e umanamente, nel mondo dello spettacolo e fuori. È in questo contesto allora che la sua performance a Sanremo si trasforma in un’affermazione politica, in un gesto impegnato: “Me ne frego” significa anche che cercare l’integrazione è l’ultimo degli obiettivi, perché integrato significa sempre di più omologato e suscitare scandalo pubblicamente e con gioia, proprio come nei migliori Pride, potrà forse servire a far cadere qualcuno dalla poltrona mostrandogli quanto grande e differente appaia la stanza dal pavimento.

Internauti – day four day five day six (the end?)

2

di Francesco Forlani & Andrea Inglese

[Forse è finita bene, la quarantena, sani e salvi, e – speriamo! – pagati anche per i giorni di assenza imposti. Un ultimo bollettino sulla nostra condizione mentale, quindi.]

Il buon vicinato

2

di Simone Delos

Traslocare è un po’ morire.
L’ho fatto sei volte. Ovunque andassimo, mia madre rimaneva stanziale per un massimo di due anni, poi via.
Con Sabrina è la prima volta. In affitto per il tempo necessario, ora siamo in una casa dove poter abbattere i muri.
Negli anni la mia asocialità è scesa a patti con la sua, più sana, estroversione.
Ora siamo una coppia di categoria riservata ma socievole all’occorrenza.
Sabrina ha alle spalle due anni di sofferenza. Vera.
Un dolore che non è servito a nulla, che è stato anche mio, ma suo di più, che non ha affrancato nessuno dei due.
Sopravviviamo nutrendoci degli stati euforici random, l’uno dell’altra. A volte si ingoia una pasticca, altre si piange.
Per il momento l’idea di poter abbattere muri ci sostiene. Ci dà una prospettiva.
L’appartamento è in una palazzina in cortina. Un quartiere di parrucchieri e bar, età media tendente al basso. Coppie, come noi.
Abbiamo un cane. Che è una persona. Si chiama Spritz, e ci ricorda come ci siamo conosciuti.
Camera, cameretta, bagno, salone con angolo cottura è un bel balcone quadrato per Spritz. Lui ha già trovato l’angolo giusto da dove guardare il mondo. Noi ci stiamo lavorando.
Oggi sono tre giorni che abbiamo finito di imbiancare e sistemare un po’. Ci suonano alla porta che è domenica pomeriggio.
“Ciao, siamo i vostri vicini, quella porta lì” (indica la porta).
“Io sono Laura, lui è mio marito Joseph e questo piccoletto…” (si tocca un pancione di almeno otto mesi) “… Lui si chiamerà Andrea”
Metto una mano sulla spalla di Sabrina e sorrido io.
Hanno la nostra stessa età, ad occhio, lui alto come un giunco di bambù, porta occhiali con montatura colorata e l’espressione di chi vuole dire cose che non riesce a mettere insieme. Lei bionda, caschetto, rotonda. Gli occhi di chi è già mamma, di chi lo è sempre stata.
“È davvero un piacere ragazzi”, faccio io. “Noi siamo Marco e Sabrina e dentro c’è Spritz, ma entrate pure che vi offriamo qualcosa”.
Mentre entrano mi sembra di sentire lo scricchiolio dei tendini di Sabrina, tutto il suo corpo è concentrato a mantenere ordine.
Si inizia a parlare del quartiere, dei lavori di loro, dei nostri. Di viaggi e matrimoni.
Forse per un momento ci era riuscita, mia moglie, forse quel provare, quello spingere in fondo erano serviti. Era una prova questa. Avrei voluto dirle: brava amore mio, brava mille volte e poi altre mille, parafrasando Catullo.
Quella parte di vita ingaggiata per torturarci era però ancora in servizio.
“E voi”? fa la bionda all’improvviso.
“Ad Andrea…” (si tocca il pancione, lo fa continuamente, lo fa troppo)
“… Servirà un amichetto o amichetta per giocare sul pianerottolo no”?
Era una cosa anche carina a suo modo. Una inconsapevole promessa di un’amicizia duratura basata sulla condivisione della maternità.
Non fu quella la prima volta, ma forse fu la volta in cui Sabrina riuscì a stupirmi di più.
“Sai Laura, questa cosa che tu hai detto non avverrà. Perché io non posso avere figli e quindi così”.
Mi alzai appena dalla sedia, Laura finse un colpo di tosse, Joseph stava per dire qualcosa.
“Sì, è stato un duro colpo. Stiamo cercando un modo di superarlo, ci hanno detto che non siamo gli unici ma questo lo sapevamo già, si può convivere con questo, ci hanno anche detto”.
Poi le cadde letteralmente la parola. Come una pigna che si stacca dal pino e viene giù, bam, giù secca. Le vidi inumidirsi gli occhi piano, come per pudore, come se bagnarsi troppo in fretta fosse maleducato.
La vicina bionda, Laura, le si avvicinò naturalmente, una solidarietà antica, quella tra donne quando si parla di maternità.
Tutta teoria. Cazzo della teoria.
Joseph disse qualcosa, mi pare sul calcio, ma io non ce l’ho quel controllo. Non ci sono mai riuscito Io a spingere giù.
Mi alzo.
“ Toccala pure Laura, non ha la lebbra sai? Non succede niente al tuo bel pancione rotondo se tocchi una donna sterile!”. Mi guardano entrambi con pauroso stupore.
Sabrina ormai piange.
“Ti sembra una cosa morta? Mia moglie, dico, ti sembra una cosa morta?”. Laura aggrotta le sopracciglia e il viso muta in una grossa mela. Fa per alzarsi, Joseph pure.
Vedo che prima di allontanarsi accarezza il viso di Sabrina.
“Pena? Pietà? Misericordia? Noi abbiamo tutto! E lei, lei è una donna libera!”
“Stai zitto per cortesia!”. Mi urla contro Sabrina, e la voce ha quelle crepe che conosco bene. Non la ascolto, anche io ho la mia ferita privata.
I vicini sono alla porta.
“È che ci abbiamo messo un anno! Un anno per crederci, alla vita che continua anche senza, a un amore che continua anche senza!”.
Chiudono la porta.
“Un anno…”. Dico a me stesso, perché Sabrina è già di là.
Mi siedo sul divano, lo faccio lentamente, non voglio far rumore.
I muri da abbattere ci sono ancora, Spritz gioca con una palla rossa.
L’avevo letta da qualche parte, questa caratteristica del dolore.
Che funziona un po’ come lo scarico di un lavandino. Le cose, i capelli, li spingi giù. Poi una mattina ti trovi in una pozza di acqua torbida.

