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Di parole perdute e di crateri lunari

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di Luca Trifilio

A volte penso che, se non avessi fatto questo o quello, non avrei mai incontrato Marian. Ma il punto non è questo, vero? Cioè, avrei sempre incontrato Marian. La stavo aspettando. Non so se capite cosa voglio dire, ma Marian mi faceva sentire essenziale, salvo.

La conobbi il giorno in cui persi la parola Resta. Mi era già capitato con altre parole. Forse, ma non ci giurerei, la prima volta accadde con bua, un sabato pomeriggio al parco. Fu poi il turno di amico, che pareva troppo da femmine tra i compagni di scuola e quelli conosciuti d’estate. I villeggianti, li chiamava mia nonna. Non ricordo quando i villeggianti sono diventati turisti: nel dubbio, però, ho smesso di chiamare anche loro.

Vidi Marian la prima volta il venti di luglio. E come potrei dimenticarlo? Mancavano poche ore allo sbarco sulla luna, ma per me sarebbe stato un giorno come tanti altri, una montagnola di ore da abbattere, un po’ alla volta, fin quando non sarebbe rimasto più niente. Le immagino così, le mie giornate: un cumulo di sabbia che si forma mentre dormo e che ritrovo al mattino. Penelope disfaceva la tela di notte; io ho disgregato le mie ore ogni giorno.

Non avevo mai parlato con una straniera. Neanche con uno straniero, a dirla tutta. Marian era diafana, e non saprei cos’altro dire del suo aspetto se non che, quando si muoveva, tutta l’aria intorno sembrava vibrare, e dalla sua pelle irradiava una luce tale da far pensare che lei fosse un’apparizione. O forse, e non mi stupirebbe, ero solo io a guardarla così, incantato come se non si trattasse nemmeno di un essere umano, come se non facesse parte del mondo in cui mi muovevo anch’io. Come sarebbe stato possibile, poi? Io sgraziato e nerastro, lei capace di attirare sguardi e di generare meraviglia in virtù del semplice fatto che esistesse.

Attraversai la strada nelle mie ciabatte troppo piccole, diretto in spiaggia quando lei già tornava, irreale e fuori posto quanto me. E già allora avrei dovuto capire che eravamo fatti di opposti, che gli opposti a volte si completano e a volte non trovano il modo – ma proprio nessun modo – per potersi unire.

Era l’estate dei miei sedici anni, non avevo mai dato un bacio a una ragazza e quel giorno pensai a lei in maniera caotica, fino all’ora di cena. Era uso, a casa mia, che d’estate mangiassimo leggero a pranzo e a cena facessimo un pasto vero, come lo chiamava mio padre. Quella sera mia madre preparò gli spaghetti aglio, olio e peperoncino: il pepe macinato portava colori e odori che avrei cercato per il resto della vita.

Mia madre prese a tossire, portò una mano al petto cercando di aspirare aria. Il collo le si allungò fin quasi a spezzarsi e pensai, per un attimo di pura follia, che avrebbe continuato a estendersi fino a raggiungere il soffitto. Mi cadde la forchetta di mano quando mio padre la chiamò e lei cadde in avanti, la faccia negli spaghetti. Lui le prese le spalle per sollevarla: sotto l’occhio destro di mia madre c’era un pezzetto d’aglio, sul volto i granelli di pepe sembravano lentiggini dal colorito troppo intenso.

Chiama il 118, mi disse mio padre mentre io ancora masticavo. Non mi è rimasto alcun ricordo di quello che dissi nella cornetta bianca, ma l’ambulanza si portò via mia madre, di nuovo sveglia e sofferente, con un respiratore e uno sguardo terrorizzato fisso nei miei occhi. La bocca mi pizzicava per via del peperoncino quando salii in macchina con mio padre e seguimmo le sirene blu sul viale che costeggia il lungomare, mentre le persone si tenevano per mano, sceglievano un gelato, spingevano passeggini, guardavano il mare, senza farsi passare per la testa il fatto che a pochi metri ci fosse mia madre che non riusciva più a respirare e che io fossi talmente spaventato da essere calmo. Mi passò davanti agli occhi l’immagine della ragazza diafana, mi aggrappai a quei contorni indefiniti e surreali per cercare una via di fuga. Emerse in quei minuti la mia natura di codardo, e non avrei fatto altro che fuggire ogni singolo giorno, con l’ansia di dover distruggere, nel modo più indolore possibile, la montagnola di ore che mi era concessa.

Parcheggiammo al pronto soccorso, seguimmo la barella in un corridoio lunghissimo dalle pareti azzurrine e dalle luci pallide e mortuarie. Mia madre continuava a guardarmi, avrei voluto dirle di smetterla, di smetterla di star male e di smetterla di guardarmi in quel modo, di smetterla perché mi stava costringendo a legare tutti i miei ricordi giovanili a quegli occhi, mentre io avrei voluto legarli al tiramisù che preparava la domenica mattina e al grembiule a fiori rosa che indossava in cucina.

Le dissi di non andare via, senza pensarci, senza rendermene conto. Mio padre si fermò a guardarmi, lo notai con la coda dell’occhio perché la mia attenzione era solo per lei, per la donna che mi aveva messo al mondo alla quale dissi, in un sussurro, Resta.

Ma lei non restò. Se ne andò dopo poche ore. Complicazioni in seguito ad arresto cardiocircolatorio. Qualcosa del genere. Cose che accadono, anche se hai quarantuno anni e non hai ancora avuto tempo di dedicarti a tutte le cose che avresti voluto fare. Mia madre se ne andò il giorno in cui l’uomo posò il piede sulla luna e io vidi Marian, e quello fu il giorno in cui compresi – e credetemi, su questo non ho mai cambiato idea – che non c’è modo, nella vita, di ottenere qualcosa senza perderne un’altra. E non puoi mica essere sicuro che quella che ottieni valga di più di ciò che hai perso, oppure che resti. È uno scambio alla cieca, un azzardo puro.

Quella fu la notte in cui persi la parola Resta, che mi sarebbe servita una manciata di anni dopo: Marian aveva smesso di essere la figura eterea che aspettavo ogni mattina alle dieci, quando lasciava la spiaggia e la immaginavo rifugiarsi nel suo mondo incantato, ma era diventata una ragazza della mia età, col sogno di abbandonare la Polonia per vivere in Italia. Qui avrebbe voluto fare l’università, e trascorreva i pomeriggi invernali a studiare l’italiano, a cercare di leggere Buzzati e Volponi, ad appuntare su un quaderno tutte le parole nuove. E così i mesi passavano, io perdevo le parole, lei ne acquisiva sempre di più e riempiva ogni mio vuoto.

Ho rinunciato a tutte quelle che non mi erano servite, a quelle che avevo detto per sbaglio, a quelle che avevo detto troppe volte e che avevano finito per perdere di valore; ho smesso di usare le parole deludenti, quelle che mi avevano ferito, quelle con le quali avevo fatto del male. Ho cancellato dal mio vocabolario le parole che non mi piacevano e quelle che mi piacevano troppo, e mi ritrovo oggi a non poter dire quasi nulla, ma sapete cosa ho scoperto? Che ne servono poche, e che alla fine ce ne sarebbe stata una, comune e semplice, che avrebbe cambiato il corso della mia vecchiaia. Perché le parole sono rivestite del significato e dei ricordi che noi appiccichiamo loro addosso, con buona pace dei dizionari.

Avevo finito per convincermi del fatto che non mi servissero più, non ora che c’era Marian a riempire le mie vacanze estive e la cassetta delle lettere. La dipingevo di rosso il primo settembre, il giorno dopo la sua partenza, per far sì che fosse visibile per il postino. Non volevo che le lettere di Marian, piene di parole in italiano che io non usavo più, potessero andare perdute, che il postino non vedesse con chiarezza la cassetta postale della mia famiglia.

Non saprei dire se fossi un clone di mio padre a venticinque anni di distanza, ma anche lui ormai non diceva più un sacco di cose e mi sembrava perdesse pezzi ogni giorno; sopra ogni altra cosa aveva perso quel sorriso stanco che regalava a mia madre e a me la sera, quando tornava a casa dal pastificio. Eravamo fiori secchi entrambi, ma io sbocciavo ogni estate; lui non lo fece più, si estinse piano, e capii che stava finendo quando iniziò a farmi carezze impacciate: un gesto di debolezza, per uno come lui, al quale imparò ad abbandonarsi. Io dedicavo ogni domenica mattina a preparare il tiramisù di mia madre, la sua ricetta incollata con lo scotch al frigorifero. Erano identici gli ingredienti, le marche, le quantità, i contenitori e gli strumenti, eppure non veniva mai come il suo. Mio padre lo mangiava e mi diceva che ero diventato bravissimo, anche se la mano e le labbra gli tremavano.

Marian si iscrisse al DAMS a Bologna, perché aveva paura di Milano ed era intimidita da Roma. Nei piani di mia madre, io avrei dovuto continuare gli studi. Non capivo perché non volesse che seguissi le orme di mio padre: lui faceva un lavoro speciale, portava a casa la miglior pasta fresca che io abbia mai mangiato, e a me sarebbe piaciuta un’attività manuale che mi facesse dire, arrivato all’imbrunire di ogni giorno, di aver realizzato qualcosa che prima non esisteva. Mi iscrissi a Bologna anch’io, perché non distava molto da casa. E perché, naturalmente, lì avrei trovato Marian.

Marian riempiva le serate bolognesi di sogni, di film visti e di vicoli da scoprire. Preparavo il tiramisù, lei scriveva sceneggiature e ogni tanto veniva ad assaggiare la crema e a darmi un bacio sul collo. Aveva la capacità di farmi sentire necessario, perché se non ci fossi stato lei non avrebbe potuto sorridere in quel modo, e allora cosa si sarebbe perso il cielo!

Mio padre, nel frattempo, declinava rapidamente: si ammalò di assenza e si vestì di una vecchiaia precoce. Appese una corda al soffitto e furono i vicini a evitare il peggio. Dimenticò pezzi interi del suo passato, tutto quello che non poteva più sopportare. Ne parlai con Marian, lei mi strinse e in quell’abbraccio colsi la tensione vitale di chi non può rimanere imprigionato. Cosa vuoi che faccia?, mi chiese nel suo italiano pieno di congiuntivi ben posizionati. Resta, avrei voluto dirle, ma non potevo. E non potevo non solo perché non ero più capace di articolare quella parola; ma perché mi sentivo troppo fortunato ad avere Marian, e quando ci si sente troppo fortunati si è più propensi alla rinuncia.

Rinunciai a essere felice e all’università, rinunciai a lei. Mi disse che mi avrebbe scritto e che ogni tanto sarebbe venuta al paese, il mare le piaceva così tanto, ma le promesse sono fatte per avere significato solo mentre vengono pronunciate: un attimo dopo stanno già volando via, raggiungono la luna e si accoccolano sul fondo di un cratere dal nome impronunciabile di un fisico tedesco o di un astronomo russo. E lì, depositate e inermi, ci guardano ogni notte mentre noi, col naso all’insù, cerchiamo di trovare nel cielo le cose che abbiamo perduto.

Ho cercato Marian nelle interviste sui giornali, nella sala scura dell’unico cinema del paese, affondato in poltrone rosse che hanno ospitato i sogni e la noia di migliaia di persone. Ho provato a cercarmi nelle immagini dell’astro nascente del cinema mondiale, la regista polacca salita alla ribalta con un film malinconico e privo di speranza. Quando usciva un suo nuovo film andavo al primo spettacolo, guidavo per chilometri se necessario, e non ero soddisfatto se non memorizzavo ogni fotogramma. Smontavo e rimontavo le sue storie nella mia testa, cercando una traccia di me, anche flebile: un vezzo, un’espressione, una postura, una battuta di dialogo. Mi sembrava di vedermi dappertutto; finii per convincermi di non esserci, di essere stato dimenticato come la cassetta delle lettere vuota e arrugginita che avevo smesso di verniciare.

Lessi sui rotocalchi dei suoi due matrimoni falliti, riuscii a fingere un sorriso e ad augurarmi che fosse felice mentre la mia vita solitaria procedeva immota, divisa tra il pastificio e le domeniche mattina in cui non smettevo di preparare il tiramisù che, a volte, nemmeno mangiavo.

Pochi mesi fa, scoprii che aveva intenzione di girare un nuovo film proprio nel mio paese. Diceva di sentirsi pronta a tornare nei luoghi della sua giovinezza più spensierata e sognante. Avvertii una sensazione sopita da quell’estate del 1969 in cui lei era apparsa. Mi aggirai per casa inquieto, rimestando negli armadi e nei cassetti, rileggendo ogni sua lettera. E nel farlo cercavo di scovare tra le righe ciò che ero stato per lei. Mi allenai per tornare a essere il ragazzo che aveva amato, ma lo specchio rimandava immagini di un uomo cupo e senza nulla da raccontare.

Quando sono iniziate le riprese del film, ho preso l’abitudine di trattenermi nei luoghi in cui si girava, attento a non farmi notare: indossavo il fedora beige di mio padre e gli occhiali da sole, me ne stavo in mezzo alla gente certo che Marian non avrebbe potuto vedermi. Ma io, lei, la vedevo sempre. Sotto il sole di fine primavera faceva vibrare l’aria come cinquant’anni prima, come se il tempo avesse potuto incidere la sua pelle, ma non la sua energia vitale. Estasiato, rimanevo ad assistere fino a quando mettevano via l’attrezzatura e la folla di curiosi si disperdeva. Allungavo il collo oltre le recinzioni temporanee per scorgere qualcosa di me e di lei sui volti dei giovanissimi attori che, nella mia mente, interpretavano noi due.

Ieri sera, seduto in veranda con un bicchiere di whisky, cercavo di distinguere il mare oltre le luci della strada, e di ascoltarne i suoni. Le riprese erano finite nel pomeriggio, e pensavo che non l’avrei più rivista. Già mi ero pentito di non aver provato ad avvicinarmi a lei, ma poi un taxi ha parcheggiato di fronte casa.

È scesa Marian, si è stretta nella giacca leggera mentre la brezza le sollevava i capelli color cenere. Si è rivolta verso la mia casa, la casa di mio padre, e i nostri sguardi si sono incrociati. Lo abbiamo capito entrambi, nonostante i metri di distanza e le luci spente del patio. Ha sorriso, i denti luminosi sotto la luna piena, anche lei curiosa di assistere al miracolo.

