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Nel cuore del Baltico: residenza per scrittori a Visby. Un diario

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di Francesca Matteoni

(ringrazio per molte delle fotografie lo scrittore Boris Ponomarev).

Visby, foto di Francesca Matteoni

Puntando a nord-est su una cartina geografica dell’Europa, troviamo il mar Baltico e alcuni ricordi scolastici sulla lega anseatica nata nel tardo medioevo per favorire il commercio fra le varie città portuali del settentrione.  Quasi al centro, fra le sponde del continente e quelle scandinave, c’è l’isola svedese di Gotland, con la sua capitale Visby, nota per le mura medievali interamente conservate e le molte rovine di chiese, abbandonate e lasciate a decadere nei venti della Riforma. A Visby si svolge nell’estate una nota festa medievale; mentre chi ha conosciuto la storia di Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren, potrebbe riconoscere proprio nelle variopinte stradine della città, l’ambientazione del noto sceneggiato del 1969. Per me il primo avvicinamento è avvenuto grazie alle parole della grande scrittrice svedese Selma Lagerlöf nel suo capolavoro, Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson, pubblicato nel 1906. Nils, mutato in folletto per la sua arroganza e in viaggio per tutta la Svezia con uno stormo di oche, sorvola Visby dopo aver appena ammirato i fasti della città fantasma di Vineta, sprofondata nel mare a causa dell’avidità dei suoi abitanti. Vedendo le rovine della città reale, Nils prova amarezza:

Se la città che aveva visto non fosse risprofondata in fondo al mare, forse un giorno sarebbe andata ugualmente in rovina. Forse non sarebbe riuscita a resistere al tempo e alla decadenza e si sarebbe presto ritrovata con chiese scoperchiate e palazzi scrostati e vie deserte e solitarie come quella. Era meglio che restasse in tutto il suo splendore in fondo al mare. (…) Ed è probabile che siano molti i giovani che la pensano così. Ma quando si diventa vecchi e ci si abitua ad accontentarsi di poco, ci si rallegra di più della Visby che c’è ancora che di una sfarzosa Vineta in fondo al mare.

Caro Nils, che ho portato con me in questa esperienza isolana, sono molte le meraviglie di questa città e delle sue rovine, non solo perché è patrimonio dell’UNESCO da oltre vent’anni. Forse perché divento vecchia, forse perché sono i luoghi che sanno custodire la traccia di un passato decaduto insieme a un quieto vivere presente a serbare una speciale magia, una sospensione dagli affanni del nostro contemporaneo.  Visby, secondo il norreno antico: luogo di sacrifici, di riti. Chissà quale rito mi aspetta.

Con queste premesse mi ci dirigo per una residenza per scrittori e traduttori, presso il Baltic Centre for Writers and Translators,  di circa tre settimane. Trascorro il primo giorno di dicembre a Stoccolma, camminando per l’isoletta di Gamla Stan, centro storico della città, e facendo visita al Nordiska Museet, il museo delle tradizioni del nord, che ho conosciuto nel gennaio 2013 mentre mi trovavo nella capitale per ricerca storica. Allora ci andai con la testa piena di folklore, culture sami, vecchi miti; questa volta mi accolgono da una parte la festa coi bambini per l’allestimento del grande albero nell’androne centrale, dall’altra una mostra didattica e accurata sull’Artico nell’era del collasso climatico:  The Artic: While the Ice is Melting. Ne esco amareggiata per come in poco tempo cambia la nostra consapevolezza, per come ciò che amo anche senza averne avuta esperienza diretta (i mondi di ghiaccio, gli orsi, le culture artiche), rischia di scivolare via con conseguenze drammatiche. Trovarsi impotenti davanti al disastro è insostenibile, ancora di più nell’ultimo mese dell’anno, in cui si celebra ciò che è stato, si prepara ciò che viene, si fa posto nell’anima.

Foto di Boris Ponomarev

La mattina del 2 dicembre parto, infine, con questa cupezza sorda, ma anche con il desiderio di scrivere e lavorare, di confrontarmi. Nel porto di Nynashamn mi imbarco per raggiungere l’isola: tre ore di viaggio sul mare calmo.  Arrivo a destinazione, verso le 15, per il tramonto. Il Baltic Centre si trova in uno dei punti più alti della cittadina, da cui si ammirano i tetti appuntiti, le pietre delle antiche chiese, la cattedrale di Santa Maria e ci si perde fino alla riva, oltre le mura. Patrick, uno dei responsabili, mi accoglie: sono due case quelle in cui abitano gli undici ospiti. Una è adibita a dormitorio, mentre nell’altra si trovano biblioteca, ampia cucina, sala per le conferenze e gli incontri. Questo luogo ha una storia importante, quasi fiabesca, che vale la pena di essere brevemente narrata. È nato nel 1993, come conseguenza di una crociera di scrittori e traduttori “Baltic Waves”, Onde Baltiche, fra le varie città dell’area, all’indomani del doppio crollo: muro di Berlino nel 1989 e URSS nel 1991.  La crociera aveva lo scopo di unire nel nome della cultura e del libero scambio coloro che fino ad allora erano stati divisi. Il centro è il punto fermo, il luogo dove questo incontro continua ad avvenire, dove si gettano ponti non solo fra le varie culture affacciate sul mare, ma perfino oltre, verso tutti i paesi del mondo. Già detto così sembra un sogno di tregua, pace, conversazione aperta, dialogo che viaggia dai libri agli individui e alle loro sensibilità. Nei giorni della mia permanenza questa tregua stimolante è divenuta l’aria quotidiana. Scrittura, pensiero, solitudine proficua, camminate per la città e fuori dalle sue mura, verso la costa calcarea e sulle rive, cene e giorni condivise con gli altri ospiti e le loro storie.

Galgberget, Boris Ponomarev

Per deformazione professionale la prima cosa che vado a vedere è Galgberget la riserva naturale dove sorge la forca, alta sulla scogliera, così che tutti potessero vedere, nei secoli scorsi, i condannati spenzolare dai cappi, quale monito della giustizia degli umani. È un luogo suggestivo e potente. La forca, costruita nel tredicesimo secolo, è perfettamente conservata: l’ultima esecuzione risale al 1845, una decapitazione credo, quindi qualcuno di alto lignaggio, poiché l’impiccagione era riservata per lo più ai disgraziati del popolo. Gli archeologi hanno rinvenuto nel tempo le ossa di alcuni dei giustiziati, qui direttamente sepolti, ma non c’è nulla da temere: per quanto sia un luogo carico di terrore, di domande e di violenza trascorsa, non può ospitare spettri tormentati. Coloro che morivano per esecuzione capitale avevano almeno questa fortuna: conoscevano il momento della fine, avevano quindi il tempo di rimettere l’anima a Dio, essere perdonati, ricevere questa grazia ultraterrena che placa la sete dello spirito e gli impedisce di vagare in terra,  privo del corpo. Forca: luogo di criminali e boia, di pubblico complice o partecipe, di morte e redenzione, di sangue che sgorga o corpo che si irrigidisce, di streghe notturne in cerca di reliquie, perché nulla è magico come il corpo umano… o ciò che ne rimane. Accanto alle colonne della costruzione medievale, piante di sorbo dell’uccellatore, ligustro, rose canine, due meli selvatici e alcune cinciallegre a banchettare con le bacche.  La vegetazione cresce come una storia sulla morte, non va sempre così?

Nel museo di Gotland, nel cuore della vecchia Visby, si viaggia ancora più indietro attraverso la storia dell’isola, dalle pietre con iscrizioni runiche e disegni, fra cui un albero cosmico, l’Yggdrasill, e la nave dei morti, agli scheletri conservati di uomini e donne preistorici, fino alle vicende e ai tesori medievali. Mi restano impresse due donne dell’Età del Ferro: la Ragazza Riccio, così chiamata perché sepolta con un copricapo decorato con aculei dell’animale; e la Donna dei Flauti, sepolta insieme a una miriade di piccoli strumenti a fiato. Sciamane? Donne sacre? L’immaginazione corre dove non ci sono storie scritte, viaggia in questi oggetti così forti e misteriosi.

Ma la città è anche le sue mura e le sue porte da cui passare verso l’interno o verso le onde, verso gli stormi che prendono il volo al tramonto e il colore metallico del mare, uno dei mari più inquinati del mondo, purtroppo, eppure così evocativo per chi arriva qua da un altro mare chiuso, a sud. Le rovine si uniscono senza dramma alle abitazioni, alle luci di dicembre accese in tutte le case per scacciare il buio con l’avvicinarsi del solstizio. Nella piazza centrale, Stora Torget, il piccolo supermercato è anch’esso una casetta, di fronte ai resti imponenti di Santa Caterina e accanto ai pub o ristoranti aperti per le feste. Non ci si può perdere dentro le mura: basta fissare lo sguardo verso le torri della sua cattedrale, che si trova a due passi dal centro baltico, appena scese alcune rampe di scale. È lì che torno a fine di ogni passeggiata, sedendomi in fondo per raccogliere i pensieri.

Foto di Boris Ponomarev

Un altro luogo buono per pensare è la biblioteca cittadina, un edificio dalle ampie vetrate che danno sulla fontana e su un piccolo giardino. Qui si può sedere al bar o girare fra gli scaffali in libertà. Ho l’abitudine di prendere molti appunti su un apposito quaderno quando lavoro a un progetto di scrittura: faccio schemi, disegni brutti ma funzionali. Accade sempre fuori, dopo una passeggiata, da qualche parte a un tavolo con una tazza di tè o di cioccolata, se è inverno. Per i miei appunti i luoghi preferiti a Visby sono tre: la biblioteca; una caffetteria fuori le mura, accanto al supermercato Coop, e  Karamell Buden, variopinta caffetteria e negozio di caramelle, dove abbonda l’oggettistica legata a Pippi e ai Mumin di Tove Jansson.  Non si può evitare, girando per le strade: la sua vetrina è un paesaggio giocattolo, un inno a un’infanzia non tanto lontana. Penso all’episodio festoso dello sceneggiato di Pippi in cui la ragazzina compra caramelle per tutti e non posso che associarlo a questa singolare bottega. Penso anche alla scrittrice Viola Di Grado, che è stata qui prima di me e con cui abbiamo parlato di tutto, Pippi e caffetterie comprese.

Poche persone girano per le strade, ma non è freddo: pioviggina, soffia un forte vento, che può essere di grande aiuto se per esempio ci si ritrova sulla riva del mare a urlare preghiere o desideri. Almeno non si passa per pazze totali, rischio che corro ogni volta che mi trovo in una simile condizione di solitario e ventoso avvicinamento all’acqua marina. Chissà cosa si porta via il mare delle nostre parole. Non lo conosco il mare. È straordinario e commovente nella sua alterità, non mi ha mai dato quel senso di ricordo e presenza che mi danno le montagne, ma sento sempre che fa bene affidarmi a lui, quando lo incontro. Mi disperde.

Le mura della città proteggono ed espongono. Ho queste due immagini simboliche: la forca, subito fuori e il giardino botanico, dove siamo andati in un piccolo gruppo, una mattina, con i suoi alberi, diversi olmi, come ripari, l’acqua limpida e scura del laghetto, una vecchia torre, chiusa ai visitatori fino alla prossima estate, qualche gatto curioso, le scale di legno che portano sopra la cinta muraria.

Nel susseguirsi dei giorni cammino, scrivo, rileggo, do forma ai miei personaggi, ho tempo per loro, parlo e cucino insieme agli altri. Perché questo è un altro aspetto fondamentale della residenza – lo scambio umano. Una sera, per la partenza di una traduttrice danese, prepariamo una cena, la mia vera cena di Natale 2019. Cibo italiano, siriano, frutta, glögg ovvero vin brulé scandinavo, una tavola imbandita e condivisa, una lingua di compromesso, l’inglese, per comprenderci attraverso le nostre diverse provenienze: Scandinavia, Lituania, Russia, Siria, Italia, Finlandia. Stringiamo amicizie. Ci confessiamo, come succede con più facilità a volte fra estranei, ma con una differenza importante –ci accomuna radicalmente l’amore per la parola scritta, per l’eredità culturale da cui con fatica e gratitudine cerchiamo di affrancarci, da cui proviamo a respirare. Ci rispettiamo. In tutti questi giorni mi è salito il desiderio di conoscere le lingue che non ho, di rimettermi a studiare, anche solo per leggere coloro che ho incontrato; di riprendere lo svedese, di imparare il russo. Un proposito per il 2020.

Baltic Centre, Boris Ponomarev

Le sere di condivisione passano per il cibo, che sia popcorn o tè o dei bliny russi o bulgur o zuppa di lenticchie; attraversano i libri, la politica degli stati, le nostre vicende personali che non temono di essere respinte, mentre diventa sempre più difficile dirsi là fuori, nelle nostre vite quotidiane. Chissà quando ci rivedremo.

Dentro di me inizio a intessere quella vecchia promessa, come faccio fin da quando sono bambina, un filo invisibile che lego dove nessuno vede e sa tranne me: ricorda, ricorda, ricorda. Sono persone, capisci? Non devi perderle. E attraverso loro cerco i luoghi. Visby diventa una piccola città aperta sul mondo – si affaccia ora sui monti della Siria da dove qualcuno fugge perché la poesia resti e possa parlare a tutti; si affaccia sulla penisola di Kola e giù fino a Mosca, dove qualcuno cresce con determinazione, pronta a non tacere l’ingiustizia; si affaccia su una piccola serra per piante a Helsinki, dove qualcuno che mi rammenta tanto il mio compagno là, alle pendici del nostro Appennino, vive in modo parco, pensa forte al crimine dell’umano contro l’animale, questa ferita insanabile e morale. O in Svezia dove con mitezza qualcuno pone domande e ascolta o su un’isola norvegese di poesia e alti picchi; o dentro la Lituania, prima repubblica baltica a staccarsi dall’URSS; o sulla Moldava, nello sguardo gentile di una traduttrice per ragazzi; o in un pezzetto di Russia sulla costa del Baltico da cui un giovane scrittore ci tiene insieme, condividendo le sue fotografie. Riecheggiano nella storia che vengo componendo.

Santa Lucia, John Bauer

Passeggio per la via dei negozi, Adelsgatan, mi fermo dentro quello di articoli esoterici a osservare i tamburi, la collezione di tarocchi, alcuni libri sulle rune. Acquisto il mio regalo personale: un libro illustrato sulle creature soprannaturali scandinave dell’artista contemporaneo Johan Egerkrans. Per tradurre ho bisogno di tutti i miei vocabolari online, ma per le immagini riconosco il debito con i libri di Brian Froud e ancora di più con l’arte di John Bauer, creatore di troll ed elfi memorabili. Bauer mi accompagna in quanto vengo scrivendo e rubando. In questo ultimo mese, avvicinandosi al giorno più corto dell’anno, è la sua Santa Lucia che vedo mentalmente. Aspetto questo giorno, il 13 dicembre, dal mio arrivo. Perché è un giorno che ho cullato nella mia immaginazione, leggendo i libri della Lagerlöf, fiabe svedesi, articoli di folklore sulle donne fatate dell’inverno europeo. Santa Lucia nasce a Siracusa, è vero, diviene martire cristiana nel quarto secolo sotto la furia di Diocleziano, ma è in Svezia, alla fine del diciannovesimo secolo, che il suo culto si fonde con l’altro pagano, celebrativo della luce che lei porta nel nome, la luce tanto bramata nei lunghi inverni nordici. Qui, Santa Lucia è un giorno speciale. Ci sono i dolci, lussekatter (gatti di Lucia), i canti, le ragazze vestite in abito bianco e cintura rossa di stoffa e in testa una corona di candele. Al centro baltico Lena ha preparato per noi lussekatter e glögg, le candele sono accese in cucina. Abbiamo la nostra merenda insieme, mentre fuori imbrunisce. Alle sette vado nella cattedrale per assistere alla celebrazione: non ci sono più posti a sedere, mi trovo un angolo sui gradini vicino all’altare. Sette ragazze avanzano lungo la navata, hanno le coroncine di candele, quelle sul capo della prima sono vere e lei cammina dritta e sicura. Cantano inni, vengono lette leggende e aneddoti di cui capisco pochissimo, solo qualche parola che è rimasta nel mio vocabolario dai testi di folklore. Due bambine, una piccola Lucia e un folletto rosso, ballano e applaudono davanti al coro, sono lo spettacolo nello spettacolo. A me basta poco, sarà che resto una romantica e non me ne vergogno: ripenso al Bontempi su cui a fatica strimpellavo Santa Lucia, penso al buio, così bello, perché ogni luce si fa custode preziosa dentro di lui. Quando rientro nella mia stanza, mi metto le cuffie e faccio partire Sibelius, il mio compositore preferito, prima di addormentarmi. Ecco qualcosa da sigillare dentro di me, come ho fatto con le mie antiche decorazioni natalizie, portate attraverso le stagioni e raccontate sull’albero, ogni anno. Ecco l’importanza dei riti, compresi quelli di cui si è spettatori. Che cos’è un rito, mi chiedo ancora. Qualcosa per scacciare una paura, per propiziarsi un essere invisibile come la memoria. Qualcosa per trasportare di là il tempo che dura più dello scandirsi delle lancette. Qualcosa perché lo spazio nelle sue molte lingue diventi casa. Ho preso, dagli alberi di Visby, delle bacche di sorbo, delle mele selvatiche. Le chiudo in una scatolina metallica, le porto con me nella mia casa sulle colline. Marciranno, seccheranno, le disporrò nell’orto. Per sapere che io vivo in molti luoghi. A molti luoghi rubo parole. Per dire grazie quando le parole si decompongono.

Caro Nils che viaggi con le oche, torna ora a volare su questa Visby con il tuo sguardo di ragazzo. Guarda queste rovine, come parole decomposte. Vedi, crescono gli alberi dove c’era il pavimento. Muschio che ricopre cardini, finestre, porte scomparse. Mancano i tetti. E per questo sono più vicine al cielo, al mare, agli elementi. E lontano, lontano tra i venti, a me, nel centro vecchio e montuoso di una terra a forma di stivale.

Foto di Boris Ponomarev

Il trattamento della marea – secondo movimento

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di Chiara De Caprio

[Qui il primo movimento]

 

Un passo al centro

II

[Sonoro: Archive, Bullets]

 

Nizza, MAMAC, sabato 27.07.19. M. avanza alla destra dell’opera Que fare en un lieu à moins que l’on y songe di Henri Olivier, a sinistra un’addetta alla sicurezza

 

(a). 3. [almeno in quest’istante, a formulare anche solo l’idea]

 

Le file la costringono a fermarsi; distinguono fra nazioni e provenienze: le identità respinte, gli stanchi intorno a lei, Madame, please, the passport in your hands. Sa di dover oltrepassare l’uomo-che-siede. Considera se restare in piedi o attendere, anche lei, seduta; o se quella posizione più bassa non sia una limitazione dello sguardo e debba, dunque, preferirsi centrale. Eppure, al centro si è esposti su troppi lati; al contrario, una posizione decentrata potrebbe far apparire la fila stessa in modo diverso

Non riesce a calcolare il tempo del loro fronteggiarsi; forse solo alcuni minuti dinanzi all’uomo. Lei farà saltare palazzi, madame? cospirerà contro il Presidente? venderà informazioni? saprebbe ripetere che cosa ha imparato sulle barriere? che cosa sa delle gabbie fra le terre di mezzo? ha mai provato a oltrepassarle? vorrebbe indicare chi è il nemico? se lo ha riconosciuto, perché lo ha fatto entrare?

ma allora; allora, chi potrebbe anche solo pensare, in generale, ad una sicurezza completa? I movimenti dimentichi e imprecisi, come se non ne avesse più una memoria corporea. Non fino in fondo, non con convinzione. Le sembra, a volte, il distacco l’unica forma dell’esserci. Aber vielleicht doch nicht gar so sehr

Scavato nella carne, il movimento con cui supera la postazione della Polizia: come un balzo provocato dalla risentita irritazione di chi l’abbia troppo attesa; o, forse, dalla svagata lentezza con cui lei stessa eseguiva quanto le era chiesto. Scegliere, oltre le confortevoli ed eleganti voliere, oltre lacci e reti per meduse; oltre le barriere. Hey, Sir, have a look in my eyes. Underneath my skin there is a violence. It’s my personal responsibility – not yours – do not use the gun in my head

it’s my personal responsibility do not use the gun, it’s my personal responsibility do not use, its’ my personal responsibility, it’s my personal, it’s my

it’s my

Nizza, ingresso della Bibliothèque Louis Nucéra, venerdì 26.07.19

 

(b). 3. [pensare, in generale, ad una sicurezza completa]

 

Avanzo lungo un viale alberato. Alla mia destra una piazza: una chiesa si leva dal fondo, il giallo chiaro della facciata regolare e quieta, il candore ostinato delle statue che la sormontano. Mi sembra, a distanza, di riconoscere un Cristo e una croce, obliqua nella sua pesantezza. Mi domando chi lì chieda perdono per colpe che ancora non sa di aver commesso. Quasi senza volere, mi pare di levare io stessa lo sguardo verso quel corpo; riaffiora, quasi trattenuta, la memoria di passi che rimbombavano su pavimenti lisci, interrotti da lapidi e preghiere sillabate a bassa voce. Per che cosa o chi saprei dirle, per che cosa.

Il parco – mi racconta G. – era un parcheggio. Ma ora Nizza si vuole verde: un’ecologia dell’esistente, per le rassicuranti strutture che preservano le forme assunte dal reale, e separano ciò che sopravvive da ciò che s’inabissa. Sposto lo sguardo avanti, e ancora avanti: il prato ben tenuto, le sagome in legno di animali su cui bambini sperimentano movimenti e posizioni; intorno carrozzini, sciami di adulti, ampie borse femminili e veli, pantaloni corti e cellulari che risuonano.

Ma, sotto i primi alberi, seggono in gruppetti, le gambe accavallate o distese, le braccia conserte o lungo il corpo: una forma di resistenza e abbandono. Non saprei dire perché la percezione me li abbia istantaneamente detti diversi: venuti da un altro luogo, sì, e ora fermi e distanti nell’attesa. Sono richiedenti asilo, che hanno varcato la frontiera; sono qui – mi spiega ancora la mia guida – mentre si decide che cosa siano, dove potranno andare, e come.

M. e A. mi chiedono il pane e formaggio che abbiamo comprato per loro; ridono mentre scartocciano un sottile pezzo di cibo e lo sagomano col caldo delle mani: “a che cosa assomiglia? che cosa potrebbe essere?”. Poi qualcosa le attira: e sono già nel verde, con balzi e capriole, e la voce dell’una che rincorre quella dell’altra. Inseguo la loro corsa fin dove riesco: e vedo il muro che pure non c’è, la nebulosa nera alla nostra sinistra, cupa e silente. Rinuncio, almeno in quest’istante, a formulare anche solo l’idea: a pensare, in generale, a una pace completa.

 

Nizza, La Coulée verte (Promenade du Paillon), sabato 27.07. Richiedenti asilo in attesa di risposta, M. e A. con del formaggio

 

(b). 4. [ma più si sente preda]

 

Monaco è il suo abbaglio. Ci arriviamo con un autobus di nizzardi in semi-vacanza, l’informalità del nostro e loro abbigliamento: i sandali, gli asciugamani dai colori vistosi. Dai finestrini scorgo i dirupi della costa; e poi il fasto delle ville, il biancore dei sassi lungo le spiagge, le insegne che saturano man mano il mio sguardo. Qui più che altrove, un messaggio perentorio, silente e intrusivo; come sussurratomi da barche lussuosamente attraccate, dal ghiaccio dei frappuccini di Starbucks, dall’odore dolciastro del cibo: dosi di zucchero e conservanti che mi intimano di preservarmi senza troppo fastidio.

Un’ombra si riversa sulla spiaggia: il sole alle quattro del pomeriggio è già inaccessibile dietro l’altezza dei palazzi; eppure il mare trattiene il suo azzurro chiaro. Indico a M. un pontile in roccia, e procediamo lungo la sua profondità. Anche noi prendiamo la rincorsa per un tuffo: dapprima quasi sincrone, poi portate su dalle due velocità del nostro diverso peso. Nel risalire, getto lo sguardo sul lato di mare che il pontile divide dalla striscia d’acqua che ci ha appena accolto; ma qui si mostrano involucri di plastica sminuzzati e sbiaditi, tra scaglie di pesci che seguono la scia persistente di una schiuma biancastra e punteggiata di bolle: come la bava di una creatura che invii così i minacciosi segnali della sua presenza.

Sentiamo freddo; alle cinque il sole è troppo debole, gli asciugamani sono inzuppati d’acqua e rigidi di sale, e un principio di fame ci spinge a tornare indietro: di nuovo, ma in ordine inverso, i salottini tirati a lucido, le eleganti marche di vestiti, il rombo dei motori delle Ferrari che squarcia di tanto in tanto la trama cantilenante e acuta dei gabbiani. Compriamo pane e salumi in un supermercato, e ci attardiamo a mangiare su una panchina: forse, un raccogliere sguardi di biasimo e stupore.

