Per la luce rossiccia che entra nella fessura dell’armadio, Maria ha idea che il giorno stia finendo proprio adesso. Così conta le ore: una, due… Sono ormai cinque. Cinque ore su ventiquattro fanno il venti virgola ottantatré percento della giornata. Praticamente il turno di un part-time. In busta paga, data la media dei salari, saranno quarantacinque euro, che non è male.
Maria fa la spesa ogni giovedì alle sei. Preferisce andarci a piedi, perché poi tornare con le borse belle cariche le dà l’impressione di allenare le braccia. Il supermercato è un luogo amico per Maria: per mezzora buona non deve altro al mondo che girar per le corsie e riempire un carrello. Dentro la testa le si affastellano sciami di pensieri, ma restano tutti a destra e a sinistra del cervello, perché al centro, sotto la fronte, c’è memorizzata la lista della spesa. Non la scrive sui bigliettini. Al diavolo i bigliettini. Uno perché la dispersione di bigliettini l’ha vissuta, tempo fa, ed essere quel tipo di donna, con quella calligrafia stondata, non le è piaciuto per niente. Due perché oltre alle braccia, Maria sfrutta la spesa per tenere in forma anche la memoria. Poi qualcosa lo dimentica, è ovvio. Così rimanda la sfida al giovedì successivo. Questo la tiene in vita.
Fuori è settembre e passa un tramonto spremuto, granoso. Le servirebbe di pisciare, anche subito, e buttar giù un po’ di pane dietro la codeina, altrimenti le si smonta lo stomaco. Invece Maria non può nulla: ha i polsi legati e un tovagliolo stretto sulla bocca. La sola idea di pisciarsi addosso le fa venire i piedi gelidi.
Si è beccata il fuoco di Sant’Antonio il giorno che montavano i capannoni della Festa dell’Unità al Parco Nord. Adesso combatte la fiacca con tre pilloloni al dì e non ci pensa, però ha rischiato. Ha capito che la morte vaga nell’aria come un lazzo di lenzuola, roba che smette un attimo di far corrente e quello si posa e porta via tutto.
Ma la fortuna di Maria, lo dice sempre, non è la salute: è di essersi presa un buon marito. Si chiama Paride. Pensare a lui, qui, chiusa nell’armadio, con una fessura di tramonto e la vescica in piena, le causa quel ronzio alle orecchie che di solito le esce solo a primavera, quando tutto cambia.
Mai avrebbe previsto una reazione così da parte di Paride, mai. Ma si sa, le persone, i mariti in particolare, sono gente capace di svolte improvvise.
D’un tratto un rumore lontano piomba dal corridoio. Il portone suona quello schiocco moderno, d’ottone, a cui Maria non ha ancora fatto l’abitudine. Trasalisce. D’istinto ritira le gambe più sotto che può. Il cuore prende l’ascensore e le va su per il collo.
Cambiano quartiere sei mesi prima, quando il comune decide di assegnare loro un appartamento a canone minimo. Erano anni che puntavano a scalare la graduatoria. Lei accoglie il trasloco con energia, per lui, al contrario, lasciare la casa vecchia è un dolore fisico. Aveva là un orticello che lo faceva stare bene.
Anche adesso, mentre rientra, Paride ripensa al colore che prendeva la terra dopo il temporale. Si sfila il piumino a rombi, poi scarica la spesa in cucina e si dirige verso la camera da letto.
Maria lo ascolta venire, sente il cuoio delle suole, il respiro maschio. Sente anche il suo di respiro, dentro, farsi sempre più largo, così cerca di abbassarlo, di punirlo, ma poi le pare di non riuscire a vivere. Fosse un giovedì qualunque, accoglierebbe Paride informandolo dei suoi progetti per la cena, e Paride, come sempre, si troverebbe d’accordo.
È tornato. Cinque lunghissime ore e il suo amore è di nuovo a casa. Arrivato in camera da letto, Paride si butta le mani nelle tasche e dice:
«Tranquilla, ci sono andato io al supermercato.»
Cammina sospeso per la stanza. Il sangue del sole che scende gli ricalca il profilo. Maria lo guarda con l’occhio migliore, rigida, come si guarda un animale che va sotto la mannaia della natura. Eppure non prova né pena né niente.
«C’ho messo tutto il pomeriggio, lo so» riprende a dire lui, «È che sono stato al bar coi miei amici. Abbiamo fatto il torneo.»