Saliti i tre gradini della veranda, Marian si è seduta sulla sedia a dondolo. Io ho preso un bicchiere e le ho versato due dita di whisky allungato con acqua, ma lei ha scosso il capo.

Siamo rimasti seduti finché il vocio lungo il mare non è sparito; ma lei era lì, gli occhi incollati ai miei.

Poi, senza alcun segnale premonitore, abbiamo parlato all’unisono.

In quelle interviste, ho detto. Sai, ha detto lei.

Abbiamo sorriso, tenendoci legati attraverso gli sguardi, senza bisogno di altre forme di contatto. Una lacrima le è scivolata sulla pelle bianca. Si è alzata per andarsene, in silenzio, passandosi il dorso della mano sotto gli occhi.

L’ho guardata senza riuscire a dire l’unica cosa che avrei voluto. Nel panico, mi sono sforzato di pronunciarla, quella maledetta parola. Marian si stava allontanando e io stavo per perderla di nuovo

Ho preparato il tiramisù, sono riuscito a dirle di getto.

Lei ha fatto ancora qualche passo verso il resto del mondo, come se la mia voce non fosse più adatta a essere udita.

Poi si è fermata, e si è girata a guardarmi.

Ne mangiamo un po’ insieme?

Paolo Godani, o la salute nella febbre

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di David Watkins

 

 

Una strana musica lega i dolori che scandiscono la nostra vita alle nostre scoperte più gioiose. Non occorre scomodare chissà quale evento tragico per mettersi in ascolto e origliare l’esistenza di questo legame. Possiamo farne esperienza, ad esempio, ogni volta che buschiamo una brutta febbre. Sdraiati nel nostro tremore, esclusi dal traffico che avanza di là dalla finestra, capita talvolta di trovare nello stesso male che ci costringe a letto la grazia che ci libera dai nervi tesi del giorno, l’analgesico che scioglie il ritmo ansiogeno dei nostri desideri e delle nostre ambizioni. Se fino a ieri la smania di raggiungere questo o quel traguardo ci ronzava in testa come un imperativo categorico capace di riassumere in sé il grafico del nostro destino, adesso le nostre esigenze si aprono e si chiudono nel cerchio semplice di un respiro, del bicchiere d’acqua con cui ci bagniamo le labbra, dell’aria che facciamo girare nella stanza, del volto amico che viene a farci visita nel dormiveglia e con cui ci sembra di parlare. Tutto il mondo che siamo è diminuito e si è dilatato ad un tempo. Sentiamo allora una brezza attraversare il nostro torpore, una calma dimenticata chissà quando accomunare la febbre ai più bei giorni di vacanza. Non abbiamo tagliato nessun traguardo, abbiamo soltanto intravisto che non c’era nessun traguardo da tagliare. Magari le parole per dirlo, nel frattempo, sono venute meno, e la conversazione immaginaria che aleggiava a mezz’aria tra noi e il nostro amico è ormai svanita in un sogno, ma il nostro corpo ha già compreso che l’aldilà della febbre non è altrove, che la salute è anzi un certo modo di stare nella malattia.

Volessimo affrancare questa salute dalla contingenza che ce l’ha fatta conoscere, volessimo far passare questo vento calmo nella febbre meno evitabile degli ultimi secoli e dei nostri giorni, dovremmo leggere Sul piacere che manca. L’etica del desiderio e lo spirito del capitalismo di Paolo Godani (DeriveApprodi, pp. 159, euro 13). Non ci costerà molta fatica: è un libro agile nei suoi affondi, che scende nelle spirali del metodo genealogico per riportare in superficie soltanto ciò che gli è strettamente necessario, in uno stile limpido, capace di vibrare, una scrittura che è forse un primo sintomo di convalescenza, un primo modo, implicito ma concreto, di agire contro quella mancanza di piacere di cui essa stessa svolge la diagnosi.

Diagnosticare un’assenza sistematica del piacere nello stato di cose presente è infatti il gesto paradossale con cui questo bizzarro epicureo ci fa entrare nel suo giardino (“perché è forse solo alla luce di ciò che manca che si può acquisire la capacità di lottare contro il proprio tempo”). Riassumendo una tesi che nel corso del libro verrà declinata da diverse prospettive, diremo subito che il piacere che Godani non vede e di cui avverte la mancanza non è il piacere che deriva dalla messa in atto di un desiderio, né tanto meno il riconoscimento che appaga lo sforzo di una qualche ambizione; diremo anzi che se il piacere si è reso invisibile ai suoi occhi, è appunto perché esso è quasi interamente sommerso e, per così dire, asfissiato dalle dinamiche del desiderio e dell’ambizione che governano la nostra attuale forma di vita: “lo sforzo di diventare qualcuno, che nelle nostre società si presenta come un compito infinito, finisce per coincidere con il sacrificio della propria stessa vita. Non si tratta certo di una novità assoluta e anzi si potrebbe dire che il capitalismo come tale si fondi su questa logica dell’accrescimento fine a se stesso e dell’intensificazione parossistica del desiderio, ma il tratto di novità portato dal regime neoliberale consiste precisamente nel fatto che questa logica sia estesa alla vita nella totalità dei suoi esercizi.” Se per piacere intendiamo invece un’esistenza che fruisce se stessa senza asservire alcuno scopo né alcun imperativo, allora il piacere è il rimosso delle nostre società, è ciò che il nostro corpo, preso nell’“andirivieni bipolare tra eccitazione e depressione che caratterizza le nostre esistenze”, non può tollerare.

La diagnosi di Godani non si limita a rilevare e descrivere questa “nuova forma di nevrosi”, questa febbre del desiderio che dà alla nostra stessa vita la forma di un lavoro e di un compito da realizzare, ma si dirama in una “genealogia del desiderio nella cultura del Novecento” che, come ogni buona genealogia, lascia comparire in controluce la possibilità di un modo altro di vivere e pensare.

Un merito essenziale di questa genealogia è quello di far emergere il punto in cui la nevrosi che caratterizza le nostre vite e le principali formulazioni teoriche del secolo scorso stringono come una tacita alleanza. Rileggendo alcuni momenti emblematici sia della psicoanalisi sia dei suoi più ostinati avversari anche alla luce di ciò che essi non dicono, Godani vi osserva una medesima incapacità di pensare, dunque di sentire, un piacere che non sia subordinato al desiderio o al ritmo discontinuo degli avvenimenti che interrompono il decorso ordinario di una vita, ma che sia connaturato alla vita stessa, inscritto nel sentimento più elementare dell’esistenza, per quanto ordinario e discreto il suo decorso possa apparire. Che il piacere venga inteso come il “soddisfacimento, per lo più improvviso, di bisogni fortemente compressi” (come nel caso di Freud nel Disagio della civiltà) o come “l’interruzione del processo immanente del desiderio” (è il caso di un Deleuze che rivela, sotto questo aspetto, un’insospettabile “filiazione freudiana”), il discorso di fondo non cambia: in entrambi i casi, il piacere vi si appiattisce e si comprime nella figura di un esito subalterno, un momento puntuale che appare e scompare nella vita di un corpo, un’intensità che sopraggiunge soltanto in seconda battuta, come il fine o la fine, comunque l’eccezione, di un processo che in sé sarebbe pertanto privo di piacere.

Stringere il piacere nel dominio del desiderio, negare la sua indipendenza dagli esiti del processo, significa dunque imprigionare il senso delle nostre attività nella tristezza della logica strumentale. È contro questa logica e la tristezza che ne deriva che Godani recupera, immaginandone “un uso attuale”, le parole di Epicuro. Perché nulla è forse oggi più inattuale dell’idea di un piacere, com’è quello epicureo, tanto discreto da coincidere con l’atmosfera stessa della vita, nulla, forse, più inattuale di un pensiero che dica il piacere essere non l’accidente estrinseco di un’esistenza che desidera ma il fondo inamovibile di un corpo che sente e respira.

Il piacere che Godani ritrova in Epicuro non ha nulla di eccezionale, ma è tutto ciò che resta ovunque una vita non sia sottomessa alle sue opere, ogni volta che il respiro di un corpo non sia assoggettato alla logica dei mezzi e dei fini. La vita del saggio epicureo è oziosa nella felice misura in cui non consente al lavorio del desiderio di rendere impercettibile questo piacere di fondo, agli affanni dell’ambizione di soffocare questo respiro; immaginare un modo attuale di essere epicurei non vuol dire, allora, pensare il lavoro da una parte e l’ozio dall’altra, né irrigidire il piacere e il desiderio nelle polarità di un ennesimo dualismo che non avrebbe alcuna presa sulla realtà della nostra vita, né tanto meno recidere il desiderio nell’ebetudine di una noluntas schopenhaueriana; piuttosto, “riconquistare, pur in presenza del desiderio, l’idiozia o la beatitudine del piacere puro vuol dire revocare le finalità del desiderio – non per cancellarle, ma per goderne come semplici variazioni sul tema del piacere”. In una parola, essere epicurei oggi significa rifiutare non tanto il lavoro, quanto la forma di vita che il lavoro sembra implicare.

Di questo rifiuto, di questa possibilità di “piegare il desiderio al respiro” che lascia intravedere una via d’uscita da quella nevrosi che ci siamo abituati ad assumere come l’eterno sinonimo delle nostre esistenze, l’amicizia e la filosofia costituiscono forse l’esempio supremo, per la semplice ragione che né l’una né l’altra sarebbero possibili se il finalismo e la logica strumentale non ne venissero costantemente messi fuori uso. Ed è per questa stessa ragione che ridere e filosofare insieme – per citare uno degli ultimi capitoli del libro – non è soltanto il modo più gioioso di perdere tempo (il riso non è d’altronde la lettura più profonda di un pensiero?), ma è anche “una sfida politica rivolta contro la politica”, “l’affermazione di una forma di vita incompatibile con l’ordine sociale esistente e con il tipo di umanità che questo vorrebbe produrre”.

 

«Si tratta dunque di un libro pieno di speranza?»

«No, amico mio. Ma il tramonto inesorabile che facciamo vanto di essere ha già i suoi ottimi avvocati. È forse tempo di cercare parole buone a dire l’infinita vivibilità della nostra disperazione.»

E molto vi è oltre. Un saluto per Rubina Giorgi

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[Pubblico qui una lettera -come tentativo di saluto- per Rubina Giorgi, poetessa e filosofa venuta a mancare questa notte.]

Cara Rubina,

«Molto c’è da trovare, e di grande, e molto vi è oltre» dicevi con Hölderlin, e io non so come fare appello a questa vastità che lasci spalancata, e di cui tutta la tua vita è stata -credo- un formidabile indizio. Non è nostra abitudine scriverci a quest’ora, senza la chiarità della notte gonfia di frammenti, e di messaggi. Oggi, queste poche righe nascono gelate, fanno voto all’incompiuto, e io davvero non riesco a spiegarmi quanto respiro vien meno al mondo ora che d’improvviso mancherà una tua risposta. Tu mi hai iniziato alla legge del nutrimento, e del continuo “rivenire alla realtà”: perché ogni tuo capello era fuoco coperto, e la generazione della Vita è una lotta e un lavoro permanente.

Giacché non ci è possibile congedo, custodisco l’intima consapevolezza che la morte non ti è stata d’impedimento, e che soprattutto per questo ci è mancato un vero saluto: «Strano che l’angelo sia tacente? […] Bisogna avere un tempo pari, infinito».

Avrei voluto invitarti per un altro pancotto: lascio qui, invece, una cartolina da uno dei nostri incontri più felici, insieme alle righe che ci consegnasti quel giorno: «Il traino favoloso dell’amore è l’immagine. Se la nostra immagine dell’amato riuscisse a perdurare sempre in un modo vivido l’amore non avrebbe mai fine.»

La tua scienza amorosa non può trovare riparo nella finitudine: rimane ancora da far girare il mondo, da sbigottirlo.

Ti abbraccio forte,

Giorgiomaria

Overbooking: Titti Marrone

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Nota di lettura
di

Francesco Forlani
al romanzo La donna capovolta di Titti Marrone

Dei libri mi piace cogliere i segni che sono un po’ ai margini, ancora più dei ringraziamenti, come per esempio gli indici, la titolazione dei capitoli, l’esergo che apre o la citazione che chiude la narrazione, se ve ne fossero. Possono essere gli elementi grafici scelti per la copertina o più banalmente il contesto editoriale, l’anno di pubblicazione o, più semplicemente, il nome della collana. L’ultimo romanzo di Titti Marrone, La donna capovolta, è il frammento numero 69 di una collezione che per l’appunto si intitola frammenti di memoria.

Poiché non credo alle coincidenze, al caso e dunque al fatto che determinate cose non siano più di quanto non ci appaiano, mi sembra essenziale al racconto in questione l’evocazione attraverso il segno 69 di quella che particolarmente in voga negli anni della rivoluzione sessuale veniva definita  filosofia dello Yin e Yang, simboli spesso tatuati sul polso o su una spalla. Come molti ricorderanno questi due segni detti in Cina pesci rappresentano proprio il Tao, soffio materno del mondo, matrice di tutte le cose reali, e rappresentato  dal simbolo che ingloba i due principi opposti della luce e dell’ ombra, del sole e della luna, e via dicendo, agguerriti contendenti al gran gioco della vita e del mondo.

Prima di addentrarci nella storia ma solo quel tanto che basta per spingere voi potenziali lettori a varcare la soglia di questa casa-libro, estremamente accogliente, vi consiglierei di tenere bene a mente queste tre cose: memoria, teoria degli opposti e, soprattutto, poetica del mutamento come del resto ci insegna l’ I CHING, nella preziosa edizione Adelphi che molti di voi sicuramente avranno nella propria libreria.

La storia di Una donna capovolta è quella di una casa e come in una pièce di Yasmina Reza, attraverso un delicato susseguirsi di campo e controcampo, le due protagoniste Eleonora e Alina si alternano sulla scena madre di tutto il romanzo ovvero la condizione della mamma di Eleonora, che una progressiva e inesorabile malattia degenerativa sta consumando insieme alla memoria ridotta sempre più a frammenti slegati e alla deriva. Eleonora che è un’intellettuale, una femminista da anni impegnata in un corpo a corpo con le teorie di genere, si scopre d’un tratto poco attrezzata ad affrontare la realtà come certi sociologi che dall’alto delle proprie teorie si ritrovassero all’improvviso sul terreno e senza via di scampo.