Mentre inseguo la distanza dai treni che ci attendono, mi volto ancora verso il mare. Quasi mi trafigge il giallo delle gru e l’arancione di pesanti macchinari con cui vengono costruite piattaforme sull’acqua. La costa – mi spiega V. – è satura di palazzi, ma il mare può ospitarne di nuovi: appartamenti galleggianti, più o meno questa l’idea. Mi domando se basti la parola cementificazione. Mi pare più appropriato, forse, affiancare costruzione a distruzione, e domandarmi che cosa, esattamente, stiamo facendo; quali campi lasciamo confluire in nuove determinazioni del senso: che ancora non so decifrare. Resto senza fiato, nel difetto semantico che non riesco ad articolare.

Entro nella stazione, al termine di un’altissima rampa di scale: il fiato corto, la serie interminabile di tornanti che ora mi sbarrano il passo e le nuove ingiunzioni all’acquisto dei negozi. Il treno è sul binario, in procinto di partire. Un timore, o forse il suo desiderio: che parta. Mi fermo fra una panchina e un tabellone luminoso che non indica alcuna destinazione.

Ma poi corriamo, quasi ridendo, V., B., e io, le bambine tenute per mano: saltiamo dentro e le porte si richiudono all’istante. No, non abbiamo i biglietti giusti. Respiro, come per trovare l’equilibrio sul treno che sposta, nella sua corsa, il mio baricentro. Siamo illegali in questa vettura, come coloro che hanno rinunciato al diritto di comprare: come disposti ad essere espulsi.

Principato di Monaco, domenica 28.07. Vista da una galleria sulle costruzioni in mare

 

(a). 4. [è la serie interminabile di tornanti che sbarrano il passo]

 

ancora altri spazi vasti e automatici prima di arrivare; scivola lungo il silenzio di una stazione semivuota. Nella nuova hall che si apre al suo arrivo in stazione, profumi, abiti e gioielli lasciano il posto a torri d’oggetti a basso costo. Tutto un comodo-mondo in scaffali: come se in quella selezione vi fosse una routinaria, decifrabile, operazione di senso 

una vetrata le restituisce la notte che trascolora. Le luci sui binari e il nero intorno come un taglio in quell’ottundimento e un laccio per l’emorragia. Non bastano i suoi sforzi per renderlo ordinario, finanche gaiamente mondano, o persino vettore di una disciplina emotiva: quel vortice di oggetti e consumo le provoca un deflusso di energia, una perdita interna di concentrazione. Prosciuga tutti i suoi spazi interni

ma più si sente preda di questo ottundimento, più elementi, particelle e venti cominciano a vorticarle intorno, e dentro. Plastiche alla deriva nei mari, gas che saturano l’aria, detriti che si inabissano nel sottosuolo. Polveri si depositano, fra i capelli, nei pori e nelle cavità del corpo. Velano gli occhi, si addensano fra naso e gola 

come se due mani le si serrassero intorno al collo, come se intorno i corpi cominciassero a sovrapporsi a velocità insostenibile; distanti, eppure troppo vicini, dotati di uno spossante potere di penetrazione. Sparire o far sparire: i lucidi pavimenti bianco-latte aperti sotto i suoi piedi, le luci spente e i soffitti volati via; e via, via i cuscini, le borse, le hostess dal necessario sorriso da viaggio e gli uomini in viaggio per affari. E via, via, via. Forse un timore, o il suo desiderio

la latente euforia della fine del mondo, il difetto semantico della sua fine

Nizza, incrocio di strade vicino al MAMAC, venerdì 26.07. A. sul ciglio della strada e donne con ciambelle sulle strisce pedonali

 

 

Il simbolo non schiaccerà i differenti resti. Pinocchio: un Atlante

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Pinocchio, Giuditta Chiaraluce

Per mio monito il sacerdote porterà durante la processione nella mano destra una corona di rose appesa al suo sistro. Tu, senza esitazione, fendi la folla e immettiti nel corteo, contando sul mio favore. Dopo esserti piano piano avvicinato al sacerdote, come per baciargli la mano, prendi le rose e uscirai dalla pelle di questa bestia maledetta, che da lungo tempo mi è odiosa. Non devi avere paura né considerare troppo ardua nessuna delle mie disposizioni. Nello stesso momento in cui appaio a te, sto dando nel sonno al mio sacerdote le istruzioni per quanto verrà dopo.  Al mio comando, la folla pressata si aprirà davanti a te e nella gioia solenne della festa nessuno si ritrarrà da questo tuo orribile aspetto e nessuno ti incolperà interpretando malignamente la tua metamorfosi.

(da L’asino D’oro, Apuleio)

La forma della trasformazione per noi è la morte: e le ultime righe, che trattano della trasformazione di Pinocchio, raccontano la morte di Pinocchio. Durante la notte, durante il sonno, Pinocchio ha scelto di morire, ha chiamato a sé gli assassini, tutte le forme del fuoco e dell’acqua, l’omino di Burro, i febbroni, i fulmini delle sue nottatacce, il Serpente, il Pescatore verde. Egli ha usato tutta la sua leggenda, tutto il suo destino per uccidersi. Nessuno poteva uccidere Pinocchio, se non Pinocchio; nessuno se non lui poteva far morire quel suo legno «durissimo». Ma vi è del mistero in questa morte. […] Morto, è rimasto come salma «appoggiato ad una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondolonie con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo». Pinocchio guarda quel burattino misterioso, il «burattino meraviglioso» e «buffo». Nella casa del nuovo Pinocchio resta quella reliquia morta e prodigiosa, il nuovo e vivo dovrà coabitare col vecchio e morto. Quel metro di legno continuerà a sfidarlo.

Pinocchio Une Belle Histoire racontée en images par Corneille,
La Nuova Foglio Macerata

 

 

Pinocchio peraltro non è soltanto una rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche, ma contiene suggerimenti sottili su come si opera per liberarsi da se stessi, dalla propria natura di burattini utopisti, ricercatori di soluzioni umane, per rompere i propri limiti. Il primo suggerimento è frequentare i morti. Una morta. La fatina è una morta. È la femminilità eterna, epurata d’ogni traccia temporale. È l’idea della vergine matrice del cosmo come forza che dà nutrimento e forma al cosmo, plasmando, misurando, riparando. Per liberarsi dalla presa delle forze cosmiche vedendone la fine e il principio e la ragione, la matrice che le comprende, Collodi dà un suggerimento: “Imparare a vedere la fata nel sogno”. Non diversamente Dante o Petrarca. Non diversamente Apuleio. Che altro distingue Lucio uomo da Lucio asino se non la consuetudine di vedere Iside in sogno? A chi volesse saperne di più da un moderno, suggerirei di leggere le novelle di William Butler Yeats. Perché di operazioni interiori precise si tratta, non di frasi graziose. Ma come sapere se chi accenna a tali cose – che si possono chiamare, con proprietà d’aggettivazione, abissali -parla per abbondanza di cuore e per esperienza? Conosco un solo reagente. Che dal tesoro del cuore estragga vibranti di vita, nuovi, estatici simboli degli eterni archetipi, simboli che lascino stranamente trasognati, come dei déjà vu, come delle visioni intraviste e irritrovabili, chiaramente non di questo mondo. Ebbene: quando mai altri hanno come il Collodi scostato all’improvviso la cortina del mondo quotidiano per svelarci in un estatico istante una capretta di lana turchina ritta su uno scoglio in un mare sconvolto? Solenne, strana incarnazione della Fata o Sapienza, essa non può nascere che da una verace conoscenza.

(Rubina Giorgi, da Esercizi I)

Lorenzo Mattotti

[…] E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti al punto dove cominciava la spaziosa gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga. Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormire a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.

(da Le avventure di Pinocchio, Carlo Collodi)

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassú lassú si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento. Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaría cresceva, cresceva sempre piú, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. Possibile? Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprí le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sí, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è data mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva piú paura, né si sentiva piú stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

(da Ciàula scopre la luna)

[…]

Vocalità, visione e scrittura, romanzo e romanzo a fumetti

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di Daniele Barbieri

Ho pubblicato alcuni mesi fa un libro (Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto, ComicOut 2019 – qui un breve estratto su NI) che cerca di esplorare storicamente la nozione di racconto in relazione con quelle di immagine, oralità/scrittura, serialità/romanzo, alla ricerca delle radici lontane, nella nostra cultura, della dialettica tra fumetto seriale e graphic novel. Vi sostengo, tra le altre cose, che alla sua nascita, dal 1895, il fumetto instaura una sorta di paraoralità, pur presentandosi come una forma di scrittura (e vedi anche, su questo, l’articolo disponibile qui). A dispetto del suo essere una forma di comunicazione radicalmente visiva, il fumetto porta con sé, per molto tempo, diverse delle caratteristiche che contrappongono la trasmissione orale a quella scritta: aspetti di rapida caducità, di compresenza del contesto di emissione delle parole, di paratassi, di ridondanza, di stile formulaico, di concretezza ed enfasi sulla fisicità. Queste caratteristiche apparentemente paradossali (tipiche dell’oralità in un contesto del tutto visivo/scritto) si attenuano col tempo, man mano che il fumetto acquisisce in maniera sempre più netta le caratteristiche di una scrittura (benché peculiare, e certamente differente da quella tout court), senza tuttavia scomparire del tutto nemmeno nella dimensione contemporanea del romanzo a fumetti.

Anne Sexton – Oggi ho comprato un abete

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Per i tipi di Le lettere è apparsa da poco una ristampa, riveduta e corretta, delle Poesie d’amore di Anne Sexton, a cura di Rosaria Lo Russo. Corredato da una ricca introduzione, che offre uno splendido ritratto di un’autrice “bella e dannata, sexy e infantile, sposata e sciupamaschi, indifesa ed esibizionista, plurisuicida con un incrollabile senso dell’umorismo, fragile e carismatica, autodidatta e docente universitaria, atea e religiosa, benestante signora drogata di torazina e alcolizzata”, questo è l’unico volume di Sexton apparso in italiano in edizione integrale.

Pubblico due poesie, ringraziando l’editore. La prima è accompagnata da un audio in cui l’autrice la recita: leggere la versione italiana ascoltando il testo di partenza resta una modalità congeniale alla fruizione della traduzione di poesia. [ornellatajani]

 

di Anne Sexton

FOR MY LOVER, RETURNING TO HIS WIFE letta da Anne Sexton -> qui

AL MIO AMANTE CHE TORNA DA SUA MOGLIE

Lei è tutta là.
Per te con maestria fu fusa e fu colata,
per te forgiata fin dalla tua infanzia,
con le tue cento biglie predilette è stata fatta.

Lei è sempre stata là, mio caro.
Infatti è deliziosa.
Fuochi d’artificio in un febbraio uggioso,
e concreta come pentola di ghisa.

Diciamocelo, sono stata di passaggio.
Un lusso. Una scialuppa rosso fuoco nella cala.
I miei capelli svolazzano dal finestrino.
Sono fumo, cozze fuori stagione.

Lei è molto di più. Lei ti è dovuta,
t’incrementa le crescite usuali e tropicali.
Questo non è un esperimento. Lei è tutta armonia.
S’occupa lei dei remi e degli scalmi del canotto,

ha messo fiorellini sul davanzale a colazione,
s’è seduta a tornire stoviglie a mezzogiorno,
ha esposto tre bambini al plenilunio,
tre putti disegnati da Michelangelo,

l’ha fatto a gambe spalancate
nei mesi faticosi alla cappella.
Se dai un’occhiata, i bambini son lassù
sospesi alla volta come delicati palloncini.

Lei li ha anche portati a nanna dopo cena,
e loro tutt’e tre a testa bassa,
piccati sulle gambette, lamentosi e riluttanti,
e la sua faccia avvampa neniando il loro poco sonno.

Ti restituisco il cuore.
Ti dò libero accesso:

al fusibile che in lei rabbiosamente pulsa,
alla cagna che in lei tramesta nella sozzura,
e alla sua ferita sepolta
– alla sepoltura viva della sua piccola ferita rossa –

al pallido bagliore tremolante sotto le costole,
al marinaio sbronzo in aspettativa nel polso sinistro,
alle sue ginocchia materne, alle calze,
alla giarrettiera – per il richiamo –

lo strano richiamo,
quando annaspi fra braccia e poppe
e dai uno strattone al suo nastro arancione
rispondendo al richiamo, lo strano richiamo.

Lei è così nuda, è unica.
È la somma di te e dei tuoi sogni.
Montala come un monumento, gradino per gradino.
Lei è solida.

Quanto a me, io sono un acquerello.
Mi dissolvo.

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17 dicembre

Oggi ho comprato un abete
– O Tannenbaum – l’albero di Natale,
verde come una tartaruga, foresta
di gomma, resina e trementina.
Amore mio, mio verme assenteista,
sola nella nostra stanza non ero un’ospite.

Dalla scatola del PER UNA LIRA
ho preso palle, campanellini, capelli d’angelo
e un filo splendido di lucine rosse e verdi.
L’ultimo tocco, svettante sull’abete scarruffato,
una stella sgargiante, la croce a cinque punte
che scintilla per il Nazareno.

L’addobbo mi ricordava i premi d’autunno
che davamo agli alberi, il Primo Premio
attaccato all’acero del Lincoln Center,
poi fuoriporta verso Weston
toccò alla Miglior Betulla all’Alba.
Facevamo un censimento di colori, non di gente.

Querce purpuree, pioppi tremuli,
folto tumulto color vecchie monete;
il caprifoglio – tutti con la coccarda affissa al tronco,
di nastri fatti in casa nel Columbus Day. Premiati
quando l’acido sposa il pigmento
e la linfa è stata bevuta.

Oggi ho comprato un ramoscello di vischio,
tutto verruche e foglie e bacche
e gambo – l’angelo del bacio –
e l’ho appeso nel nostro bungalow.

Amore mio, metteremo radici
durante l’Armistizio Natalizio.

 

Viaggio in direzione 270°: quando la guerra cambia la vita

1

Giuseppe Acconcia

Abbiamo incontrato nel suo tour italiano lo scrittore iraniano, Ahmad Dehqan, autore del libro “Viaggio in direzione 270°” (Jouvence, 2018, 274 pp, 20 euro): uno sguardo reale su una generazione straordinaria.

Svolgere l’ardore. Richard Tarnas e la mente occidentale

1

 

di Eleonora Vinante

 

 

 

Richard Tarnas è noto in Italia per il suo saggio Cosmo e psiche. Un approccio psicologico alla conoscenza dell’universo (Edizioni Mediterranee), che lo ha reso un punto di riferimento per i ricercatori filosofici attratti dalla psicologia del profondo.

Ora Edizioni Tlon pubblica per la prima volta in Italia un suo saggio, L’ardore della mente occidentale, ovvero una monumentale e vertiginosa “narrazione storica della visione occidentale del mondo dall’antica Grecia al mondo postmoderno”, come dichiarato nella prefazione.

Tarnas è un autore in grado di ricevere stima da figure apparentemente distanti come James Hillman e John Cleese (uno dei volti storici dei Monty Python); possiamo comprendere il perché leggendo questa storia della filosofia occidentale narrata come un’avventura: “La cultura occidentale sembra avere dinamiche la cui portata e bellezza ricordano quelle di una grande tragedia epica: la Grecia antica e classica, l’Ellenismo e la Roma imperiale, l’ebraismo e l’ascesa del cristianesimo, la Chiesa cattolica e il Medioevo, il Rinascimento, la Riforma e la Rivoluzione scientifica, e poi l’Illuminismo e il Romanticismo, e via discorrendo fino ai nostri avvincenti giorni. Grandezza e magnificenza, drammatici conflitti e sorprendenti soluzioni hanno segnato il lungo percorso della mente occidentale nel tentativo di comprendere la natura della realtà”.

Tarnas inizia presentando la visione greca del mondo, analizzando in primo luogo il suo leggere la realtà attraverso forme archetipiche, nella sua evoluzione dalla visione mitica dei poemi omerici al cosiddetto “illuminismo greco” dell’Atene del V° secolo, momento in cui  “la cultura ellenica raggiunse un delicato e fertile equilibrio tra l’antica tradizione mitologica e il razionalismo secolare moderno”, fino alla crisi creata dall’umanesimo relativista dei Sofisti e l’avvento rivoluzionario di Socrate. Molto centrate, a questo punto, risultano le considerazioni sul “romanticismo religioso” di Platone: “Platone suggerì quindi che la visione filosofica più elevata fosse possibile solamente per coloro che possiedono il temperamento dell’amante. Il filosofo deve lasciarsi possedere  internamente dalla forma più sublime dell’Eros: quella passione universale per il ricomporsi di  un’unità interiore, per il superamento della rottura con il divino e il ritorno a un’unità con lui.”. Questo ardore, questa devozione ardente per la sapienza troverà un rovesciamento, eguale e contrario, in Aristotele. Quasi a evocare il celebre quadro di Raffaello, Tarnas afferma: “Con Aristotele fu come se Platone fosse sceso sulla Terra.”. I due giganti speculari dell’epoca aurea del pensiero greco creeranno una “duplice eredità”, che possiamo sintetizzare nella seguente considerazione: “La permanente interazione tra questi due insiemi di principi, in parte  complementari e in parte antitetici, instaurò una profonda tensione interna nell’eredità greca e fornì al pensiero occidentale un fondamento intellettuale allo stesso tempo instabile e fortemente creativo, da cui sorgerà la vivace evoluzione dei due millenni e mezzo a seguire.”.

Dopo aver esplorato il fascinoso declino del periodo alessandrino, e aver tributato la corretta ammirazione a Plotino come padre nobile del Neoplatonismo, Tarnas affronta la comparsa del cristianesimo, sottolineando correttamente come la visione cristiana del mondo sia stata ideologicamente plasmata originariamente da Paolo di Tarso e, in seguito, da Agostino: “Ecco perché il Gesù che è passato alla storia era il Gesù che nel Nuovo Testamento è presentato, ricordato, ricostruito,interpretato, abbellito e vivamente immaginato dagli scrittori che vissero una o due generazioni dopo il periodo in cui si riferiscono nella loro narrativa, nonostante dicessero di aver scritto solo fatti raccontati dai suoi discepoli originali”. Una visione in parte derivante dalla “divinizzazione della storia” operata dal monoteismo ebraico, in parte, come è noto, dall’eredità platonica (“ la forte spiritualità della filosofia platonica non solo era in armonia con le concezioni cristiane derivate dalle rivelazioni del Nuovo Testamento, ma contribuiva anche alla loro elaborazione e alla loro elevazione”), attraverso la complessa dialettica della “conversione della mente pagana”. Tarnas è troppo consapevole per non raccontare, nel dettaglio, le “tensioni all’interno della visione cristiana”, il “conflitto intrinseco del cristianesimo tra redenzione e giudizio, così come tra l’unificazione di Dio con il mondo e l’acuta distinzione dualistica”,  risolto (si fa per dire) dalle “predisposizioni monolitiche” agostiniane.

Particolarmente interessante è la terza parte del volume, dedicata alla trasformazione dell’epoca medievale, al risveglio scolastico, alla imponente cattedrale di pensiero eretta da Tommaso d’Aquino, all’ascesa del pensiero laico e allo sviluppo critico della Scolastica rappresentato da Occam, alla grande visione poetica di Dante.

 Soprattutto, è apprezzabile il ruolo cruciale conferito a Petrarca, alla soglia della “visione moderna del mondo”.

Nella seconda metà, il testo si fa più provocatorio e stimolante, avendo come oggetto tematiche sempre più prossime alla contemporaneità.

Ad esempio, non è banale come Tarnas sfati il mito del Rinascimento ideale, restituendone onestamente tutte le potenti contraddizioni, mostrando come fu in uno “scenario di decadenza culturale, di violenza e di morte” che ebbe luogo. Ancora più interessante il peso conferito, in contrasto con la visione illuministica, all’impatto della conoscenza esoterica sulla “razionalità” moderna e rinascimentale: Tarnas sottolinea la “collaborazione tra scienza e tradizione esoterica” e il suo “ruolo imprescindibile nella nascita della scienza moderna”.

Stesso onesto trattamento viene riservato alla riforma luterana e alla rivoluzione scientifica (con speciale riguardo per Keplero), svolte storiche propedeutiche alla rivoluzione scientifica di Bacone e Cartesio.

Tarnas si tiene in circospetto equilibrio sul “trionfo del secolarismo” che, se da un lato ha spazzato via millenari condizionamenti dogmatici, dall’altro ha negato un aspetto fondante della ricerca filosofica: “Forse il paradosso maggiore relativo al carattere dell’era moderna risiede nello strano modo in cui il suo progresso, nel corso dei secoli successivi alla Rivoluzione scientifica e all’Illuminismo, ha portato l’uomo occidentale verso una libertà, un potere, un’espansione, un’ampiezza, una conoscenza, una profondità di visione e risultati pratici senza precedenti; contemporaneamente ha contribuito a sgretolare la condizione esistenziale dell’essere umano su tutti i fronti: metafisico, cosmologico, epistemologico, psicologico e persino biologico. L’evoluzione dell’era moderna sembra essere segnata da un equilibrio instabile, da un intreccio inestricabile di elementi positivi ed elementi negativi”.

Non possiamo che sottoscrivere.

Nell’ultima parte i salti temporali (da Marx a Kant, da Darwin a Locke) sono continui anche se tutti facilmente comprensibili, una volta afferrata la traiettoria attraverso il tempo in cui l’autore ha lanciato la propria riflessione. “Il declino della metafisica” va di pari passo con “la crisi della scienza moderna”, nell’esplosione contraddittoria delle pulsioni filosofiche che il Rinascimento era riuscito con grazia a tenere insieme. Un dualismo che si ritrova nelle “due culture”: una che “sottolinea l’importanza della razionalità, della scienza empirica e del secolarismo scettico”, l’altra che propugna l’espressione proprio degli “aspetti dell’esperienza umana che lo spirito razionalista predominante dell’Illuminismo aveva rimosso”.

Questo sguardo consente a Tarnas un giudizio equilibrato su Hegel (“La mente moderna prese molto da Hegel, soprattutto la sua comprensione della dialettica e il suo riconoscimento dell’universalità dell’evoluzione e il potere della storia. Ma il pensiero moderno non adottò la sintesi hegeliana per intero”), considerando come le reazioni “irrazionaliste” alla sua metafisica porteranno di fatto alla grande crisi postmoderna del Novecento, preannunciata da Nietzsche.

Tarnas sembra stare dalla parte di Blake più che di Bacone, di Jung più che di Freud, di Camus più che di Sartre.

Nel finale, si coglie il punto centrale del momento filosofico attuale: “Prevale un caos di interpretazioni valide, ma apparentemente incompatibili tra loro, senza soluzioni visibili. Senza dubbio, un simile contesto causa meno inconvenienti al libero gioco della creatività intellettuale rispetto a un paradigma culturale monolitico. Ma la frammentazione e l’incoerenza non sono esenti da conseguenze inibitrici. La cultura soffre a livello psicologico e pratico l’anomia filosofica da cui è invasa. In assenza di una visione culturale valida e idonea, i vecchi presupposti restano in vita a fatica e forniscono al pensiero e all’attività umana un programma sempre meno adoperabile e pericoloso.”.

Al termine della lettura, impegnativa quanto arricchente, possiamo confermare come Richard Tarnas abbia saputo raccogliere degnamente la sfida da lui posta a tutti noi: “ogni generazione deve esaminare e analizzare a fondo le idee che hanno determinato la sua comprensione del mondo. Il nostro compito è quello di farlo dal complesso punto di vista del tardo xx secolo”.

Storia con crocefissione

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di Andrea Inglese

Prima molta penombra, e un movimento di telecamera esitante, come a tastoni, tra sagome più nere e chiarori. Poi la lenta panoramica sul quadro illuminato da luce naturale –una delle crocefissioni di Bellini, la più nuda e atroce – perché è un documentario d’avventura, ma anche protestatario, e quindi la telecamera si muove ora secondo l’asse decumano con cautela, mentre la voce off procede nella concitata spiegazione, usando questi esatti termini:

Inviti a cena nel mondo antico, da Epicuro a Marziale

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di Maria Pellegrini

(Pubblichiamo un estratto dal volume di Maria Pellegrini, Antica gara tra un cuoco e un fornaio, Giuliano Ladolfi editore, 2019. «Con la stessa competenza, destrezza e puntualità con cui un maître di vasta esperienza alberghiera organizza il servizio di sala nel ristorante di un grand hotel, Maria Pellegrini dispone all’interno di questo suo fragrante volume due lunghe tavolate virtuali, l’una riservata alle specialità culinarie più o meno “esotiche” tramandate da autori greci, l’altra contrassegnata dai cibi (di volta in volta semplici, rustici e salubri o, al contrario, sovrabbondanti, cervellotici e nocivi) caratteristici della cucina e del gusto romani.[…] Può un pranzo o una cena signorile cominciare senza l’offerta di un antipasto di speciale, insolita, stuzzicante squisitezza? Quello “cucinato” da Maria Pellegrini consiste in una sorprendente prelibatezza, a tal punto sfiziosa da meritare di essere scelta come “piatto” eponimo su cui modellare il titolo dell’intero volume. Una “chicca”, così viene spontaneo definire […] il poemetto, finora noto solo a un manipolo di addetti ai lavori, Iudicium coci et pistoris iudice Vulcano, cioè Contrasto fra il cuoco e il fornaio: giudice Vulcano. Si tratta di un testo alquanto bizzarro, che consta di 99 esametri non tutti di impeccabile fattura, di epoca ipoteticamente oscillante fra il II e il V secolo d.C., la cui composizione è rivendicata in prima persona da un fantomatico Vespa» – dalla Prefazione di Marco Beck).