Mots-clés__Brutalismo

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La Casa del Portuale, Aldo Loris Rossi, Napoli

Brutalismo
di Francesco Di Gennaro

Flavien Berger, Brutalisme -> play

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La Casa del Portuale, Aldo Loris Rossi, Napoli

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Da Charles Melman, L’Homme sans gravité, Folio essais, 2005 (trad. di Francesco Di Gennaro)

La violenza appare nel momento in cui le parole non sono più efficaci. Nel momento in cui chi parla non è più riconosciuto. In una coppia, la violenza inizia quando l’altro rifiuta di riconoscere, in colui che ha di fronte,  un trasmettitore verbale vivo e in buona fede. Vivo, quindi avente la propria economia, i propri vincoli. E considerato, qualunque sia il disaccordo, in buona fede. Appena questo riconoscimento non ha luogo, l’altro non è identificato come soggetto e la violenza fa capolino.

[…] In quest’epoca in cui viviamo, sempre più spesso, il soggetto non è riconosciuto perché inizialmente non è impostato. Allora la violenza si manifesta continuamente, per tutto e per niente. Una specie di violenza che è divenuta un modo banale di relazione sociale.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Creare due, tre, molte Rosarno

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di Jamila Mascat*

Su un muro dell’Ex-Opera Sila, un impianto industriale destinato alla trasformazione delle olive riconvertito nel tempo in accampamento insalubre per centinaia di braccianti stagionali, gli africani in fuga da Rosarno dopo la rivolta del 7 gennaio 2010 avevano lasciato scritto: We will be remember(ed). 

A dieci anni di distanza da quella che fu non la prima né l’ultima, ma certo la più memorabile delle rivolte dei lavoratori africani in Italia contro lo sfruttamento e la persecuzione razziale, è lecito chiedersi che cosa valga la pena ricordare di un’esperienza apparentemente archiviata, o peggio inghiottita dallo sfacelo che ha ripreso il sopravvento a Rosarno come altrove.

Purtroppo sono ancora migliaia i braccianti che si affollano d’inverno nella Piana di Gioia Tauro per la raccolta delle arance, gli stessi che poi migrano a Castel Volturno e Villa Literno, a Nardò e a Palazzo San Gervasio, inseguendo le stagioni della frutta e degli ortaggi. Sono ancora migliaia a dormire tra plastica e lamiere nelle baraccopoli o nelle tendopoli ministeriali in mancanza di alloggi degni di questo nome. Sono ancora da fame le paghe giornaliere, che si aggirano intorno ai 25 euro al giorno escluse le «tasse» versate ai caporali, con buona pace della legge sul caporalato varata nel 2016. E sono ancora troppi i migranti che finiscono per perdere la vita nelle campagne calabresi: sono vittime del degrado in cui tentano di – e a volte stentano a – sopravvivere, come Becky Moses, la ragazza nigeriana carbonizzata in un incendio nel 2018; vittime «accidentali» come Ousmane Keita, il giovane ivoriano ritrovato morto in un aranceto a novembre dell’anno scorso; oppure vittime di assassinio come Soumaila Sacko, il sindacalista maliano dell’Usb ucciso a fucilate un anno e mezzo fa. Morti terrestri che si lasciano contare e nominare a fronte di quelli, innumerevoli e anonimi, risucchiati dal mare.

La rivolta di dieci anni fa, che scoppiò in risposta all’aggressione subìta da due braccianti africani colpiti da un fucile ad aria compressa, dischiudeva un gigantesco vaso di Pandora, dimostrando la complicità perversa ed efficace di mafia, capitalismo e segregazione razziale che governa la produzione agroalimentare nel Mezzogiorno e le filiere della distribuzione nazionale. E se né i protocolli d’intesa del governo né le indagini giudiziarie né tantomeno gli arresti (qualche dozzina) e i sequestri a cui ha condotto l’operazione Migrantes pochi mesi dopo i fatti di Rosarno hanno realmente contribuito a sanare la situazione nelle campagne meridionali, quella rivolta ha cambiato per sempre il sapore delle arance.