Alina, quasi coetanea di Eleonora, è un’intellettuale moldava che il crollo dell’impero sovietico ha scaraventato oltre cortina per riuscire con un lavoro da badante a mantenere i propri uomini rimasti senza lavoro o come nel caso del figlio che vive in Spagna, talmente obnubilati dal meraviglioso mondo occidentale da non riuscire nemmeno a farsi carico del minimo sindacale dei sogni, ovvero di guadagnarsi da vivere durante il giorno. Una casa essenzialmente al femminile? Per lo più, come del resto ci dice Eleonora in uno dei suoi squarci di luce sulle cose:

Ormai posso dire di vivere in un mondo di sole donne. Nel mio corso di quest’anno non c’è neanche uno studente. I convegni a cui partecipo sono popolati unicamente di presenze femminili. Le rare volte che esco per svagarmi, andando al cinema o a mangiare una pizza, lo faccio in compagnia di poche amiche. In famiglia ho a che fare principalmente con mia figlia e con mia madre, mentre sempre più volatili e sfuggenti si fanno le figure di mio marito Paolo, di mio fratello Carmine e di mio padre. Gli amici maschi battono in ritirata oppure – codardi – si trincerano dietro la formazione della coppia, non mostrandosi in giro se non al riparo di mogli o fidanzate.

Per ricomporre le due voci monologanti all’interno della storia, Titti Marrone mette in scena una terza voce che lei chiama Loro e che scopriamo in realtà essere la voce ma soprattutto l’occhio che dall’esterno segue le vicende in atto fornendo al lettore la genealogia dei caratteri dell’una e dell’altra, dei loro tic e soprattutto della prossimità che esiste tra loro, loro malgrado. La tentazione del lettore va detto è quella di assegnare immediatamente una medaglia all’una a scapito dell’altra da fucilare sul campo per diserzione dai sogni e la funzione di questa voce narrante super partes è a mio avviso principalmente quella di trattenere il lettore dal farlo non privandolo in siffatto modo del ruolo di testimone del mutamento.

Un Loro dunque demiurgico molto diverso dal loro impiegato da Alina, affratellato al noi e loro di cui ci racconta per descrivere due mondi, un tempo separati dalla cortina di ferro e ora, proprio in quella casa, incredibilmente rovesciati nei rispettivi destini al punto che se tra dire e fare, di sinistra, c’è di mezzo il mare, possiamo senz’altro dire che tra  loro due c’è un oceano a separarle dalle rispettive rive.

Certo, nella nostra parte di mondo abbiamo fallito anche nell’utopia più imprendibile di tutte: il compito di “edificare l’uomo nuovo” che c’indicavano a scuola, nei raduni, nei roboanti discorsi pubblici. Ma io non scambio i nostri più colossali fallimenti con questa vischiosa ipocrisia mescolata alla vita di tutti, con la loro disinvoltura nel vendersi responsabilità dovute verso genitori e mogli per comprarsi la libertà di vite comode e svuotate di senso. Mio padre segui ogni momento della malattia di mia madre. Da medico le assegnava le terapie, vigilava sui suoi farmaci, da marito l’accompagnava un passo dietro l’altro senza pensare neanche per un momento di fuggire, scrollarsene il peso di dosso. Credo che gli uomini e le donne, da noi e da loro, siano proprio fatti in modo diverso. E preferisco mille volte il nostro.

Alina e Eleonora sono Yin e Yang, l’una è la parola, l’altra il silenzio che le serve a dissimulare l’intelligenza e la cultura, cose poco apprezzate nel mestiere della badante, scambiandosi i ruoli al passo veloce di una narrazione che Titti Marrone conduce con estrema maestria. La penna non induce mai al lirismo a cui molti autori della sua generazione post 68 ci ha reso avvezzi e anche un po’ allergici, ma facendo leva su dispositivi umoristici e caricaturali riesce ad affabulare il lettore con il suo teatro come quando ci vengono raccontate le vicende della famiglia in cui lavorava Alina prima di prendere servizio da Eleonora.

Se come troviamo scritto, sono tre i tipi di relazione che si possono spiegare in termini di Yin e Yang, ovvero di opposizione, d’interdipendenza e per finire di reciproca mutazione, La donna capovolta ci racconta proprio tutto questo. A libro chiuso mi ritorna in mente la scritta che sul finire degli anni settanta alcuni compagni avevano a colpi di vernice rossa composto sulla facciata del Liceo scientifico Armando Diaz a Caserta: ciò che non cambia è la volontà di cambiare, perché è vero, ed è un po’ la tesi di fondo del romanzo, che possiamo soltanto non volere ciò che siamo come quando Eleonora ci racconta la partita a ruoli invertiti con la madre:

Lei regredita nella penombra amara della vecchiaia, lei sospinta verso la mortificazione di pannoloni zuppi come quelli della neonata che io fui nelle braccia sue – che lei cambiava sorridendo, cospargendomi le gambette di talco –, dovrebbe poter ricevere dalla figlia adulta lo stesso naturale accudimento che venne riservato a me. Tu hai dato a me, io adesso darò a te. Chiusura del cerchio.

E chiusura di questa nota. Anche.

Post Scriptum

Quando ho esplorato le prime pagine del volume mi sono imbattutto in questa dicitura: iacobellieditore è un marchio di proprietà della società Trerefusi srl. Nel post ho deciso di lasciare tre refusi. Il primo che sarà in grado di ritrovarli avrà in regalo la mia copia del romanzo, magari autografato dall’autrice se ne avesse il tempo e la voglia.

 

Ritorno a Sarajevo

0

di Faruk Šehić

io non sono un uomo di Sarajevo

a Sarajevo
aprile è davvero il mese più crudele
dove si mescola fantascienza e orrore negli alambicchi dei corpi
gli spiriti sono sospesi nell’aria, gli spiriti della schizofrenia letteraria

Abitare le lingue

4

di Lisa Ginzburg

“Succede così anche per le lingue. Quando si è costretti a parlarne un’altra per molti mesi, come a me è accaduto, quando ritorni alla tua ti accorgi che la lontananza ti è servita per riscoprirla nella sua essenza più profonda. Si potrebbe coniare uno slogan divertente: ‘Studiate l’inglese, il francese, il tedesco per … imparare l’italiano’”. Goliarda Sapienza così scrive ne L’arte della gioia. Ben prima, Goethe aveva affermato qualcosa di simile parlando del suo amore per la lingua italiana: sposando stesso assioma secondo cui, un po’ come quando per conoscere qualcuno per davvero devi anche darti lo spazio e la distanza fisica e interiore per potere pensarlo da lontano, lo stesso accade con la propria lingua.   Distanziarsi in senso fisico e interiore aiuta a comprendere: affina i sensi, fa guardare e riflettere con maggiore attenzione. La lontananza è lente focale, il silenzio acuisce l’udito. Lontani, capiamo e apprezziamo tutto di più. Anche il nostro idioma.
Da quando vivo all’estero in pianta stabile, cioè da una decina d’anni, i miei rapporti con l’italiano mia lingua madre si sono intensificati e sentimentalizzati. Quest’anno a Parigi ho tenuto un ciclo di brevi conferenze dal titolo “Sillabario italiano”, riflessioni su particolari lemmi ai miei occhi particolarmente rappresentativi della peculiarità linguistica del nostro idioma. Nel preparare ogni intervento mi scoprivo a entusiasmarmi, commuovermi persino, per etimologie e curiosi percorsi glottologici delle parole – io abitata da moti d’animo partecipi ai limiti del patriottico, sommovimenti interiori che mai nel mio passato esterofilo avrei potuto nemmeno solo immaginare possibili in me. Emigrare, allontanarmi insomma sì, ha aumentato l’amore. Ma cosa succede con le altre lingue? Perché con ognuna ho il senso di intrattenere un rapporto diverso. E come il tutto si riverbera sul rapporto con la mia lingua?
Sui curricula scrivo di sapere cinque lingue e sono onesta quando lo affermo, non millanto. È vero, alla mia lingua madre se ne aggiungono altre quattro che parlo, alcune meglio altre peggio, tutte – è quel che conta – con l’orgoglio e la temerarietà un po’ incosciente dell’autodidatta. Non proclamo dunque un falso poliglottismo, né credo di vantarlo o sbandierarlo mai. Ne conosco tutta l’imperfezione: sono realista, tormentata da un senso di costante incompiutezza, perché avendo imparato da sola, l’apprendimento è lacunoso. Le sottigliezze della grammatica mi sfuggono, e scrivere mi è quasi impossibile. Il modo strampalato e raffazzonato con cui ho appreso a comunicare e parlare si traduce sulla pagina in maldestri tentativi, prove di un arbitrio compositivo troppo anarchico e del tutto fallimentare. La libertà audace di cui do prova nello scambio verbale, trasposta sulla pagina, è puro disastro.
Anche nelle due lingue che parlo meglio, il francese e il portoghese, lo scarto tra parlare e scrivere è abissale. E questo mi azzoppa, mi imbarazza, mai mi dà quella sicurezza “secchiona” di chi una lingua straniera invece la possiede perfettamente, forte di corsi e frequentazioni regolari di scuole e corsi avanzati con relativi diplomi finali. E il rammarico crea in me un inestirpabile senso di inferiorità. Altro che i poliglotti “veri”. Ormai a scrivere in altre lingue dalla mia non provo nemmeno.
Eppure del mio metodo di autodidatta vado fiera. Fatta eccezione per lo spagnolo, l’ultima lingua in termini cronologici che ho appreso, facilitata dal portoghese già acquisito e grazie a un biennio di rapporti di lavoro quotidiani con una équipe di ispano-parlanti, gli altri idiomi li ho imparati tutti nello stesso modo, usando lo stesso metodo. Leggendo romanzi e ascoltando musica.
Leggendo: ho ricordi di me attonita e incuriositissima davanti a pagine di Middlemarch di George Eliot. È estate, sono in campagna, il caldo mi ottunde mentre osservo quei fogli fitti di una prosa composta di periodi molto lunghi, pochi punti e tante parole incomprensibili. Il più vivido è proprio il ricordo dell’impressione visiva: quei blocchi di frasi sconosciute ma la cui sequenza anche graficamente già di per sé mi affascina, mi ipnotizza. Termini ignoti che si avvicendano, seguo il filo delle parole, leggo e rileggo, mano a mano colgo il senso di un paragrafo, poi un altro, ma mi distraggo continuamente, troppi lemmi mi sfuggono. Annaspo. Eppure è proprio da quella ignoranza sovrana, dominante, che la voglia di capire si farà strada. Una voglia testarda, tenace: di decriptare, non aiutata da vocabolari e dizionari, ma per comparativo / deduttivo procedere della mia piccola testolina, lei da sola.
In francese: “toutefois”, “car”, “souhaiter”, “apprivoiser”, “plenitude”, “l’arrosoir”. In inglese: “meanwhile”, “somewhere”, “feeeling”, “worst”, “despite”, “cosy”, “loneliness”. In portoghese: “agora”, “eu não sei”, “tomara que seja”, “leaozinho”, “madrugada”, “nunca mais”, “juba”. In spagnolo: “alma”, “espesura”, “amanecer”, “duerme”, “sin embargo”… Innamoramenti immediati, rapinosi, definitivi: tutti di natura puramente fonetica. Mi innamoro di parole, e la prima fascinazione, proprio come un primo amore, è viscerale, puro istinto, nessun criterio, non il minimo calcolo.
Metodo del tutto empirico e rudimentale che da allora, da quell’estate in compagnia di Middlemarch, uso sempre: a forza di comparare parole, giustapporle, raffrontarle, provare a decifrarle, incomincio a dedurre le lingue, poi a leggerle via via un po’ meglio, infine a parlicchiarle. Prendo insomma ad abitarle. In ogni lingua prendo dimora, e una dimora diversa.
“Abitare le lingue”: intitolai così un convegno che organizzai a Venezia nell’aprile del 2011, in veste di direttrice di cultura di un organismo internazionale oggi non più attivo, l’Unione latina. Si trattava di due giornate dedicate al tradurre poesia, ospiti poeti di diverse nazionalità. Per la brochure scegliemmo con i miei collaboratori una riproduzione del quadro “Storia della Torre di Babele” di Brueghel il Vecchio. Più che la torre, sghemba e massiccia in primo piano, mi colpiscono di quel quadro le figure umane sulla sinistra della tela: un gruppo di persone interdette davanti alla vastità di opzioni linguistiche, ma determinate a intenderle e a intendersi tra di loro. Si lavorava con i colleghi della Unione latina sull’intercomprensione, una forma molto funzionale di comunicazione nonostante ogni locutore si esprima nel suo idioma. Ritrovavo un filo con il mio amore adolescenziale per l’empiria dell’apprendistato linguistico, quell’intelligenza solo intuitiva che può condurre a un abitare personale e personalizzato, perché conquistato grazie a mezzi e strade proprie.
Abitare le lingue. Il tema continua a interpellarmi, mi riguarda da vicino. Abito ognuno di questi idiomi parlati “a modo mio”, ma soprattutto sono loro ad abitare me. Ciascuno risvegliando un lato della mia personalità, ho l’impressione.
Già. Ogni lingua mi vive dentro in una sua maniera, riecheggia toccando determinate corde e non altre. Parlo con me ad alta voce quando devo capire, sviscerare, e qualcosa fa resistenza allo scavo interiore, o quando sento l’urgenza di sdrammatizzare, di prendermi sanamente un po’ in giro. Allora, mentalmente o in più solenni soliloqui ad alta voce, mi servo di volta in volta di una lingua o un’altra a seconda dei frangenti dei miei stati d’animo.
Per capirsi: l’inglese è la lingua di un sentire delicato, poetico. Il portoghese la lingua del cuore per come parla a se stesso nella forma più diretta, non mediata. Lo spagnolo, l’idioma del vigore appassionato ma lucido. Il francese, lingua del ragionamento minuzioso, razionale sino all’esasperazione. E l’italiano… l’italiano, quando “parlo con me”, è in senso letterale lingua madre: lo uso per rimproverarmi o per aiutare me stessa a vedere quel che non voglio vedere, proprio come faceva mia madre la cui voce mi manca ogni giorno.
Anche se imperfetto, conquistato secondo traiettorie troppo personali per poter parlare di autentico poliglottismo, il plurilinguismo supporta e avalla la prismaticità del sé. Aiuta a essere contemporaneamente più nature, non una univoca soltanto. Argomenta la babelica coesistenza (civile) di sfaccettate parti di noi stessi, bisognose ognuna di esserci e di venire ascoltata. E conferma l’idea goethiana, poi di Goliarda Sapienza: che alla propria lingua si “torni” meglio dopo avere viaggiato tra altre.
Quando scrivo, cioè quando il mio rapporto con la lingua è più frontale, e intenso, e per me importante, allora abito esclusivamente l’italiano. Non credo cambierà. Lì è casa mia, e sebbene mi diverta ancora moltissimo a viaggiare, vagabondare tra altre lingue e abitarle, è a casa mia che voglio tornare.