***

 

Farai una bella cenetta, Giulio Ceriale, a casa mia:
se non hai nessun invito migliore, vieni. (Marziale)

Si attribuisce a Epicuro un’affermazione sull’importanza della condivisione dei pasti che per la civiltà greca ha una grande importanza:

«Prima di cercare qualcosa da mangiare e da bere, dobbiamo trovare qualcuno con cui condividere i nostri cibi, perché mangiare da solo significa fare la vita di un leone o di un lupo.»

La dimensione conviviale di un pasto ricopre un ruolo fondamentale, consumare il cibo in compagnia e conversare aumenta il piacere della tavola sin dai tempi dell’antichità greca. Nei banchetti omerici accanto al padrone di casa c’è un’altra figura rilevante: l’aedo. Il suo compito è allietare i convitati con il suono della cetra o della lira o con il canto che a volte egli crea in modo estemporaneo. Ricordiamo, nell’Odissea, il cantore Demodoco alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, quando durante il banchetto in onore di Odisseo, accolto alla reggia pur essendo ignota la sua vera identità, canta le vicende della guerra di Troia già diventate storia e leggenda. Si commuove il naufrago lontano dalla sua terra, Alcinoo se ne accorge e rivolge ai presenti parole che dimostrano il suo rispetto per l’ospite anche se straniero:

«Ascoltatemi, guide e capi dei Feaci,
Demodoco lasci ora la sua cetra armoniosa
perché non piace a tutti che lui canti queste cose.
Da quando siamo a cena
e si è alzato a cantare il meraviglioso cantore,
per tutto questo tempo, l’ospite non ha mai smesso
il suo triste pianto: certo una gran pena gli opprime il cuore.
Dunque, si fermi,
perché possiamo godere tutti: l’ospite e noi che lo ospitiamo.
Sarà meglio così, perché proprio per un ospite così degno
di rispetto si fanno queste cose,
come l’aiuto per il viaggio e i doni che gli offriamo
in segno di amicizia: lo straniero, il supplice, è come un fratello
per ogni uomo che abbia un po’ di cuore.»[1]

Per accogliere Odisseo:

«Alcinoo sacrificò dodici pecore,
otto maiali dalle zanne bianche
e due buoi dalle zampe ricurve:
li scuoiarono, li tagliarono, li arrostirono
e prepararono un ricco banchetto.
L’araldo tornò accompagnando il fedele cantore,
che la musa amava molto»[2].

 

Nei banchetti omerici la posizione dei partecipanti è quella seduta, a partire dal VII secolo a. C. si assume quella reclinata che poi fu seguita anche dai romani dopo il loro contatto con la Grecia.

La letteratura antica ci dà testimonianza di grandi banchetti con numerosi partecipanti e ricco elenco di portate, ma anche di cene tra amici dove regna armonia, semplicità e moderazione. È stabilito anche il numero ideale di partecipanti. Perché una cena sia ben riuscita Archestrato, l’autore dell’Hedyphagetica, consiglia di riunire tre o quattro persone scelte, al massimo cinque, per evitare di trasformare il banchetto «in una tenda di mercenari che vivono predando», come ricorda Ateneo nei Deipnosofisti (1, 4e).

Plutarco, noto per le sue Storie parallele, sostiene nel Simposio dei sette sapienti:

«L’uomo avveduto non si presenta a banchetto come un vaso vuoto, ma viene con il proposito di fare ed ascoltare discorsi seri o divertenti, per intrattenersi su argomenti che di volta in volta l’occasione suggerisce ai convitati, se questi intendono trascorrere il tempo godendo della reciproca compagnia».

Inoltre afferma – attraverso la voce di un convitato, Nilosseno – che il padrone di casa debba comunicare in precedenza il tema della conversazione e l’elenco dei convitati, in modo che si sappia chi si troverà come compagno di tavola e di cosa si parlerà durante il banchetto:

«Se un piatto non è buono, lo si può rifiutare; se un vino è di cattiva qualità, si può sempre ripiegare sull’acqua; ma un convitato pesante e triviale che vi dà il mal di testa, annulla e guasta il piacere di qualsiasi vino, di qualsiasi cibo, la grazia di qualunque musico, né ci si può in questo caso avvalere di quell’espediente che consiste nel vomitare ciò che provoca tanto disgusto. A volte, anzi, perdura anche tutta la vita, come perdura in bocca un cattivo sapore, un’antipatia reciproca sorta a banchetto a causa di offese che, per un moto d’ira, sono state scambiate tra i fumi dell’ubriachezza.[…] Perciò fece benissimo Chilone, quando fu invitato, a pretendere di sapere chi fossero gli altri commensali sostenendo che quando si sale su una nave o si prende parte a una spedizione militare si è costretti a sopportare uno sciocco come compagno di traversata o di tenda, diversa faccenda è partecipare a un banchetto al quale si può evitare di partecipare. Se sei una persona assennata non vorrai unirti a sconosciuti.»[3]

Anche in età romana Varrone, l’erudito scrittore latino la cui copiosa opera fu dominata dal proposito di recuperare il passato, difenderne la tradizione e i valori, consiglia quale sia il numero degli invitati, al massimo nove, e ritiene necessario stabilire l’argomento della conversazione:

«È bene che il numero dei convitati cominci dal numero delle Grazie e arrivi a quello delle Muse, ossia che parta da tre e si fermi a nove […] Quanto poi al convito in sé, sono quattro i suoi requisiti: si può dire che sia perfettamente riuscito quando sia stata procurata una combriccola elegante, accurata la scelta del luogo, curata l’ora e non trascurata la preparazione. È bene scegliere convitati che non siano né chiacchieroni né muti perché l’eloquenza sta bene nel foro e in tribunale, ma il silenzio s’addice alla camera da letto, non al convito. Sono da scansare gli argomenti angosciosi e intricati, e si deve parlare di cose divertenti, gradevoli, che all’utilità uniscano un certo grado di attrattiva e di piacevolezza, così che la nostra mente ne esca illeggiadrita e ricreata.»[4]

Lo stesso Orazio d’età augustea, considera ideale una cena modesta, e ne indica gli argomenti sui quali intrattenersi:

«S’intavola il discorso non su ville e su palazzi altrui,
non su Lepore (se balla male o no). Ciò che discutiamo è qualcosa
che ci tocca più da vicino, e che sarebbe deprecabile ignorare:
sono le ricchezze o la virtù a rendere gli uomini felici?
Che cosa c’induca alle amicizie: l’interesse o un principio morale?
Qual è la natura del bene, e quale la sua massima espressione?»[5].

Con una rapida scorsa tra autori greci e latini di diverse età, segnaliamo alcuni epigrammi o carmi ispirati all’invito a cena. Con il termine vocatio ad cenam si è soliti definire un componimento letterario in cui l’autore si rivolge direttamente a qualche conoscente o amico per invitarlo a una cena, pasto principale dei romani, che avviene nelle prime ore del pomeriggio. All’apostrofe diretta all’invitato segue l’elenco delle vivande che saranno servite, la precisazione del luogo d’incontro e l’assicurazione che tutto sarà improntato a semplicità del pasto in un’atmosfera gioiosa e spensierata.

Di Posidippo uno dei maggiori rappresentanti dell’epigrammistica del III secolo a.C., l’Antologia Palatina ci ha conservato soli sedici epigrammi. Fra questi ne ricordiamo uno che non è proprio un invito, ma l’organizzazione fra amici per una bevuta di buon vino di Chio proveniente dall’isola omonima:

«Quattro bevitori; e venga la ragazza di ciascuno.
Per noi otto una sola bottiglia di Chio non è sufficiente.
Ragazzino, va’ da Ariste e digli di mandarci
quanto prima mezzo fiasco perché due congi li faremo fuori
sicuramente, ma penso anche di più. Su spicciati,
alle cinque abbiamo il nostro appuntamento. »[6]

Un epigramma molto simili a questo di Posidippo appartiene ad Asclepiade, nativo di Samo (ca. 320 a. C.) uno dei primi autori greci di epigrammi letterari dell’età ellenistica:

«Corri al mercato, Demetrio, cammina! Al negozio d’Aminta
chiedi tre maccarelli, dieci muggini,
di gamberetti gibbosi (ma contali tu, di persona)
prendine ventiquattro e torna qua.
Va’ da Taubòrio: una giunta di sei coroncine di rose.
e a Trifera di’, passando, che si sbrighi».[7]

Parodia del codice di comportamento di chi rivolga un invito a cena è un carme di Catullo (siamo in età cesariana) – con un curioso invito rivolto all’amico Fabullo:

«Bene cenerai da me, o mio Fabullo,
tra pochi giorni, se gli dei ti assistono,
se porterai con te una buona cena
abbondante, non senza una fanciulla
splendida, e vino e sale, e tante risa.
Bellezza mia, se porti ciò che dico,
potrai cenare bene: il borsellino
del tuo Catullo infatti abbonda solo
di ragnatele. Avrai in cambio sincero
affetto, e quanto c’è di più dolce
e raffinato. Ti darò infatti un profumo,
dono di Venere e degli Amorini alla mia bella.
Quando lo odorerai, Fabullo, pregherai
gli dei di farti diventare tutto naso.»[8]

Catullo capovolge il modello dell’invito a cena, ribaltando il rapporto tra invitante e invitato. Prega infatti l’amico Fabullo di portare bonam atque magnam cenam, non sine candida puella et vino et sale in compenso riceverà amore sincero ed un profumo che, al solo sentire l’odore, Fabullo vorrà diventare tutto naso. Catullo sembra essere ispirato dall’epigramma di Filodemo, filosofo e poeta greco, venuto a Roma intorno al 75 a.C. Protetto dalla famiglia dei Pisoni, dirige la scuola epicurea a Napoli ed è maestro di Virgilio. Nell’Antologia Palatina sono raccolti alcuni suoi epigrammi. In questo che citiamo, egli invita Pisone per la festa degli epicurei che si celebra il venti di ogni mese anche se qui si allude alla festa annuale più solenne (“annuale vigesima”) in ricordo della nascita di Epicuro:

«Al suo minuscolo nido ti vuole, mio dolce Pisone,
domani all’ore nove, l’amico tuo poeta,
per festeggiar l’annuale vigesima. È vero che porti
ben più laute vivande e brindisi di Chio,
ma troverai qui gli amici più schietti, e qui sentirai
colloqui più gustosi che in terra dei Feaci.
Dunque se a me tu vuoi rivolgere gli occhi, o Pisone,
con poco passeremo la festa allegramente.»[9]

In età augustea, il tema dell’invito a cena rallegrato da semplice vino, lo troviamo anche in un carme di Orazio che vuol porre in rilievo soprattutto la modestia e la semplicità con le quali egli vive. I vini cui è abituato Mecenate invece sono fra i migliori:

«In modesti bicchieri t’offrirò
un comune vinello di Sabina
che io stesso ho chiuso e sigillato in greca
anfora, o Mecenate». […]
Tu bevi cecubo e vini
premuti dai torchi di Cale,
ma alle mie tazze non arridono
colli formiani o viti del Falerno.»[10]

In una epistola Orazio invita a cena Torquato di cui sappiamo soltanto che è di famiglia nobile e avvocato, ma il tono confidenziale fa pensare a un amico, e la cura con cui si appresta ai preparativi suppone si tratti di persona importante e raffinata. Il motivo dell’invito a cena è un topos della poesia lirica, in questa epistola sono presenti le molteplici tematiche oraziane collegate al banchetto, al bere, al benefico influsso del vino capace di procurare il controllato piacere dell’ebbrezza, e all’amicizia che si manifesta nel desiderio di avere alla propria tavola amici veri, e il disprezzo della ricchezza con l’affermazione di preferire una cena modesta a una lussuosa:

«Se come invitato sei disposto a sdraiarti su un triclinio d’Archia,
se ti adatti a mangiare misto di verdura in una ciotola modesta,
t’attendo a casa mia, Torquato, in sul calar del sole.
Berrai vino travasato al tempo del secondo consolato di Tauro,
tra Minturno paludosa e Petrino in territorio di Sinuessa.
Se ne hai di migliore, portalo; altrimenti accetta la mia offerta.
Già da un po’ sfavilla il focolare, in tuo onore sono lucidi gli arredi.
Accantona le fallaci speranze, le rivalità nell’accaparrare ricchezze,
il processo di Mosco: domani si festeggia il compleanno
d’Augusto e potremo dormire a sazietà, non avremo alcun problema
a prolungare la notte d’estate intrecciando cordiali discorsi.
Che senso ha il benessere, se non è consentito di goderne?
Chi pensando all’erede fa risparmi e conduce vita troppo austera,
va a braccetto con un pazzo: ma io, a bere e spargere fiori
voglio essere il primo, anche se qualcuno mi darà dell’incosciente.
Quali sigilli non sa sciogliere l’ebbrezza? Mette a nudo i segreti,
alle speranze dà parvenza di realtà, fa del codardo un combattivo,
toglie dalle spalle il fardello dell’angoscia, dona ispirazione.
Chi c’è che non abbia attinto da calici fecondi l’eloquenza,
che non sia stato liberato dalla morsa della povertà?»

Il poeta assicura che ci sarà una mutua affinità tra i commensali, che tutto sarà pulito, in ordine e infine conclude:

«Sappimi dire che posto gradiresti; poi da’ un taglio al tuo lavoro.
Se nell’atrio vedi dei clienti, esci dalla porta di servizio.»[11]

Un’evoluzione dell’invito a cena la troviamo in Giovenale. Nella satira XI il poeta si rivolge all’amico Persico affinché si rechi nella sua casa di campagna per mangiare insieme, ma i suoi versi sono un’occasione per lamentare il vizio della gola che rovina tanti personaggi; la sua è rude invettiva contro i nobili romani e le loro abitudini alimentari; i ricchi hanno ormai perduto, per eccesso di raffinatezza, anche il gusto di mangiare ed anche i profumi e gli ornamenti floreali sono diventati nauseabondi per la profusione che genera nausea. Giovenale intende in modo diverso il senso di un convito che deve essere un incontro di spiriti congeniali, con vivande semplici che non escludono il piacere della buona tavola. Ha nostalgia dell’equilibrio, la modestia degli antichi e il suo menu è un manifesto etico-gastronomico che riprende termini e movenze del Moretum pseudovirgiliano e del mito ovidiano di Filemone e Bauci. Egli si guarda dall’invitare un convitato superbo, perché non solo i cibi sono semplici e buoni, ma nessuno dei suoi oggetti è prezioso e anche il servizio da tavola è semplice. A portare a tavola le pietanze non ci sono raffinati schiavi greci ma rozzi servitori che tuttavia svolgono il lavoro con gentilezza:

«Per questo motivo, mi guardo dall’invitare un convitato superbo,
che mi confronta con sé, e quindi guarda dall’alto in basso
le cose mie modeste. Tanto è vero che io non ho un’oncia
di avorio, né i miei dadi e le pedine della dama sono fatti
di questo materiale, anzi anche i manici dei coltelli sono d’osso.
[…] Non ci sarà un Frigio oppure un Licio, nessuno ce ne sarà
che sia stato cercato presso il mercante straniero di schiavi:
quando tu chiederai da bere in un grosso calice
chiedilo pure in latino! Questo schiavo è figlio di un duro
pastore, quell’altro di un guardiano di buoi.» [12]

In un epigramma di Marziale c’è una rielaborazione parodica dell’invito di Catullo vissuto un secolo prima: è un certo Fabullo che con un rovescio delle parti ha dispensato ai suoi ospiti soltanto profumo senza offrire alcun cibo:

«Ieri ai commensali hai donato un buon profumo, lo confesso,
ma nulla sulla mensa hai poi tagliato. È da ridere l’esser profumati
e stare a pancia vuota. Chi non mangia e viene profumato, questi,
veramente, o mio Fabullo, a me sembra un morto imbalsamato.»[13]

«Giura Filone che non ha mai mangiato a casa sua.
È pura verità: se nessuno l’invita, egli non mangia.»[14]

All’amico Giulio Ceriale, promette una buona cena e ne anticipa le varie portate:

«Farai una bella cenetta, Giulio Ceriale, a casa mia:
se non hai nessun invito migliore, vieni.
Potrai rispettare l’ora ottava; faremo il bagno insieme:
sai quanto i bagni di Stefano siano vicini a casa mia.
Per prima cosa, per stuzzicare lo stomaco, ti sarà servita la lattuga,
insieme ai filetti tagliati di porro;
poi un tonno conservato, più grande di uno sgombro,
ricoperto da uova accompagnate da foglie di ruta;
non mancheranno uova cotte sotto uno strato di cenere,
né il formaggio rappreso nei forni del Velabro,
né le olive che hanno conosciuto il freddo del Piceno.
Basta per l’antipasto. Vuoi sapere il resto?
Mentirò per farti venire: pesci, molluschi,
tette di scrofa, uccelli grassi di cortile e di palude,
che Stella serve soltanto nelle occasioni particolari.
Ti prometto di più: non ti reciterò nessuna poesia,
neanche se tu volessi leggermi ancora la storia dei Giganti,
le tue Georgiche pari a quelle dell’eterno Virgilio.»[15]

Altri epigrammi di Marziale hanno come tema invitati a una cena di cui si elencano con ironia le scarse portate:

«Fummo in sessanta ad essere invitati ieri da te, Mancino,
e nulla ci fu a tavola imbandito, tranne un cinghiale: non le uve
che vengono lasciate sulle viti tardive o le mele cotogne
che gareggiano coi dolci favi, non le pere che pendono legate
con lunghi filamenti di ginestra oppur le melegrana di Fenicia
dal colore simile alle rose di breve vita, né la rustica Sarsina
mandò coni di cacio di latte ancor stillanti, né venne dagli orci
del Piceno la verde oliva, ma un nudo cinghiale e questo addirittura
piccolino, quale può essere abbattuto da un nanetto
con le mani inermi. Nulla, dopo di questo, fu servito»[16].

In un altro componimento nell’invito vi è un elenco puntigliosamente dettagliato delle portate, e costituiscono piuttosto l’antefatto del moderno menu:

«La mia tavola semicircolare ha posto per sette, siamo sei,
ci aggiungeremo Lupo. La contadina mi ha portato malve,
che il ventre faranno alleggerire, e verdure varie del mio orto.
Fra queste è la lattuga a cesto largo e un porro da tagliare,
non manca la menta ruttatrice, né la ruchetta che eccita all’amore.
Fettine d’uova sode guarniranno acciughine su un fondo di ruta
e vi saran di scrofa le tettine con salsa di tonno inumidite.
Questo per antipasto. Sulla mensa avrete solo un’unica pietanza:
un capretto strappato dalla bocca di un lupo disumano, costolette,
che non han bisogno d’un maestro di mensa per tagliarle,
e quelle fave che mangiano gli artigiani e freschi broccoletti.
Avrete un pollo e del prosciutto, avanzo di tre cene precedenti.
Quando sarete sazi, frutta matura avrete a piacimento
ed un limpido vino di una bottiglia di Nomento, invecchiato
sino al sesto anno sotto il console Frontino. Seguiranno scherzi
benevoli, franche parole che non vi faran temere o che vorreste
aver taciute. I miei convitati parleranno dei Verdi e degli Azzurri,
né i bicchieri ch’io farò riempire vi faranno finire in tribunale.»[17]

Gli epigrammi di Marziale sono spesso caratterizzati da un’aggressione verbale caustica e mordace. Ne ricordiamo alcuni:

«Ora che mi inviti a cena senza dovermi pagare come prima,
perché non mi viene servita la stessa cena che mangi tu?
Tu prendi le ostriche ingrassate dal lago Lucrino,
io succhio una cozza dopo averne rotto il guscio.
Tu mangi i porcini, io funghi buoni per i maiali,
tu ti dai da fare con un rombo io con un pesciolino.
Una tortora dorata ti sazia con le sue cosce gigantesche,
a me viene servita una gazza morta nella gabbia.
Perché, pur cenando da te, Pontico, non ceno con te?
Abolire la sportula? Bene, ma che almeno ci sia un vantaggio.
Cerchiamo se non altro di mangiare le stesse cose.»[18]

«Dimmi un po’, Ceciliano, sei matto? Inviti tutto il mondo
a cena, e poi i porcini li mangi solo tu. Lo vuoi sapere
un augurio degno della tua pancia e della tua gola?
Mangia un porcino come quello di Claudio imperatore.»[19]

«Non inviti nessuno a cena, o Cotta,
se non quelli coi quali hai fatto il bagno;
soltanto i bagni pubblici ti danno
ospiti. Ed io che mi meravigliavo
che tu non mi invitassi: ora capisco,
non ti sono piaciuto proprio, nudo.»[20]

«Io non lo so se Febo sia fuggito
dal pranzo e dalla mensa di Tieste,
noi fuggiamo il tuo pranzo, Ligurino.
E sì che la tua tavola è imbandita
superbamente, ma se leggi tu
non mi piace un bel niente. Non servirmi
rombi stupendi, o triglie da due libbre,
non voglio le ostriche né i funghi: taci[21]

«Inviti a cena trecento persone,
che non conosco e ti stupisci se
invitato non vengo, ti lamenti,
vorresti litigare. Ma Fabullo,
io da solo non ceno volentieri.»[22]

Ci sono anche i taccagni, come quello descritto con ironia da Marziale: l’avaro padrone di casa impone al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce:

«Cecilio è proprio l’Atreo delle zucche:
quasi fossero i figli di Tieste,
le taglia e le divide in mille pezzi.
Prima le mangerai per antipasto,
quindi per primo piatto, per secondo
e per terzo t’arriveranno infine
come dessert. Di zucca il pasticcere
fa torte insipide, sempre di zucca.

Continua l’elenco e l’estroso cuoco mette alla prova la sua abilità e riempie scodelle e piatti, vassoi e fondine, tutto a base di zucca, ma il poeta infine esclama:

«Gli sembra fine, gli sembra magnifico
riempire tanti piatti con pochi soldi.»[23]

Immagine in copertina
The Miriam and Ira D. Wallach Division of Art, Prints and Photographs: Picture Collection, The New York Public Library. “Black figured Attic cylix, Athena between two warriors.” The New York Public Library Digital Collections. 1883. http://digitalcollections.nypl.org/items/510d47e4-644b-a3d9-e040-e00a18064a99.


[1] Odissea, VIII, vv. 536, sgg., trad, D. Marinari

[2] Odissea, VIII, vv. 59 sgg., trad. R. Calzecchi Onesti

[3] Plutarco, Simposio dei sette saggi

[4] La citazione è riportata da Gellio in Notti attiche, XIII, 11

[5]  Orazio, Satire, II, 6, 71-76

[6] Antologia Palatina, V, 183.  Due congi corrispondente a sette litri circa.

[7] Ibidem V, 185. Trifera è evidentemente una etera che deve partecipare al banchetto. Nei banchetti si usava porre sul capo corone di fiori.

[8] Catullo, Carmi, XIII

[9] Antologia Platina, XI, 44

[10] Orazio, Odi, I, 20, 1-4; 9-12

[11] Orazio, Epistole, I, 5, vv. 1-20; 30-31

[12] Giovenale, Satire, XI, 130 sgg.,147, sgg.

[13] Marziale, Epigrammi, III, 12, trad. G. Norcio

[14] Ibidem, V, 47

[15]  Marziale, Epigrammi, XI,  52,  trad. S. Beta,

[16] Ibidem, I, 43

[17] Ibidem, X, 48

[18] Ibidem, III, 60. Marziale ha accettato una cena gratuita da parte di un suo protettore che lo sovvenzionava, in cambio della sportula, cioè una somma in denaro:

[19] Ibidem, I, 20. Il riferimento è all’imperatore Claudio morto dopo aver mangiato funghi velenosi dietro macchinazione della moglie Agrippina. A proposito di funghi velenosi scrive Plinio: «Tra le piante che è rischioso mangiare, mi sembra giusto mettere anche i boleti: essi costituiscono innegabilmente un alimento squisito, ma li ha posti sotto accusa un fatto enorme nella sua esemplarità: l’avvelenamento, compiuto per loro tramite, dell’imperatore Tiberio Claudio da parte della moglie Agrippina, che con tale atto diede al mondo, e innanzitutto a se stessa, un altro veleno, il proprio figlio Nerone.»