Forse per farsi investire dall’audacia, Paride si piazza davanti all’armadio e lancia lo sguardo sul legno.
«Non ho vinto» aggiunge.
Cavando le mani dalle tasche, si porta dietro una fotografia; è spiegazzata, la carta lucida disseminata da strappi e ditate, i colori sbiaditi che sono la carnagione del passato. Comincia a masticarla tra le dita ruvide, poi ripete:
«Ho giocato bene, ma non ho vinto.»
Mica una novità per Maria. D’altronde non gliene ha mai fatto una colpa. Troppe volte le è toccato di confortarlo, la sera, di ritorno dal bar. “Non ha nessuna importanza vincere al biliardo del bar” gli diceva. Non ci sono premi. E la fama alberga lontana da questo quartiere. Però Maria mentiva: le sconfitte di Paride le hanno sempre mosso uno schifo interno, come se fosse il suo. Lo schiaccerebbe come uno scarafaggio quando lui la prende con “Non ho vinto”. Mai che dicesse “Ho perso”.
«Credo che sto migliorando» ragiona Paride, «Stavolta ci sono andato davvero vicino.»
Che sega, pensa Maria. Preferirebbe un incendio. Spinge gli occhi giù nell’ombra e lascia andare il collo urtando gli appendini, che prendono a ballare senza ritegno. Lì impalato, Paride riceve quel tintinnio mentre si buca il pollice con un angolo della fotografia; cerca nell’immagine un qualcosa, un dettaglio che smentisca tutto.
«Ancora non mi rendo conto di quello che hai fatto» dice, ma è come se lo dicesse a sé stesso. «Non riesco a… Realizzare.»
Maria non si è opposta quando lui le ha strappato i vestiti. E non si è permessa di coprirsi nemmeno mentre la picchiava sui seni. Il dolore che ha causato a quest’uomo è incommensurabile. Per questo Maria pretende di più, di peggio.
«Cosa vorresti da me?» insiste Paride, «Io non so come ti devo trattare. Non lo so più.»
Le sue parole rimbalzano per terra e gli svettano sulla testa.
Adesso basta, si decide Maria. E tira un calcio contro le ante. Di ginocchio. Forte e teso.
L’armadio vibra di un tonfo corto, il lamento del legno scarso.
Aspetta, lei, ma Paride non reagisce: è più vuoto di quel legno.
All’improvviso Maria si scatena coi piedi, di testa, con le spalle, mena contro le ante con ogni pezzo del corpo dove riesce a metter potenza. È in gabbia, inferocita. Ha negli occhi le scintille bianche delle onde che si schiantano sugli scogli.
«Se non mi avessi convinto a traslocare…» dice Paride alzando la fotografia come un’ostia, «Questa non sarebbe mai saltata fuori, ci pensi? Non l’avrei mai saputo…»
La furia di Maria non si placa, anzi, contagia pure le corde vocali: grida, soffoca con tutta la voce nel tovagliolo e il suo ruggito d’abisso riempie l’appartamento; dal primo all’ultimo piano del condominio si scarica un torrente di pazzia e verità. Sembra la risata di un dio cavernoso.
«Cazzo urli, cogliona. Tra le buste paga del ‘91 l’hai nascosta ‘sta foto» dice Paride appena prima di scoppiare a ridere, «Tra le…»
Tutto inutile. Maria è accecata da non sentir gravità nella voce, grida come la vita mai ferma, continua, in linea retta. Dura il tempo di un treno che passa.
Alla fine, il silenzio.
Scende come l’ultima carezza del vento sul campo.
A quest’ora, di solito, Paride e Maria si mettono a cenare e vedono il telegiornale insieme. Paride non sopporta le notizie di cronaca. Maria, invece, le predilige, in particolare se ci sono dei pazzi che hanno fatto dei morti. Entrambi sono di quelli che masticano piano, con garbo, spiluccano il cibo senza sporcare e sparecchiano prima del meteo; aprono il rubinetto al massimo, non possono accettare che qualcuno gli dica che tempo farà domani.
«Sei una puttana, sei» fa Paride, «Una puttana!»
Poi si accovaccia per slacciarsi le scarpe e se le cava. La fotografia precipita sul pavimento come la moneta di un testa o croce, lì, tra la scarpa destra e la sinistra, spiaggiata sui lacci, che sgusciano via come bisce di mare.
Scalzo, Paride si avvicina all’armadio e copre con la sua mole quella luce che passava per la fessura. Dopo cinque ore Maria torna a respirare i vestiti del marito, misti a quella vena di sudore che porta con sé quando rincasa dal biliardo.