Ricorderemo Rosarno per aver reso brutalmente visibile lo stato di vessazione in cui versa il lavoro migrante nei campi al servizio delle imprese agricole italiane. Ricorderemo Rosarno per aver svelato che il lavoro nero è il vero marchio di garanzia della nostra agricoltura Dop esportata in tutto il mondo. E ricorderemo gli africani di Rosarno per aver impartito una lezione in carne e ossa – senza dimenticare il sangue – sugli ingranaggi del «capitalismo razziale»made in Italy, per dirlo con la fortunata formula di Cedric Robinson in Black Marxism (1983), presa a prestito dalla storia delle lotte contro l’apartheid in Sudafrica. Per dirlo altrimenti, invece, ricorderemo Rosarno per aver rivelato la vocazione meramente estrattiva del decreto flussi – alias «decreto di programmazione transitoria dei flussi dei lavoratori non comunitari per lavoro stagionale nel territorio dello stato» – e le sue rovinose conseguenze. In vigore dal 2001, questo provvedimento deputato a fissare anno per anno e paese per paese le quote di manodopera straniera usa-e-getta necessaria per il fabbisogno nazionale, ha favorito e consolidato l’etnicizzazione dello sfruttamento e contribuito a produrre tonnellate di clandestinità, vincolando in maniera ancora una volta perversa e paradossale la regolarità dei documenti dei migranti all’irregolarità di lavori saltuari, intermittenti e spesso condotti nell’illegalità.

Ma se ricorderemo Rosarno non è solo per aver puntato i riflettori sull’inferno a cui venivano e vengono tuttora destinati migliaia di immigrati in questo paese, nei campi e nei cantieri, nelle case e nelle fabbriche. È anche e soprattutto per le conquiste scaturite da quell’esperienza che Rosarno ha segnato uno spartiacque nelle storia dell’immigrazione italiana. Perché la storia dell’immigrazione italiana non è solo quella delle leggi sempre più coercitive e punitive che regolano la presenza degli stranieri in Italia – una parabola disperante che va dalla Legge Turco-Napolitano alla Bossi-Fini al Decreto Salvini passando per il Pacchetto Sicurezza di Maroni, inaugurato proprio qualche mese prima della rivolta di Rosarno – e rendono fragili e ricattabili le vite dei lavoratori extracomunitari inghiottite nel vortice del lavoro nero. Ma è anche una storia di lotte per la dignità e l’accoglienza, il diritto al lavoro e i diritti sul lavoro. Di rivolte incendiarie e scioperi migranti, di cortei e picchetti, di autorganizzazione e solidarietà. E per questo vogliamo ricordare Rosarno.

Il dopo Rosarno cominciò nei giorni immediatamente successivi alla sommossa che aveva messo a fuoco e fiamme il paese, quando la cittadinanza rispose con una selvaggia «caccia al negro» che ferì più di una decina di africani e l’allora ministro dell’interno Maroni, pioniere della sicurezza e in questo degno antesignano di Salvini, inviò polizia e carabinieri a compiere «tempestivamente» un’inedita missione di salvataggio più simile nei fatti a un’operazione di pulizia etnica. Per salvare il salvabile vennero deportati 1.128 migranti, di cui circa ottocento inviati nei Centri di identificazione ed espulsione di Bari e Crotone e trecento spediti in treno verso il nord.

Da quel momento l’eco di Rosarno si propagò in scala ridotta su tutta la penisola, con un epicentro a Roma, dove oltre un centinaio di «rosarnesi» trovarono uno sciagurato alloggio di fortuna nei dintorni della Stazione Termini. Ed è a Roma che le reti antirazziste della Capitale seppero rispondere all’emergenza umanitaria offrendo supporto materiale e sostegno politico all’organizzazione degli immigrati sfollati dalla Calabria.

I mandarini non cadono dal cielo, questo il titolo del primo comunicato dell’Alar, l’Assemblea dei Lavoratori Africani di Rosarno a Roma, che denunciava, a qualche settimana dalla sommossa, il gusto amaro dei frutti della buona tavola, frutti del lavoro servile di manodopera immigrata. E visto che nemmeno i diritti cadono dal cielo, i braccianti di Rosarno hanno costruito con l’aiuto della solidarietà antirazzista un lungo percorso di mobilitazione per esigere per tutti il permesso di soggiorno per motivi umanitari che il Ministero dell’Interno aveva promesso soltanto alla manciata di immigrati aggrediti e feriti nei giorni della rivolta. Di pari passo con le richieste formali inoltrate alla Questura di Roma tramite gli avvocati e gli operatori dell’associazione Progetto Diritti, gli africani di Rosarno hanno inaugurato una battaglia politica per ottenere la regolarizzazione e un lavoro dignitoso, una battaglia condotta in nome del prezzo pagato per la clandestinità forzata e la negazione dei diritti più elementari a cui erano stati condannati.

Scandita al ritmo di sit-in, cortei e assemblee quotidiane multilingue, e perciò spesso interminabili, convocate nei capannoni dell’Ex-Snia Viscosa – uno dei centri sociali romani trasformati in spazio d’accoglienza per decine di sfollati durante i lunghi mesi della mobilitazione – la protesta si è nutrita del supporto militante di esponenti del movimento antirazzista e della sinistra radicale e anticapitalista, di associazioni di quartiere e di studenti, in un’avventura durata quasi due anni.

La vittoria strappata alle istituzioni con la conquista collettiva del soggiorno umanitario per oltre un centinaio di «rosarnesi», ha segnato la chiusura di un ciclo – l’esperienza dell’Alar, le sue assemblee, le sue reti – aprendone indirettamente un altro. La vertenza costruita intorno al rilascio dei permessi di soggiorno per motivi umanitari agli oltre cento lavoratori africani di Rosarno – tra cui numerosi richiedenti asilo precedentemente diniegati dalle Commissioni territoriali – ha di fatto aperto un varco nella giurisprudenza a venire, creando la possibilità di addurre proprio lo sfruttamento disumano subìto dai migranti a motivo della concessione del soggiorno in tutti quei casi in cui la richiesta di protezione internazionale non potesse essere formalmente soddisfatta, ritorcendo così inaspettatamente la legge contro sé stessa. Perciò, se il contratto di lavoro è stato progressivamente eretto a filtro e criterio dell’immigrazione regolare, proprio il lavoro irregolare, che le leggi sull’immigrazione in realtà favoriscono, insieme allo sfruttamento che ne deriva, è ciò che da Rosarno in poi ha permesso di allargare le maglie restrittive di quel filtro legale costituito dal lavoro in regola, consentendo agli stranieri sfruttati di ottenere la protezione umanitaria. Rosarno in questo senso aveva creato un precedente d’eccezione.