Buone ragioni per leggere e scrivere

2

di Walter Nardon

«Perché leggere e scrivere libri?» Davanti allo studente che pone questa domanda, la tentazione di rispondere in modo tradizionale è irresistibile: allungare il braccio sullo scaffale, prendere con cura il libro giusto dicendo «Qui c’è già tutto», per poi mettere fine alla sua attesa porgendogli con gesto sicuro il volume poveramente rilegato, ma di insuperabile valore esemplare. Per quanto questa soluzione possa produrre esiti di inestimabile comicità involontaria, in alcuni casi, ad esempio se si tratta di Anna Karenina, risulta indiscutibile, ma fonda la sua efficacia sulla possibilità che l’allievo riconosca il valore della letteratura come qualcosa di evidente.

La gente non esiste

1

di Gabriele Merlini

Tra i refrain più in voga, avendo la sfortuna di trattare di editoria, c’è senza dubbio questo dei racconti (tirarlo fuori nelle conversazioni non è mai uno sport salutare, tuttavia tornarci potrà aiutare i distratti a orientarsi meglio, funzionando da pratico punto di partenza.) Riassunto: esisterebbe un diffuso, radicatissimo timore nei confronti delle short stories, delle raccolte, delle antologie. Motivazioni più che note: attirano poco, coinvolgono poco, vendono poco, sono difficili da classificare, in fascetta è un dramma, bisogna scovare un sinonimo accettabile di racconto («otto avvincenti romanzi brevi?») senza contare quanto vantino misteriosi poteri satanici grazie ai quali il lettore tende a smarrirsi, confondersi, incattivirsi. Viceversa è nostro dovere tutelarlo con malloppi lineari e omologati.

Per fortuna la faccenda è vera solo in parte, specie in questi tempi di fioritura di realtà specialistiche eccellenti e felici esordi; ma la costante ripetizione del mantra fa sì che qualsiasi uscita nel settore venga all’inizio salutata come un piccolo, fondamentale miracolo degno di stupore e sbigottimento.

 

«Ogni tanto tendeva a balbettare – lui diceva di essere insicuro,

ma a me piaceva pensare che lo facesse perché aveva

molto da dire, e la lingua, le labbra, la faringe, non gli stavano dietro.»

 

Secondo quest’ottica, dunque, Paolo Zardi avrebbe dalla sua la recidività essendo già autore di due libri di racconti (Antropometria e Il giorno che diventammo umani, entrambi pubblicati da Neo Edizioni) oltre alla produzione romanzesca (XXI Secolo è stato candidato allo Strega. Tutto male finché dura è uscito l’anno scorso per Feltrinelli). La verità è che l’ultima raccolta dello scrittore padovano – La gente non esiste, nuovamente con i tipi di Neo – finisce per essere una operazione riuscita sotto vari punti di vista e merita qualche approfondimento.

«Il 2015. Sembrava un anno impossibile da immaginare, allora.

Prima si doveva arrivare al 2000, la fine di un secolo, di un millennio,

e poi serviva ancora un’altra vita, lunga come quella che aveva appena vissuto.

Dove sarebbero stati nel 2015?»

Non saprei quanta consuetudine con altri autori di racconti italiani o stranieri richieda il libro per comprenderne i punti di forza (immagino poca, giustamente) però tra gli aspetti migliori parrebbe esserci la capacità di restituire chiare le influenze, reinventandole via via affinché risultino il più possibile aderenti alla contemporaneità cui siamo immersi. Ventisette quadri – numero che può spaventare, va ammesso – dalle differenti ambientazioni e protagonisti, esposti secondo una prospettiva personale e poco usuale. Scientifica attenzione ai particolari in apparenza secondari, ai dialoghi e le digressioni, focalizzandosi su quanto di epifanico possa nascondersi in ciò che riteniamo superficiale sbagliandoci di grosso. La quotidianità di individui (non gente: termine che grazie al cielo sta riguadagnando una propria tremenda connotazione) posti davanti le rispettive solitudini, inadeguatezze e paure. Plot nella norma lineari – i testi sono per lo più singole scene dissezionate da molteplici angolature – che restituiscono inediti istanti di scoperta e presa di coscienza e per il lettore, o quantomeno per il lettore che scrive questo pezzo, è curioso il processo di identificazione, di ritorno a un vissuto personale sovrapponibile più o meno con precisione alla situazione descritta: ricordi liceali mitizzati, una evacuazione aziendale, una spiaggia affollata che invita alla riflessione, fotogrammi di vita urbana conditi dal rimorso («quando finiva di lavorare, passeggiava per le strade di Milano, da sola, e guardava i giardini nascosti dietro i portoni imponenti di via Borgonuovo, le luci accese fino a tardi nelle finestre dei palazzi ottocenteschi di piazza Cordusio e non smetteva di immaginare cosa potesse significare avere una vita di successo»: qui temo Zardi mi abbia letteralmente pedinato).

Lo stile, alternando virate umoristiche, sarcastiche e cupe – bastano i titoli eterogenei per provare a farsi un’idea: Le sottili pareti del cuore unita a Le cyclette non vanno da nessuna parte – è misurato, funzionale al ruolo che sembra prefiggersi: indagare quanto ci circonda e farlo in modo diretto, senza veli. Pagine talvolta dure ma mai banalmente spietate come capita di incontrare in giro, più un diffuso senso di lievità: caratteristiche non frequenti da queste parti, dunque da accogliere positivamente.

Balcanica

4

di Filippo Polenchi (foto di Andrea Biancalani)

#1

I nostri compagni di viaggio ci introducono nel sonno. Un vecchio non respira, accanto a me, dall’altra parte del corridoio. Ha un vestito grande e marrone, le maniche di fustagno gl’inghiottiscono le mani. Solo la punta delle dita ballonzola in una fibrillazione ritmica. Il viso del vecchio è accartocciato, scuro, carta gialla da macelleria, da negozio alimentare disposto in curva. Quel viso non suda, non gocciola, non si bagna con la stessa patina oleosa che appiccica le nostre palpebre insieme, le fonde, finché non abbiamo più scelte che tener gli occhi chiusi e dormire. Nel volto del vecchio ogni sudore è assorbito dalla carta ruvida del suo epitelio. Ma il vecchio non respira. Ansima, fischia. Il suo petto si gonfia con parossismo, alla ricerca di aria in qualunque direzione: più in là di qualche centimetro c’è un po’ di ossigeno, basterebbe una molecola di ossigeno, un atomo, il piccolo dono dell’elemento, un’estrazione dalla massicciata della realtà. Cerca aria con la furia di una migrazione: sulle setole raspose del sedile un poco polveroso, nel vetro, nel sole alogeno che inchioda le ombre nel corridoio. La cerca più avanti, nel corridoio, nella piccola tv piazzata sopra il capo dell’autista, nel suo schermo muto e cieco.

#2

Dal mio diario:

“dopo 6 ore di bus siamo a Podgorica, sulla strada per Sarajevo. tutto questo giro per non passare dalla Serbia. la città sembra disegnata da De Chirico e colpita da una pandemia. nessuno in giro. città metafisica, tra Viareggio e una qualunque città russa. abbiamo mangiato un panino ripieno di pollo e verdure e ci ha serviti Sanya, una ragazza giovane e timidissima, con un grosso neo sul collo, che non sapeva nulla d’inglese. questo popolo si sta prendendo gli avanzi del nostro consumismo e li sta usando con la stessa ingenuità che avevamo noi negli anni ’60. quando inizieranno anche loro a fissare il buio? a Podgorica la vita inizia dopo le 17. pulviscolo di ragazzini, mamme, passeggini, biciclette, tacchi alti, zeppe, minigonne, ginocchia rotte, automobiline a motore elettrico che si riversa sulle strade, tra i cubi in cemento del socialismo reale.

cubi e volumi, case euclidee, desideri geometrici pensati e realizzati, alla Solaris.

tutto era così mentale che la città mancava di colore. c’era un’aria polverosa, una caligine gialla per le strade deserte. a Podgorica nessuno si sarebbe fermato di proposito; solo chi, come noi, ci capitava per caso l’avrebbe vista.

qui si beve birra Niksicko”.

#3

C’è un’aria da località di montagna. Fuori dalla finestra dell’albergo un caos quasi messicano: uno sferragliare di mezzi, voci, musiche planetarie. Fuori dalle stanze d’albergo, oltre il bazar, c’è il solito clima provvisorio di chi vive senza tante aspettative. Oggi mancavo. Mancavo e basta. Chiediamo a un tassista di portarci a Kolovice, perché a quanto pare c’è un monastero. L’autista è un ragazzo giovane, perlopiù biondo, con una testa come quella di un toro, poggiata sulle clavicole. Si vede immediatamente che non capisce nulla del posto che gl’indichiamo. Si consulta con un collega, uno più vecchio; ci stordisce l’odore di farina di ceci, di felafel, di spezie e soffritto d’aglio. Alla fine concordiamo un prezzo per 5 euro e partiamo, ma stiamo in auto per più di un’ora e per strada imbarchiamo due ragazzi che si fermano in un campeggio per strada (uno dei due ha le grucce). Alla fine il taxi si ferma in un punto sperduto, da qualche parte sulla montagna. Non c’è niente qui, se non una chiesa cattolica costruita dagli italiani. Torniamo indietro molto delusi, tra pareti rocciose, gole ombrose, chiaroscuri vegetali. Alla stazione è evidente che l’autista non aveva capito né la destinazione né il prezzo, perché ci chiede 50 euro. Gli diamo la metà e lui, sorridendo e scusandosi, se ne va. Vorrei sapere il nome delle ciabatte che il nostro autista e tutti gli altri tassisti del piazzale indossano.

#4

Una ragazza mi dice che Trieste ci mette poco a essere triste: basta una vocale. Io e Andrea ci prendiamo una bella sbronza, nella tavola calda di Tito, un albanese. Dopocena gironzoliamo per le strade, a cercare refrigerio e proteggerci dal vento. Poi, sotto il loggiato di una chiesa, uno zingaro suona Ederlezi. Ci viene da ridere perché è il primo zingaro che vediamo, dopo le settimane nei Balcani. Lo paghiamo perché suoni ancora e ancora e lui si convince solo quando diciamo la parola “Kocani”. Si chiama Mikele, è uno zingaro di Bulgaria. Attacca con un lamento straziante, la litania di un rimpianto infinito, che ci schianta a sedere contro le colonne della chiesa ad ascoltarlo. In quel canto di tromba ci sono i Balcani che non abbiamo visto, quelli che in Macedonia si disperdono nelle lunghe strade che occupano le giornate. L’Ederlezi di Mikele, invece, è il triste rimpianto del profugo. Accanto a noi ci sono tre ragazzi. Uno di loro dorme. Alla fine compriamo il cd, dove in copertina c’è Mikele con il suo cappellaccio nero e il nome a caratteri dorati.

Quando sono a casa ascolto il disco, sperando che ritorni quel lamento della chiesa, ma ci sono solo i classici di Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Tony Bennett suonati dalla tromba su base midi di Mikele.

#5

1988.

Il colonnello croato dice a Fatir di andarsene a fare un giro in Italia. Fatir non ci pensa due volte: vive per mesi in albergo, a Trieste. Quando finisce i soldi scrive a casa e si fa spedire denaro. Tre mesi in questo modo. E poi altre lire, da suo padre. Quando conosciamo Fatir ha 45 anni e ne dimostra venti di più. Suo figlio non voleva partire per non lasciare la fidanzata italiana a casa. Fatir non ha mai dormito per strada. Non va in Serbia, con l’auto. Una volta ci provò e rimase in dogana per ore. Ci sconsiglia di farlo, per non restare inchiodati all’angolo per ore.

#6

A Kocani, terra di zingari, cerchiamo tracce della Kocani Orkestar. Troviamo, invece, Ivan Levkov, capostazione. Ci accoglie con una foresteria di parole; tutte quelle che non ha potuto spendere in questi anni di anonimato. È felice di vederci, ma degli zingari della Kocani Orkestar non vuol parlare. Ivan vuol bere, la sua grozjie, una grappa d’uva dolcissima, che ci avvelena di oblio il pomeriggio.

#7

La cerimonia della chiamata dei nomi. Affidiamo come gli altri i passaporti all’autista. Lui compila una lista e ci chiama uno per uno, dal predellino del pullman. Sono nomi ottomani, giugulatorie alfabetiche; rispondono all’anagrafe dei Muzzein, del nome che si scioglie nella preghiera dell’alba. I nostri nomi sono incongruenti, ridicoli. Non ci riconosciamo in questo appello. Saliamo defilati, senza dare nell’occhio, confusi fra le canottiere dei ragazzi, nelle musiche che provengono dai telefonini; fra i fazzoletti delle donne, pezzuole nere cotte dal sole, identiche e ripetute di generazione in generazione. Portano pacchi e borse sportive, comprate nei temporary store della capitale. Li cuoce il sole di Roma Tiburtina. Si abbatte vitreo e incandescente sulle pezzuole nere delle donne e delle vecchie, sulle camicie dalle maniche tagliate degli uomini, i loro cappelli. Un sole alogeno, incattivito, insudiciato dalle sopraelevate, gli scheletri elefantiaci dei rebus tangenziali. Un intrico di Escher domina il sottobosco putrido di queste ombre lacustri. Dentro gli occhi è il rombo imperscrutabile del transito romano. Il continuo e ripetuto suono della strada che alimenta se stesso.