La chiave si addentra scattosa nella serratura dell’armadio e apre, poi Paride gira i talloni e mette un passo avanti l’altro fuori da questa storia.
È venuto buio senza preavviso. Come quando ti svegli e non capisci che ore sono.
Maria sente freddo, e purtroppo non è inverno. Spalanca con un tocco, prima una e poi l’altra, le ante, lentamente. La penombra cala a vestirle il viso rugoso e livido.
Tremando, allunga un piede come una diva che scende dal taxi.
Ma il piede di Maria assomiglia a un pesce morto.
Prova a scivolare tutta sul legno, per le gambe, d’inerzia, poi col bacino e infine coi gomiti. L’armadio la graffia come un rastrello sui reni, ma può sopportarlo.
Accasciata sul pavimento, Maria si guarda intorno: è la stanza dove dorme da mesi, eppure le sembra di non esserci mai stata. Individua per prima la sua vestaglia di seta, laggiù, piegata all’angolo del termosifone, poi il letto fatto e gli orecchini sul comodino.
Come una lumaca storpia, si distribuisce a macchia e striscia in avanti verso le scarpe di Paride; vorrebbe metterle in ordine sotto l’attaccapanni, dove devono stare. La pellaccia delle sue mani fischia sulle mattonelle. Si fa leva con le punte delle ossa, e sfodera una forza che già sapeva di avere, ma che adesso la spaventa, le mette il freno.
Quando arriva a quelle scarpe, dopo forse mezz’ora, il suo corpo si spegne e gli occhi le precipitano sfiniti sulla fotografia; a prima vista, ne è quasi sicura, la stampa dovrebbe misurare dieci centimetri in altezza e quindici in lunghezza, ma non ha modo di verificarlo.
Dentro quella foto c’è lei, a trent’anni, a Venezia, appesa alle labbra di un uomo che non è Paride: Leonardo.
Maria l’aveva conosciuto in fila al bagno del cinema all’aperto. Era l’estate della strage alla stazione. Piazza Maggiore scoppiava di gente, ma faceva così buio e silenzio che la si sentiva deserta. Leonardo era anche lui bolognese, i capelli neri lunghi fino al collo, il cravattino blu e il mento stretto che lo rendeva bello anche se aveva sgomento.
A Venezia c’erano andati alcuni mesi dopo, l’ultimo fine settimana di novembre, giorni così segreti che non lo sapeva neanche il calendario. Faceva un freddo becero e i vaporetti giravano smunti, senza funzione, utili solo al loro baciarsi, baciarsi, baciarsi in ogni calle. Venezia l’aveva scelta Leonardo, perché adorava l’umidità sulla pelle di una donna.
Dalla cucina viene il rantolo del frigo che si chiude, poi il calore del forno che emana radiazioni di melanzane. Sembra definitivamente notte, ma è una bugia.
Maria lascia correre un’altra lacrima sotto l’occhio. Il tovagliolo stretto sulla bocca non le permette nemmeno di passarsi la lingua sulla dentiera, come le piace fare quando si sente sola.
La Festa dell’Unità è finita ormai da una settimana e i capannoni sono ancora lì, alti e vuoti come cattedrali di nylon. Di notte i guardiani passeggiano in qua e in là, alcuni vanno lisci come esploratori, altri razzolano a perdere dentro un recinto che non sopportano. Tra loro ce n’è uno che non cammina mai. Se ne sta stravaccato su una seggiola, immobile. Maria lo osserva ogni sera dal terrazzo; vuol vedere se quel petto respira, se quegli occhi battono, o si muovono, se quei piedoni avranno lo stimolo di scalciare la ghiaia. Ma niente: statuario, il guardiano resta impresso sulla seggiola come una montagna del panorama che ti è amica.
Perché lo guarda? Perché le fa tornare in mente che il mondo è un posto pieno di persone sole. Maria sa che deve lasciare il pianto a qualcun altro, c’è gente che ha mille motivi per urlare male, non lei.
È così che ci completiamo, crede. Il nostro equilibrio collettivo resiste per scompensi. Chissà che un giorno non saremo tutti pari, ognuno con gli stessi centilitri di dolore e pronti a dirci che è stato un piacere brindare con voi.
Stesa a terra, toglie gli occhi dalla fotografia e decide che è ora di smetterla di frignare.
E la smette.
Vuole il futuro, Maria, come le bambine precoci alle scuole medie.