Purtroppo però quel varco è stato ormai bruscamente interrotto con l’abolizione puntuale del soggiorno concesso per motivi umanitari sancita dal decreto Salvini nel 2018 e la revoca retroattiva dei permessi accordati a tali fini.

Cancellando le reti territoriali degli Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che fino ad allora garantiva accoglienza a oltre 20mila stranieri distribuiti in 400 comuni, tra i quali Riace è stato a lungo un esempio modello, il decreto Salvini inaugurava poco più di un anno fa il nuovo Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproimi) che affida «l’accoglienza» dei richiedenti asilo a due tipi di centri di detenzione – ai Cara, dipendenti dalle prefetture e appaltati a enti privati e, prevalentemente, ai Cas, gestiti da strutture private e cooperative – che speculano sulla carcerazione degli immigrati.

Non è un caso, del resto, che le nuove misure introdotte dal decreto sicurezza e denunciate dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) abbiano colpito, entre autres, due delle principali armi abitualmente impugnate dai lavoratori stranieri, da un lato per uscire dalla clandestinità e legalizzare la propria situazione e, dall’altro, per ottenere diritti e tutele sul lavoro: il soggiorno umanitario e i blocchi stradali sui picchetti di scioperoLeitmotiv dei lavoratori della logistica, a oggi il settore più combattivo e organizzato del lavoro migrante in Italia.

Ricorderemo, quindi, l’avventura degli africani di Rosarno anche per aver fatto da apripista sulla strada della protezione umanitaria, una strada battuta dopo di loro, negli anni, da centinaia di altri clandestini sfruttati e ormai definitivamente sbarrata dal Decreto sicurezza. Ricorderemo il risveglio della solidarietà in lotta, coagulata intorno a quest’avventura. E la ricorderemo, a fronte delle proteste contro i migranti esplose nelle isole greche la scorsa settimana, con la speranza di ricreare due, tre, molte Rosarno.

 

*Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 29.1.2020.

Internauti – day two, day three

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di Francesco Forlani & Andrea Inglese

[Continua il diario della quarantena di noi italiani, sospetti di contagio in Francia; senza vittimismi, ma senza neppure trionfalismi. Stare tappati in casa dà un bel daffare.  effeffe e AI]

 

 

 

 

 

La polacca

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di Mirfet Piccolo

Le piaceva farlo così, senza guardarlo: con la gamba sottile abbracciava la coscia di lui e con il pube ancora caldo e umido si premeva e stringeva un poco; la clitoride era un bacio lieve sul fianco dell’uomo con il quale era in amore. E poi diceva:

Raccontami ancora quella storia.

Con la testa posata sul suo petto nudo e lo sguardo lontano dal suo, Fiona aveva la libertà di vedere meglio ciò che le raccontava. La stanza dell’albergo era troppo grande per tutto lo squallore che conteneva, ma sarebbe andata bene, si era detta Fiona appena varcata la soglia, sarebbe andata bene comunque perché la voglia di stare di nuovo insieme era tanta e quella era, doveva esserlo, semplicemente la stanza che in un hotel a quattro stelle riservavano a chi richiedeva il day-stay per mezza giornata

Quale storia?

Quella di quando eri in Polonia per lavoro e hai conosciuto quella ragazza.

La polacca? Dici quella?

Sì, lei.

La mia Polish girl.

Davanti agli occhi di Fiona c’era una cassettiera fuori moda e di dubbio gusto, e che molto probabilmente era stata brutta anche quando era di moda per via della fattura fintamente pregiata; accanto, sulla sedia dall’imbottitura logora, lui aveva posato il suo giubbino. Nonostante il lieve squallore che la circondava, o forse proprio in virtù della mancanza di un contesto gradevole, Fiona riuscì ancora una volta a ricostruire l’immagine di lui da ragazzo brillante agli esordi della sua carriera di auditor in giro per il mondo: giovane e audace, i capelli in posa con il gel e la risata fragorosa con i colleghi per la strade di Varsavia dopo una giornata di lavoro. E questa volta aggiunse anche la luce gialla dei lampioni che cadeva a cascata sulla strada che li aveva poi condotti nel locale dove avevano incontrato il gruppo di ragazze.

Ma lei, non ti ricordi proprio come si chiamava?

Perso nella memoria, anche perché dopo non ci siamo più visti.

E com’era? Fisicamente, dico.

Normale, una ragazza normale. Come te, come tante. Vestita normale, un po’ acqua e sapone.

Ma in che momento ti ha detto di essere una prostituta, prima o dopo?

Me lo ha detto lì, al pub. Si chiacchierava. Ma non stava mica lavorando in quel momento. Era fuori con le amiche. Una ragazza normale. Non era una vera prostituta, lo faceva solo ogni tanto, per bisogno.

E ci sei rimasto male?

No, te l’ho già detto. Era simpatica e molto carina. Tutto qui.

E poi?

E poi abbiamo parlato di altro.

Di cosa?

Boh, e chi se lo ricorda. Però ricordo che mi piaceva il suo accento quando provava a parlare in italiano. Lì lo imparano un po’ tutte.