#8

Nel sogno c’è un vecchio che organizza una festa per quello che presumibilmente è il suo compleanno. La casa della festa è quella di campagna dove io e Andrea abbiamo pensato a questo viaggio. Ci sono tutti, ma proprio tutti: gli amici, i primi amori, conturbanti avventure sentimentali o soltanto il reparto Baci Rubati. (Manca la mia famiglia). Ci sono anche quelle persone che non si frequentano più perché c’è stato un momento nel quale noi e quelle persone eravamo così arrabbiati che ci sembrava giusto rompere tutto. Poi passa il tempo e si scopre di essere rimasti assenti per così tanto tempo che ormai la paura di non riconoscersi più in quello che eravamo c’impedisce l’ultimo, sensato, tentativo di chiamare nel cuore della notte e svegliare quei testimoni del nostro passato. Insomma, nel sogno ci sono anche queste persone, che nell’arco della vita sono disseminate qua e là.

Improvvisamente si scopre che al di là della festa gli invitati sono lì perché io e Andrea siamo tornati dal viaggio dai Balcani; sono lì per festeggiare il nostro ritorno. I primi amori sono ancora quella struggente tenerezza pomeridiana che erano al tempo; gli amici sono i compagni di una vita; coloro che non sono più nella nostra vita sono lì, di nuovo, per chiederci udienza, per domandarci scusa o per darci l’occasione di fare noi altrettanto.

Nel sogno sono in definitivo accordo col mondo. Mi sento come il verso di un poema.

Invece mi sveglio: sono ancora a Tetovo, lontano da tutto, in una gelida stanza d’albergo. Racconto il sogno ad Andrea. Per lui ha ragione lo Schnitzler del Doppio sogno: noi siamo anche quello che sogniamo. I sogni sono tanto reali quanto la realtà, quindi il mio sogno armonico era reale. “Reale quanto questo comodino”, dice Andrea. E ancora: “è successo davvero, che tu ci creda o no”.

A Skopje, qualche giorno dopo, mi dicono da casa che qualcuno se n’è appena andato.

#9

Il bar; al tavolino un uomo con due belle donne, bionde. Mosche dappertutto, uno sciame come polvere di caffè. Il posto è insolitamente fitto di partenze; pullman per Istanbul, Struga, Skopje, per la Svizzera.

Il bar è attesa. Nell’attesa c’è tutto, compreso il movimento. Il movimento è tempo, è dispiegamento della vita. Nel bar c’è vita, vita-in-attesa, attesa di movimento; qualcosa che sta per cominciare, poi l’attesa è finita.

La vita è sulla soglia, oltre è già troppo. Il bar della stazione è una soglia, più avanti è tutta un’altra faccenda (vale la pena o non vale la pena avventurarsi laggiù, se ne può discutere).

Se l’unico modo per cui abbia senso vivere è spostarsi di continuo, il bar è un senso+1, perché nel movimento manca l’assenza-di-movimento, che è invece nell’attesa, nell’infinita parata degli istanti prima di partire, mentre si beve una birra Ϲкoпскo (Scopsko) e si aspetta il pullman per un’altra città, un poco più a est.

#10

Da un po’ di tempo non riesco a dormire. La notte è tutt’altro che uno spazio neutro, un ricavo, la mia geografia di libera mobilitazione. Di notte sento forze che volteggiano sopra la casa, disegnano campi di gioco magnetici, intessono reticoli elettrici. È uno svolazzo invisibile, frustrante. L’inquieto circuito di traiettorie sopra la mia testa. Allora chiudo gli occhi. La scorsa notte è successo di tutto; poi si è alzato un vento incattivito che ha rovesciato vasi, schiantato vetri e battuto porte. Dalla finestra della camera da letto ho sentito una danza di foglie secche, per strada, e nel silenzio sembravano carta. Non riuscivo a pensare a niente; avevo la mente occupata dalle frequenze di quel vento. Gli Hertz epilettici mi facevano uscire fuori di cervello: ho aspettato l’alba sperando che le cose migliorassero e basta.

Non mi alzo, di notte, quando non dormo. Non esco. Rimango disteso, sgomento per quel rovescio della regola che vorrebbe vedermi in una fase di sonno profondo. Ma a quelle latitudini non ci arrivo. Rimango sulla superficie di un sonno interrotto, di momenti di stanchezza insopportabile. Rimango con gli occhi aperti, spesso, in un eccesso. Le pupille si riempiono di buio. Cerco d’impormi il silenzio, quello spazio di bianco dove non transitano variazioni ottiche, dove la somma ambiguità è non avere ambiguità. Il silenzio, però, rimane in fondo a quella landa nera, percorsa da prismi di luce, di variazioni sintetiche del blu, del rosso, dell’indaco, del giallo, del viola. Là in fondo brilla anche il tasto del silenzio, ma non riesco a raggiungerlo. Più forte è la sinfonia della febbre notturna che soffia col vento. Io con la notte e le sue brigate.

Una notte sono rimasto a fissare un ragno. Il palazzo di fronte al mio, dalla nudità del terrazzo, era illuminato dal giallo dei lampioni in basso. Aveva un aspetto sporco, senza ombre, un aspetto così insopportabilmente oggettivo e urgente. Il ragno era sul mio balcone. L’ho visto zampettare in cerchio. Ho immaginato che avesse paura di me, della mia imponderabile dimensione. Non fuggiva, però. Continuava la sua ginnastica macabra andando avanti, poi di lato, poi di nuovo avanti. Restava nei paraggi, a volte scompariva. Guardavo il palazzo e poi il balcone e non lo vedevo. Dopo poco, però, era di nuovo lì, di fronte a me. Ho pensato di schiacciarlo e basta, ma non si fa con i ragni. Di notte sono tiranneggiato da un senso superstizioso e naturale ancor più che durante il giorno. È ormai evidente che il balletto che questo ragno né più repellente né più minaccioso di altri sta compiendo un rituale apotropaico prima di sferrare un attacco: è una danza di morte, prima della battaglia. È così ostinatamente aggrappato alla sua liturgia di guerra, questo ragno. La minuscola orografia del suo corpo nero sprofonda nel più tenace istinto del sangue, nel tributo che domanda il suo codice genetico. È ingenuo e superbo questo ragno: crede nel suo onore da strada, come per una disperata febbre da infezione.

#11

Trame di informazioni incomprensibili sorvolano la nostra testa, calano in basso come un narcotico. Non oppongo forza. Lascio aperta giusto la frattura orizzontale che immette una bassa vibrazione di rosso, l’ipotesi di finire accecato. Sobbalziamo in questa notte divorata dal giorno, dalla luce, dalle aiuole autostradali.

#12

Sul pullman le musiche ottomane sono interrotte soltanto da sketch comici con una drammaturgia basica: un operaio addetto al manto stradale si fracassa un dito per errore, dopo essersi colpito accidentalmente col martello; due amici si lanciano torte di panna in faccia. Gli attori sono gli stessi: passano da una situazione all’altra con disinvoltura e incanto. Sono cortometraggi prima del cinema, incastrati nella transizione dal vaudeville al grande schermo. È una comicità che scatena risate e battimani e, in fondo, funziona. C’è una dolcezza paesana nel ridere di fronte a questi siparietti innocui, in mezzo alle montagne albanesi. I filmati scorrono in un VHS trasmesso da un videoregistratore ad uso schermo che domina il corridoio. Un occhio lontano e brillante ci proietta luce in faccia nella direzione opposta alla strada. Poi, in una delle scene, due amici ricordano un vecchio amore e cantano Marina, il mambo di Rocco Granata (1959). Tutti la conoscono; e cantano. L’unisono nasconde timbri, volumi, livelli di ubriacatura diversi, ma tutti hanno un amore lontano da ricordare. Scopro invece che il nome “Marina” era una marca di sigarette belga.

#13

Da un terrazzo sventolava una girandola arcobaleno e piante anemiche abbellivano coi loro spogli rami il grigiore del palazzo. La Macedonia era un posto disabitato dalla grazia; umido, squallido, spoglio. Un luogo abitato da fantasmi, da assenze. Non c’erano le montagne sassose della Grecia, ma campi dissodati, erbacce lasciate crescere senza cura e nelle città più grandi un’euforia patetica verso un futuro di benessere e capitalismo che altrove, in Europa […]

Mots-clés__Očered’, Fila

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Očered’, Fila
di Giulia Marcucci

Vladimir Vysockij, Očered’ -> play
___
Aleksej Sundukov, Očered’, 1986

___

da Ljudmila Petruševskaja, Kujbyšev. Come sopravvivere, in La bambina dell’hotel Metropole, trad. di Giulia Marcucci e Claudia Zonghetti, Francesco Brioschi Editore, Milano, 2019, pp. 57-61.

 

A Kujbyšev restammo dunque in tre: io, la nonna e la zia. E subito cominciò la fame vera. In quanto nemica del popolo, Vava fu licenziata dalla fabbrica dopo un lunghissimo interrogatorio notturno negli uffici della polizia.
Vivevamo di quello che ci mandava la mamma, ovverossia degli alimenti versati da mio padre Stefan, giovane filosofo.

Durante la guerra funzionava tutto con le tessere annonarie. Noi ne avevamo tre: una per me bambina e due per loro, “persone totalmente a carico altrui”. Ci bastavano giusto per il pane nero, con la commessa che ogni volta staccava un tagliando. Verso la fine del mese, però, capitava spesso che il pane risultasse “già preso” [1] …
Ci mettevamo in fila alla mattina, quando era ancora buio, al gelo. La coda serpeggiava nel bianco della neve fino alla bottega, fino alla pesante porta congelata. Alla fine ci ritrovavamo dentro, al caldo, nella calca, stretti gli uni agli altri per non perdere il turno.
Nel caos della guerra la nostra salvezza era tutta in una frase: “Chi è l’ultimo? Dopo di lei tocca a me.” Incollato a chi ti stava davanti, per nessuna ragione avresti lasciato il tuo posto, in quel mondo dove regnavano la legge, l’ordine e la giustizia e che ti dava il diritto alla vita. Lo difendevi con le unghie e coi denti, il tuo posto, nessuno doveva scavalcarti! A quei tempi non era concepibile abbandonare la fila neanche per qualche minuto.
Nel minuscolo negozio il profumo del più squisito pane nero era fortissimo, dava le vertigini; quell’odore faceva dolere le mandibole e venire l’acquolina. I motori della fame si accendevano rombando negli stomaci vuoti, incitandoli a mettersi in moto. Noi allungavamo il collo, ciondolanti, spostandoci da un piede all’altro, ma senza mai avvicinarci d’un centimetro alla meta. La folla ondeggiava.
Avrei poi notato che anche i mimi fanno così, nei loro numeri: fingono di camminare, ma restano dove sono.
Finalmente arrivava il nostro turno. Il pezzo di pane della commessa pesava sempre meno di quanto ci spettava, lei faceva piovere dall’alto l’“aggiunta” sul piatto della bilancia che già conteneva il resto, il piatto si abbassava di un bel po’ e lei subito toglieva tutto. L’arte dell’inganno nella più miserevole delle sue espressioni. L’aggiunta la davano sempre ai bambini, ed era molto gradita. Io la spazzolavo seduta stante.

Il pane veniva diviso in tre parti uguali. Io divoravo subito la mia, sbocconcellandola sotto il cuscino. Poi la zia e la nonna mi davano qualche pezzo delle loro…
Quando chiedevo a Vava come avessimo fatto a sopravvivere, lei stringeva le spalle e sorrideva smarrita: “Non lo so.”
Per qualche tempo frequentai l’asilo, dove i bambini vivevano di vita propria; mangiavamo anche la colla di nascosto: s’era sparsa la voce che “sapesse di ciliegia”, e quando le maestre ci lasciavano da soli a fare i lavoretti con carta e forbici, affondavamo le dita nel barattolo e le leccavamo. Eravamo tutti convinti che nel corridoio vivesse la strega cattiva, la Baba Jaga, per cui non bisognava uscire soprattutto quando il pavimento era stato appena lavato (questo lo diceva la bidella). C’era anche un’altra regola: se passava un aereo, i miei compagni pronunciavano solennemente i nomi dei loro familiari al fronte, che in quel momento era come se volassero su di loro. E fieri si guardavano l’uno con l’altro. Io non avevo nomi da pronunciare. Umiliata, un giorno arrivai a casa e chiesi alla zia che nomi avrei potuto fare. Ci pensò su convinta, ma non avevamo uomini al fronte (Ženja, il suo adorato zio, era stato arrestato; stessa sorte era toccata al marito di sua zia; mio padre – che comunque ci aveva lasciate – era stato esonerato perché tubercolotico). Alla fine zia Vava tirò fuori due nomi. E anch’io, come gli altri, potei dire con voce fiera e squillante: “Lassù ci sono Serëža e Volodja.” Non avevo idea di chi fossero. Mi dissero poi che Volodja era l’ex marito di mia zia e Serëža il mio prozio! Aveva diciassette anni più di me, come seppi in seguito.

(L’avrei conosciuto quasi sessant’anni dopo, quando tutti noi discendenti festeggiammo i centoquarant’anni anni del mio bisnonno Tato all’Hotel Metropole. Serëža era l’ultimo figlio di terzo letto di Tato, nato quando lui aveva una cinquantina d’anni. E venne fuori che durante la guerra era stato davvero un pilota.)