[20] Epigrammi, I, 23, trad. C. Vitali

[21] Ibidem, III, 45

[22] Ibidem, XI, 35

[23] Ibidem, XI, 31

Vedi alla voce: Cochi e Renato

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Avrei voluto essere un duo

 

di Gigi Spina

 

Questa recensione non è una recensione. Questo è il diario di lettura, il personalissimo cartellino di uno che potrebbe essere fratello (minore) di Cochi e Renato e padre di Ciaffaroni e Paté. E il libro è: Cochi e Renato. La biografia intelligente, e lo hanno scritto Andrea Ciaffaroni e Sandro Paté. Glielo ha pubblicato l’editore Sagoma, di Vimercate, mentre entrava dicembre 2019. Poi, per darvi l’idea, c’è una prefazione di Maurizio Milani e una nota critica di Marco Giusti. Però, attenti: non valevole ciccioli.

 

In due non è un esercito, devo smentire, soffrendo, Giorgio Gaber (La solitudine, da Libertà obbligatoria, 1976-77), e proprio chiamando a testimoni i suoi amici: in due è una coppia, in due è cabaret. Certo, bisogna essere Cochi e Renato. Nella seconda metà degli anni Sessanta, chi viveva al sud – a Salerno, per esempio – era potenzialmente pronto per essere milanese e fare cabaret. Esisteva un Gruppo Zero [Attenzione! C’è un Gruppo Zero anche nel libro, a p. 39: non siamo noi, peccato …], che mise coraggiosamente in scena le strisce de Il trapianto del trauma di Jules Feiffer, diffuse su Linus e raccolte in volumetto-culto; esistevano i monologhi alla Villaggio preparati per serate ante-talent al circolo universitario Il Ridotto; e poi, per quelli del Gruppo Zero, c’era il culto dei Gufi. Li andammo a vedere a Napoli, nel 1969. Lo spettacolo era Non spingete, scappiamo anche noi e devo la ricostruzione precisa del ricordo a Michele Moramarco, I mitici Gufi, Reggio Emilia 2001. Già dalla mattina eravamo su via Roma (o Toledo, per gli amici) e intervistavamo i passanti, facendo finta di essere giornalisti, con il microfono del Geloso in bella mostra. “Sapete che stasera a Napoli ci sono i Gufi?”, finché una signora ben messa, magari una giovane Elena Ferrante o una sua amica geniale, chi lo può dire?, ci fece: “sì, mò c’ stanno pure ‘e ciucciuvettole” … le civette, roba che solo a Napoli.

Questo per dire che quando su facebook spunta una pagina Cochi e Renato e si capisce che sta per uscire un libro su di loro, e poi si scopre che uno degli autori è Sandro Paté, viene da esclamare: Urca l’argomento! Perché di Paté si è letto, divorato, bagnato di lacrime Peccato l’argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci, Milano 2014. E poi si legge il nome dell’altro autore, Andrea Ciaffaroni, e si dice: ecco il duo. E ci si commuove, perché quel salernitano ora trapiantato a Bologna avrebbe voluto essere un duo, addirittura nascere un duo. Non due gemelli, proprio un duo, da cabaret, il tipico duo che ha come terzo membro Enzo Jannacci.

“Era come avere Totò al Derby”, dice Alberto Tovaglia, una delle numerose (47 per la precisione) fonti intelligenti, e anche biografiche, a p. 129. Il Derby di Milano (inteso come luogo, non in senso pallonistico) , inutile dirlo, è il testo e il contesto, è l’alto e il basso, l’avanti e il dietro, il prima e il dopo, l’aspetto puntuale e quello durativo (questa è solo per chi ha fatto il classico); il Derby è, e lo curavano in molti. Ecco, Totò mi era già venuto in mente mentre cominciavo a leggere il libro e pensavo ai tormentoni di Cochi e Renato: bravo, 7+, bella gioia, e lo curo … e neanche qui quant’altro ci sta bene. E pensavo che ai tormentoni ci aveva preparato proprio Totò: a prescindere, checché, è la somma che fa il totale eccetera eccetera. Ma forse anche i classici, a scuola, ce ne avevano offerti, certo, di più lunghi e poetici, ma sempre buoni a fare casino: e il naufragar m’è dolce in questo mare, ed egli avea del cul fatto trombetta.

Ma non c’è tormentone più tormentato e tormentante di Silvano, la canzone piena di sdrucciole, che può cambiare sdrucciolando all’infinito. Ciaffaroni ne parla con Rino Petrosino, fotografo, non paparazzo, che scopriamo essere il “Rino, picchiami solo negli angoli” in una delle versioni di Jannacci – Cochi e Renato si possono vedere e sentire nella loro personale Silvano qui: https://www.youtube.com/watch?v=3OordlMqcj8.

Ciaffaroni fa una pausa (o ‘apre una parente’ …, per rimanere nel tormentone) e dedica un paio di pagine da monografia (282-284) per ricostruire la storia del pezzo, grazie anche alla pellicola del regista Ranuccio Sodi (si potrà vedere? e dove? sarà Lo stradone col bagliore, il documentario che Sodi ha dedicato all’amico Enzo, per elaborare il lutto? Rimane il dubbio) che ritrae il duo trimembre mentre comincia a sparare “fonemi in libertà”, definizione di Cochi. Leggetele, quelle pagine, attentamente, come ho fatto io, e la notte dormirete tranquille/i, perché finalmente capirete perché le parole trascinano le parole, al di là del loro referente reale, e quindi non c’è niente da capire (cit.); e poi, se volete fare i fighi (o gli sboroni, come si dice a Bologna), paragonatele alle pagine in cui Edgar Allan Poe spiega come ha composto The Raven e perché ha scelto il tormentone in clausola nevermore. Filosofia della composizione si intitola lo spiegone di Poe: non dico altro, cercatelo e provate a capire come può nascere la poesia … anche a partire da un cabaret di Milano. La ‘parente’ si chiude e Ciaffaroni, ormai contagiato, sdrucciola felice: “Rino, sfodera scuse plausibili”.

Il Derby è tutto, dunque, ma come sempre c’è un prima e un dopo, anche se con gli stessi, storici nomi: Dario Fo, Enzo Jannacci, Beppe Viola, Giorgio Gaber, Felice Andreasi, Bruno Lauzi, Lino Toffolo, Paolo Villaggio, Teo Teocoli, Cochi e Renato. Nomi maggiori, ma anche tanti nomi, per così dire, minori, ma che questo libro, per uno vissuto fino a un certo punto al sud, rende finalmente maggiori e tutti capaci di interagire e creare quell’atmosfera surreale e sempre inattesa che costituisce il vero cabaret. Il Derby chiude nel 1985 e mi viene in mente che a Bologna la famosa Osteria delle Dame di Francesco Guccini, dedicata al folk e al rock, chiuse nello stesso anno (ma per fortuna ha riaperto da poco grazie alla passione di un caro amico, Andrea Bolognini). Nel Derby lavorano e si incontrano famiglie, crescono figli, si consumano amori e anche qualcosa di più pesante, si incontrano esperienze artistiche e malavitose, si continua a sentire jazz. Sono vite normali, sia ben chiaro, le interviste e i racconti lo mettono bene in luce: nulla di epico, di trascendente, di eroico, solo la capacità di vivere la vita al livello della sperimentazione.

Il Derby è un po’ come il ’68 italiano, che dura più di un solo anno, ma è sempre e solo il ’68, nel bene e nel male. E quando si dice di uno: ha fatto il ’68, state sicuri che magari, proprio nel ’68, come il sottoscrivente, stava facendo il militare. E poi, Cochi e Renato sono come tutto questo, anzi sono tutto questo. Due vite, o una vita in duo capace di essere milanesi e internazionali nello stesso tempo, classici e moderni: pensate alla loro camminata sghemba e, per esempio, alle Silly Walks di John Cleese dei Monthy Python, pensate ad alcuni modelli conclamati: Esopo, Beckett, Ionesco. “Siamo alla terza generazione. Ci sono bambini che sanno a memoria tutte le loro canzoni perché i nonni o i genitori gli hanno fatto ascoltare E la vita, la vita o La gallina”; lo dice Stelio Lacchini, il musicista che li accompagna da quasi vent’anni (p. 209). Un po’ come capita per il ’68, che ne parla e pare saperne tutto anche chi è nato dopo. Però, per dire, a Cochi e Renato rimango affezionato ancora … si sono conservati molto meglio!

Pensate (ecco che apro una ‘parente’) che col mio Geloso registrai in TV (ora lo posso ascoltare riversato su iTunes del Mac) lo sketch in cui Cochi e Renato interagivano con Paolo Villaggio a Quelli della domenica. Se ne parla a p. 173: “i tre illustrano la tragicità dei canti popolari nazionali. Canti in cui tutti, prima o poi, muoiono o si ammalano gravemente”.

Ma il libro non posso raccontarlo tutto, dovete comprarlo e leggerlo, alcune impressioni le tengo gelosamente per me. La vita di Cochi e Renato, la loro separazione, le loro singole personalità, nel cinema e nel teatro, il loro ritorno insieme: tutto questo non può essere banalizzato o reso parziale dal diario di un solo lettore. Tutti questi elementi, questi frammenti di vita devono però essere indicati come parte essenziale e sviluppata al meglio in questa “biografia aneddotica” (p. 260), forse versione scritta di quella biografia che è già nel film Saxofone (p. 309).

Perché è sicuro che Cochi e Renato fanno parte della storia umana e geniale, controversa e carsica del nostro paese. Come disse Enzo Jannacci (p. 292): “Trovai una banda di disgraziati che facevano delle cose bellissime”.

Il libro potrebbe finire con l’elenco dei 47 che “hanno parlato di Cochi e Renato” (pp. 331-338) e con “Tacchi, date e datteri”, il lungo elenco (pp. 339-360) di presenze del duo: televisive – caroselli compresi -, radiofoniche, cinematografiche, teatrali, discografiche. E poi, come da cabaret, c’è l’indice dei nomi, la vertigine dell’elenco, avrebbe detto Umberto Eco, che è presenza non rara nel libro. Si comincia con Abbatantuono, Diego e si finisce con Zavattini,Cesare. Vaste programme davvero! E poi, proprio nell’ultima pagina, gli autori ringraziano, e quindi è giusto che il lettore ringrazi gli autori.

 

Ma non è finita qui. Perché, proprio qualche giorno fa, il primo dicembre del 2019 (meglio essere precisi), mentre ancora leggevo e cominciavo a pensare alla recensione/non recensione, il libro appena uscito aveva già prodotto la sorpresa più bella, Cochi e Renato a Che tempo che fa. Sono loro, pionieri e reduci, gli stessi e felicemente diversi, normali e umani nella loro spaesata espressione di frequentatori convinti del mondo. Non ci sono gli autori del libro, che vanno ulteriormente ringraziati perché hanno davvero scritto un libro generoso, soprattutto per i loro biografati, intelligentemente.

E infatti Renato precisa subito che a p. 29 c’è un errore. Lui non è nato a Gemonio, ma a Milano. Va’ a sapere chi ha ragione. E la vita, la vita …

 

Soundscapes, di Vincenzo Bagnoli

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(Di Soundscapes mi colpisce il controllo di un codice che ha campionato insieme il verso più classico della metrica italiana, l’endecasillabo, permeato di visioni allucinate, e l’atmosfera dark e new wave degli anni Settanta e Ottanta, quelli del coming of age dell’autore, con l’euforia di una musica che liberava finalmente tutta l’angoscia del nostro perenne – occidentale – stare sull’orlo della dissoluzione. I testi di Soundscapes difatti formano una sorta di concept album verbale, con espliciti riferimenti all’immaginario musicale privilegiato: gli Who, i Genesis, i Marillion, Jesus and Mary Chain e altri, fino al visionario vertice di Bowie e al suo strano astronauta alla deriva nello spazio. È il contraltare dell’essere persi quaggiù sulla terra, nel teatro della città, che rigenera regalando l’anonimato, ma non rilascia, imprigionando nella solitudine. La città, dunque, Bologna, costituisce la scena che autorizza l’incontro tra tradizione poetica classica italiana e universale e musica moderna transnazionale, consentendo di accogliere gli estremi di una meditazione inquieta negli spazi sconcertati, pieni e vuoti, della vecchia cittadina provincialotta e “sognata” ora grande centro rinnovato e alienante, dove si avvicendano controllo e dispersione. Scrive Vincenzo Frungillo nell’introduzione: “L’ingegnere della parola deve costruire lo spazio in cui la vita, il bios, torni a sé stesso, non si perda in mille rivoli, in codici indistinti; così facendo la poesia diventa appropriazione del vissuto con altri mezzi.” (8) E, aggiungerei, si riappropria della possibilità di interrogare la presa di parola: cosa sono la protesta, il grido, lo sdegno, il manifesto in uno spaziotempo in cui ciascuno può parlare, esporre la parola, scambiarsela, senza mai sentirsi rappresentato? Le ansie e le contraddizioni del sentire sempre quella “nota dominante, il tonfo sordo inumano, il basso pulsante e continuo dello slogan” accompagnano l’impulso a parlare la poesia persino su paesaggi irriconoscibili, l’andare cieco e mezzo disastrato di una polis sfiduciata. Bagnoli trova in questa miscela la chiave per sondare, lontano dalle prediche, lo stare in relazione. Considera e squaderna davanti a noi un futuro storico temibile, quasi inguardabile, le calamità presunte ‘naturali’ fin troppo ‘culturali’, la promiscuità non rassicurante degli aggregati verbali e umani contro cui si collide fortuitamente, continuamente, senza via di scampo, le loro subitanee rivelazioni, quelle coincidenze cosmiche che sembrerebbero nutrire la speranza della cara, vecchia, logora comunicazione, gli strati di passato che si avvicendano e non sempre si fanno memoria servibile, il tessuto di testi non sopprimibile, la matrix in cui siamo forgiati, l’interrogare come possiamo noi parlare non dico con purezza, ma con fiducia politica, l’afflato ancora innocente di quando potrai trovare ‘il tuo’, “quando giri per il centro insieme a un adulto e vedi le cose diventare racconto, senso, storia, ti chiedi quando potrai tu stesso raccontarti la tua forma del mondo, trovare le strade che portano dove vuoi arrivare, con i tuoi passi, con le tue parole” (20). Nella forma geniale che ha escogitato Bagnoli abbiamo ancora lo spazio per chiedercelo. rm)

 

da Soundscapes, di Vincenzo Bagnoli

 

Winter Shades 1973

(forma e mutamento)

All’inizio c’è la luce pallida di un cielo velato, lattiginoso, bianco opalino. E dopo il buio. Bianco e nero che poi si compongono nei tratti di un volto. Ci sono quindi i profili di un paesaggio: da una parte le colline, dall’altro una distesa di tetti fino all’orizzonte. Sempre bianco e nero, a quanto pare. È la luce dell’inverno che appiattisce tutti i colori nel grigiore della bassa, o è uno scherzo della memoria che riversa i ricordi più lontani su una pellicola antiquata? C’è poi il colore dei tramonti, l’ombra grigia e violetta su quell’orizzonte, un volo rapido e obliquo attraverso il riquadro della finestra. C’è la luce tagliata a strisce e impolverata sulla facciata di case invecchiate. E la luce, nel ricordo, è sempre quella di orizzonti velati di foschia, del pomeriggio declinante, dominata dal grigiore invernale della città «fosca turrita» o dalle tonalità del rosso: del rosso mattone, del vermiglio, del ruggine di un binario annegato nell’asfalto nella zona industriale, del rosso fuoco, del rosso delle tegole, del rosso Bologna. La poesia è solo il battito delle ciglia che spezza le iridescenze di colori e sfumature in semplici sequenze di ombre e luci.

 

Un lungo lamento sull’orizzonte
nel vuoto dei tramonti di novembre,
le sfumature di grigio e violetto
fra ombra e luce, ancora sospeso
il peso languido delle distanze,
colori alterni in sincronia veloce

 

Le successive immagini sono consegnate alle livide albe di novembre, mai sospettate prima; albe in cui, sopra distese di gelida brina, una nebbia che sembra cancellare tutto “piovigginando sale”. E tu dentro l’aula, stordito ancora per il freddo, senti i versi descrivere quello che hai appena conosciuto fuori, come se ti si dispiegasse davanti un’altra volta e finalmente chiaro, come se con gli occhi di un altro rivedessi il te stesso di prima di là dalla finestra: è l’unica nitida traccia che puoi afferrare di un mondo altrimenti sospeso e nascosto dalla distanza fra la girandola di colori dei racconti e la cortina uniforme della foschia. E ti impressiona questa coerenza, questa solidarietà fra la «pronuncia» e il «mondo» (quella che un altro poeta – come avresti scoperto tanti anni dopo – chiamava «l’angelo della realtà»), proprio lì, in uno di quegli edifici di cemento tirati su in fretta in mezzo allo sfasciume di terra di riporto, macerie, reti, rottami, orti intossicati, recinti di lamiera, distese di fanghiglia più che prati; in mezzo a un nulla cieco e privo di relazioni, insomma un nulla reso più simile al niente da quella nebbia che cancella l’orizzonte. Ancora non si chiamavano non luoghi, questi territori, perché un tentativo di fare luogo c’era: un progetto, pareva. Lo senti attraversare l’aria nelle parole che donne e uomini si scambiano, così come senti la fiducia nelle loro voci.

 

Luce polare di giorni su giorni,
sei l’orizzonte di questa città,
di ogni città, il bordo di foschia
nebbia che sale all’orlo del cielo,
tutti gli autunni che sono passati

(luce violetta che attraversa gli occhi)

 

Ma la prospettiva è un’altra, lì sul bordo, in quella zona obliqua descritta dalle diagonali che attraversano solo i contorni della città, dove si forma l’informe, dove agisce la disorientante regola della rovina, la logica della frana, nascosta e rivelata nella storia; lo sfascio, la disfatta che si assesta nella crescita a vista dei detriti sul perimetro all’orlo dello scavo. Su questo bordo cominciano a sorgere poi i gelidi grattacieli, immobili nel cielo della sera come implausibili, estranee elevazioni: valori astratti sospesi al di sopra di tutti… E in questa prospettiva anche il ritmo di quei versi ha un suono falso, come le merlature di Rubbiani sui palazzi antichi del centro e come i tracciati di alcune vie, ma va bene così: la prosodia solenne, studiata, artificiosa, e il susseguirsi delle colonne nella penombra dei portici sono comunque costruzione, sviluppo, progetto; sembrano avere un senso e portano a qualcosa, per chi ha poco cammino alle spalle e viene da quella periferia dove tutto – campagna e città, storia e forma – è confuso e cancellato, dove le strade si fanno viottoli in terra battuta e finiscono sull’orlo di acque stagnanti, inquinate dagli oli di qualche officina.

 

Il freddo chiarore del cielo ghiacciato
cancella il sordo peso dei palazzi
di grigia pietra, di cupo mattone;
presenza e assenza mi scavano dentro
il furore di un pogrom silenzioso,
lama sottile di mille cristalli
di acqua gelata sospesi nell’aria
sottili come il mi cantino, un bisturi
che incide sulla nostra pelle il vuoto,
cosa vogliamo e cosa ci serve,
il malumore e questa tristezza:
un ottocento di vecchi richiami
i canti degli uccelli nel grigiore

 

Questa è l’«origine», per i «poeti di sette anni», quello che c’era prima (non certo la natura); questa la forma del bordo, quindi il contorno, il profilo della città che hai davanti agli occhi. E quando giri per il centro insieme a un adulto e vedi le cose diventare racconto, senso, storia, ti chiedi quando potrai tu stesso raccontarti la tua forma del mondo, trovare le strade che portano dove vuoi arrivare, con i tuoi passi, con le tue parole. L’idea te la dà un libro, le Filastrocche in cielo e in terra, che parla delle cose scritte anche nei sussidiari, ma in un modo che sembra cambiarle, farle sentire più vicine e distanti insieme, come se le guardassi con gli occhi di chi ha visto più di te e più lontano, e che perciò ha visto anche te stesso. Per quanto strano sia, ti ricordano un altro libro che hai trovato in casa, un lungo libro, in tre volumi, che hai provato leggere senza però capirlo, incuriosito perché sembrava parlare del mondo tutto intero, anche di ciò che non vedevi, ben oltre l’orizzonte (e ti piaceva moltissimo l’astronomia, infatti). Presto scopri, nel giro di pochi anni, che la stessa città antica può essere anche diversa da come si è mostrata, come se quel racconto e quella storia d’un tratto fossero a loro volta interrotti, rimessi in discussione; come se con i fumogeni fosse calata anche tra i portici la cortina di un grigiore che cancella le prospettive e il senso del percorso. L’apparizione dei cortei e dei carri armati nelle vie del centro, prima dal vero poi in televisione, come in un riflesso bizzarro, ti colpisce, ma in un modo del tutto differente dai versi ascoltati a scuola: la loro immagine ripetuta non ti lascia nessuna coerenza, ma sembra quasi sfumare nell’urbanistica confusa dei sogni il tuo racconto della città, ancora labile e fluido. E poi c’è la ferita di edifici cancellati e di voci azzittite, che completa una severa lezione: ciò che è detto, è detto per restare, e viene detto con forza per farlo durare, fino alla violenza; e d’altronde servono forza e violenza se si vuole rimuovere quello che è stato detto prima. Scopri allora che le parole possono avere un altro ritmo e un’altra urgenza, quella dell’urlo, ma anche dello slogan, e devi stare attento a distinguerne la cadenza.

 

Le nostre parallele solitudini
similitudini fra specchi opachi
toccati dalla polvere si guardano
sospesi ai margini del mondo e intanto
l’inverno ha già sorriso chiaramente
soltanto da una stella nell’azzurro:
tu ridi nitida stella dall’alto,
la mia stanchezza galleggia su acque
senza fondo di notti sterminate
dove non troveranno le mie ossa

 

Ci sono anni duri e crudi: la città non è più solo città sognata e ci sono cicatrici, macerie (quelle che l’«angelo della storia» guarda) che segnano per sempre una topografia concreta, inamovibile, non più sospesa e fluttuante. La nebbia plumbea scesa accanto ai muri rossi come una fredda barriera, una transenna di metallo, non sale più, e accanto a quella impari ad ascoltare il dolore da altre voci, nelle canzoni: quelle cantate dalla gente che protesta e quelle che invece parlano proprio a te, ti sembra. E nell’assedio del no future, tra minaccia nucleare e catastrofe ambientale, tra le menzogne di una storia scritta al di sopra e le bugie del consumo come unica consolazione, ti sembra di sentire quello che sente un’intera generazione: cresciuta con la televisione, espropriata del passato e condannata a vite di plastica, accantonata dentro ai casamenti e tra le mura dei monolocali nell’esilio penitente dei quartieri dormitorio, sepolta nell’architettura del grigio, nella solitudine popolare dell’alveare, negli scorci spenti sempre uguali, nei prismi di antracite (i titani nell’epoca moderna li chiamava Le Corbusier), nel deserto dei muri definiti dal buio, compatti come lapidi accese inutilmente di piccole luci votive. Ti sembra di dovere continuare a guardare queste outlandos d’amour senza capire: rampe di highways nel sole morente o nella luce dolciastra dei neon, nel sonno spento di ferro e cemento, i sospiri condensati e ricaduti in sogni senza occhi che scorrono in rivoli e rigagnoli sotto le case.

 

Nei tratti più grigi del calendario
il vento passa ma non muove nulla
nella compatta muraglia dei giorni.
Ora si è aperto un cortile di sole,
rettangolo bianco contro la tempia,
l’aria serena, respiro più largo:
vorrei addormentarmi in altre notti
lontano da tutto tranne dal raggio
che cade sul muro dopo sei mesi

 

Le mattine continuano ad avere il medesimo colore, lo stesso che hanno sempre le poesie sui libri di scuola; ma dove altro trovarne di diverse, che abbiano altri toni, lasciate da parte ormai le filastrocche? Appaiono a tratti in quelle canzoni che continui ad ascoltare perché sembra che parlino di te; le scrivi sui diari, insieme ad alcuni dei versi che trovi nelle antologie, come una guida pratica per orizzontarti: ma non è che guardandoti attorno, proprio lì in mezzo alle strade di Bologna, tu riesca a ritrovarti con quelle mappe, non più di tanto. Sono un fatto tuo, e finiscono lì, all’orlo del corpo, sulla pelle che si limitano a sfiorare con le loro tinte d’acquerello e i loro tiepidi disagi: si fermano al derma di asfalto e strade selciate, alle mucose di case popolari, al reticolo di vie senza sbocco come vene azzurre. Ma la muscolatura della città e delle paure è troppo robusta: troppo pesante l’ansia delle ossa, l’urto dei muri, l’incontro impietoso di aspro cemento e liscio epitelio. A volte le poesie appaiono nel mezzo di una delle riviste a fumetti che leggi, e sono poesie che serbano in un certo senso l’eco di quell’urlo, di quell’urgenza: dicono le cose in un altro modo, un altro ancora rispetto ai libri di scuola, ti lasciano perplesso, ti fanno pensare. Lo stesso succede a volte (di rado) durante qualche ora di lezione. Quante? Poche. Ma puoi ricordare almeno quelle sul libro misterioso, che ti viene finalmente spiegato, sulle ragioni di Lucrezio e Leopardi, su Enea, sulla Terra desolata, su Aleksandr Nevskij. Poche cose, ma ti lasciano il sospetto che non sia tutto lì, solo una reliquia dietro i grigi tendaggi del passato o un fatto privato con i colori di una favola raccontata d’altri e già conclusa dietro copertine patinate.