Questa dell’accento era un’informazione nuova. Non ne aveva mai parlato. Fiona ripensò a quando lui, emiliano, la prendeva un po’ giro sottolineando le e troppo aperte del suo accento milanese: chiudi quelle e, le diceva, non sono mica le tue gambe, e la guardava con quel sorriso un po’ rapace e un po’ scherzoso.

Forse la ragazza polacca aveva imparato l’italiano dalle canzoni di Eros Ramazzotti, e allora Fiona immaginò una ragazzina magra, con i capelli lisci e lunghi sulle spalle e le cuffie alle orecchie, china sulla scrivania della sua stanza a trascrivere su un diario i testi delle canzoni. Una ragazza normale, una ragazza come tante.

Poi lui lamentò di avere il braccio addormentato. Per mettere a tacere il formicolio, nel muoversi sollevò la gamba destra e dal quel sollevamento Fiona vide emergere un piccolo buco sul lenzuolo bianco; che posto ridicolo, pensò. Quando abbassò di nuovo la gamba, il buco scomparve dalla sua vista.

La sua stanza, ti ricordi com’era la sua stanza?

Giovane. Ragazza acqua e sapone. Ragazza come tante. Prostituta. Fiona avrebbe voluto sapere di più della stanza della ragazza polacca. Aveva anche lei poster di cantati e attori famosi, e vestiti in disordine su una sedia e scarpe sempre in giro? Ma lui si fermava sempre qui: era una stanza come tante, la stanza di una ragazza giovane.

Lo baciò sul petto, poi ripose nuovamente la testa su di lui e con il dito iniziò a disegnare una costellazione invisibile in cui i suoi nei erano i pianeti e lei con il dito li circumnavigava e poi li univa per formare animali fantastici e divinità. Fiona non aveva mai visto così tanti nei su un uomo e ormai li considerava un tratto distintivo del suo corpo.

Nelle giornate tra un incontro e l’altro, quando lui per lavoro doveva spostarsi in altre località, non vedeva l’ora che arrivasse il momento di andare a dormire così da togliere dalla sua vista la presenza astiosa della sua coinquilina e potere, finalmente, stringere il cuscino e con gli occhi chiusi richiamare alla mente tutta la costellazione del suo corpo nudo. Le sembrava di averlo al suo fianco e così si addormentava.

Ma io non ho capito la dinamica. Dopo il pub, come è successo che siete andati a casa sua? Te lo ha chiesto lei o glielo hai proposto tu?

Fiona fu sorpresa e soddisfatta da se stessa: era la prima volta che gli faceva questa domanda eppure ora che era uscita dalla sua bocca le sembrò di grande importanza. Questa sì che è una bella domanda, si disse.

È venuto così, parlando.

Parlavate un po’ in inglese e un po’ in italiano, giusto?

Sì.

E quindi, come è successo? Te lo ha chiesto lei o sei stato tu?

Sai quel genere di sguardi, no? Quelli che vogliono dire tutto. Poi ci siamo dati qualche bacio lontano dalle amiche ed è venuto così, di andare da lei. Lì è facile, è sufficiente dire loro che le porti in Italia.

Le dita della mano di Fiona si fermarono e si rifugiarono nel palmo; la costellazione subì un piccolo, netto collasso.

Adesso però aveva fame, aggiunse, voleva uscire a mangiare qualcosa, e si divincolò dall’abbraccio immobile. Quando lei gli ricordò che avevano la stanza prenotata ancora per un’altra ora, lui le disse che non era importante, che non si preoccupava mai dei soldi che spendeva se erano stati spesi bene.

Stiamo stati bene anche questa volta, no?

Fiona disse di sì, sì certo, sì. Sollevò il busto e dal letto lo seguì con lo sguardo mentre andava in bagno; lo sentì aprire la porta e poi chiuderla, sentì che girò chiave.

Guardò verso la finestra: la luce che filtrava era intrisa di granelli di polvere che fluttuavano vicini e non cascavano mai. Fece per alzarsi dal letto, e da un movimento distratto del piede il piccolo strappo sul lenzuolo si allargò. Fiona provò un immediato imbarazzo: guardò in direzione del bagno – lui era sotto la doccia e non sarebbe certo uscito in quel momento – e poi di nuovo il buco sul lenzuolo. Infine si alzò del tutto e con il lenzuolo superiore e poi con il copriletto coprì ogni cosa.

Ancora nuda, andò alla finestra. La camera si affacciava su un parcheggio che in quel momento era parzialmente deserto. Oltre la recinzione che delimitava il parcheggio notò un appezzamento di terra erbosa con delle bestie. Sembravano lama, o forse erano alpaca? Era un posto strano per tenere degli animali come quelli. Da quella distanza le era impossibile distinguerli e forse, si disse, forse non sarebbe stata in grado di farlo neppure da vicino. Sapeva che i primi sputavano e i secondi no, ma cos’altro?

Secondo te quelli sono lama o alpaca?

Andò anche lui alla finestra. Fiona avvertì il calore della sua pelle umida e profumata, e provò il desiderio di togliergli quell’asciugamano che gli cingeva la vita e fare ancora l’amore. Non poteva dire che lui fosse, tecnicamente, un amante perfetto (per raggiungere l’orgasmo, infatti, lei sapeva come muoversi, e cioè come contrarre i muscoli del suo utero), ma era un uomo taciturno e affascinante e aperto al mondo, ed era il primo uomo della sua vita recente che non l’aveva fatta sentire miserabile per via della sua condizione di donna quarantenne affittuaria di un appartamento in condivisione con un ragazza ben più giovane di lei.