Tra l’altro, un giorno nel corridoio dell’asilo la vidi sul serio la Baba Jaga che scivolava via sotto al soffitto. Era un pomeriggio d’inverno ed era saltata la corrente. Tutti i bambini corsero come matti fuori dall’aula, si spingevano, strillavano, si sbracciavano a più non posso. Si sa, quando nessuno vede, la gente impazzisce! Nel corridoio era buio pesto; solo in lontananza un barlume di luce filtrava da una finestra alta (doveva avere nevicato, la notte prima). Scaffali lungo le pareti. D’un tratto, nella parte superiore del finestrone in fondo, là dove si apriva una finestrella d’aerazione, quasi sotto il soffitto si delineò un’ombra ritorta con la gobba, una specie di scimmia nera che allungò prima un braccio e poi una zampa per aggrapparsi a uno degli scaffali e poi scartò di lato senza un suono. Alle sue spalle si udì un fruscio di tessuto o di vesti. Sì che era la Baba Jaga! Era lei e io lo sapevo. La paura fu mia fedele compagna per tutta la mia vita di bambina. La nostra bidella aveva ragione, era meglio restare in classe.
(Non avevo considerato che i bambini si arrampicano ovunque senza timore anche al buio. E che qualcuno doveva essere arrivato in cima a uno scaffale e di lì giù, sul davanzale.)
Il secondo incubo della mia infanzia fu Koščej l’Immortale [2], ma dirò più avanti del nostro incontro.
Davvero i bambini sono capaci di vedere realmente gli spauracchi usati dai loro genitori…

A un certo punto non ci furono più soldi né per pagare l’asilo né per comprarmi le scarpe per andarci, perciò dovetti dirgli addio.
Per i poveri del nord russo le scarpe sono la cosa più importante. E nelle città i lapti non li sanno fare.
Da aprile a ottobre non c’erano problemi: correvo scalza in libertà dall’ultima neve fino alla prima nevicata successiva. Nessuno parlava più di tubercolosi, e nemmeno mi colava più il naso, addirittura.

Note

[1] Quella a cui avevano diritto era la razione più bassa, 300 grammi di pane al giorno. Fra pesature abbondanti e astuzie delle distributrici, poteva capitare di sentirsi dire di avere esaurito il quantitativo mensile.

[2] Come la Baba Jaga, Koščej l’Immortale è un personaggio negativo della mitologia e del folclore slavi. È detto Immortale perché per ucciderlo bisogna prima distruggere la sua anima, che è però nascosta “dentro un ago che sta dentro un uovo che sta dentro un’anatra che sta dentro una sacca di pelle che sta dentro una cesta di ferro sepolta ai piedi di una grande quercia nella favolosa isola di Bujan in mezzo all’oceano”.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Popcorn e imbarbarimento

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di Giorgio Mascitelli

Vedendo le immagini della comandante della Sea Watch che scendeva dalla nave arrestata dagli uomini della guardia di finanza, mi è venuta in mente la battuta di Renzi dell’anno scorso sul fatto che con il nuovo governo si sarebbe seduto comodamente coi popcorn in mano a vedere cosa avrebbero combinato. Questa battuta è più profonda ed emblematica di quanto pensi il suo autore perché rappresenta non solo il suo pensiero, ancorché un certo tipo di tronfieria che la caratterizza sia tipicamente renziana, ma il coronamento o, per parlar da professorone, l’entelechia di un’intera classe dirigente. L’immagine dei popcorn suggerisce infatti sia l’idea di una politica da spettatori, senza partecipazione delle persone,  sia quella che le cose che accadranno in Italia a causa di questo governo infondo non tocchino lo spettatore, come se non ne pagasse lui le conseguenze, cosa che probabilmente per le nostre classi dirigenti  è vera.

Quella dei popcorn è anche un’opzione strategica che significa nessun ripensamento sul passato, ma attesa semplicemente degli errori dell’attuale governo perché la politica non è altro che amministrazione più o meno abile dell’esistente che non può essere messo in discussione. Eppure in Europa se l’imbarbarimento avanza, è anche  grazie a questa idea narcisista e autolesionista delle classi dirigenti, con l’aggiunta tutta italiana dell’illusione che questo governo, o altri ancora peggiori che si profilano, finirà  esattamente come finisce un film magari quando sono terminati anche i popcorn.

Si dà il caso invece che nel governo ci sia un comunicatore veramente bravo nel suo ramo che ha già spiegato che vuole governare per trent’anni, e tra l’altro i seguaci della strategia del popcorn sono anche convinti che si tratti del male minore rispetto ai cinquestelle.  I risultati di questo modo di approcciarsi si vedono con  il caso della Sea Watch: il ministro degli interni, in disprezzo delle norme internazionali che regolano la navigazione, costruisce un caso mediatico su una nave che ha salvato dei naufraghi per distrarre l’opinione pubblica dai tagli alla spesa che il governo deve fare per non incorrere nelle procedure d’infrazione dell’Unione dopo aver solennemente assicurato che lui dell’Europa se ne frega. I rappresentanti della strategia del popcorn,  invece di smascherare il gioco illusionistico e di fare delle controproposte sulla finanziaria, mandano alcuni loro esponenti sulla nave finendo con il favorire la diffusione dell’interpretazione tendenziosa che tale nave non ha salvato delle persone, ma è inviata apposta per mettere in difficoltà il governo.  Risultato, nonostante Salvini abbia sostenuto tesi prive di riscontro e sia sceso a più miti consigli nei suoi rapporti con l’Unione, guadagna consensi come l’uomo tutto d’un pezzo che non si piega ai diktat europei.

Benché l’Italia sia un paese senza prospettive economiche in cui la crisi demografica sta incidendo come durante una guerra,  una parte cospicua della popolazione, potenzialmente maggioritaria, non è poi così disponibile a lasciarsi incantare da giochi illusionistici, ma non per questo è disposta ad appoggiare un’opposizione che tramite la strategia dei popcorn mostra di volere solo il ritorno al passato sentito con ragione come altrettanto minaccioso. Occorre, se si vuole contrastare quell’imbarbarimento di cui gli insulti a Carola Rackete sono un sintomo, indagare con umiltà le problematiche che affliggono le fasce medio basse della popolazione italiana e fornire proposte concrete alternative ai risarcimenti simbolici per l’impoverimento collettivo offerti con gran dovizia dal comunicatore

Almeno è che così che la vedo io, ma a me il popcorn non è mai piaciuto.

Carta Laniena: tre poesie di Franco Scataglini

0

 

 

Una quartina di questo libro dice un pezzettino di porto visto dalla finestra di casa nel grigio della sua fisionomia, opaco, come un frammento di mare morto che, pur di non andare anch’esso verso il silenzio, si chiama in poesia per consegnarsi all’evidenza oltre le trame d’uno scomparire eterno. Se in quell’immagine cogliamo quanto di più profondo è in essa, avvertiamo la paura relata ad un destino vecchio quanto il mondo che è solo di coloro ai quali è toccato in sorte di eclissarsi sotto lo sguardo ignaro di chi ha avuto i mezzi per continuarsi in altri lasciando traccia di sé.

Francesco Scarabicchi, dall’introduzione a Carta Laniena (Residenza Edizioni, 1982) di Franco Scataglini (1930-1994). Proprio da questo volume ripubblico tre poesie, a rinnovata testimonianza:

 

O cità, crucifisse

a ochi de poeta

estragne case, in seta

(come chi se confisse

 

da bregno siderale

su marciapiede cupo)

va i àngioli a lo sciupo

senza resiste.

 

Vale

 

come nodo scursore

che stròza la parola

al nasce scura in gola

(però senza dulore)

 

ogni lògo.

 

Ah le bare

vòte, de nisciun evo,

del cimitero abrevo

portato via dal mare

 

***

 

Omo che cade in mare

e che s’aprende a ‘n dio

(el franto remotare

sul niente del desio)

 

a fronte de le care

stelle, el zito brusio,

in ato d’afogare

vol compimento pio,

 

e poi, eco, sucede:

da longo el mare calvo

viene barche legere

 

piene d’ochi per vede

cristiani da pia’ in salvo

for da le mischie nere.

 

***

 

Tutta t’ha traversata

stanote, via de morte,

vita, la bondonata

de vechio ombra de sorte

 

con el glu glu de gola

da verso de picioni

-aborti de parola

‘ntra sordi cornicioni

 

e l’aria trasmeteva

lumi come cerase

a la sua angoscia abreva

‘nt’un tramestà de case

 

(forme de l’esistenza

comune, dolce modo,

sgramate a la violenza

come intonaco a chiodo).

 

La primordiale tara

del vive: sortì al niente,

pesci per la bogara,

sul fil de la corente,

 

omini soto al giallo

astro de l’agonia

spinti da dietro al vallo

dei persi – in atonia

L’ossessione dei “Fiori estinti” di Mattia Tarantino

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di Daniele Ventre

L’opera seconda, o se si vuole ancora quasi prima, di Mattia Tarantino, Fiori estinti, ed. Terra d’Ulivi 2019, seguita a Tra l’angelo e la sillaba, per i tipi del medesimo editore (e risalente al 2017), segna il secondo tempo del momento di esordio di un autore giovanissimo (nato a Napoli nel 2001). In Fiori estinti di Tarantino, due connotati generici, che in parte si ravvisavano già nel libro d’origine, tendenza fortemente centripeta dei testi della raccolta attorno a ben precisi nuclei tematici, e pronunciata inclinazione all’asperitas verbale e concettuale, con il semiconscio rifiuto di ogni tentazione d’equilibrio, si ripresentano rafforzati, con le loro luci e con le loro ombre, e sono spia e documento testimoniale di una nuova fase, che si viene annunciando, della contro-storia di una certa area della contemporanea produzione in versi nostrana.

La piccola opera di Mattia Tarantino si contraddistingue anzitutto, e l’abbiamo accennato, come un sistema lontano dall’equilibrio, o che da ogni equilibrio si mantiene più o meno accortamente remoto, in un’omeostasi capovolta. Di tale status singolare è primario indizio la strutturale violenza delle immagini e delle scelte lessicali, che non si precludono l’azione perlocutoria, e a tratti persecutoria, di evocare oggetti e dimensioni di realtà posti ben oltre il limite della deiezione, fisica ed esistenziale, quasi che lo scavo nella sostanza della parola debba porsi, anzitutto, come scavo archeologico grufolante nella periferia dell’essere, in quanto di degradato, biodegradato e biodegradabile si rinviene alle radici fecali dell’intima natura delle cose. In mezzo al loess dell’esistenza, di cui Tarantino si fa collettore, emergono occasionali aree di coesione ontologica, piccoli luoghi verbali di non inferno che l’emittente del messaggio deve ancora ostinarsi a far perdurare, calvinianamente, contro l’inferno fluviale che al momento li travolge.

Nel piccolo grande fiume lutulento di esistenza che i versi di Tarantino trasportano, emergono a tratti lo spettro del poeta veggente, l’alone della natura, l’eco del responso oracolare, l’infinito per speculum et enigmate, un assoluto che digrada alla vista come per acqua cupa cosa grave, l’evocazione neo-foscoliana del materno terragno e terreno, quasi immagine locale e ritratto dislocato di una Eterna alla Macedonio Fernandez: frammenti di totem, residui di metafisica, evocazioni in corso, immagine di un universo minimo in espansione, in cui si trova molto più di potenza che d’atto, senza cedimenti all’idolo del controllo.

Di queste “apparizioni senza durata e senza difesa contro la furia marziale del mondo” trascinate e stritolate da un “immaginario convulso”, come scrive Giorgia esposito, brevitate felix, nella sua post-fazione, Mattia Tarantino dichiara l’estinguersi, in una sorta di contro-inno al naufragio dell’ente di jaspersiana memoria. Il tutto si condensa in un’urgenza comunicativa da poète maudit benedicente e in cerca di benedizioni, urgenza che spesso travolge sé stessa, nel suo ritmo battuto di posizioni trocheo-giambiche, con impeto ruvido di creazione primitiva.

[Mattia Tarantino è nato a Napoli nel 2001. Co-dirige Inverso – Giornale di poesia; fa parte della redazione di Menabò – Quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria (Terra d’ulivi edizioni) e di Bibbia d’Asfalto – Poesia urbana e autostradale; ha curato la sezione di poesia per Nefele. È presente in diverse riviste e antologie, italiane e internazionali. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue. Ha pubblicato Tra l’angelo e la sillaba (Terra d’ulivi edizioni 2017)]

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Da Fiori estinti, ed. Terra d’Ulivi, 2019

Vigilia d’inverno

Ho offerto i miei voti all’inverno,
alla rosa sbaragliata da una neve
che non cade, non vacilla, ma soltanto
che attendiamo e ci rinnega.

Da domani i bambini torneranno
a inventare nuove storie e nuovi fiori.

* * *

Tutto trema

Non capisco il vento quando annuncia
una catastrofe di tuoni, né il castigo
di questi lampi neri e malaticci.

Ma mia madre è un temporale: lei conosce
il mistero che si scorge
in bocca al cielo, scaraventa
una bufera sulla casa e tutto trema.

* * *

Ossa di latte

Ho ossa di latte: le stacco
a una a una e le chiudo
nelle grotte del cielo.

Se un fiore spunterà
ne rideranno gli angeli.

* * *

Il trucco degli amanti

Mi hai donato fiori morti
da lanciare nella stanza, fiori
già sporcati da una voce, e seppelliti
dove la parola non fa tana.

Ed è questo il trucco degli amanti:
se prendi un fiore puoi legarlo
in fondo al cielo, puoi impiccarlo
a qualche nome e poi morire.

* * *

La legge del mondo

Ho visto corpi aggrovigliati
alla mania dei fiori; ho visto
i morti sudare in bocca
ai vermi. Eppure
conosco la legge del mondo:

ogni giorno il sole è nuovo e noi soffriamo.

* * *

Mio nonno

In autunno i morti gorgogliano,
hanno in gola la rosa
interrotta, le ultime
parole mozzate ammainando
la luna. Strette
queste ossa, stretto
il bacio che li negò al mondo:

c’è qualcosa di sepolto
tra mio nonno e il mio cognome.

* * *

Rima in ottobre

A S. tra i fiori

L’acqua esplode, noi
esplodiamo: nemmeno
le stelle fanno argine al diluvio.

Voglio cantare con la voce
dei morti, regalare
un fiore che non spunta, da intrecciare
alla tua gola e poi tirarlo

forte, poi più forte, poi strapparlo.

* * *

Tempesta

A S. in un lampo freddissimo

Ho conficcato un grande urlo
dentro il cielo; l’ho abbattuto
in fondo alla tua gola, mentre gli angeli
mordevano e azzannavano la prossima
tana delle stelle: ora i fulmini

annunciano riscossa, tutti i corpi
degli uccelli li attraversa
il vento. Svelta,

inchiodami là in alto e poi spalancami.

* * *


Mia madre

Legge di Ponente la discordia
verticale che fu taglio:

mia madre inghiotte cento fiori,
poi rimette dalle vene.