 

Aghi di ghiaccio in quota attorno
al sole pallido, l’aria pungente
della corsa veloce da lontano
nei rapidi respiri affannati,
intanto il gelo incalza da vicino
con i rumori fiochi dell’inverno,
tra i rami secchi il suono dell’azzurro
apre la rete di cieli più vasti
e tutto, i passi di fretta, le svolte,
vedi, non è che vento vuoto e vano
e freddo, il vento dei giorni sereni
proprio all’inizio della primavera
venuto alle spalle dall’inverno

 

Sai che hai ancora tanto da ascoltare (ne avrai sempre), ma cominci a sapere che non basta: se resti in silenzio, non c’è più spazio per l’onda della vita e tutto quello che senti alla fine prende un’unica cadenza, quella della nota dominante, il tonfo sordo inumano, il basso pulsante e continuo dello slogan. Devi parlare, ogni tanto; non in inutili monologhi, ma quando interroghi con gli occhi le pagine scritte, perché la loro stessa parola si animi, esca dalla griglia, dalla sequenza e si sciolga in un dialogo lungo il ritmo del respiro delle donne e degli uomini che sono vissuti. E devi ancora parlare, per orizzontarti e trovare il tuo posto fra le donne e gli uomini che vivono nei grandi deserti delle strade suburbane, nello spettacolo degli alti palazzi e delle centinaia di finestre illuminate attraverso la città: una comunità silenziosa e distante (ben diversa da quelle sussurranti e contigue dei libri, delle canzoni o del salotto entro le mura, che hanno una loro storia raccontarsi ancora e ancora e ancora…). Perché ci dev’essere una poesia per quest’anonima forza che senti nel paesaggio della moderna edilizia popolare, nelle scuole nelle case nelle palestre dove si cresce insieme, e ci deve essere un colore diverso, che abbia i toni dell’urgenza e della coerenza, la «pronuncia del mondo», la sostanza del tuo tempo e del qui.

 

Qui dove si fonde principio e fine,
e tutto e parte, dove tutto forse
si mescola e confonde e poi rinasce
in parti uguali sparse tra i disegni,
tra libri, e giornali e copertine,
qui tutto si confonde, il racconto
si mescola al sonno sopra la testa,
si stempera il colore nell’intrico
di carta patinata e di parole,
di tutto lo spazio bianco e del vuoto;
anche il disegno, tra pagine e gabbie,
grafica e dorsi male allineati,
non rifiorisce, senza bellezza
resta la stanca rassegna illustrata
agli occhi indifferenti del bambino
che non legge quasi mai ciò che scritto
nel bianco E nel vuoto delle nuvole
poi entra Tristano e dice: ecco il giorno.

*

Vincenzo Bagnoli, Soundscapes – 33 giri extended play (Carteggi letterari 2019)

 

Il punto di vista di Dio

1

di Gian Piero Fiorillo

 

  • Non riesco a cogliere il tuo punto di vista, Bechterev. stiamo parlando di compatrioti!
  • Qui non si tratta più di compatrioti, queste categorie non contano più niente.
  • Ma…
  • Qui si tratta di chi sopravvive e chi no. E sopravvive solo chi uccide.
  • È terribile.
  • Dunque, vuoi essere dalla parte dei morti o degli spietati?

 

Il 1940 fu un anno tenebroso. La guerra più crudele entrò nel vivo e, cosa forse peggiore, si affermò l’idea che solo dominando il mondo si potesse essere sicuri nella propria dimora. L’idea stessa di pacifica convivenza fu spazzata via per sempre e la parola pace divenne sinonimo di colonizzazione universale. I vecchi del mio paese ricordano le due guerre mondiali con le espressioni “la guerra del 15-18” e “la guerra del 40”. La seconda non ha una data finale. E in effetti continua, non sempre e non dappertutto priva del rumore delle armi, che tuttavia tuonano solo in zone classificate come periferiche. Al Centro le armi tacciono minacciose e il conflitto è diventato freddo, perenne e senza nome.

 

1940, Buenos Aires. Inverno. Avvolto in un’elegante veste da camera, Adolfo Bioy Casares lascia cadere con noncuranza aristocratica una parentesi nel suo capolavoro, L’invenzione di Morel: (credo che perdiamo l’immortalità perché la resistenza alla morte non ha subito alcuna evoluzione; ogni suo perfezionamento insiste sulla prima idea, rudimentale: mantenere vivo tutto il corpo. Bisognerebbe cercare soltanto la conservazione di ciò che interessa la coscienza). Nel silenzio della biblioteca di famiglia Bioy si chiede se mantenere o cancellare quella incidentale che sembra una sincope. Decide di lasciarla. Nel tempo, come nel romanzo, si rivelerà una profezia. Non isolata, però: riflette lo spirito dell’epoca: visionario, delirante, criminale. Qualunque cosa intendesse Bioy Casares per coscienza, sappiamo oggi che l’immortalità e la costruzione di un mondo parallelo (l’altro tema dell’Invenzione) sono, insieme al dominio dell’Universo, l’ossessione dei potenti e l‘allucinato obiettivo della scienza. Prometeo non nasconde più l’aspirazione a diventare Dio. Non si accontenta di rubare il fuoco all’Altissimo ma punta ai meccanismi di accensione, creare dal nulla, e di conservazione, rendere eterne le cose che crea, viventi e no. Allucinazioni così potenti sono inevitabilmente accompagnate da paure altrettanto potenti.

 

***

 

2016: esce in tutto il mondo Zero K, di Don De Lillo. Ross Lockhart, ricchissimo, è sposato con Artis, malata e vicina alla fine. Decidono insieme di affidarsi a un’azienda che promette la conservazione criogenica del corpo e della coscienza fino a quando la medicina non sarà in grado di curare la malattia di Artis. Marito e moglie saranno allora risvegliati, i corpi riportati in vita e le coscienze, che nel frattempo sono state caricate su chip elettronici, potranno essere nuovamente trasferite nella loro sede naturale, il cervello. De Lillo non è uno scrittore di fantascienza e si limita a raccontare realisticamente la prima fase del processo e ispezionare gli stati d’animo dei protagonisti e del narratore, il figlio di Ross, alle prese con l’insondabile.

 

Prima di arrivare all’immortalità programmata e alla resurrezione degli aspiranti frankenstein, si può prolungare la vita individuale fino a età impensate sostituendo via via gli organi malati o troppo vecchi. L’uomo come la nave di Teseo. Per facilitare le sostituzioni si possono coltivare cloni umani, in tutto simili a «noi» meno che per la capacità di procreare, e metterli al mondo con la sola ed esclusiva funzione di farne donatori di organi. Non Lasciarmi di Kazuo Ishiguro, 2005, racconta questa situazione: ancora una volta non stiamo parlando di fantascienza, ma di realtà, o quantomeno possibilità reale. Coltivare uomini, dare loro vita e cultura da college, persuaderli a morire pezzo per pezzo senza lamentarsi troppo. Ma era solo un esperimento malriuscito: queste creature dimostrano di avere sentimenti. Meglio allora allevarli nell’ignoranza, corpi utili e nient’altro. Non si allevano così anche i conigli?

 

***

 

  1. Avevo trentadue anni e cercavo di immaginare come sarebbe stato il mondo se l’utopia orwelliana si fosse davvero realizzata. Non sapevo che avrei dovuto aspettare poco tempo. Fin dai tempi di Bentham il Grande Fratello aveva lavorato alacremente per realizzare il Panopticon planetario e ora aveva lo strumento adatto, il computer. Bisognava svilupparlo e sviluppare una disposizione mentale favorevole di massa. Di più, bisognava che le popolazioni fossero ansiose di partecipare alla costruzione del Nuovo Mondo, api operaie solerti e canterine. Interfaccia amichevole e connessione a distanza furono la soluzione. L’idea fondamentale a sostegno dell’utopia era che il linguaggio, che finora aveva interpretato il mondo, ora doveva crearlo. Incominciando col crearne uno parallelo, un fac-simile. Proprio come l’invenzione di Morel, ma assai più pervasivo. Un tremendous Mondo 2, intangibile e potente. L’uomo di natura, opportunamente modificato, sarebbe stato l’animale ideale: padrone e schiavo, avrebbe realizzato il desiderio eterno di eternità inverando le teorie evoluzionistiche e le profezie nicciane del superuomo, insieme al sogno comunitario di una società di eguali. Perfetti, superuomini e immortali. Pochi, pochissimi, contati. Il resto, macchine.

 

***

 

  1. Franck Thilliez mi perdonerà questo lungo estratto dal suo romanzo più recente, Luca. È necessario al mio puzzle e non voglio mutilarlo troppo.

– La plupart des pacemakers que vous trouverez sur le marché sont devenus des objets connectés, comme votre montre qui va vous demander de courir un kilomètre de plus ou un réfrigérateur capable de commander des yaourts a votre place lorsqu’il en manque. Nos produits communiquent sur une certaine fréquence radio avec une base fixe située chez le patient, pour transmettre des informations cryptées et presque en temps réel du patient à un système informatique et donc, au cardiologue […] c’est ce qu’on appelle une médicine ultra-personnalisée. Mais comme la plupart des objets connectés, les pacemakers peuvent être la cible d’attaques de pirates informatiques. Vous avez peut-être entendu parler du problème avec Dick Cheney, en 2013 ?

Lucie secoua la tête […] Existait-il encore un jardin secret que nous ne livrions pas aux bouches insatiable des machine ?

 – Le vice-président américain a désactivé la fonction sans fil de son pacemaker pendant son mandat, de peur d’une attaque terroriste ou d’un cyber chantage sur son appareil. Ce n’était pas une phobie injustifiée, de nombreuses sociétés d’audit avaient décelé d’innombrables failles et montré qu’on pouvait contrôler un pacemaker à distance, comme augmenter artificiellement le rythme cardiaque d’une personne. En provoquant l’emballement d’un pacemaker, il est facile de faire exploser sa pile au lithium. L’issue, pour le patient, est fatale.

 

***

 

Il sogno dell’immortalità e del dominio assoluto si avvicina pericolosamente all’incubo peggiore, l’eterniente. Cervelli numerosi e inutili, ciascuno nella sua vaschetta di ghiaccio, attendono un altro Big Bang. Sanno di attendere? O sono come quelle chiavi lasciate sotto il tappeto per l’ospite che non possiamo accogliere personalmente, ignari di sé e della propria funzione? Solo questo sappiamo: quello che si può fare verrà fatto. Pacemaker, chip che stimolano diverse zone cerebrali, diversi apparati percettivi, endocrini, ormonali. Superuomini, subumani, macchine: c’è solo l’imbarazzo di una programmazione efficiente. Si è vincitori o bambole telecomandate. Chi resta fuori dal gioco resta fuori.

Certo non è una bella prospettiva.

Rimorsi? Puah.

***

 

Rimorsi? Continui a non capire, Goleman, queste sono discussioni obsolete. Niente ha più a che fare con l’etica o la coerenza. Il rimorso è pericoloso.

È forse vietato avere dei dubbi?

Questa domanda non merita neppure una risposta.

Bechterev, la nostra strada è stata fin dall’inizio la stessa, ma adesso…

Prendo nota.

Prendi nota? Tutto qui?

Non è poco, credi a me.

Le tue parole sono minacciose.

Attento, Goleman, non era il caposaldo del tuo teorema? Chi si sente minacciato lo è e chi è minacciato è già condannato. Non era così?

 

***

 

  1. Shoshana Zuboff pubblica The age of Surveillance Capitalism, in cui descrive il passo decisivo verso il 1984 realizzato. Invasivo, interattivo, amichevole. Smart e non solo panottico, il capitalismo della sorveglianza non si limita a sorvegliare ma studia il modo per decidere al posto nostro e renderci «felici» di delegare e «coscienti» di avere deciso in autonomia. Con un piccolo aiuto dell’assistente elettronico. Mentre si diffonde l’Internet delle cose, la nostra capacità di osservare, valutare, scegliere si affievolisce: lasciamo che a farlo siano le cose stesse e gli algoritmi per interposta cosa. Un robot delle pulizie ne sa sul nostro conto più di noi stessi e, forte di questo sapere, stabilisce algoritmica/mente il da farsi. Che male c’è, in fondo è solo un robot. Abbiamo sempre considerato umile l’attività delle pulizie e anche chi la svolge, non è difficile considerare umilissimo un piatto che ci spazza la casa. Ma quel piatto stupido e scatolare che ruzza sul pavimento ha molte più connessioni di quanta ne abbia mai avute Nostra Signora delle Pulizie e noi stessi con tutta la nostra presunzione relazionale. Quando lo scopriremo ci diventerà perfino difficile spegnerlo partendo per le vacanze, il poverino. Rumoroso e (in)discreto compagno della nostra intimità. A lui affidammo il compito ingrato di accendere la lavatrice, sbrinare il frigorifero, farci trovare qualcosa di scongelato al momento del rientro. Oh sì mio caro, grande, inappuntabile buon fratello, come farei senza di te, io che sono così distratto. A proposito, il giorno dieci ordina dei fiori per lei, ricordati, è il suo compleanno, non farmela arrabbiare. Ciao, fratello, ti voglio proprio bene.

 

Il capitalismo della sorveglianza (in cui tutto sarà amichevole e confortevole e il mondo costruito su misura per-me-proprio-per-me; un mondo immateriale e solido che continuerà ad esistere quando il mio corpo avrà cessato di funzionare e io non ci sarò più, convivendo con miliardi di altri mondi su misura per miliardi di altri singoli individui, in una continua interazione e intersezione senza effetti fisici) non è la fine della storia. La storia non finisce con l’incubo del panopticon universale, della sensorizzazione di tutti gli ambienti del pianeta, liberi, pubblici e privati – no, la storia non finisce qui. La storia va «avanti»: non dicono così i dittatori? Ma se cerchiamo la verità scopriamo che «avanti» non va più neanche il tempo, figuriamoci la storia. Nel Mondo 2 della sorveglianza il tempo è sempre presente, sempre passato, sempre futuro – hic et nunc è un’espressione senza senso. Il tempo è una sfera di Rubik che ruota senza sosta intorno a una pluralità infinita di assi.

 

***

 

Ora consideriamo, dice Bechterev al riluttante compagno d’infamia Mark Goleman, il globo terrestre come un organismo vivente. A cosa servono tutti quegli esseri vivi sulla sua crosta? Essi hanno due funzioni fondamentali e contraddittorie: quella di parassitare il pianeta e quella di ripulirlo, tenerlo in ordine, aiutarlo a prosperare. Come gli animaletti che creano il proprio ambiente nelle pellicce degli animali: spazzini e parassiti. Devono sempre rimanere in equilibrio, un equilibrio dinamico naturalmente. Se sono troppi l’animale muore, se sono pochi la pelliccia viene invasa da entità nemiche e si deteriora uccidendo l’animale che protegge. Così è il pianeta. Gli uomini, se sono troppi, uccidono il pianeta. Se sono pochi lo lasciano andare, così che diventerà un luogo selvaggio, moribondo per troppo lussureggiare, per troppa vitalità. Se sono solo quelli necessari, potrà vivere a lungo, ed è giusto che vivano con esso coloro i quali concorrono alla sua sopravvivenza. Se l’equilibrio tende a spezzarsi gli esseri coscienti, che sono la sola coscienza del pianeta, hanno il dovere di intervenire. Drasticamente, se necessario. Bisogna salvare il salvabile. Se il salvabile è pochi prescelti, bene. Se è solo la coscienza di quei pochi, bene. Il male minore esige il suo prezzo.

Ma questo significa uccidere…

Non uccideremo nessuno, li lasceremo liberi.

Di morire, li lasceremo morire, non hanno altra chance. Lasciar morire miliardi di persone senza intervenire, restando a guardare… e poi?

Lottare per sopravvivere è la legge della natura. Qualcuno ce la farà.

… e poi, una volta che saranno morti tutti, a chi toccherà?

Una volta morti saranno morti, la memoria dei sopravvissuti è corta.

I morti vengono presto dimenticati.

E un buon chip attivato al momento opportuno affretterà l’oblio.

Miliardi di morti per prolungare la vita e il benessere di una piccola élite.

E del pianeta; se sopravvive l’élite sopravvive il pianeta, altrimenti muoiono tutti, uomini e mondi.

Sono miliardi, accetteranno la sparizione senza reagire?

Sono divisi e poveri. I poveri sono malleabili, dovresti saperlo, proprio tu, che in passato…

Lascia stare il passato, non voglio pensarci.

Mettiamoci all’opera, dunque, abbiamo perso già troppo tempo.

Quasi un secolo, e tutto per paura di uno spettro.

Avevamo iniziato bene cent’anni fa. Ci siamo dovuti fermare, ma adesso il mondo è libero e possiamo andare avanti.

Avanti, Bechterev? moriremo tutti, morirai anche tu, che senso ha?

Niente ha senso. Morirò anch’io, vivranno solo gli dei. Risorgeranno dalle loro ceneri. Ricordi la storia di Sansone? La sua morte è necessaria per annientare i filistei. Non ha senso, ma è il disegno di Dio e il prezzo non conta. La morte di Sansone è solo un effetto collaterale.

Sei molto ingenuo, Bechterev. Forse sono i filistei l’effetto collaterale. Non conosciamo il punto di vista di Dio.

Milano, Bicocca

1

di Roberto Antolini

1. NuovaBicocca

Ho ricordi personali piuttosto tardi della grigia Bicocca dell’epoca industriale, ricordi degli anni Settanta, quando mi è capitata qualche volta l’impresa di “andare a volantinare” la Pirelli-Bicocca (che sarebbe durata ancora non molto più d’un decennio). Per qualche anno ho bazzicato la sede milanese del gruppo politico Il Manifesto, quello radiato dal Partito Comunista nel 1969, per essersi permesso di lamentare la solitudine di Dubčeck di fronte ai carri armati sovietici che avevano stritolato la “primavera” di Praga. Il Manifesto a Milano aveva trovato una sede – un paio di stanzoni sgangherati in cui fare riunioni e piazzare telefono e ciclostile – all’interno di un cortilaccio di corso San Gottardo, subito oltre le possenti colonne della Porta Ticinese (a fianco di quella che oggi è la luccicante zona della movida lungo la Darsena e il Naviglio Grande, che allora però non esisteva proprio come movida, era solo una triste fila di bassi edifici mezzi corrosi dall’umidità lungo il canale).
Entrati nel cortile, si saliva la scaletta esterna che portava alla sede del Manifesto, e qualcuno ti aspettava a fianco della stufa non sempre accesa con un gran pacco di volantini appena ciclostilati da andar a distribuire alle migliaia di operai in uscita dai turni dello stabilimento Pirelli del quartiere Bicocca (non c’erano i social-media in quegli anni, e anche la televisione era ancora primordiale e rigidamente governativa, così chi non poteva accedervi comunicava distribuendo scritti, magari roba artigianale poco digeribile, fogli ruvidi fittamente incisi da minuscoli caratteri neri, slabbrati dal ciclostile). Quel qualcuno che ti aspettava di solito aveva una cinquecento o una seicento, dove si caricavano i pacchi di volantini. E poi si partiva verso il nord di Milano, nel buio della notte. Sì, perché la Pirelli della Bicocca andava a ciclo continuo, su tre turni di lavoro, e si trattava di andar a beccare intanto gli operai del turno di notte, che saranno usciti verso le 6.
Devo dire che la mia sensazione era già allora di perfetta inutilità (difatti la mia “militanza” non ha retto più che un paio di anni). Il Manifesto aveva rotto con il partito comunista per questioni di democrazia, e per la indubbia assurdità – ormai appalesata oltre ogni ragionevole dubbio, se mai ce ne erano potuti essere – dell’idea di un’URSS “stato guida”. Ma era rimasto operaista, coltivava cioè un’idea mitica della classe operaia (a volte con passi dai toni lirici, negli articoli che comparivano sul suo giornale). L’idea di una classe operaia vista come vero cuore del sistema industriale, cuore che avrebbe potuto mettersi un giorno, per scelta politica, a battere in un altro modo, aprendo così la via verso la “transizione al socialismo”. E dunque provava, Il Manifesto, ad inondare le fabbriche, in occasione di lotte “interne”, dei suoi volantini con suggerimenti “esterni” sulla linea da seguire (così come tutti gli altri gruppi post-sessantotteschi per altro). Ma la sensazione di inutilità non era soltanto politica.
Arrivavamo noi dunque carichi di volantini, con le prime luci dell’alba, alle varie porte che si aprivano nei lunghissimi muri di cinta, d’una lividezza degna di un quadro “industriale” di Sironi. E tutto era silenzio intorno a noi, tranne un sordo muggire della fabbrica che stava al di là del muro, aromatizzato da qualche acre profumo industriale sparso nell’aria. Poi di colpo, nel giro di qualche minuto, usciva in fretta e furia una incredibile massa: gli operai del turno di notte. E magari qualcuno prendeva anche gentilmente i nostri volantini (erano abituati), ma chiaramente dopo un turno di notte avevano altro per la testa che mettersi a leggerli. Sciamavano via nella impaziente stanchezza della fine-turno, verso la vicina piccola stazione ferroviaria di Greco-Bicocca (proprio dietro l’enorme stabilimento) che li avrebbe riportati alle loro case nell’hinterland nord, o verso il primo caffè di un bar che coordinava i suoi orari con quelli della fabbrica (come tutto il quartiere). Nel volgere di pochi attimi si passava da una attesa sospesa, muta ed immobile, all’inondazione, alla calca incredibile, agli strusciamenti, agli scatti, alla nostra concitazione volantinatoria; fra richiami, qualche urlo, scoppi di risate. E poi di nuovo il silenzio, ed il fievole brontolio che veniva dal di là del muro di cinta. In una luce però già un po’ più intensa, segnale naturale del fatto che il tempo del nostro volantinaggio era già trascorso, avevamo fatto il nostro dovere politico, testimoniato anche da un ammassarsi di volantini per terra fra altre cartacce, che indicavano la traccia delle direzioni prese dalle frotte di operai del turno di notte. Tutto lavoro per gli spazzini, sminuzzato in un grigiore generale, nella polverosità diffusa della Milano dell’epoca, che andava ancora a carbone, gasolio, kerosene e chissà cos’altro.


2. Vecchia Stazione Ferroviaria Greco-Bicocca

Ho ritrovato analoghe sensazioni del fuori-fabbrica in un testo degli inizi degli anni Cinquanta, un diario di Ottiero Ottieri, pubblicato oggi col titolo di “La linea gotica”. Nel 1951, descrive una passeggiata a Sesto San Giovanni, con rientro a Milano passando per la Bicocca. Insomma nel tessuto più concentrato della periferia industriale milanese di nord-est, quella periferia che gli sembra un «prolungamento violento della città, disarmonico, nato intorno ad una ferrovia che si avventa in mezzo con fragore, intorno ad una strada dal traffico compatto quasi che il flusso di Milano vi traboccasse accresciuto da una periferia che invece di diradarsi e naturalmente morire nella campagna, ingrossa di nuovo come un bubbone». Prima Ottieri passa davanti alla fonderia Breda, scorrendo lungo un «muro lunghissimo … sopra la muraglia compaiono e stridono le altissime gru a ponte, l’unica attrezzatura industriale che il muro non riesce a nascondere. Tutto il resto è segreto»


3. Sesto. il CarroPonte

(oggi col CarroPonte dell’ex Breda ci hanno fatto un parco archeologico-industriale, serve per farci feste ed eventi vari: concerti pop, spettacoli, raduni, non mancando all’occorrenza neppure uno Street Food Park Village, destinato – secondo la pubblicità – a “deliziare il nostro palato”). Poi lo scrittore scende verso Milano, dove annota: «sfila, con un susseguirsi di costruzioni banali, la grande Pirelli. Fra i muri della Breda e della Pirelli, come linea di confine, c’è una stradetta solitaria vuota, da innamorati» (!). Ottieri la prende per spostarsi sull’altro lato della Pirelli, verso la stazione di Greco, ed anche lui ascolta il silenzio, immerso nella solitudine: «la più fitta città industriale della nazione è un deserto. Il lavoro si è risucchiato tutti, dentro i muri, e Stalingrado sembra abbandonata. Non ci sono nemmeno rumori. Soltanto il puzzo di gomma della Pirelli si fa vivo, spia che qualcosa sta succedendo, mescolandosi all’aria grigia, aggiungendosi alla nebbia contro il sole giallastro»[1]. Stalingrado – immagino saprete tutti – era il soprannome attribuito a Sesto San Giovanni quando l’altissima concentrazione di insediamento operaio produceva esiti elettorali di tipo bulgaro, solo che in Bulgaria era l’effetto del partito unico, a Sesto no: c’era la democrazia, ed erano tutti voti veri, voti ideologicamente rossi. Nel 1997 nei pressi del CarroPonte era stata posta una lapide che diceva «A perenne ricordo di tutti i lavoratori morti a causa dello sfruttamento capitalista. Ora e sempre Resistenza. 24.04.1997 i compagni di lavoro di Sesto San Giovanni». Oggi gli operai di Sesto sono in pensione, dato che le fabbriche hanno chiuso, solo che adesso votano anche loro verde. Non fatevi illusioni: verde Padania. La vecchia Stalingrado è diventata recentemente uno dei posti con percentuali più alte di voto leghista. Insomma il cuore ex operaio si è poi messo a battere in un altro modo, ma non è la transizione al socialismo.