Non lo so. Penso che siano la stessa cosa, stessa sostanza. Dai, muoviti ché ho fame.

E lui si voltò e iniziò a rivestirsi.

Sono certa che non sono la stessa cosa. Però neppure io so la differenza, non me la ricordo più.

Fiona chiuse la porta alle sue spalle e non girò la chiave. Il bagno era piccolo e i sanitari ingialliti dal tempo ma in fondo, pensò mentre faceva la pipì, non era così importante; l’importate era stare bene insieme, fare scorta di ricordi belli per i giorni a venire che non avrebbero potuto passare insieme. Si pulì, tirò lo sciacquone e andò sotto la doccia.

Quando Fiona uscì dal uscì dal bagno, lui si era già messo il giubbino.

Sono davvero affamato, vestiti così andiamo a mangiare qualcosa.

La porta principale dell’Hotel dava su di una strada stretta e molto trafficata, ma l’aria leggera e fresca della primavera arrivata in anticipo era piacevole. Lui mise le mani nelle tasche del giubbino e lei si aggrappò al suo braccio. Ripensò alla stanza dell’Hotel che si stavano lasciando alle spalle: era davvero squallida, la peggiore tra tutte quelle in cui erano stati nel corso di quelle settimane, e si disse che avrebbe fatto in modo, per la prossima volta, di mandare fuori casa per una giornata intera la sua coinquilina. Le avrebbe parlato, era disposta pure a pagarle un soggiorno presso qualche località termale. Qualsiasi cosa pur di avere uno spazio di normalità amorosa prima della partenza di lui.

Hai fame anche tu?

Adesso che mi ci hai fatto pensare, ho molta fame.

Vediamo che troviamo.

Più avanti c’è la metropolitana. Posso portarti in un posto speciale.

Fiona conosceva un buon ristornante cinese che distava solo quattro fermate di metropolitana. Poi avrebbe potuto portarlo al parco a fare una passeggiata. Era un bel parco, il più grande della città. Ma continuò a camminare appesa al suo braccio senza svelargli i suoi piani: voleva sorprenderlo, voleva condurlo verso tutto ciò che c’era di bello in città, voleva dargli in regalo dei ricordi belli.

Quando hai detto che parti?

La settimana prossima.

E ritorni?

Ancora non lo so, non dipende da me.

Poi lui si fermò. Qui facciamo prima, disse, e la trascinò dentro a una piccola pizzeria al taglio.

Hai detto anche tu di avere molta fame, no?

Fiona sorrise e rispose sì, certo, sì. Pensò che sì, aveva ragione lui, anche lei aveva molta fame e in fondo ciò che contava era stare bene insieme. E per un attimo le sembrò di essere tornata una ragazzina in pausa pranzo con le compagne di università. Sentì che c’era posto per la spensieratezza.

Il locale era piccolo ma non troppo pieno. Trovarono due posti su degli sgabelli alti, in prossimità di uno specchio grande quasi quanto tutta la parete.

Tu quale vuoi?

Margherita va bene, ma con doppia mozzarella se è possibile, e con le olive.

Fiona vide una smorfia di irritazione nel suo viso, ma le sembrò buffa e perciò la fece sorridere. Dal grande specchio, poteva vedere il riflesso delle sue spalle chiuse nel giubbino e ripensò alla costellazione di nei ed ebbe la sensazione di esclusività, di conoscere qualcosa che nessuno lì dentro poteva sapere. Decise che gli avrebbe anticipato i suoi piani – la metropolitana a pochi passi, la passeggiata nel parco tutto da scoprire – e che gli avrebbe fatto una sorpresa ben più grande.

Lui tornò con le pizze fumanti nei piattini di plastica; il rosso del pomodoro era vivo e luccicate del succo e dell’olio. Fiona addentò il primo boccone ma si scottò. Aprì la bocca e rise e con la mano fece il gesto di farsi aria. Nel riflesso dello specchio vide un gruppo di ragazzine divertite: erano belle, vivaci, e anche Fiona si sentì un po’ come lo loro e quasi felice.

Sei davvero goffa.

Senti, la metropolitana è a pochi passi da qui. In cinque fermate siamo a un parco molto bello. Te lo faccio scoprire io, è davvero bello e antico. Per fare una passeggiata, dico, poi potremmo stenderci un po’ al sole. È davvero molto bello, uno dei miei luoghi preferiti.

Poi decidiamo.

E magari la prossima settimana potresti venire da me. Alla mia coinquilina antipatica dico di lasciarmi la casa libera.

Pensavo che l’Hotel andasse bene. Avevi detto anche tu che l’anonimato era meglio, così non dovevi chiedere a nessuno. Siamo più indipendenti, no?

Se lei non c’è siamo liberi. Non ti preoccupare, ci penso io. Tu non ti devi preoccupare di niente. Fidati.

Lui addentò un altro boccone e masticò un po’, e si portò il tovagliolo alla bocca e non aveva finito di deglutire che:

Con te invece è difficile, sai?, rendi le cose complicate.

Fiona abbassò lo sguardo sul suo trancio, e portò la pizza alla bocca e strinse i denti e sentì il bruciore scavarle la bocca e poi la gola, lo sentì scendere; l’allegria delle ragazzine rimbombava come un’eco nella sua testa e tutt’attorno e non c’erano più altri suoni né spazi. Non esisteva nient’altro.