Da “Posti a sedere”

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di Luciano Mazziotta

 

[Quattro testi da Posti a sedere, Valigie Rosse, 2019. ]

 

 

perché si odiano diluiscono le colpe nel caffè

miscelano antefatti girando il cucchiaino

prima in senso orario a consistere decenni

dopo li riavvolgono

come se fosse spago

incatenato alla scogliera e sembra riva.

In territorio selvaggio

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 dialogo tra Laura Pugno e Massimiliano Manganelli

MM: Il tuo nuovo piccolo libro In territorio selvaggio mi pare un s(ond)aggio dentro una serie di questioni interessanti. Nell’andamento del testo – che non risponde a una forma predefinita – ho trovato utile lo sguardo duplice che adotti: quello di chi, cioè, pratica tanto la poesia quanto il romanzo. Comincerei però dal titolo, perché riguardo al selvaggio e al naturale dentro il libro ho trovato alcune precisazioni con le quali concordo, in particolare in relazione al carattere reazionario dei discorsi sulla naturalezza.

LP: Ci sono, a questo proposito, appunto due precisazioni da fare. In primo luogo, In territorio selvaggio nasce come un libro che mi è stato chiesto. Fa parte di una collana, “Trovare le parole”, che è curata da Daniele Giglioli e dall’editore di Nottetempo, Andrea Gessner. L’idea è di affidare a scrittori parole che siano risuonate all’interno della loro opera, identificate da loro ma anche per loro. L’aspetto affascinante di questa scrittura, per me, è che in un certo senso mi ha colto di sorpresa. Ho scritto poesie, racconti, romanzi, scritture performative, non avevo però mai veramente pensato alla scrittura saggistica. Già solo decidere di immergermici ha quindi richiesto un atto di esplorazione.

I comandamenti della montagna

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di Michele Nardini

Estratto da memoriale – Agosto 1944

Vado avanti. Supero il blocco delle prime case e raggiungo una nuova località. Davanti a una casa scorgo movimento e agitazione, due soldati hanno i fucili puntati contro un gruppo di persone e li spingono dentro una casa da cui provengono voci concitate.
Decido di entrare. Dentro c’è poca luce, solo una macchia grigiastra che illumina la prima parte della stanza dove sono radunati i soldati tedeschi, attorno al loro comandante. Il resto è oscurità, ombra perpetua, ma oltre il buio si sentono dei lamenti, flebili e tremanti, quasi soffocati.
Improvvisamente un ufficiale entra trafelato, sbattendo la porta. Giunto davanti al suo comandante, gli rivolge il saluto militare e posa due cavalletti a terra, sul lastricato della casa, uno accanto all’altro. La preparazione è lenta, meticolosa, ai limiti dell’estenuante: c’è da trovare l’altezza giusta dei cavalletti e poi fissare le mitragliatrici per capire l’angolazione migliore. I minuti scorrono via che sembrano ore, ma non per tutti. Per alcuni, dentro la casa, il tempo è sospeso, strozzato, come i respiri che percepisco nel buio.
E proprio dall’oscurità emerge il volto di una donna, febbrile e sofferente, che non si attiene agli ordini ed entra nel cono di luce, dirigendosi verso di me. Ha in mano un fagotto, tende le braccia e mi implora di salvare almeno lui, di portarlo via. Dapprima non capisco, poi abbasso gli occhi ed è tutto chiaro: avvolto in una coperta c’è il corpicino di un bimbo, «Ha sette mesi», mi dice la donna, «Che colpa ha lui?», mi chiede. «No, lui non c’entra nulla», ripete, «Portalo via, non importa dove, portalo lontano da qui». Continua a guardarmi e piange. «Portalo via», sussurra, mentre un soldato la trascina di nuovo verso l’oscurità, con il fagotto ancora stretto tra le mani.
I cavalletti sono pronti, resta solo da posizionare la mitragliatrice e scegliere i tiratori. Un urlo squarcia il silenzio, ed è disumano, perché proviene dalle viscere di un corpo, perché contiene tutta la disperazione che una persona può avere. È un’altra donna, molto più anziana.
Agita le braccia in alto, come a invocare aiuto dal cielo. Anche lei esce dalla zona in ombra, ma solo per metà.
«Lasciateci sta’, ’un s’è fatto nulla, noi», urla disperata.
Le mitragliatrici sono fissate sopra i cavalletti, puntate verso l’oscurità che adesso è meno impenetrabile. Riesco a distinguere gli occhi di chi sta dall’altra parte della stanza, distinguo gli occhi della donna con il fagotto in mano, distinguo gli occhi del nipote che tiene per mano la nonna e la accarezza, per proteggerla.
«Ma ci volete ammazza’ pe’ davvero?»
La domanda cade ingenua, spontanea, senza senso. Nel frattempo è arrivato anche Cranio lucente. Si muove con disinvoltura nella penombra, con quei passettini frenetici e irregolari. Si accorge di me e mi rivolge un ghigno. Rido, e non mi preoccupo di non fare rumore, così la risata coinvolge il soldato accanto a me e, come un’onda, tutta gli altri soldati presenti nella casa.
«O Madonna, salvici te, e se non puoi salva’ tutti, salva almeno i bambini».
La preghiera si perde nel vuoto. Cadono tutti insieme, uno dopo l’altro, travolti dalle sventagliate di mitraglia.
I corpi restano lì, ammassati a terra. I cavalletti e le mitragliatrici vengono invece portate via, verso le altre località del paese. Anche i tedeschi sono usciti, Cranio lucente se n’è andato, ne è rimasto solo uno, sta raggruppando dei legnetti e del fieno e li sta disponendo al centro della stanza, accanto ai cadaveri. Ancora quella meticolosità che non riesco proprio a capire. Esce un attimo, alla ricerca di altro materiale per appiccare il fuoco.
Entro nella stanza, spinto da non so quale curiosità. Nel mucchio di corpi sento un rumore, un lamento flebile, indefinito. Mi avvicino e vedo una mano che si contrae in un gesto di effimero attaccamento alla vita, le vene gonfie sul dorso, le dita rattrappite e macchiate di sangue. Una mano minuscola, da bambino, si muove con lentezza, cerca uno spiraglio, una via di uscita ma sbatte contro qualcosa, una testa che schizza sangue. Mi avvicino ancora di più fino a sfiorare la mano che non reagisce, il mio sguardo risale il braccio e poi verso la faccia: ha un buco sulla pancia, un altro sulla spalla. Non ne avrà per molto.
Estraggo la pistola e la punto contro la sua testa. Forse è solo un’impressione, un riflesso incondizionato ma, prima di sparare, mi pare che sul suo volto appaia quasi un accenno di sorriso. Basta un colpo e la mano del bambino si distende, dimenticando il dolore.

C’è una musica discreta e irreale che si spande sopra Sant’Anna. Musica di organetto che dà ritmo alla marcia, agli ordini dei capireparto, alle mitragliate, alle colonne di fumo che iniziano ad alzarsi in ogni località del paese. Alle grida acute, disumane, tragiche delle persone, ai pianti disperati.
C’è questa musica che continua come se nulla fosse successo, e io decido di seguirla. Alle mie spalle ho lasciato il primo mucchio di cadaveri. Attraverso un boschetto e mi trovo nei pressi di un cortile dove c’è una stalla, in fiamme. Mi affaccio alla porta, vincendo l’odore insopportabile del fumo, e scorgo un ammasso di corpi, braccia, teste, mani e gambe senza vita.
Vado avanti, ormai nulla può sconvolgermi, neanche il cadavere di un uomo che non ha più le gambe, nemmeno l’ultimo abbraccio tra due donne anziane. Non mi scompongo neanche di fronte a una donna incinta con la pancia sventrata, aperta in due e poi fatta partorire, prima di sparare alla testa del minuscolo feto. Adesso la donna cadavere abbraccia il suo bimbo, legato ancora a lei dal cordone ombelicale.
Vado avanti. Arrivo nei pressi di una stalla, accostata alla porta d’ingresso c’è una collana d’aglio: si dice che tenga lontano le sventure e il malocchio. Appena la sfioro con le dita, sento un grido provenire da dentro. Entro e vedo una donna a terra, con il sangue che le cola dalla tempia, e a pochi metri un soldato che sta cercando qualcosa.
«’Un c’è nulla qua, ci sono solo io», ripete in modo febbrile. Ma il tedesco non l’ascolta, forse non capisce, continua a cercare, adesso si sta dirigendo verso un’intercapedine del muro, dove è ammassato del fieno. Non so dove la donna trovi l’energia, forse è la disperazione, forse è l’odio, forse è solo quell’istinto di sopravvivenza più forte dei nostri limiti. È allo stremo, ma riesce comunque a sfilarsi uno zoccolo. Non le occorre prendere la mira, lo lancia verso il muro opposto. Il soldato sente prima il fruscio, poi lo spostamento d’aria. Troppo tardi per evitare l’impatto. Lo zoccolo lo colpisce sulla fronte, appena sotto gli occhi. Grida, sorpreso, poi bestemmia qualcosa. Ha gli occhi spiritati, iniettati di sangue. La donna non si accontenta, sfida ancora il suo orgoglio, si prende gioco di quel giovane uomo che pensava di schiacciarla.
Il soldato è senza fiato, come se avesse corso una maratona. Impugna la mitraglia e squarcia l’aria con una raffica. La donna crolla a terra, al centro della stanza, in una pozza di sangue. Il soldato raccoglie lo zoccolo, esce di corsa dalla stalla e lo lancia lontano. Poi si piega, senza fiato, e si allontana. Io rimango ancora un po’ dentro, attratto dal cadavere di quella donna che ha fatto di tutto per farsi ammazzare.
La sto ancora osservando, cercando di capire i motivi dei suoi gesti, quando noto un movimento impercettibile dietro l’intercapedine del muro. Mi sposto allora nel punto più buio della stalla e trattengo il fiato: passano pochi secondi e, dall’intercapedine, spunta un bimbo. Non sa cosa fare, lo sguardo vaga terrorizzato tra il cadavere e la luce che filtra dalla porta aperta. Pongo fine alla sua titubanza: con un pugno faccio rimbombare il muro della stalla, il bimbo sussulta, lancia un’ultima occhiata al corpo della donna e corre via. Dall’angolo in cui sono nascosto sento i suoi esili passi perdersi dentro il bosco.
Sembra una rappresentazione ma è solo la realtà. Ogni località di Sant’Anna brucia: bruciano le case, bruciano le stalle, bruciano gli alberi, bruciano le piazze e brucia la chiesa, brucia il prete, bruciano le panche, bruciano le foglie così come bruciano i bambini, bruciano gli animali e bruciano le donne, assieme ai loro padri.
Esiste una democrazia, a Sant’Anna. Nessuno scampa al massacro, nessuno sopravvive alla follia.

Estratto da: Michele Nardini, I comandamenti della montagna, Barta Edizioni

Caroliade. Invective.

3

di

Francesco Forlani

Je soy poète e v’aggia mannà affancul
vuje qui agressez les filles qui combattent
site hommes em’merde hommes sanza pisci
et fimmine pittate ca alluccate site sanza core

St’humanitade blanca est brutta assay e la và battue
de port en port, de plagia en plagia va affunnate
n’do gorgo malin des mala paroles à strakke
e nu ferry boat nun v’adda fa passà a nuttate

 

Vive les pirates, les brigantèss, les Jeanne D’Arc
ca s’enfilano armures pour sauver les autres
et vos autres da Liga qui parulate en vrac
v’anna purtà luntane luntane de nosotros.

Je soy poète Salvi’ e t’aggia mannà affancul
et sta cosa cu sta chaleur m’entorze à nirvature,
car je me vurrià restà a lu calme cu nu bikkier ‘e vine
e m’aggia pija collère pe’ nu fije e bukkine

 

La punta della lingua 2019, Ancona – festival di poesia totale

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30 giugno

Facebook Poetry XI edizione
30 Giugno ore 17:00
online

lunedi 1 luglio

Apertura Spazio Poesia MultiVerso
1 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Intimi Ritratti
Inaugurazione mostra Dino Ignani
1 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Fabio Orecchini in TerraeMotus
1 Luglio ore 18:00 – 20:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Poe3D
1 Luglio ore 18:30
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Le “parole orrende” di Vincenzo Ostuni
1 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Poesie elettroniche di Fabrizio Venerandi
1 Luglio ore 19:30
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Reading di Fabio Orecchini | Vincenzo Ostuni | Fabrizio Venerandi
1 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

Motopoiesis. Multimedia Performance by Orbìta (Lettonia)
1 Luglio ore 22:00
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

martedi 2 luglio

Incontro con Marco Paolini
2 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Tienilo acceso
2 Luglio ore 18:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Giovanni Fontana
Epigenetic Poetry
2 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Filo filò
di e con Marco Paolini
2 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Corte

mercoledi 3 luglio

Ora d’aria
3 Luglio ore 10:00
Ancona | Carcere di Montacuto

Reading di Carol Ann Duffy
3 Luglio ore 18:45
Chiesa di Santa Maria di Portonovo

Cena
3 Luglio ore 20:00
| €20
Ristorante da Giacchetti

Omaggio ad Agota Kristof
3 Luglio ore 21:30
Chiesa di Santa Maria di Portonovo

Poeti da antologia
Fabio Pusterla
3 Luglio ore 22:00
Chiesa di Santa Maria di Portonovo

giovedi 4 luglio

Tradurre Carol Ann Duffy
4 Luglio ore 13:00
Hotel Emilia

Escursione poetica
Genius Loci | Poeti neodialettali marchigiani
4 Luglio ore 18:00
Anfiteatro Romano

Bobi Bazlen: il poeta delle note editoriali
4 Luglio ore 21:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

Max Collini (Offlaga Disco Pax)
legge l’indie italiano degli anni dieci
4 Luglio ore 22:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

venerdi 5 luglio

Matrilineare
Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi
5 Luglio ore 18:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

Le Marche della poesia
Sarah di Piero. Reparto da qui (Argolibri, 2019)

5 Luglio ore 19:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar
Le Marche della poesia
Alessandra Carnaroli. Sespersa (Vydia, 2018)

5 Luglio ore 21:30
Parco del Cardeto | FARgO Bar
Rimando a domani
Improvvisazioni di disfide in ottava rima e altre peripezie rimate

5 Luglio ore 22:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

sabato 6 luglio

Supernove – Poesie per gli anni 2000
6 Luglio ore 18:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

La Punta della Linguaccia
Testa per aria
6 Luglio ore 18:00 – 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Corrado Costa. La moltiplicazione delle dita (Argolibri, 2019)
6 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Poetry Slam
6 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

Poetry Party
6 Luglio ore 23:00
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

domenica 7 luglio

Le Marche della poesia
Maledetti Marchigiani
7 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Emily.
Il Giardino nella mente di e con Isadora Angelini e con Luca Serrani
7 Luglio ore 18:00 – 20:00
| €5
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

I’m nobody! Who are you?
Silvio Raffo per Emily Dickinson
7 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

A quiet passion di Terence Davies
7 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Arena Cinema

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per altre informazioni: https://www.lapuntadellalingua.it

La poesia ha forse un occhio di troppo

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di Adriano Ercolani

 

 

A chiunque sia nato dopo il 15 maggio 1871 l’accostamento dei concetti “poesia” e “veggenza” non può non evocare la celebre lettera scritta in quel fatidico giorno dal sedicenne Arthur Rimbaud all’amico Paul Demeny; per l’appunto, la celeberrima “Lettera del Veggente” in cui la mente incendiaria del giovane poeta, destinato a divenire icona universale del maudit, sancisce un comandamento inciso nelle coscienze di molti autori a venire: “«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!».