4. Lapide caduti lavoro Sesto

Di fronte alla Breda, Ottieri si commuove trovando in mezzo a quella desolazione industriale qualcosa d’altro:   «In fondo alla strada resiste ancora una bellissima villa, ridotta a cascina, che ha il colore del mattone cotto e filtra l’aria romantica, di miele, delle antiche costruzioni di campagna»[2]. È l’antica Villa Torretta, villa di delizia campestre cinquecentesca appartenuta ad alcune delle più potenti famiglie nobili milanesi. Nell’Ottocento veniva a cercarvi rifugio dall’afa cittadina anche il Manzoni, ospite della famiglia Serbelloni-Busca, poi era diventata una semplice cascina, abitata da famiglie di contadini che coltivavano i possedimenti terrieri, oggi in parte rimasti verdi ed assorbiti dal tentacolare Parco Nord sviluppatosi ad ovest dell’edificio, mentre nella parte ad est i campi sono stati fagocitati invece dall’edificazione della grande Sesto San Giovanni novecentesca (arrivata a quasi 100.000 abitanti negli anni Ottanta). I campi sono stati consumati innanzitutto dalla crescita della Breda e di altre industrie, e poi dai nuovi quartieri residenziali adagiatisi intorno alle fabbriche. Nel 1903 la cascina viene acquistata dalla Breda, per farne dormitori per suoi operai, e anche i contadini che vi erano rimasti passano a lavorare in fonderia, ma senza abbandonare del tutto i campi, diventando cioè metalmezzadri. Nel 1963 la comunità di operai di origine contadina che abitava alla Torretta fonda una cooperativa edilizia che costruisce per loro case moderne in altra parte di Sesto, e così la ex-villa resta abbandonata. Oggi, finemente restaurata, è diventata il Grand Hotel Villa Torretta (che si pavoneggia della sua ripristinata loggia di tipo rinascimentale), sul confine municipale fra Sesto e Milano. Di fronte oggi si ritrova il Centro Commerciale Sarca separato dal Grand Hotel dal solo viale Sarca, che da lì si apre verso sud. Era il bordo occidentale della zona industriale della Bicocca, la via “di servizio” delle fabbriche. Chi quella Bicocca non se la ricorda, o non la ha mai vista, la può ancor oggi visitare – magia del cinema – rivedendosi il film di Antonioni “La notte” del 1961, che alla vecchia Bicocca è stato, in parte, girato.


5. VillaTorretta

La lunga scena girata alla Bicocca vecchia maniera è quella del vagabondaggio di Lidia (Jeanne Moreau), nella finzione moglie dello scrittore Giovanni Pontano (Marcello Mastroianni), che annoiatasi alla presentazione dell’ultimo libro del marito, fugge per vagabondare nella Milano in vorticoso processo di modernizzazione (è il primo film italiano in cui i personaggi si lamentano del traffico automobilistico) e poi si fa portare da un taxi proprio alla Bicocca. Antonioni, con la sua concentrazione assoluta sulle immagini (a cui funzionalizza le storie), ci offre così, in questo film, una preziosa testimonianza visiva della Bicocca di quel tempo, salvandola dalla distruzione-creativa degli anni.


6. La notte. Jeanne Moreau

Lidia girovaga in un miscuglio fra periferia industriale ed ex campagna: distributori di benzina, mura di cinta e cancellate, edifici produttivi, depositi a cielo aperto di macerie, campi oggi assorbiti nel Parco Nord (ma ancora riconoscibili) e spazi sterrati dove si scontrano bande di teddy boys. In inquadrature lunghe compaiono anche pezzi dell’apparato industriale: il CarroPonte, un serbatoio Breda, ed una infilata di viale Sarca in cui si riconosce la torre piezometrica. Originariamente serbatoio d’acqua al servizio delle varie industrie, costruita nel 1913 in forme storicistiche che richiamano una torre medioevale, è stata risparmiata dalla demolizione di tutto il resto ed ora fa parte del campus dell’Università della Bicocca e con il suo slancio di 45 m. si pone come punto di riferimento visivo e segno di continuità fra la nuova e la vecchia Bicocca.


7. Viale Sarca oggi, con torre piezometrica

La “rigenerazione” del vecchio quartiere industriale in un’area mista di zona universitaria/terziario/ricerca e spazi residenziali – il nuovo «centro storico della periferia diffusa»[3] secondo la felice espressione del progettista Vittorio Gregotti – ha programmaticamente salvato anche altri pezzi di apparato industriale come icone dell’epoca precedente, come vezzeggiate radici del presente potremmo dire: è il caso della ex torre di raffreddamento dello stabilimento Pirelli, ora incastonata nel cuore del nuovo centro direzionale Pirelli progettato dallo studio Gregotti, o del capannone Breda ora trasformato – lasciandogli la sua riconoscibile forma – nello spazio espositivo chiamato “Pirelli Hangar Bicocca”. O, ancora, di altri capannoni Breda, d’antico mattone lombardo, ora ristrutturati in sedi per aziende creative.


8. Torre di raffreddamento ora inserita all’interno del Centro direzionale Pirelli


9. Ingresso Pirelli-HangarBicocca


10. Padiglioni ex-Breda ristrutturati in sede di imprese creative

Alla fine Lidia telefona al marito da un chiosco di fronte alla Breda e gli dà appuntamento alla Torretta, ancora cascina scalcinata. Dove Pontano/Mastroianni se ne esce con un «è strano, non è cambiato niente qui», a cui Lidia/Moreau risponde premonitoriamente «cambierà, cambierà molto presto», che sintetizza l’ideologia del film, che a sua volta dà voce allo spirito del tempo.
Se viale Sarca finisce verso nord a Sesto con Villa Torretta, a sud raccoglie ancora dei pezzi della Bicocca d’un tempo. È ancora perfettamente conservato nella sua forma di città-giardino il Borgo Pirelli, anche se molto malandato, gestito com’è dalla agenzia regionale ALER, che non provvede ad un minimo di manutenzione. Si tratta di 27 villette a due piani (con 2 o 4 alloggi) attorniate ciascuna da un proprio piccolo giardino, fatte costruire allo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) dalla Pirelli subito dopo la Prima Guerra Mondiale, per i propri dipendenti “meritevoli”. Completa l’operazione edilizia pirelliana degli anni Venti il “casone”, una palazzina liberty di 4 piani che raccoglieva i negozi necessari al sostentamento degli abitanti, ed ulteriori appartamentini per operai. Al piano terra è ospitato il bar “Tempi Moderni”, che fra aria liberty dell’edificio e nome così altisonante – rafforzato all’interno da manifesti dell’omonimo film di Charlie Chaplin – si presenta come un’isola di antica modernità sopravvissuta ad un coetaneo quartiere industriale che invece è stato tutto cancellato.


11.Borgo Pirelli

In fondo al Borgo Pirelli, i “pezzi della Bicocca d’un tempo” stanno frantumati sotto uno strato di terra: è la collina (artificiale) dei ciliegi creata ex novo durante i lavori di rigenerazione del vecchio quartiere industriale, accumulando qui (dove era assolutamente piano), fino a 25 m. d’altezza, i detriti degli abbattimenti, ricoprendoli quindi di terra e piantumandoci sopra una parchetto alberato, punteggiato – come da nome – da alberi di ciliegio, che in primavera donano al luogo una delicata fioritura. Dalla cima, verso sud si domina la vista dello skyline di Milano, e sotto, ad est, quella della Nuova Bicocca con le sue sagome gregottiane squadrate, spigolose, ancora tanto razional-novecentesche.[4](così diverse dalle stupefacenze curvilinee della successiva Milano postmoderna, tipo Citylife o Porta Nuova. Tipologie edilizie di cui Gregotti dice che sono concepite come ingrandimento di un oggetto di design, dove non conta più nulla il problema dello spazio fra le cose[5]).


12. Collina dei ciliegi

Con le macerie degli edifici delle fabbriche è stato sepolto anche un pezzo di storia del movimento operaio milanese: gli operai Pirelli – ancora quelli della vecchia sede in località Brusada, dove ora c’è il grattacielo Pirelli di Gio Ponti –  avevano contribuito ai moti contro il prezzo del pane del 1898 (quelli repressi dalle cannonate di Bava Beccaris), poi al biennio rosso con l’occupazione della fabbrica – questa volta già quella alla Bicocca – nel 1920, infine agli scioperi antifascisti del 1943-44 e alla Resistenza, finendo, per il solo sciopero del 23 novembre 1944, in 156 nei campi di concentramento tedeschi. Pace all’anima loro, all’anima generosa del Movimento Operaio (la cosa ci può spiegare il voto verde dei sopravvissuti).


13. veduta aerea della Nuova Bicocca (foto presa dalla rete: http: www.urbanistica.unipr.itcomponentscom_jcustomnewsimgs432generale.JPG )

 

[1] Ottiero Ottieri, La linea gotica taccuino 1948-1958, Parma, Guanda, 2012, p. 76-78

[2] Ottiero Ottieri, La linea gotica taccuino 1948-1958, Parma, Guanda, 2012, p. 78

[3] Vittorio Gregotti, La pratica del progetto urbano nell’area metropolitana, in, Progetto Bicocca 1985-1998, Milano, Skira, 1999, p. 24

[4] «Siamo … ben consci dei debiti culturali che abbiamo volontariamente contratto con la tradizione del moderno ed in particolare con quella del razionalismo italiano. Un razionalismo del tutto speciale nel quale le cose migliori del movimento del Novecento hanno giocato una parte importante, sia per quanto riguarda la concezione figurativa dello spazio, sia per ciò che concerne la solidità architettonica del costruire» Vittorio Gregotti, Riflessioni del progettista in Trasformazioni a Milano. Pirelli Bicocca direttrice nord-est, Milano, Angeli, 2003, p.22

[5] https://www.youtube.com/watch?v=zxRbsoIDhbo , consultato nel: dicembre 2019

 

RASSEGNA FOTOGRAFICA

Didascalie delle fotografie (da sinistra a destra e dall’alto in basso):

  1. Facciata principale della Università della Bicocca, con opera “Chained”, di Borondo&Tresoldi
  2. 1. Passerella. Pirelli Bicocca (foto presa dalla rete);  15.2. Passerella ora fra edifici delle facoltà umanistiche dell’Università della Bicocca
  3. Viale dell’Innovazione
  4. Angolo di edificio universitario
  5. Torre della zona centrale mista
  6. Viale Piero e Alberto Pirelli
  7. Edilizia convenzionata
  8. Intreccio di livelli sovrapposti
  9. Congiunzione fra vecchia e nuova Bicocca
  10. Padiglione ex-Breda ristrutturato in sede di imprese creative
  11. Edificio ristrutturato per  Matematica e Scienza dei Materiali

 

NdR: tutte le fotografie – tranne le due indicate nelle didascalie – sono dell’autore del testo

 

Corsivo

2

di Sabatina Napolitano

Mi chiedi: rinuncia all’orgasmo
approvo senza sarcasmo
distante dal cieco furore
sovrano i miei piedi ai tuoi piedi congiungo.
Dalle caviglie alla nuca un confine un altro
dall’alluce alla bocca
il principio, la fame, la buca
lo sguardo nel centro
si blocca.

Antonio Porta, “La distanza amorosa”

*

Corsivo è mio e viviamo insieme.
(evidentemente non è una pura questione di calligrafia)

*

Tre anni dopo

I sensi del sonno sono nei dettagli delle conversazioni
di sera ho una insonnia modestia nella strettoia del buio.
Avevo già chiarito le oscillazioni dello spirito
avevo chiara una mappa dai diversi segni:
è solo che penso a come potrei esserti regina
in ogni mia nuova trasparenza aperta dal dolore
che l’immaginazione ha ricucito.
La tua carezza è mortale
ma il tuo bacio no, è denso d’altitudine.
Ma anche d’altitudine hanno parlato e detto
si distinguono i segni evidenti da quelli invisibili.

Da “MaternA”

17
Hélène Bessette (c)Eric et Patrick Brabant (sdp)
Hélène Bessette
(c)Eric et Patrick Brabant
(sdp)

[Finalmente posso ospitare la voce di Hélène Bessette su NI, e in italiano. Ora nessuno ha più alibi. E’ un’autrice straordinaria per quello che ha fatto del romanzo e della poesia. Sperimentatori e avanguardisti debbono consocerla, le scrittrici debbono conoscerla, chi vuol fare l’aggiornato deve conoscerla. La proponiamo grazie alla traduzione di Silvia Marzocchi e con una NOTA critica di Claudine Hunault. C’è anche una bibliografia italiana. Servitevi senza remore. a. i.]

di Hélène Bessette

Traduzione di Silvia Marzocchi

Roma 1970

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di Davide Orecchio

Avresti perso perché amavi la casa? Non si combatte il fascismo con la domesticità. Ma non sapevi fermare il tuo diventare borghese, che avanzava ogni anno come una malattia, come il tempo. Quindi anche questo era accaduto a te e al tuo partito, che col tempo non vi proletarizzavate, la profezia era smentita, siete andati nella direzione contraria, verso la proprietà delle cose. Ma gli operai di occidente cosa desiderano? Restare proletari oppure la proprietà delle cose? Te lo chiedevi nell’appartamento di Monte Mario, acquistato col prestito dell’ente giornalisti italiani. Nel quartiere della Balduina. Un piccolo regno di vecchi e nuovi fascisti. Qui i laterizi erano cresciuti sul monte come l’acne sul volto di un adolescente. Avevano colori sbiaditi dall’ocra all’avorio, e forme quadrate di geometria povera (di spirito). Ma ti adattavi alla vita e restavi comodo in questo cemento. All’ultimo piano della palazzina di edilizia cooperativa. Con l’ascensore. Col televisore Brionvega in soggiorno. Con lavatrice e lavastoviglie prese a rate dal fornitore compagno. Con lo studio e il terrazzo. Col bagno e il bagnetto.

Avevi la moquette rossa e il parquet (nella stanza da letto). I termosifoni di ghisa scaldavano poco, ma le pareti si annerivano del loro calore. Gli infissi di legno e le finestre di vetro magro non riparavano dal freddo d’inverno. Ma in primavera curavi la vite americana e l’alloro, il gelsomino e il limone. Hai preso due gatti e gli hai costruito una casa di lamiera in terrazzo. I due certosini si accoppiano e figliano. Sono prolifici. Erano i tuoi proletari. Sistemavi la prole presso colleghi e compagni. Non lasci orfani. Non abbandoni gattini.

Non pensavi troppo alla rivoluzione, a meno che tu non fossi in vena di storie fantastiche. Ogni tanto ti tornava la vena di storie fantastiche. Tra un racconto di James e uno di Poe, tra uno scritto di Lenin e uno di Gramsci. Avevi riempito la casa di libri. Con le tue sigarette ustionavi dappertutto i ripiani: venivano le macchie piccole nere come polpastrelli di carbone con la pancia all’insù, create dai mozziconi che scordavi sugli scaffali. Anche la poltrona comoda davanti al televisore ogni tanto sui braccioli si brucia. La usavi come luogo di meditazione. O forse di assenza. Fumi, bevi il tuo whisky a buon mercato allungato con l’acqua. Dimenticavi l’incandescenza e la cenere. Pensavi. Ma non so a cosa pensi. Forse a tuo figlio e a tua moglie in Sicilia. Forse alla vita che era arrivata a metà. Forse pensavi al partito comunista italiano. Forse pensavi al fascismo che torna.

Hai il conto aperto dal macellaio. Ordini la carne tritata per cuocerti le polpette e l’hamburger. Prepari anche le fettine panate, ammollate due volte nell’uovo e nel pane grattato. Lo stipendio era buono perché serviva solo per te. Non hai la patente. Esci e aspetti un autobus verde, che poi cavalcherà la discesa del viale sinuoso che abiti, fino a piazzale degli Eroi, fino al centro. È un viale interminabile e ripido. È l’arteria e la vena del monte. Ma quello che preferisci è il tassì, che ti porta in fretta alla redazione di via dei Taurini, tra l’università e San Lorenzo, dove il giornale s’è spostato da più di dieci anni. Anche il sabato sera prendi il tassì. Uscivi a cena con F.C. Come due scapoli, come due innamorati. F.C. non ha più la voce per via di un tumore alla gola. Ma non ha perso la voglia di cenare con te. A piazza Farnese, al ristorante La Carbonara. Coi supplì, con la cacio e pepe, col filetto al sangue.

Hai detto al diario: mangio troppi supplì e ho paura. Hai detto al diario che Roma «è sovraffollata per l’esodo di tutti i meridionali». Hai detto che ci sono i lumpen: «ex braccianti e contadini poveri sono passati all’edilizia col boom: questa è l’unica classe operaia». Hai detto al diario: «poi ci sono gli artigiani e i bottegai», poi «c’è l’enorme burocrazia parassitaria». Un milione di persone abita «in grotte, baracche e case malsane. Poi c’è l’enorme legione dei pendolari burini». Hai detto al diario che non si trovano soldi per «acqua, fognature, impianti di depurazione, ambulatori, ospedali, asili nido, scuole, impianti sportivi». Ma nascono case su case «e i romani si comprano l’auto. Centoventisei mila macchine nuove nel sessantanove. Ma ne esistevano già ottocento sessanta mila. In cambio: mortalità infantile paurosa nelle borgate». Hai detto al diario: «in Italia esistono tre milioni di bambini subnormali». Cosa intendevi con “subnormali”? Denutriti, non allattati, non curati, analfabeti? Hai detto al diario che Roma fa schifo. Potresti tornare in Sicilia da V. e M.? Non puoi. E non potrai più nella vita. Devi accontentarti di Roma.

Avresti perso perché avevi paura? Sognavi atti fascisti. Immaginavi il ritorno di Mussolini. Lui era morto ma le sue parole rientravano. In libreria hai trovato un volume pieno delle sue regole: “Citazioni. Manuale delle guardie nere”. Mussolini tornava a parlare. Hai letto: “per i fascisti la violenza non è un capriccio, è un deliberato proposito”. Hai letto che è “una necessità chirurgica”. Hai letto: “per me la violenza è profondamente morale, più morale del compromesso, della transazione”. “Per me”, per Mussolini, la sua voce di nuovo: la riconosceresti anche se si camuffasse nella voce di Gandhi. È lui. Indelebile. Nella tua coscienza. Ancora nei libri e nelle vetrine. “Per me, un deliberato proposito, la violenza è morale”. Per questo avevi paura e ti chiudevi nel letto. Mettevi le calze di lana. Vedevi le bombe e il macello. E ti accontentavi di Roma.

(da un lavoro in corso)

Overbooking: Andrea De Alberti

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Nota di lettura

di Romano A. Fiocchi

La cospirazione dei Tarli. L’universo di Don Chisciotte ( Interlinea edizioni) può essere letto come una biografia poetica di Cervantes”, recita la quarta di copertina. Non è così, va oltre. De Alberti fa come il Pierre Menard di Borges: assimila Cervantes al punto di essere Cervantes, di parlare con i suoi fantasmi letterari, di sentire l’assenza della sua mano sinistra (di cui perse l’uso durante la battaglia di Lepanto), di immedesimarsi nel suo alter ego, Don Chisciotte. Con una differenza sostanziale. Menard riscrive il Chisciotte tale e quale l’aveva scritto Cervantes perché Borges, nel parossismo della sua finzione, gli attribuisce una conoscenza così meticolosa dell’opera dello scrittore spagnolo che l’unico risultato possibile di una riscrittura non può essere se non quello dello stesso Cervantes. Menard non copia il Don Chisciotte, lo riscrive uguale. De Alberti, al contrario, interiorizza l’opera di Cervantes immergendola nel proprio mondo poetico e inventa un nuovo Chisciotte: il suo. Dirò di più. Borges ci racconta l’esperimento riuscito di Menard ma non ce lo mostra, e il solo parlarne diventa un racconto di Finzioni (1944). De Alberti invece ce lo mostra, e ci fa comprendere il suo obbiettivo: essere Cervantes – e quindi Don Chisciotte – nel XXI secolo. E, soprattutto, esserlo nelle vesti di poeta.

Al di là di queste considerazioni, la Cospirazione dei tarli è un’interessante raccolta di brevi componimenti modulati su un numero di versi liberi che varia da uno a sedici. Molte le analogie strutturali e stilistiche con la precedente raccolta di De Alberti, Dall’interno della specie (Einaudi, 2017). A cominciare dal numero identico delle sezioni – sei in entrambe le sillogi, tutte contrassegnate da numeri romani – e dal numero delle liriche: quarantasette nella Cospirazione, quarantanove in Dall’interno della specie. Ma se nella raccolta del 2017 tutto gira intorno al motivo del ritrovamento dello scheletro incompleto di Lucy e sulle conseguenti tematiche antropologiche, con un distacco marginale dal tema che varia da lirica a lirica, nella Cospirazione il testo assume una maggior compattezza, una levigatezza di stile, come se il poeta lirico evolvesse in un poeta storico, meno introspettivo, che non guarda più ai fenomeni sociali contemporanei ma conserva il gusto per la citazione più o meno velata e la sottile ironia. Pronta, quest’ultima, a sdrammatizzare e alleggerire il concetto stesso di poesia. Lo sottolineano due versi simmetrici posti come paletti a delimitare l’inizio e la fine della silloge: “Don Chisciotte è un po’ di noia sotto il braccio” / “Cervantes è un po’ di noia sotto il braccio”.

Pochi i casi i cui torna il De Alberti più triviale di Dall’interno della specie, uno in particolare va citato perché di formidabile efficacia: (…) “mi trasferii a Valladolid e qui fui incolpato di un delitto; / rimasi cinque anni schiavo ad Algeri, / ma nel 1605 uscì il Don Chisciotte. / Adesso andate tutti affanculo. / Gridai in una giornata di sole / con la faccia rivolta al soffitto”. C’è poi tutta la serie di personaggi che il lettore del Don Chisciotte di Cervantes si aspetta di trovare: il buon Ronzinante, Aldonza Lorenzo alias Dulcinea del Toboso, Sancho Panza con la sua euforica agonia, sino agli immancabili mulini a vento, ai sentieri lunghi e caotici della Mancha, alle greggi che diventano eserciti arabi, ai burattini che si fanno demoni. Perché “la realtà ha sempre occhi rotanti”.

La cospirazione dei tarli è un libro curioso anche nel titolo, che si rifà a un verso della lirica dedicata a Francisco Pacheco, pittore che ritrasse gli spagnoli più celebri ma che non riuscì mai a terminare il ritratto di Cervantes. Colpa del rumore che proveniva dalla tavola di legno piena di insetti: “Ci mise della biacca e poi iniziò. / Mentre dipingeva sentiva ancora / la cospirazione dei tarli nel legno”. Ancora più curioso che gli stessi versi tornino nell’ultima pagina, appena prima del catalogo della collana, mascherati in un colophon di forma triangolare.

Ma la chiave di volta è in un verso che è in realtà una citazione o forse, direbbe Eliot, un frammento con cui De Alberti puntella le sue rovine: “Non fare mai entrare uno scrittore nella stanza di un altro scrittore, / perché o sarà molto infelice, o vorrà subito sedersi a quel tavolino. / (Cees Nooteboom a Argamasilla dove Cervantes / fu imprigionato per non aver saldato un debito)”. De Alberti vi entra, si siede, e diventa Cervantes.