L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista.
La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale.
È quanto mai necessario “rimettere al centro” del dibattito la questione della scuola.
Come? In tre modi almeno:
a) parlandone e molto, in un’informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso;
b) ricostituendo un fronte comune di insegnanti, Dirigenti Scolastici, studenti, genitori e società civile tutta; e, soprattutto,
c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa.
Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?
7 temi per un’idea di Scuola
da leggere come studente, genitore, insegnante, cittadino
Conoscenze vs competenze
Una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro. Una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedono riferimenti che affondano le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia delle discipline.
Crediamo che:
Aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano, anche con l’appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”.
La competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi. La cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non è un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”.
Non ha senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche.
Innovazione didattica e tecnologie digitali
Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali (debate, CLIL,flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola.
Crediamo che:
Ogni innovazione metodologica o tecnologia digitale sia un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze. Sul loro impiego l’insegnante è chiamato a riflettere e valutare in maniera incondizionata e libera. Codificare pratiche e metodi, presentati come lapriorità della Scuola, è una semplificazione retorica arbitraria, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che ridefinisce finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio a un’ideologia indiscussa.
L’inflazione di innovazioni didattiche (in particolare il CLIL) e gli sperimentalismi digitali offrono spesso narrazioni impazienti ed elementari (mappe, slides, video, “prodotti”, progetti), propongono procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale.
Non è con il mero ingresso di uno smartphone in classe che si migliora l’apprendimento o l’insegnamento. Si può, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento. Miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento passano per altre strade, quelle dell’attuazione del dettame della nostra Costituzione.
Caro amico, oggi scriviamo su Sud! Scriviamo su Sud! Scriviamo su Sud! Ma perché? Ce lo chiede l’Europa. E noi italiani quando l’Europa ci chiede qualcosa allora guai, siamo pronti a fare tutto quello che ci viene chiesto. Riformuliamo pure il noto discorso alla nazione: “Non chiederti cosa può fare l’Europa per te ma chiediti che cosa ti può chiedere l’Europa e poi non chiederti altro!”. Mi confermate che la Spagna sta a ovest, la Germania a est, l’Italia a sud e l’angoscia un po’ ovunque? Ma poi che vuoi che mi importi dell’Europa, caro amico, siamo un continente sovrappopolato da persone orrende.. I cinque Paesi più giovani del mondo sono tutti in Africa , tié. In Niger l’età media è di 15,1 anni, in Uganda e in Mali si arriva a 15,5 anni, mentre quei vegliardi del Malawi e dello Zambia arrivano addirittura a 16 anni. L’età media della Germania è di 46,1 anni, giusto per capirci.
Siamo vecchi, è chiaro. Qui dovrei metterci un punto esclamativo. Oppure un punto e virgola. Ma quand’è di preciso che si usa il punto e virgola? Di giovedì? Lo so ma non te lo dico. Tanto sei un europeo ignorante. Peggio, potresti essere un italiano (un italiano su tre decifra con difficoltà anche le frasi più semplici). Mentre sei impegnato a decrittare le parole, durante la lettura, non riesci a cogliere il senso di quello che leggi: nel tuo caso, in pratica, siamo di fronte a una alfabetizzazione apparente. Come la maggior parte degli europei sei in grado di identificare i segni di lettura ma non capisci ciò che leggi, questi sono i dati. Come dici? Stai a Parigi? Non scappi lo stesso. L’80% dei francesi non è in grado di riformulare la seguente frase utilizzando esclusivamente sinonimi: il gatto di casa beve perché ha sete. Mettili alla prova. Vedrai che disastro. D’altronde, la metà degli spagnoli non è andata oltre la terza media, come le mie due nonne, ora scomparse. Cosa vuoi che ti dica, amico mio, ai tempi delle mie nonne non esistevano neppure le App. Per dirti la barbarie. Ma oggi è tutta un’altra storia. Lunedì, nella sala d’attesa del medico, ho assistito al seguente dialogo tra un bambino bianco e una bimba nera: “Come si chiama la tua mamma?” “Mamma.” “Anche la mia.” Meno male che non c’erano leghisti/fascisti in attesa, quelli che non usano molto la testa ma “ragionano di pancia”. Ecco, io questi non li sopporto molto, caro amico, perché tutti sanno che dalla pancia viene solo una cosa, e non è una cosa bella.