Giovani al comando, rivoluzionari

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di Luca Gorgolini

(Pubblichiamo un estratto da Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, di Luca Gorgolini. Salerno Editrice, pp. 296. In libreria dal 30 gennaio 2020)

Nel corso del biennio «multiforme e multicolore», in cui si sovrapposero «spinte democratiche, rivoluzionarie e autoritarie», che precedette i due appuntamenti congressuali del gennaio 1921, durante i quali vennero sancite la fondazione del Partito Comunista d’Italia e la trasformazione della Federazione giovanile socialista nella Federazione giovanile comunista, non prese forma alcuna rivoluzione e la stagione di lotte animata dalle classi popolari terminò con la sconfitta del movimento operaio e l’affermazione delle forze reazionarie.

Il Partito Socialista che nel marzo 1919 aveva approvato la propria adesione all’Internazionale comunista si trovò paralizzato, costretto tra gli attendismi dei riformisti, che continuavano a credere nella necessità di ottenere in Parlamento l’approvazione di un programma di riforme parziali che consentisse la trasformazione dell’Italia in una moderna democrazia, e i massimalisti che credevano nella possibilità di innescare un moto rivoluzionario ma non fornivano indicazioni chiare sui modi e sui tempi di attuazione dello stesso.

Per quel che riguarda la Federazione giovanile, con la conclusione del conflitto, essa si dimostrò capace di assumere un ruolo di guida nel processo di ricostruzione degli organismi del movimento internazionale, fortemente indebolito dalla stretta repressiva messa in atto dai governi nell’ultimo anno di guerra al fine di arginare le proteste che stavano minacciando ovunque la tenuta dei fronti interni: nel maggio del 1919 i dirigenti italiani rivolsero un appello ai giovani socialisti e proletari di tutti i paesi in cui si parlava di «armamento del popolo», «sciopero generale rivoluzionario», «dittatura proletaria»; a settembre Luigi Polano, segretario della Federazione italiana, venne nominato fiduciario dell’Internazionale per molti paesi, tra i quali la Francia, gli Stati uniti e la Spagna; a novembre egli partecipò al congresso di fondazione dell’Internazionale giovanile comunista che si tenne a Berlino, entrando a far parte del Comitato esecutivo. A quell’appuntamento il dirigente italiano si presentò forte di un’organizzazione che contava ormai 35.000 iscritti, seconda, tra le 14 federazioni nazionali rappresentate, solamente alla potente compagine russa e ai suoi 80.000 aderenti.

Sul versante delle dinamiche interne, le posizioni si cristallizzarono attorno a tre gruppi che si confrontarono per tutto il 1919: il gruppo astensionista (guidato dal bordighiano Giuseppe Berti), il gruppo ordinovista (rappresentato da Umberto Terracini) e il gruppo massimalista del segretario Polano che nella primavera del 1920 prese però le distanze da Serrati, leader dei massimalisti del PSI, il quale si era dichiarato convinto che in quel momento storico fossero venute meno in Italia le condizioni per portare a termine un moto rivoluzionario e che fosse necessario salvaguardare l’unità del partito, allontanando in questo modo la minaccia dell’espulsione dei riformisti. Al contrario, il Comitato centrale della Federazione credeva che fosse venuto il tempo di operare attivamente alla costruzione di un partito nuovo, rivoluzionario e su base comunista. Un percorso che subì un’accelerazione sotto la spinta delle decisioni assunte nel corso del II congresso dell’Internazionale comunista che si tenne a Mosca nel luglio agosto del 1920, durante il quale vennero approvate le 21 condizioni poste da Lenin e che i partiti socialisti avrebbero dovuto accogliere per aderire al Komintern. Il 20 ottobre a Milano il gruppo dei “comunisti puri” sottoscrisse il manifesto programma della propria frazione che prevedeva l’espulsione dei riformisti e l’«azione insurrezionale del proletariato» sia con mezzi legali che con mezzi illegali. A firmarlo furono Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano e Terracini.

Le indicazioni di Lenin avevano dunque favorito il superamento delle divisioni e tracciato un percorso comune su cui tutti si ritrovarono. Seguirono l’incontro di Imola (28-29 novembre 1920) e la riunione del Consiglio nazionale della FGSI (Genzano, 5 dicembre 1920) con cui il movimento giovanile dichiarava di aderire «incondizionatamente alla frazione comunista». Così a Livorno, nella seduta inaugurale (15 gennaio) del XVII Congresso nazionale del PSI, Secondino Tranquilli (alias Ignazio Silone), direttore dell’«Avanguardia», nel portare il saluto dei giovani invitò i congressisti «a bruciare il fantoccio dell’unità»; a seguire, il 21 gennaio, resi noti i dati della votazione delle mozioni che assegnarono la maggioranza ai comunisti unitari di Serrati, Luigi Polano prese la parola per comunicare che da quel momento la Federazione giovanile socialista dichiarava sciolto il proprio impegno di adesione al Partito Socialista siglato tredici anni prima, nel 1907.

Il passo decisivo era ormai compiuto. Nella stessa giornata la frazione comunista riunitasi al teatro San Marco diede vita al Partito Comunista d’Italia, il cui gruppo dirigente risultava composto quasi per intero dalla generazione di militanti che aveva svolto la prima parte del proprio tirocinio politico negli anni che andavano dalla guerra di Libia allo scoppio della Grande Guerra e che avevano spinto la Federazione giovanile lungo la strada del massimalismo rivoluzionario: tra gli altri Bordiga, Gramsci, Fortichiari, Grieco, Terracini. Il Partito Comunista Italiano nasceva presentando il profilo di un «partito di giovani»: l’età media dei componenti il Comitato centrale era di soli 36 anni.