 

 

 

La miseria come forma di turismo

1
ph. Hannah Reyes Morales- tratto da "Il controverso fenomeno dello slum tourism", National Geographic
ph. Hannah Reyes Morales – tratto da “Il controverso fenomeno dello slum tourism”, National Geographic, 9.5.2018

di Ornella Tajani

In un romanzo del 2000 dal titolo Les belles âmes (Seuil), Lydie Salvayre mette in scena un’agenzia di viaggi, la Real Voyages, che vanta come fiore all’occhiello l’organizzazione di “reality tours”, avventure destinate ad anime belle e altoborghesi alla scoperta delle più povere e sordide banlieues europee. Il nome dell’agenzia rivela come in quei viaggi sia la realtà stessa a diventare esotica: i moderni turisti, a caccia del brivido dell’avventura, scelgono di abbandonare per una o due settimane il loro guscio abituale, immacolata proiezione di una città perfetta, e rivolgono l’attenzione a situazioni di estrema povertà ed emarginazione; il mondo stesso, problematico e imperfetto, è goduto esteticamente come un segmento di realtà marginale.
La prima tappa del tour nella «Europe des démunis» narrato da Salvayre è la cité des Sables, nella banlieue nord di Parigi:

Real Voyages (…) a prévu un programme à la fois vertical et longitudinal. Le programme longitudinal consiste à présenter aux touristes un échantillonnage varié autant qu’exhaustif des différents spécimens de pauvres. Quant au programme vertical, il conseille d’y aller progressif : d’abord les pauvres présentables, puis les moins présentables, puis les encore moins présentables, jusqu’aux épaves dont la seule vision vous dégoûte de vivre.

Real Voyages (…) ha previsto un programma verticale e longitudinale nello stesso tempo. Il programma longitudinale consiste nel presentare ai turisti un campionario tanto variegato quanto esauriente di diversi esemplari di poveri. Quanto al programma verticale, il consiglio è di andare per gradi: prima i poveri presentabili, poi quelli meno presentabili, poi quelli ancor meno presentabili, fino agli ultimi degli ultimi, fino ai relitti la cui sola vista ti fa passare la voglia di vivere. (Anime belle, trad. Luigi Carrozzo, Bollati Boringhieri, 2002; trad. mia per tutte le altre citazioni)

Il programma delineato prevede non un allenamento, ma un furbo climax ascendente di miseria, pensato nell’ottica di una strategia di marketing volta a non deludere mai il cliente; al termine del viaggio i turisti avranno contemplato un esaustivo panorama dei vari tipi e livelli di povertà e potranno rientrare nel loro guscio convinti di aver correttamente assimilato una porzione di altrove.
Per questo gruppo di «borghesi profumati e invasati di democrazia» è chiaro che la periferia è soltanto la piccola parte di un tutto: solida è la convinzione che la vita reale sia la loro, e quella che stanno visitando soltanto una bolla fuori dal mondo. Nel suo accorato discorso iniziale l’accompagnatore invita il gruppo a ispirarsi a Salomone e a reagire a quel che vedranno con un “cuore intelligente”:

Cette si belle Europe qui a prétendu offrir au monde l’image même de la perfection vous montre aujourd’hui, si j’ose dire, son derrière […]. En effectuant ce voyage dans les pourrissoirs de l’Europe, poursuit l’accompagnateur, vous avez opté courageusement pour une descente vers le réel. Car ce voyage, mesdames messieurs, n’est rien d’autre qu’une descente vers le réel.

Quest’Europa così bella che sostiene d’aver offerto al mondo l’immagine della perfezione oggi vi mostra, se così posso dire, il suo didietro […]. Compiendo questo viaggio nel putridume dell’Europa, prosegue l’accompagnatore, avete coraggiosamente optato per una discesa verso il reale. Perché questo viaggio, signori e signore, non è altro che una discesa verso il reale.

La realtà prevede una “discesa”, è situata in basso, negli Inferi, nell’esteticamente inaccettabile: se fino a quel momento hanno vissuto in una dimensione sofisticata e impeccabile, loro, turisti del XXI secolo, hanno deciso di vedere, di andare a conoscere la baudelairiana oasis d’horreur che racchiude la loro immagine: «Amer savoir, celui qu’on tire du voyage», recita lo scrittore Flauchet, un altro membro del gruppo, citando il padre delle Fleurs du mal.
Ognuno dei partecipanti ha il suo modo di fare i conti con la bruttezza che incontra, e che si era sempre rifiutato di guardare. Mlle Faulkircher pensa che si potrebbe suggerire a degli artisti di devastare artisticamente delle cabine telefoniche, di incendiare artisticamente delle automobili, il che darebbe una nota di colore in mezzo a tutto quel grigio e renderebbe l’ambiente perfetto per un rave. Flauchet trova nella banlieue un che di incredibilmente romanzesco. E, alla vista di un lucchetto spezzato, Mme Pite lo raccoglie «come se fosse un fiore», a mo’ di souvenir di viaggio.
È l’apoteosi del Kitsch. La realtà latita dalla vista dei turisti e ogni loro pensiero mira all’estetizzazione della miseria, che qui diventa «la migliore delle spezie»; bandita una forma di sincera conoscenza, essi continuano a crogiolarsi in quel «savoir blasé» e confortevole che si rivela essere un perfetto modello di ignoranza, dal quale l’apostolico accompagnatore spera di guarirli. All’interno del romanzo, gli unici che conservano una propria lucidità sono naturalmente gli abitanti della banlieue, come l’autista Vulpius, che si chiede quale desiderio contro natura, quale insana perversione, quale tendenza morbosa, quale aberrazione viziosa porti quelle persone a optare per dei paesaggi così tetri, laddove potrebbero permettersi di visitare il Taj Mahal o la piramide di Cheope.
Una volta terminata l’escursione fra le miserie francesi, cui è dedicato il primo giorno di viaggio, il gruppo si ritrova a cena, gravato dal compito di fare i conti con ciò che ha visto:

Petite séance collective de mortification en guise d’apéritif : manger au restaurant, soupirs, après tout ce qu’on a vu et entendu, soupirs, n’est-ce pas là une forme d’obscénité tout à fait insupportable ? n’est-ce pas une honte, tchin-tchin, à notre époque, de laisser perdurer ce malheur ?

Breve sessione collettiva di mortificazione a mo’ d’aperitivo: mangiare al ristorante, sospiri, dopo tutto quel che abbiamo visto e sentito, sospiri, non è forse una forma d’oscenità assolutamente insopportabile? non è una vergogna, cin-cin, che ai giorni nostri non si ponga fine a una simile disgrazia?

L’ironia dell’autrice diventa un’arma efficace con cui mettere in luce non solo l’ipocrisia, ma la strategia stessa che agisce in questi turisti Kitsch per eccellenza; in soli quattro passaggi il gruppo riesce a scrollarsi di dosso ciò che, non potendo essere direttamente estetizzato, è troppo faticoso da accettare. La prima tappa del processo, che si compie tra una forchettata e l’altra, è mortificativa; segue poi quella indignativa, in cui, oltre che di cibo, ci si riempie la bocca di mots gauchistes come giustizia, verità popolo; si giunge così al momento in cui si scarica il problema su fattori esterni, accusando il mercato delle differenze economiche del pianeta intero. L’ultima tappa è la più importante, quella autojustificative: c’è sempre qualcuno più colpevole dei partecipanti al tour, per l’esattezza chi non si degna neanche di conoscere mondi diversi dal proprio. «Nous, au moins, nous allons aux faits, aux faits qui ne peuvent mentir et qu’il n’est pas moyen d’esquiver. Satisfaction».
È questo, naturalmente, il lato più subdolo del reality tour: i turisti si sentono illuminati dal loro desiderio di conoscenza, si autoconvincono di essere diversi dagli altri, di aver bucato la bolla in cui vivono, i cui confini, al contrario, vengono rafforzati proprio dall’escursione nel mondo della miseria. La felicità di sapere che le periferie restano ben lontane dal loro universo quotidiano si mescola alla soddisfazione per aver “visto” cosa c’è fuori, per aver voluto sapere; al termine del viaggio ciascuno potrà rapidamente ritornare al proprio confortevole chez soi, dato che «la pauvreté c’est comme l’alcool, il ne faut pas en abuser».

 

Negli ultimi tempi ho ripensato spesso a questo romanzo, evocativo di forme di turismo contemporanee. In un articolo dello scorso aprile apparso su Internazionale, Rafia Zakaria propone una panoramica su alcune recenti attrazioni turistiche in India: le bidonville di Mumbai, dove si osservano affascinati i gruppi di persone che frugano tra i rifiuti; i siti particolarmente inquinati o tossici; le prigioni ancora attive; e, ciò che forse è l’apice del godimento della miseria altrui, gli orfanatrofi, dove si può fare un giro tra le file di bambini desiderosi d’essere adottati.
Zakaria definisce questo nuovo turismo come “oscuro”, tessendo solo inizialmente un paragone con l’apertura ai visitatori dei campi di concentramento, all’indomani della seconda guerra mondiale: lì l’obiettivo era permettere di tenere viva la memoria storica, mentre

il turismo oscuro di oggi ha una finalità completamente diversa. Non esiste alcuna verità storica o consapevolezza empatica da trarre nella visita a una baraccopoli, nell’osservare inebetiti delle vite distrutte dall’immondizia, dalla povertà e dalla mancanza di gabinetti degni di tal nome. Al contrario il turismo oscuro si basa semplicemente su un rovesciamento della formula del turismo più tradizionale.

[…] Le persone che osservano i loro simili rovistare tra i rifiuti delle bidonville traggono sollievo dal non dover essere ridotte a oggetto di quei tour turistici.

Certo, il godimento (mascherato da “forma di conoscenza”) si basa sul confronto, ma in queste forme di turismo c’è forse qualcosa in più: c’è l’idea di esperire il mondo della miseria come diversivo, come vero e proprio divertissement. «È stata questa la più grande innovazione fra tutte – conclude Zakaria – […] “divertirsi” non significa più vivere dei bei momenti, ma semplicemente guardare altri mentre vivono momenti terribili»: guardarli, sì, e mettersi nei loro panni, solo per qualche giorno. Come sarebbe essere poveri? Esistono offerte turistiche in grado di offrire questa esperienza a chi povero non è?
A Napoli, da un po’ di tempo a questa parte, a seguito della massiccia ondata di turismo, una nuova attrattiva è costituita dal soggiorno nei “bassi”, cioè i monolocali situati al livello della strada, solitamente piccoli e bui. Non sono pochi ormai gli annunci presenti sulla piattaforma Airbnb che li propongono come alloggi, descrivendoli di volta in volta come “caratteristici” o “tipici”: «Questo tipico basso napoletano – scrive uno degli hosts nel suo annuncio – […] è adatto a chi vuole fare una vera esperienza da vasciaiolo (tipico abitante del basso)». La fantomatica “autenticità” è il valore aggiunto del soggiorno nel basso, sulla scia di quel «Live like a local» che costituisce lo slogan dell’azienda.
Fare un’esperienza in un basso significa, in breve, calarsi in una condizione di disagio, dato che si tratta di monocamere con scarsissima luce e una porta che apre direttamente sul traffico (umano, meccanico, animale) della strada. Oggi, a pagamento, ci si può dormire o anche soltanto cenare: in un articolo di NapoliToday, ad esempio, che si apre con una citazione delle crude descrizioni di Matilde Serao in Il ventre di Napoli, è presente una lista di «ristovasci», in cui provare «un’esperienza unica e indimenticabile, fatta di tradizioni, leggende e sapori della cucina popolare». L’origine storico-sociale dei bassi si diluisce in un folklore confuso, in cui la tradizione napoletana si mescola a un’idea di povertà utilizzata come accessorio estetico, come trovata goliardica.
Non è una novità: la miseria come forma di turismo è ormai da anni l’oggetto del cosiddetto slum tourism, che si tratti di favelas brasiliane o delle baraccopoli di Città del Capo. L’idea delle agenzie che propongono questo tipo di tour, come la Reality Tours and Travels, è naturalmente quella di «raise awareness about life in slums and simultaneously raise funds for local community projects», poiché spesso tale tipo di turismo si accompagna a più o meno presunte sovvenzioni allo sviluppo della comunità locale. Ciò del resto racchiude una flagrante contraddizione, dato che, qualora tali comunità si sviluppassero davvero, cesserebbe l’interesse del reality tour. Senza contare che, come ricorda Zakaria e come descritto da Paolo Cagnan in un articolo su L’Espresso (in cui si parla anche di volonturismo, la formula che associa il turismo in zone di miseria alle opere di volontariato), a volte una realtà già triste di suo viene ulteriormente «aggiustata»: così alcuni dei bambini negli orfanatrofi non sono realmente orfani, ma «subaffittati» a mo’ di attori dalle loro famiglie indigenti.
Al di là delle comprensibili ragioni per cui una persona non abbiente finisca con lo sfruttare l’ondata di un simile interesse e s’inventi ciò che può per guadagnare un po’ di denaro, è l’approccio del turista, di chi paga per vivere tale esperienza, che si rivela cruciale. Melissa Nisbett, ricercatrice che ha studiato nel dettaglio la questione, spiega come questi reality tours contribuiscano a «normalizzare, romanticizzare e depoliticizzare» le ineguaglianze sociali agli occhi dei visitatori, distogliendo la loro attenzione dalla responsabilità che lo stato dovrebbe assumersi nei confronti delle fasce più povere.
Non sorprende, ed è anzi piuttosto intuitivo. Corollario di questa romanticizzazione degli spazi di marginalità è la creazione di finte baraccopoli in cui soggiornare, pulitissime e dotate di ogni comfort: soltanto il décor di lamiere e terriccio, per variare rispetto ai soliti hotel. Non sorprende: associando la periferia al simbolo romantico per eccellenza – la luna -, l’anno scorso Giusy Ferreri cantava nel tormentone stagionale: «Amore e capoeira/Cachaça e luna piena/Con me in una favela», come se questa fosse lo sfondo ideale di un’avvincente liaison estiva.

Carlo Selan. In fianco una vita

1

 

 

Ospito una selezione di poesie inedite di Carlo Selan (Udine, 1996), recentemente presentate in occasione dell’undicesima edizione di RicercaBo – Festival di Letteratura, Prosa e Poesia (Bologna, Palazzo D’Accursio, 30 novembre -1 dicembre 2019) grazie all’intervento di Sergio Rotino.

***

Sembra che ti stiano molto a cuore questioni epistemologiche. Un problema è l’incertezza dell’esistenza delle cose, che per esistere realmente hanno bisogno di essere ricordate, quasi incise, attraverso una continua rimodulazione verbale: è quanto accade spesso in Umana gloria.

Sì, è così. È tutto molto provvisorio in maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me, allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di cultura; mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniarne piccole parti.

(Tratto da un’intervista di Claudia Crocco a Mario Benedetti contenuta in Materiali di un’identità, Transeuropa, 2010)

 

I

«E la casa mi volava via nel prendere sonno.

Ero con mio fratello così distante dai nostri giochi

della palla, dell’aquilone, della canoa.

Era perché non poteva restare niente di tutto questo

che gli occhi facevano i matti. Sorpresi come uno stupido

a cui si dice «che cosa fai». […]»*

 

*Chi non capiva questi giorni o gli anni che capita

di domandarsi come passano e dove vanno,

si fa come un inventario per sentirsi con le mani,

ancora nevrosi e afasie, due appartamenti cambiati

e di come è stato bello anche crescere così.

 

Scrivere perché, come dire,

«un uomo guarda una casa, un ragazzo scrive di lui

che osserva una casa, un uomo entra nella casa

ma noi non c’eravamo, ce lo hanno solo raccontato».

 

Per come non sapevamo dire le persone

sembrava quasi non dicessimo niente,

sembrava, ecco, provavamo a spiegare

non ricordando mai ogni cosa.

 

Capivamo perché non si poteva restare.

 

Tu, invece, adesso dove sei? Hai conosciuto qualcuno?

E ora come va?

 

 

II

« […]

Il cielo gira verso Cividale, gira la bella luce

sulle manine che avevamo, che è stata la vita essere vivi

[così.»*

 

* Mi sei sembrata stanca, non so come dirti,

sfioravi soltanto e qui che si vive

mi sedevo un po’a lato nei marciapiedi

il cappotto usato, gli occhiali sporchi,

 

mi sei sembrata quando svegliarsi ancora

per il caldo a novembre, ancora soli, ancora ieri

e poi come guardarsi, il mio sguardo nel tuo,

e non volere partire. Non c’era un bisogno di pensare

queste poche cose e gli anni trascorsi,

capitava la casa nuova, l’appartamento,

non si sapeva spiegare.

 

Si stava come poco difesi

si diceva come quasi per scherzo

«è bello qui», «mi sembri invecchiato»

«forse dovrei bere di meno», «ricordati domani

di non fare troppo forte, ricordati,

se puoi prova a non svegliarmi».

 

III

 

«Sta solo fermo nella tosse.

Un po’prende le mani e le mette sul comodino

per bere il bicchiere di acqua comprata,

come tanti prati guardati senza dire niente,

tante cose fatte in tutti i giorni.

[…]»*

 

*È strano poi, anche le parole capitano,

succede che ad aprirsi il vuoto grande, la casa venduta,

dopo anni, dopo trovarsi, l’università,

succede che le cose finiscono, la vita un po’in fianco, sai

un po’distante, è non sapersi più capire.

Manca la voce anche, manca la voglia,

manca chi ti guarda aspettare la fila

alla cassa di quel supermercato,

il giorno dopo sapeva di pace finalmente, di pace

ancora. Come lavarsi le mani, stavolta,

con gesti lenti e raccolti, senza fretta,

sciacquarsi la faccia prendendo del tempo,

restare nel letto distesi in mutande

confusi, smarriti, non avere cosa dirsi.

 

IV

«Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,

vorrei perdonargli di morire, cosa fare.

A sapere bene forse potrei dire:

anche per noi una visione intera

con uno specchio sopra, con un cielo.

Mi tengo al suo sguardo perduto

così particolare, così solo,

senza romanzi, con il campo che non è un mondo.

 

Non so andare avanti. […]»*

 

*Poi se ti sembra ti spiego e si parla poco

perché distrarsi e dire o riprendersi e guardare

«sto guidando, chiamalo tu», chiama mio padre.

Non si ricorda, siamo nati noi e non si ha memoria,

questa cosa che sembra, come dire, tu mi racconti

tuo nonno teneva sempre la radio aperta in casa

a Olomouc. Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?

Qualcosa perdi e poi dici, si spiega e si lascia in fianco una vita,

ricordo sembravi con i capelli tagliati un po’corti di lato eri quasi

sembravi mostrando un sorriso.

 

NOTA AI TESTI

Prima ci sono state le tante e ripetute letture: Umana gloria e Materiali di un’identità di M. Benedetti, Frame Analysis di E. Goffman, La mémoire, l’histoire, l’oubli di P. Ricoeur, Sought poems di K. Silem Mohammad, Manifeste du Tiers-paysage di Gilles Clément, Rive di G. Frasca, Ficciones di J. L. Borges, After Lorca di J. Spicer, Esecuzioni di G. Nava. Poi, le cose fatte, i gesti guardati, il non sapere come dire tutto quanto.

Quattro dei componimenti di questa plaquette sono strutturati in modo tale da far dialogare due parti testuali differenti: una formata da stralci di poesie di Mario Benedetti contenute in Umana gloria (i versi con font 14 al centro della pagina), l’altra costituita da materiali scritti da me (font 11, inserita all’interno della pagina come in nota ai versi di Benedetti). Questa particolare forma grafica vorrebbe essere un tentativo di non porre al centro dell’attenzione del lettore il semplice fare esperienza di un determinato stare quotidiano, valorizzando invece i filtri culturali e intellettuali elaborati da altri (nel mio caso, Mario Benedetti) attraverso cui lo stesso fare esperienza di qualche cosa viene poi compreso, ricordato, capito e interpretato da chi lo vive. Spesso si è convinti di pensare ma invece si è solo depensanti, si è pensati dai concetti. È come scrive Benedetti: «Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti».

Street art e identità visive di Napoli. La parola alle immagini

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Francisco Bosoletti, Madonna dei Pellegrini
Francisco Bosoletti, Madonna dei Pellegrini

 

di Francesca Basile

Le sperimentazioni dei primi writer americani esplosero per sovvertire le regole di accesso legittimo alla parola in pubblico. D’altro canto, il muralismo ufficiale era già nato come espressione estetica a forte valenza ideologica per pubblicizzare la memoria collettiva della comunità, in opere grandiose destinate a spazi attraversati da flussi continui di persone. Oggigiorno, tali pratiche sono collocate in diverse cornici – street art, post-graffiti, style writing, urban art, public art – attestando le difficoltà nell’incasellare significati che risultano, per fortuna, ancora costantemente rinegoziabili. L’aura di fascino che avvolge questo fenomeno artistico universale e la sua stretta prossimità alla vita quotidiana attraggono in particolar modo istituzioni, associazioni e aziende pubblicitarie, diventando l’oggetto sempre più privilegiato di ricerche e dibattiti che spaziano dalla politica all’estetica.

Dalle sponsorizzazioni degli ingenti programmi di riqualificazione, avviati negli ultimi anni a Napoli, si rileva un atto di fiducia maldestro negli effetti taumaturgici dei progetti di street art. Tali iniziative hanno il pregio di animare sporadicamente contesti che vertono in stato di abbandono, ma per stabilire se si tratti o meno di pratiche culturali progressiste occorrerà preventivamente verificare se queste nuove identità visive di Napoli siano davvero in grado di innescare narrazioni visionarie, o se invece confermino la tendenza a una lettura convenzionale delle classi popolari partenopee, appiattendo ulteriormente gli originari impulsi sovversivi del writing. Senza dubbio, nonostante la retorica quotidiana che intride numerose testate giornalistiche, è ormai chiaro a tutti che l’arte urbana non può sostituirsi al welfare state contando solo sull’immenso potere delle immagini e su qualche workshop dedicato ai residenti. Una mano di colore sulle pareti di un palazzo fatiscente attira certamente sguardi distratti e configura la parvenza di un ordine apparente, ma tali effetti si annullano se le iconografie prescelte confermano, principalmente, la nostra ricorrente incapacità nel narrare il cosiddetto popolo di Napoli. Gli street artist, infatti, sono chiamati a confrontarsi con l’ardua trasposizione pittorica di una subalternità che ha scarso controllo sulle dinamiche di auto-rappresentazione e che abita luoghi in cui resistono modi di esistenza non uniformati a standard di vita e consumi, ove si fanno più evidenti le conseguenze degli odierni smottamenti socioeconomici. Si dovrebbe, pertanto, restituire la parola alle componenti più autorevoli del discorso: le immagini disseminate nelle strade della città. In definitiva, la verifica di eventuali effetti salvifici della pittura si basa prima di tutto sull’osservazione delle identità visive prodotte di recente, individuando quali di esse raccontano evoluzioni e involuzioni degli immaginari di Napoli. È questa una premessa fondamentale per accertare secondo quali logiche le produzioni di arte urbana s’inseriscono nella generale tendenza alla spettacolarizzazione delle periferie sociali. Nel dettaglio, disparate opere urbane paiono semplificare realtà metropolitane complesse tramutandosi in occasioni perse per una decostruzione delle narrazioni morbose, fondate sulle principali retoriche riservate all’alterità: il pietismo, l’esecrazione, il folklore. Per ascoltare la voce delle immagini può risultare utile la comparazione delle produzioni estetiche regolate dalle norme istituzionali sul decoro e sui tempi di realizzazione, delle pratiche artistiche antagoniste e dei murales, spontanei o commissionati dalla collettività, sullo sfondo delle rappresentazioni mediatiche che investono i diretti destinatari. Tali lavori artistici fanno luce sulle motivazioni di chi utilizza e contesta i vari cliché della napoletanità, tematica di ossessive disquisizioni, nuovamente deflagrate nell’attuale fase di boom turistico, nella quale si registrano numerosi meccanismi di brandizzazione delle multiformi fisionomie della metropoli.