Eppure c’è molto altro da dire a riguardo, prima e dopo delle memorabili parole del poeta ribelle per antonomasia.

Stefano Riccesi, nel suo Veggenza – le radici spirituali della creatività (Edizioni Porto Seguro) lo fa, e lo fa molto bene, cercando, trovando e offrendoci in tutto il suo splendore il Filo d’Oro di una conoscenza occulta, che va da l’Orfismo a Yeats, da Giamblico a Jung, da Pitagora a Hillman, attraverso giganti della spiritualità come Rumi e William Blake, messaggeri illuminati come Giordano Bruno e Jacob Böhme; un percorso di rivelazioni, condotto sulle orme sapienti di Elémire Zolla (che considerava Rimbaud “la parodia di una sapiente”) e Henry Corbin (e la sua fondamentale nozione di mundus imaginalis) fino a risalire alle sorgenti vediche.

Non è facile riassumere e divulgare correttamente due millenni e mezzo, almeno, di tradizione esoterica, senza inciampare in trappole consuete: un borioso pontificare, una vaghezza urticante direttamente proporzionale, un richiamo continuo quanto generico a una nebulosa Tradizione (concetto nobile ma spesso preda di pericolose deformazioni ideologizzanti).

Riccesi compie un’opera notevole: comporre un discorso coerente e progressivamente rivelatorio attraverso un mosaico armonioso di spunti illuminanti, realizzando un testo dalla eccezionale scorrevolezza, considerata la profondità non comune dei temi affrontati.

Ma, chiariamoci, il testo non è solo un Bignami godibile dell’esoterismo classico; l’autore, certo, non è il primo a esplorare e collegare con intelligenza diverse tradizioni, dal Sufismo al Neoplatonismo, dalla Gnosi alla Qabbalah: i riferimenti a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Giordano Bruno sono espliciti.

Ciò che è originale, o meglio fresco, vivo, appassionante è l’approccio a questi abissali ambiti di riflessione.

Nessuna pedanteria a soffocare la meraviglia, nessuna presunzione a uccidere lo stupore: l’evocazione del maestro del dubbio Jorge Luis Borges è garanzia dell’assenza di ogni esaltazione fanatica.

Dal mito di Diana alla potenza archetipica dei simboli nei Tarocchi fino al Libro Rosso di Jung, il fiume carsico della conoscenza esoterica prorompe in superficie nelle fonti maestose dei grandi iniziati, tra cui amiamo menzionare William Blake, definito nel libro “l’incarnazione perfetta dell’archetipo del veggente”. Sarà Yeats a rendere giustizia al poeta mistico, e alla poesia mistica in sé.

Il più grande pregio del libro è condurre il lettore, procedendo per paradossi illuminanti, al riconoscere come Tutto sia una costante teofania, una ininterrotta manifestazione di Verità e Bellezza da contemplare.

Ecco un brano significativo, che distingue tra immaginazione come fantasia (nel senso negativo conferito da Gurdjieff, ad esempio) e visione: “Corbin introduce la distinzione tra immaginario e immaginale: il primo è il luogo dell’invenzione che segue i capricci dell’ego, il secondo è il piano delle creazioni teofaniche, dell’intuizione dei princìpi, quello in cui i visionari di ogni luogo ed epoca collocano l’esperienza delle forze che tutto guidano. Un simbolo vivo, dotato di carica magica, di numinosità, ci cattura e si lascia riconoscere in profondità quando accettiamo di seguire una visione dove essa vuole condurci e non dove noi dovremmo andare. L’immaginario, o fantasia, è in sintesi autoreferenziale. La visione è invece un riflesso dei misteri dell’essere nella percezione soggettiva”. In tutto ciò la poesia è la forma di conoscenza, prima che artistica, intimamente connessa alla veggenza, “un sentiero di ritorno alla divinità”, citando una frase di Riccesi riferita a Blake, che è però perfetta descrizione dell’itineriarium dantesco ne La Divina Commedia; rifacendosi agli studi di Tonelli Sulle tracce della sapienza, che mostrano le evidenti “origini greche della poesia occidentale e mediterranea, che sorge come azione rituale, mescolandosi con la musica e la danza, e si intreccia col mito”, l’autore giunge a conclusioni importanti: “La veggenza, la himma, è vita che nell’unità del cuore divino e umano si compie. Per questo la magia e la poesia sono intrinsecamente risanatrici della nostra sensazione di separazione dall’infinito: esse ci insegnano che il piano personale trova la sua strada quanto torna ad accogliere e onorare quello transpersonale. Ma anche che c’è un bisogno di ispirazione che non tollera ordini precostituiti e va oltre ogni modello con il quale vorremmo forzare la vita”.

E il pensiero va commosso, à rebours, a Dino Campana, all’ultimo Nietzsche, al sublime Hölderlin e al suo commento sul Re Edipo, cieco, che “forse ha un occhio in più”.

 

Schola post: Gigi Spina

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Prova la seconda (o la seconda, prova)

di

Gigi Spina

Ho aspettato con ansia la prima telefonata. Mi dicevo: vedrai che qualche importante giornale ti chiamerà, in fin dei conti hai insegnato per anni filologia classica e continui a imperversare sul tema anche sui social. Nulla, la telefonata non arrivava. Allora ho pensato: vuoi vedere che finalmente hanno capito che non ha senso intervistare un professore universitario sulla prova di traduzione della maturità classica, che bisogna intervistare professori/professoresse di liceo, che ne sanno molto di più perché maturandi e maturande li hanno preparati loro. E quindi mi ero rincuorato. Poi arriva la delusione. No, non l’hanno capito. La prima telefonata mi dice che c’è già un’intervista di un professore universitario in rete.
E allora mi sono telefonato da solo, e la seconda telefonata è un’autointervista sulla seconda prova, su Tacito, Galba, Plutarco, la brevitas ecc. ecc. Insomma, una cosa che riguarda solo il 6% circa della popolazione scolastica italiana, e mi viene da ridere per la autopomposità.
D Dunque, professore, secondo lei il testo era facile o difficile?
R Direi che nobody expects the classics inquisition.
D Cioè?
R Che non capisco: che se è difficile, vuol dire che non si capisce nulla e la traducono solo in pochi, invece se è facile la traducono tutti e quindi non vale?
D Perché, non dovrebbe essere così?
R Scusi, ma il liceo classico dovrebbe insegnare a tradurre o a tradurre i testi difficili? Che magari sono difficili perché dicono cose astruse, mentre gli altri parlano di cose della vita, raccontano di fatti storici, insomma cose umane. La cui difficoltà, magari, è capire che si tratta di cose di una cultura diversa dalla nostra anche se, ripeto, umana, come può essere una pagina di storia.
D Dunque, si trattava di un testo facile, mi pare di capire.
R Si trattava di un testo di uno storico che raccontava un momento di una congiura. E quella stessa congiura l’aveva raccontata anche uno scrittore greco, e quindi anche questo testo è stato offerto al maturando/a, in originale e in traduzione.
D Tutto questo, naturalmente, per facilitare e abbassare ancora di più l’asticella.
R Non saprei, so che se lo scopo è quello della comprensione, in sei ore, di un testo e di un inquadramento di alcune caratteristiche dello stesso, forse questa completezza di dati può aiutare a capire come ha lavorato durante cinque anni e come risponde un/una studente. Forse, ma questo potrebbe dirlo meglio chi insegna nella scuola.
D Perché, scusi?
R Perché, in genere, il professore universitario (conosco l’ambiente) di lettere classiche dice, alla prima lezione: ora dimenticate tutto quello che avete imparato a scuola, cambia il metodo, cambia l’approccio, qui si scava, come vecchie talpe (questo lo dicono i professori marxisti, naturalmente). E allora, mi risponda: cosa gliene importa della scuola a chi della scuola vuole cancellare l’esperienza, mentre per paradosso, sta formando proprio chi, forse, andrà a insegnare a scuola? E a costoro, allora, per compensare, dovrebbe dire, alla fine del corso di studi: dimenticate tutto quello che avete appreso qui, i corsi monografici, i testi astrusi, le contese filologiche, perché non dovrete insegnare questo a scuola, ma aiutare a trovare un metodo insieme a docenti di altre materie, aiutare persone in formazione, una formazione a tutto tondo, critica, certo, per carità. Ha mai sentito un professore universitario dire qualche cosa del genere?
D Guardi che qui le domande le faccio io. E vorrei sapere se il testo era facile o difficile da tradurre, se hanno vinto gli antropologi o i filologi, se i nuovi maturi perderanno la capacità logica diventando così succubi della rete e dei social, dei telefonini e di netflix.
R Guardi, per sapere questo dovrà rivolgersi a un professore universitario di lettere classiche in servizio. Io lo fui, a mio modo, ora sono in pensione. Io, pensi, vorrei che la seconda prova fosse così formulata:
Caro/a maturando/a, eccoti un testo, che parla di questo. Prova a tradurre questi quindici righi. Ma non a dare la traduzione, bensì a raccontare come ragioni mentre tenti di tradurre, come consulti il vocabolario, come ti poni le domande, che dubbi hai, cosa ti è venuto in mente ecc. ecc. Pensi che follia!
Ma scusi, perché mai ho pensato a me per questa intervista?
Nota Post (effeffe)
Proponiamo, d’accordo con l’autore dell’intervento, che chiunque avesse voglia di tradurre il brano di Tacito in questione avrà la sua traduzione corretta e commentata dal Professore, ma senza voto.

Direttamente dagli Esami di Stato 2019

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OPERETTA IM(MORALE)

di Lidia Massari

– Prego, si accomodi. Caldo, eh? Vuole dell’acqua?
– No, grazie.
– Allora cominciamo. Iniziamo dalle sue esperienze lavorative. Vede, non ci interessa tanto sapere dove, o le sue specifiche mansioni. Ci parli di come è stato accolto nell’ambiente di lavoro, quali sono state le esperienze che ha fatto, ci racconti le emozioni che ha provato in quella situazione.
– Per un mese ho aiutato la segretaria di un centro prenotazioni…avevano tutti molto da fare, il primo giorno sono stati gentili, mi hanno mostrato le diverse zone dell’ufficio, ero un po’ frastornato. Dal secondo giorno, alle 11:00 mi mandavano a prendere i caffè al bar -caffè vero, non quella brodaglia delle macchinette, dicevano- e dopo dieci giorni mi hanno anche fatto rispondere al telefono…ho fatto anche tante fotocopie. No, tempo per fare amicizia poco, ma era lavoro, il lavoro è un diritto garantito, art. 1 della Costituzione, ma anche art. 4 e 36. Dopo due settimane mi ero ambientato, mi hanno fatto compilare gli schedari, e un paio di volte la segretaria mi ha lasciato solo a prendere le telefonate, doveva farsi il semipermanente, diceva. Alla fine il titolare mi ha offerto un lavoretto per l’estate, così, giusto i soldi per il motorino.
– Bene, bravo, bravissimo. Si è integrato nel nuovo contesto, si è fatto apprezzare, ha trovato un lavoro, non importa, non importa se non in regola, è così giovane, avrà tempo… passiamo alla seconda fase. Qui ci sono tre bussolotti rovesciati: sotto ognuno di essi si trova un oggetto. Prego, non abbia timore, ne scelga uno e ci mostri cos’ha trovato.
– Una foglia!
– Oh, benissimo! Una foglia! Cosa le fa venire in mente?
– “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” di Ungaretti che si arruolò volontario nella prima guerra mondiale scoppiata nel 1914 che contiene 19 che è un numero primo che ci porta alla congettura di Golbach nato a Königsberg come peraltro anche Kant che com’è noto dalle 16:27 alle 18:36 si ritirava nello studio che ragionevolmente non doveva essere dissimile dallo studio in rosso di Sherlock Holmes che suonava il violino così importante nella sinfonia “Tragica” di Mahler a sua volta colonna sonora di “Morte a Venezia” di Visconti regista anche di “La terra trema” film neorealista come in fondo anche P.P. Pasolini tragicamente ucciso nella periferia di Roma dove troviamo anche la colonna di Traiano a cui Plinio scrisse delle lettere a proposito dei cristiani la cui morale fu molto criticata da Nietzsche che un giorno abbracciò un cavallo che ci fa pensare ai cavalli forse bizantini di San Marco a Venezia che ha come simbolo un leone che vive nel deserto e divora un islandese nel mentre che dialogava con la Natura in cui gli organismi viventi hanno un DNA che letto al contrario è AND che suona come END e io, ecco, avrei finito…
– Ma bravo, benissimo, perfetto! Caro ragazzo, lei ha dato prova di saper usare le informazioni in un contesto nuovo, adattandosi all’alea del bussolotto con notevole prontezza e mostrando una capacità sopraffina di collegare fra di loro realtà distanti con un’arguzia davvero rimarchevole. Complimenti! Un fulgido destino la attende nel mondo del Pressappoco! Vadi, vadi: l’università della vita la attende!