Alcuni giorni più tardi, a Firenze (nella città dove nel 1903 si era costituita la Federazione nazionale giovanile socialista), i congressisti intervenuti all’VIII congresso della FIGS approvarono a larghissima maggioranza l’adesione al neonato PCd’I e la nuova denominazione del movimento che diventava: “Federazione giovanile comunista”. Nel suo gruppo dirigente, composto da giovani formatisi negli anni della guerra, comparivano alcune personalità destinate ad assumere un ruolo di primo piano nella storia del PCI, come nel caso di Luigi Longo e Pietro Secchia.

Internauti – day one

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di Francesco Forlani & Andrea Inglese

[Ieri cominciava il nostro primo giorno di quarantena in Francia, in quanto sospetti di aver passato la frontiera dall’Italia con il Covid-19 in corpo. Naturalmente è una quarantena dal lavoro, essendo noi insegnanti, ma purtroppo non di 40 ma di soli 14 giorni. In ogni caso, ognuno da casa propria, vi manderemo stralci del nostro giornale di bordo di espatriati al confino. FF e AI]

La stanza senza fine

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di Giovanni De Feo

Nico non riuscì a distinguere il momento esatto in cui il racconto del Mastro si insinuò a tal punto nel suo sonno da spaccarlo, come un cuneo di ferro in un ciocco di legno, penetrando in profondità nei suoi sogni. A un certo punto però si trovò a camminare dentro di essi.

Era un sogno, e insieme non lo era. Intanto perché era consapevole di stare sognando, e questo era inusuale. E poi perché era tutto molto netto, come se la tenebra fosse stata sbozzata dalla luna. Nel bosco innevato il ragazzo sentiva il crocchiare dei suoi piedi nudi. Era notte, e avrebbe dovuto fare un freddo cane ma il ragazzo lo accusava appena. Sotto la palme nude dei piedi, la neve non scottava. Pian piano dal sentiero illunato lo raggiunsero i rumori di una lotta.

Al di là di uno schermo fitto di betulle, bianche e slanciate come schiene, il ragazzo sentiva un suono di mani su mani, di braccia su braccia, un rotolar di corpi in terra. Sembrava di udire una folla di lottatori in un’arena; ma il ragazzo sapeva che i lottatori erano solo due.

Proprio quando stava per superare lo schermo degli alberi, nel bosco risuonò un grido.

Il ragazzo raddoppiò il passo. Quando sbirciò dentro la radura – uno spiazzo nevoso nelle cui strisciate di neve e fango si leggeva la storia della lotta – il ragazzo sapeva già cosa avrebbe visto: un uomo in piedi e un uomo in terra. Non due uomini, lo stesso identico uomo.

Nico si arrestò in tempo per vedere quello in piedi –vestiva una divisa grigio-verde– girarsi. Pur imbacuccato di scialli incrostati di ghiaccio, lo riconobbe. Era più magro del Farmacista, ed entrambi gli occhi scintillavano al chiarore lunare. Ma era il tenente, Bencivenga. L’uomo lo fissava; l’ansito bianco del suo fiato dilagava nella notte come latte.

Solo allora Nico riuscì a parlare, e nel sogno disse: «Perché lo hai fatto? Perché lo hai guardato in faccia?».

«E tu?» chiese l’uomo, secco. «Perché hai inseguito il tuo doppio a casa tua?»

«Dovevo sapere» disse Nico.

E annuendo, come a dire: “anche io”, il tenente si chinò per trascinare via l’altro corpo.

«Aspetta!» disse Nico avanzando un passo, «che vuol dire che gli hai rubato “uno sguardo”! Che sguardo?! Cosa vuole lui davvero da te?!»

Il tenente rimase di profilo contro la luna; poi voltò il capo. Il ragazzo sentì un rumore come di rametti spezzati, quando le vertebre del collo gli si frantumarono: la testa del tenente aveva fatto un giro completo e ora gli mostrava la nuca. Con la faccia che gli formicolava per lo choc il ragazzo guardò l’uomo ai loro piedi, nella neve. Quello, era il vero Bencivenga.

Il freddo cominciava finalmente a raggiungerlo, gli allagava i polmoni come un silenzio liquido, il gelo immemore che vive tra le stelle più lontane.

«Cosa vuoi?» disse infine il ragazzo. «Cosa vuoi dal Ciclope? E da me? Cosa vuoi da noi tutti?!» Nico vedeva il vapore dietro la sua nuca, come se la bocca dell’altro si fosse aperta.

Poi sentì che non erano più soli. Si girò.

Al posto delle betulle c’era una folla senza fine, immobile, che degradava nel bianco in tutte le direzioni. Erano le genti delle città ora deserte: donne, uomini, vecchi, bambini. Ognuno di loro aveva il corpo rivolto verso di lui e la testa torta innaturalmente all’indietro. Capì, nel sogno, che essi erano coloro che l’Effimero aveva disfatto, e che anche lui avrebbe fatto parte delle sue schiere, quando nel mondo sarebbe morta l’ultima persona che aveva memoria di lui. Dal racconto del Ciclope, tra i più vicini, Nico riconobbe Guglielmin e Scavoni, quest’ultimo ancora con la borsa a tracollo, quella della lettere. Poi l’uomo che era stato il tenente Bencivenga parlò, non solo per se stesso, per tutti.

«Noi» dissero la voci.

Testo da: Giovanni De Feo, La stanza senza fine. Le avventure fotografiche di Nicodemo, Mondadori, 2019.

inversioni rupestri (# 1)

1

di Giacomo Sartori

Intonate

le nenie
le cantilene
le ninne nanne
gli inni no
e nemmeno
le arie guerriere
le marce marziali
ne tracima
la storia
(fosse solo
il nazismo!)
mi fanno
ribrezzo