 

  1. Parco Merola di Ponticelli. La pittura ‘esemplare’

L’organizzazione non profit INWARD – Osservatorio sulla Creatività Urbana ha curato la decorazione di alcuni edifici disastrati del Parco Merola di Ponticelli commissionando otto muralesbasati sull’interazione tra gli artisti e i residenti. Dal sito dell’associazione si apprende che le opere in sé non hanno importanza, affermazione compensata da slogan triti e ritriti: “il parco è un luogo dove la parola diversità non ha fatto e non fa paura, ma è una consapevolezza che conduce ad un arricchimento personale … la cultura è mescolanza e diversità, non qualcosa di chiuso e di autonomo”. Con tali suggestioni, non resta che prestare ascolto alle immagini. Lo sguardo dell’osservatore è assorbito dalle dimensioni spettacolari di opere di facile interpretazione nelle quali prevale l’impronta di uno stile mimetico delineante cristallizzazioni di volti e paradigmi esistenziali: integrazione, stabilità del nucleo familiare, bene comune, pedagogia, senso di appartenenza e ambientalismo. Le tematiche sembrano proiettate in fermo immagine sul cemento di colossali facciate che si configurano in veri e propri schermi/dipinti: l’osservatore si tramuta in un vero e proprio spettatore. Il volto innocente di Ael, la bambina rom dipinta da Jorit Agoch, si affaccia sulla desolazione della strada che costeggia il complesso edilizio, segnalando il parco all’esterno. Una pennellata lenticolare amplifica i suoi tratti umani, reiterati dall’espressione determinata che cattura e ipnotizza il passante. ‘A pazziella in mano ‘e creature di Zed1 mette in guardia dai giochi alienanti della contemporaneità: un joystick minaccioso troneggia su un malandato Pulcinella e un cavalluccio di legno spezzato. Sulla parete adiacente, colate di colore giallo e arancione delineano i ritratti fotografici dei residenti; la gamma cromatica selezionata da Mattia Campo Dall’Orto si richiama al valore della speranza insito nella cultura, riecheggiata nella porzione di murales in cui una ragazzina sfoglia Lu cunto de li cunti. ‘A mamm’ ‘e tutt’ ‘e mamm, a cura di La Fille Bertha, rappresenta l’eroicità delle madri del rione. Esse sono sintetizzate sotto forma di variopinte bamboline, versioni glamour della Madonna della Misericordia di Piero della Francesca. Je sto vicino a te di Hope è l’illustrazione fiabesca di ideali reti di solidarietà visualizzate nei ponti che collegano un mucchio di casette sospese nel cielo stellato. Chi è vuluto bene nun s’o scorda di Rosk&Loste, (realizzato con il contributo di Ceres Spa che ha organizzato un party inaugurale negli spazi destinati a un campetto ancora irrealizzato) è la trascrizione radiosa del valore della complicità, immortalata nei ritratti fotografici di due piccoli tifosi delle squadre di calcio del Napoli e dell’Argentina. Fabio Petani, invece, si distacca miracolosamente dalla simulacralizzazione dei cittadini dipingendo una pianta dalle geometrie astraenti, ossia l’oggetto di ricerca del botanico Aldo Merola. Infine, Luca Caputo universalizza l’idea di collettività solidale in Cura ‘e paure, anonime sagome monocrome riunite in gruppo. Il sito di Inward definisce così il graffito: “metafora di quello che desideravamo diventasse il Parco Merola che alla fine è diventato: una rete perfettamente collegata di abitazioni, il simbolo della cooperazione, della solidarietà tra persone con origini diverse”. Tali identità visive sembrano piuttosto imbevute di sfumature moraliste perché illustrano didascalicamente ideali buone condotte degli abitanti di Ponticelli. A ben guardare, i contenuti delle opere si fondano sulla contrapposizione bene/male a discapito delle stratificazioni culturali del rione. Aspetti meno rassicuranti dell’eredità storica del luogo, ad esempio il fallimento del piano per la città dei bambini, ma anche storie di vita inattese, sono assenti e lasciano spazio a una sorta di controcanto alle demonizzazioni indirizzate alle periferie. I ritratti dei ridenti scugnizzi intenti a leggere e giocare diventano emblematici se si riflette sulla polarizzazione mediatica che investe il complesso rapporto tra la città e i bambini dei quartieri popolari, solitamente narrati quali eroi del riscatto oppure delinquenti delle baby gang. Insomma, i residenti che hanno collaborato ai contenuti aspirerebbero a modelli ineccepibili investendo sé stessi di un’aura di eccezionale esemplarità, legittimando lo stato di emergenza del rione. Nonostante gli operatori di Inward dimostrino di essere in buona fede quando prendono le distanze dal concetto di riqualificazione sociale, il sospetto di retorica moralista atta ad assoggettare le identità popolari risuona nei video di presentazione del progetto, corredati di interviste ai protagonisti in carne e ossa, per lo più ragazzini – ossia coloro che hanno ben poca consapevolezza circa le proprie auto-narrazioni – i quali affermano, esitanti, di aver assimilato gli insegnamenti impartiti dai loro alter ego pittorici.

 

  1. Quartieri Spagnoli: estetiche della redenzione

Anche le tessere che compongono il logo #CUOREDINAPOLI convocano l’idea di rete intesa come metafora della solidarietà sociale e dell’evoluzione tecnologica, richiamandosi ai pixel e ai frammenti di un mosaico a forma di cuore rosso. Gli ideatori, i membri del corso di Nuove Tecnologie dell’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, puntano alla diffusione capillare del marchio e definiscono il programma “una scultura antropologica relazionale”. Le ultime due edizioni sono dedicate ai Quartieri Spagnoli: gli organizzatori e la stampa sponsorizzano i residenti con l’appellativo di “eroi inconsapevoli” che ogni giorno affrontano la propria “eroica quotidianità” invocando “una presa di coscienza rivoluzionaria”, conseguibile tramite un approccio consapevole al rione che fomenti il “senso di appartenenza del territorio comune”. In concreto, la vita dei vicoli ha lievemente beneficiato del viavai delle iniziative, l’invito alla presa di coscienza, invece, talvolta stride con le modalità di pianificazione delle stesse. Nel corso delle giornate dedicate a spettacoli e degustazioni, il percorso di realtà aumentata – ideato per favorire l’interazione con il contesto – non risulta avvalersi dei numerosi input incistati nelle mura secolari del rione. Nel dettaglio, alcune crepe dell’intonaco sono state semplicemente riempite di rosso, colore iconico del progetto, mentre una mappa virtuale offre strambi giochi di parole da correlare ad alcuni elementi dell’arredo urbano (ad esempio, un frammento della rete di copertura di un incavo dovrebbe richiamare un paio di calze a rete e un tubo fuori uso rimanderebbe a un periscopio). Perché, invece, non focalizzare lo sguardo sulle contraddizioni e sull’immensa ricchezza culturale dei Quartieri Spagnoli, riattivando, anche solo a occhio nudo, le storie che grondano dalle mura dei palazzi storici? Le fenditure del tufo citano il terremoto dell’Ottanta, resistono le persistenze dei risanamenti fraudolenti, delle millenarie metamorfosi della devozione, non sono spariti i fori per le stalle e le insegne delle botteghe di un tempo. Sopravvivono gli indizi del fallimento della rivoluzione di Eleonora de Fonseca Pimentel, le attestazioni delle contorte trasformazioni della camorra, mentre avanzano nuove forme di consumismo che stanno lentamente stravolgendo la fisionomia del quartiere. Dettagli ignorati che attestano il rapporto inesistente tra gli intellettuali e i residenti subalterni aggrappatisi alla ricezione improvvista del turismo. Insomma, in una zona che ricopre funzioni incoercibili per la città – quali la prima accoglienza di migranti, viandanti, studenti fuori sede e la tolleranza di illeciti per strategie omertose di controllo dell’ordine pubblico – gli ideatori del brand del cuore coraggioso e inconsapevolmente eroico del popolo di Napoli avranno preso coscienza delle sfumature polifoniche dei vichi e delle gerarchie che hanno calcolatamente frantumato le reti di solidarietà, oggi difficilmente ricucibili? Anche il duo cyop&kaf aveva selezionato l’iconografia del cuore quale sintesi visiva dei Quartieri Spagnoli, nell’ambito del progetto editoriale Quore Spinato (2013). Il simbolo dei duecentoquarantadue dipinti commissionati senza sovvenzioni dagli abitanti – dal 2004 a oggi – è una corona di spine dialogante con il Cuore Sacro di Gesù che campeggia sullo stemma che i due pittori hanno donato a un rigattiere del posto: il cuore stretto nella morsa degli aculei giace sospeso tra il tondo di un’ombra e le fiamme della salvezza. Per il destinatario l’oggetto assume valore apotropaico in quanto trasposizione immaginifica della rassegnazione psichica del fratello più giovane, un ex detenuto che si è trovato tra l’inconciliabilità dell’obbligo di una buona condotta e la tentazione di delinquere per necessità e desiderio di prestigio (stando a quanto il rigattiere ha dichiarato). In questa versione, dunque, il simbolismo della redenzione si combina ai mutamenti socio-economici e culturali della contemporaneità. Qui la narrazione eterodiretta del riscatto del popolo risulta maggiormente problematizzata poiché svicola dalla retorica dell’eroismo e del folklore. Può risultare interessante osservare, inoltre, che numerose associazioni presenti sul territorio imitano le operazioni di marketingdella povertà, già comprensibilmente strumentalizzati da alcuni abitanti per attirare il turismo nelle zone più interne del rione. In generale, una nuova ondata di installazioni (panni stesi appositamente per la campagna pubblicitaria del marchio SOLE), graffiti e poster art (icone partenopee come Totò, Sofia Loren, Maradona, Massimo Troisi) ricalcano proposte come il Vascitour, mediazione caricaturale e infondata della vita dei bassi. Si tratta di un segnale della resilienza di un quartiere che, secondo recenti studi di urbanistica, non è mai stato un ghetto in quanto assorbe i mutamenti della modernità trattenendo il passato. Sorge spontaneo chiedersi se la Fondazione Foqus, che ha sede nei Quartieri Spagnoli, abbia commesso un banale errore di distrazione nella recente propaganda del gemellaggio con il consolato spagnolo, inaugurato con la donazione dei ritratti pop di Don Pedro di Toledo ad alcuni commercianti del rione: un’azione artistica per “togliere a questa zona la natura di ghetto che ha sempre avuto e darle nuova vitalità”. Fattore ancora più inquietante, eppure non inaspettato, è che la storica resilienza dei Quartieri Spagnoli si re-inventi auto-spettacolarizzandosi tramite la strumentalizzazione maniacale di mezzi di riappropriazione dal basso, quali il writing e la street artdelle origini. I residenti del rione compensano una consolidata incapacità di auto-narrazione che trova sfogo nell’ostentazione di simboli partenopei ossessivamente ridipinti.

 

  1. Miti, martiri, popolo e sirene

In generale, il boom dell’arte urbana a Napoli è alimentato dai legami con la mitologia, la storia e i culti religiosi, oggetto e soggetto delle rielaborazioni grafiche di molteplici street artist. La prolificità dell’iconografia cristiana non sorprende essendo noto che la devozione popolare attraversa tutti i piani pubblici e privati, individuali e comunitari, lavorando come visione del mondo che si riflette nell’organizzazione stessa dello spazio urbano – fisico e simbolico. Il sacro è immanente in ogni aspetto della quotidianità e, conseguentemente, numerosi artisti urbani conducono ricerche di taglio antropologico indagando dogmi odierni e antichi dei napoletani, per cogliere le trasformazioni culturali dei quartieri popolari. In tanti riescono ad andare al di là della retorica delle classi ‘disagiate’: nelle loro opere abbondano strategie percettive stranianti, perseguite con deformazioni di senso dell’iconologia barocca. Ad esempio, il situazionista Ernest Pignon-Ernest, negli anni Ottanta, sceglie il periodo pasquale per incollare sui muri del centro storico premeditati disegni di corpi caravaggeschi pervenendo a processi di osmosi tra immagine e vissuto. Due stencil di Banksy attualizzano le iconografie seicentesche della beatitudine e del martirio offrendo spunti di riflessione sulla deflagrazione del consumismo nei vicoli e sulle origini della criminalità. L’argentino Francisco Bosoletti impone uno sguardo ‘tecnologico’ sulla tradizione storico-artistica riproducendo, nei Quartieri Spagnoli, la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio nei pressi di un’edicola votiva e decorando la parete di un palazzo fatiscente con uno spettacolare rifacimento della Pudicizia velata di Antonio Corradini. Entrambe le immagini sono al negativo in modo che la versione originale sia visualizzabile tramite l’obbiettivo fotografico. Il graffitista, inoltre, rivisita filologicamente la leggenda della sirena Partenope, per il quartiere di Materdei, dipingendo una creatura marina priva delle scaglie della coda e ammantata di piume, come prescrive il mito originario. D’altro canto, Jorit Agoch, writerdi ultima generazione, talmente talentuoso e amato dal grande pubblico da poter essere definito il ‘pittore di corte’ della città, è l’autore di un gigantesco dipinto che ritrae il santo patrono incarnato nel volto di un carrozziere, icona del sacrificio del popolo. Jorit, inoltre, interviene su due edifici dell’edilizia popolare di San Giovanni a Teduccio con le effigi di uno splendido Maradona – ‘eroe divino’ e umano di Napoli – e del rivoluzionario Che Guevara, simulacro pittorico di residuali ideologie politiche. L’attenzione allo scivoloso concetto di popolo emerge anche dalle icone pop che l’artista napoletana RoxyInTheBox affigge sui muri del centro storico, apportando un tocco decorativo glam ai vichi; al pari dello street artist Blub il quale dissemina quaranta adattamenti subacquei di personaggi famosi proponendoli come modelli di grandezza da imitare e da esporre anacronisticamente nelle sale del MANN, con la scusa della causa ambientalista. Ancora nei Quartieri Spagnoli, cyop&kaf, pionieri del writing di matrice antagonista in Italia, dipingono trasposizioni criptiche e antiretoriche del Giano Bifronte, figura mitologica leggibile, a più riprese, tra le righe dei discorsi sulle cosiddette ‘due Napoli’, detonando rappresentazioni delle identità popolari maggiormente prossime al ‘reale’. All’opposto, accanto al pullulare di celebri icone partenopee, emerge una tendenza alla ritrattistica degli abitanti dei quartieri popolari, sempre sensazionalisticamente finalizzata alla rivalutazione delle zone degradate. Infine, i primi muralescommissionati dall’Assessorato al Welfare alle educative territoriali, nell’ambito del dispendioso progetto di rigenerazione urbana “Assafà”, hanno prodotto iconografie basate sui concetti di “trasformazione” “rinascita” e “ascolto”. Il programma abbraccerà tutti i quartieri di Napoli e spinge parecchio sul coinvolgimento di bambini e adolescenti (chiamati a entrare, in qualità di “scugnizzi” nel processo creativo), nel quadro della filosofia della giunta comunale che punta sulle pratiche di arte urbana intese come “collante sociale”. Queste e altre dichiarazioni ritornano nei discorsi di presentazione delle nuove identità visive urbane, confermando la vocazione al racconto epico dell’arte murale e l’incapacità di narrare una fetta della città che accetta fatalisticamente l’implementazione di progetti di saltuarie rigenerazioni del territorio. Nell’odierna epoca di boom turistico e di spettacolarizzazione delle periferie partenopee, tale fazione di Napoli, tra l’altro, sembra accontentarsi di narrare sé stessa attraverso auto-produzioni pittoriche pubbliche che diffondono immaginari partenopei via via più sdoganati e appiattiti.

È ancora presto per analizzare gli auspicabili benefici socio-economici che potrebbero derivare dalla street art. Eppure, si può già affermare che essa conferma l’inadeguatezza, da parte di associazioni e istituzioni, dell’approccio alla complessità delle periferie popolari. A riprova di quanto affermato, basti pensare che, nella Sanità, dalla contestazione del writing degli albori si è approdati al contest per il dipinto murale maggiormente rappresentativo della pummarola sulla pizza. Un potente mezzo di espressione creativa dell’alterità risulta ormai in gran parte riconvertito in attrattore turistico che intorpidisce, dall’alto e dal basso, le millenarie identità della metropoli partenopea.

©Pino Volpino, foto dell’autrice

L’isola che c’è. Laboratorio autobiografico in comunità

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Disintossicarsi dai pregiudizi sulle tossicodipendenze

L’isola che c’è – un laboratorio autobiografico in comunità è un libro che raccoglie l’esperienza di scrittura all’interno di una comunità terapeutica del pistoiese gestita dalla Coperativa Gruppo Incontro, pubblicato da SassiScritti nel luglio 2019. Contiene oltre ai testi prodotti durante il percorso, un saggio riferito alla metodologia e il senso di attività legate alla scrittura in contesti di sofferenza e disagio, a cura dei due psicologi che hanno condotto il lavoro.

Per avere copia del libro, o maggiori informazioni: info@sassiscritti.org

FLASHBACK

Il laboratorio si è aperto con un esercizio semplice ma essenziale nel suo appello alla biografia di ognuno dei partecipanti e al recupero della rispettiva memoria affettiva, invitandoli a stilare una lista di esperienze emotivamente dirompenti che potesse diventare un inventario a cui ritornare anche per i prossimi incontri. I partecipanti sono stati invitati alla rievocazione dei momenti principali della loro vita attraverso il concetto di flashbulbmemory, la memoria fotografica che a distanza di tempo ci ripropone il ricordo dell’evento e delle condizioni in cui si è verificato attraverso dettagli ambientali. È stato importante scegliere un tema alla portata di tutti, su cui nessuno non ha niente da scrivere, per abbattere sentimenti tipici di insicurezza legata a compiti presentati come “artistici” e spesso  accompagnati dalla credenza che li vorrebbero al di fuori delle proprie competenze e aspirazioni. È stato come sollevare un velo disposto sul forziere di dati ed emozioni autobiografiche dei partecipanti. Se questo incontro è servito a predisporre un inventario del forziere, nei prossimi incontri l’obiettivo sarà riprendere quegli oggetti dimenticati e interrogarne le potenzialità latenti.

Musica in sottofondo: “Nocturnes”, Frédéric Chopin

GARY

  • A casa con mamma, ed eravamo solo io e lei, portò a casa una bambina chiamata H. Io avevo quattro anni.
  • Giocavo in cortile e mamma e papà mi chiamarono dalla porta di casa e in sala mi dissero che ero stato adottato. Avevo undici anni.
  • Avevo fatto bene all’esame di terza media ma mamma e papà parlavano di mandarmi in collegio. Ero terrorizzato dal collegio. Avevo tredici anni.
  • Ho finito gli esami di “O Level” in Zimbabwe e come premio papà mi ha comprato un biglietto d’aereo per Milano, per stare con la zia e la sua famiglia per un po’.
  • Sono tornato in Zimbabwe e mamma e papà mi hanno fatto sapere il perché. Mi sono comportato molto male mentre ero ubriaco. Avevo sedici anni.
  • Sono stanco dell’aria cattiva che respiro a casa. Sono pieno di rimorsi e la notte continuo ad avere lo stesso sogno. Sabato mattina andai in cima al palazzo e mi buttai.
  • Quando ho deciso di smettere l’università. Stava andando tutto bene finché N. mi ha lasciato e sono caduto in una depressione alcolica.
  • Credevo di avercela fatta, stavo lontano dall’alcol, avevo lavoro, moglie e casa quando mia moglie perse il nostro bambino. Ancora oggi è un dolore molto forte.
  • Quando ho comprato casa con mia moglie.
  • Quando mia moglie mi ha detto che mi lasciava.

MICHELANGELO

  • Al mare con mia madre e mio padre da bambino, ero felice.
  • Le grandi amicizie con F. e A. quando facevo le elementari.
  • Voglio un fratello/sorella e i miei genitori mi donano una sorella, G., quando avevo nove anni.
  • La passione per l’arrampicata sportiva e gli intensi allenamenti e le gare all’età di 14 anni.
  • La sperimentazione delle droghe leggere e l’amicizia con due persone del mio paese A. e M. a 15 anni.
  • L’uso di eroina insieme al mio primo grande amore A.
  • Gli studi all’Università dell’Aquila, serate straviziate e vita indipendente.
  • Poi, la conoscenza di A., la scoperta dello psicofarmaco e l’inizio dell’abuso di Rivotril.
  • Conosco S., il mio più grande amore.
  • Il primo arresto per droga, il carcere.
  • La comunità ad Assisi dal 2010 al 2012.
  • Torno a casa dai miei, mi laureo e trovo lavoro.
  • Poi mi trovo una casa per conto mio e convivo con S., passando un periodo molto felice, ma sempre più colmo di sostanze.
  • Perdo il lavoro, mi arrestano di nuovo, il mio mondo fantastico crolla totalmente.
  • Dopo un po’ entro in comunità a Pistoia.

ANTONINO

  • Sono nato in casa. Mi ricordo poco della mia infanzia. Mia madre e mio padre per motivi di lavoro non li sentivo vicini. Mi ricordo che stavo con il padrino senza ricevere nessun affetto. Che ricordo? Mi ricordo solo quando facevo la pipì a letto e mi sgridavano.
  • Poi all’età di sette anni mi sono trovato in collegio con le suore. Non ricordo nulla dei momenti particolari, solo quando la suora mi ha frustato con l’ortica. Poi vennero mio padre e mia madre a prendermi in collegio. La cosa più bella che ricordo è che c’era un lago grande e mio padre mi portò a fare un giro sul motoscafo. L’ho anche guidato. Bellissimo.
  • Poi mi sono trovato in Germania con tutta la famiglia. Avevo otto anni. Sono andato a scuola non capendo nulla della lingua, ma piano piano sono riuscito a parlare il tedesco e scrivere e fare amicizia con i miei compagni di scuola. Per la prima volta ricordo di avere un amico con cui passare la giornata. Mi ricordo che si prendeva la funivia e si mangiava il pollo. Bellissimo.
  • Poi all’età di nove anni mi sono preparato per fare la comunione. Non ricordo nessuna emozione con i miei amici. Ma ricordo che ero contento di fare la comunione. Mi sentivo accolto. Bellissimo. Il giorno in cui dovevo prendere la mia prima comunione non ci sono andato perché mio padre aveva deciso di partire per l’Italia. Non sono riuscito a dirgli nulla. Vedevo mia madre silenziosa e così non ho fatto la comunione, piangendo. Lasciando tutto, scuola e amici.
  • Poi arriviamo in Italia. Io non ricordo molto. Sono confuso. Non avevamo casa, so che dormivamo sul furgone con la frutta e la verdura. Lavoravo il giorno. Mi ricordo di un signore che mi ha fatto una foto in mezzo alla frutta in bianco e nero. Ce l’ho ancora. Ero a Firenze.
  • Poi all’età di dieci anni mi ricordo che si occupava le case. Mi ricordo che sono stato a Campi Bisenzio (Firenze) e all’Osmannoro. Nessun alloggio fisso. Poi abbiamo trovato una casa fissa a Ponte di mezzo. Una casa vecchia.
  • Poi dovevo riandare alla scuola. Io non capivo bene l’italiano. Parlavo solo tedesco e siciliano. Ero in quinta elementare. Mi ricordo che dovevo rifare la prima elementare. Mi sentivo molto a disagio.
  • All’età di 16 anni mi sono fatto degli amici con cui si stava al bar a giocare a calcio balilla. Poi la domenica si andava a ballare al Poggetto. Lì ho conosciuto la ragazza della mia vita. A quell’epoca mi facevo le canne. Si rideva, si scherzava. Ero felice, non pensavo più ai miei problemi di casa.
  • Poi il fumo non faceva più effetto e ho provato l’eroina. Ho provato a tirarla su di naso ma non era piacevole. Era amara e vomitavo in continuazione. Poi con il passare del tempo ci ho sentito un piacere più forte del fumo. Era molto rilassante e mi portava in un’altra dimensione tutta mia.
  • La mia ragazza mi stava sempre addosso. Poi ci siamo sposati quando io avevo 19 anni e lei 18. Le avevo promesso che smettevo di drogarmi ma non era facile. Ho provato ad andare in comunità di recupero di tossicodipendenza. Ma niente, non resistevo. Scappavo sempre.
  • Un giorno mia moglie era incinta di un bambino di nome G. La sua nascita mi ha cambiato la vita da tossicodipendente. Mi riempiva la giornata in tutti i sensi, sia affettiva che lavorativa. Nel frattempo mia moglie era felice e nell’arco di due anni è nata F. Una bella coppia. Mi sentivo proprio fortunato. Poi è arrivato il terzo figlio, un maschio di nome M.
  • In tutto questo noi si abitava a Prato in un negozio adibito a casa di 50 metri quadrati. Così abbiamo fatto domanda per la casa comunale. Abbiamo aspettato tanto. Nel frattempo è nata S. Eravamo disperati ma la cosa più bella che mi poteva capitare è che sono nati tutti sani nonostante io sia sieropositivo. Beh voi capite che per me era una rinascita.
  • Poi ci hanno dato una casa a Castelnuovo. Una bella casa vera con due stanze da letto, un bel salone, una cucina. Eravamo felici non ci mancava niente. Ci aiutavano tutti dai servizi sociali ai parenti.
  • Dopo ancora è nato D. Si ripresentava il problema della casa. Il comune non ci faceva stare più lì ma ci dava una casa più grande. Abbiamo lasciato quella casa con dispiacere. Abbiamo ricevuto una casa da 130 metri quadrati a Iolo. Poi è nata M. Non pensavo più alla droga. Siamo andati avanti così con il tempo.
  • Poi però si è ripresentato il conto della mia vita personale: da piccolo mio padre e mia madre non sono riusciti a darmi una sicurezza, una responsabilità, un’autostima della persona. Un vivere alla giornata, insomma tutte le cose che un bambino avrebbe bisogno di vivere. E così tutto questo era troppo grande per me da affrontarlo da solo e sono ricaduto non nell’eroina ma con la cocaina e il gioco.
  • Non potevo sopportarlo di rivivere la vita da tossico e ho pensato di uccidermi tante volte buttandomi giù dal balcone ma non avevo il coraggio di farlo. Mi è stato proposto di entrare in comunità. Molto scettico ho accettato e con tanta fatica grazie ai miei figli che si sono imposti ce l’ho fatta e sto bene.