Dicevamo dell’Europa? La scorsa settimana ero alla stazione, in Slovenia, e ho assistito a un duello aereo tra un falchetto e due corvi. Intorno a me c’era una intera scolaresca, tutti inchinati ai cellulari, mentre sopra di loro la grandezza del creato sciabolava quest’epica scena, si sentiva quasi il profumo di Dio, anche se io sono religiosamente ateo. Ma poi chissenefrega, per me la differenza tra un cristiano e un ateo è impercettibile. Tu sei cristiano? Ah, bene, perfetto. E perciò non credi in Venere, in Nettuno, in Enki, in Odino, in Ra, in Seth, in Zeus, in Anubi, in Mitra, in Osiride e in tutti gli altri 2999 diversi dei prodotti nella storia dell’umanità, giusto? Bene, io non credo a 3000 diversi dei. Lo vedi che la differenza è impercettibile? Sì, lo so, sto facendo lo stupido. Da ragazzo ero un coglione, poi però le cose sono cambiate. Ora non sono più un ragazzo. Ma credo che una speranza per l’Europa ci sia, l’ho vista ieri. La ragazza – bruna, slanciata, dai tratti asiatici – si è avvicinata alla vetrina centrale della libreria con fermezza. Ha puntato Tabucchi. Io ho pensato: ah, se Tabucchi, questo straordinario scrittore italiano, ah se Tabucchi, questo straordinario stato d’animo portoghese, potesse vederti, ragazza mia, come sarebbe felice. Ma nulla: la ragazza si è specchiata, si è risistemata i capelli, ha roteato la chioma come nella pubblicità di un balsamo, ha sorriso al suo riflesso e se n’è andata. È un po’ così l’Europa, è un po’ una ragazza che si specchia in una vetrina mentre potrebbe leggere un libro di Tabucchi. Eppure ci conosciamo meglio, e conosciamo il mondo sempre di più. Nel 1950 viaggiavano nel mondo 25 milioni di turisti, oggi siamo arrivati a 1,2 miliardi.
Ora, caro amico: non sono sicuro che viaggiare apra la mente (metti una persona brillante in prigione e ne verranno fuori le Lettere dal carcere di Gramsci; manda un babbeo a fare il giro del mondo e ne ritornerà un babbeo) però tutto questo viaggiare, annusarci, assaporarci a vicenda dovrebbe averci un pochettino migliorati, noi europei, noi razza umana, noi razza di idioti. E invece no. Questa geografia la possiamo raccontare come una storia, e questa storia la possiamo disegnare: utilizzando dei cerchi isolati, che non comunicano, che non scambiano relazioni, che non si amano, cerchi isolati ecco qua. Poi alla fine sta tutto in Moby Dick. Quando qualcuno chiede a Ismaele da dove provenga, lui risponde: “Non compaio sulle mappe. I posti veri non ci sono mai.” Ecco, fate conto che Ismaele sia l’Europa. È per questo che la amiamo perdutamente, no?
– Perché Praga mi attrae? dissi, sorpreso dalle sue domande inattese. Esistono certe condizioni psichiche, per le quali abbiamo necessariamente bisogno di un ambiente corrispondente. Non comprendo la lingua che a Praga la gente parla. Non so nulla sul presente di quella città. Tutto quello che cerco lì è il passato. Quando voglio provare la sensazione che avrebbero i morti, posti nelle cattedrali dentro casse di cristallo, quando voglio guardare la vita come attraverso il vetro della propria bara, vado a Praga. La sua aria è opprimente e pesante per la tragicità di tutto quello che lì è accaduto. Vedo il Castello, Malá Strana, la piazza della Città Vecchia e sento che solo il Passato è presente a Praga. Non devo sapere niente neanche sulla storia. Quando vi arrivo, vengo a sapere, come se guardassi tutto con i miei occhi, di ogni cosa accaduta. Non devo sapere nulla sulle esecuzioni capitali dopo la battaglia della Montagna Bianca. Il piede stesso si ferma sul piccolo quadrato di terra, lì dove guardano le case antiche, come se tuttora dalle loro pareti rimbalzasse cupo un rimbombo di tamburi velati di nero. A Praga è tutto finito e giunto al culmine. È indifferente chi viva adesso lì, come è indifferente chi abiti un vecchio palazzo malandato quando i suoi proprietari sono morti. Cammino per Praga volentieri di notte: ecco, è come avvertire ogni respiro della sua anima. Nei rari istanti di un’improvvisa chiarezza mi sembra che la gloriosa città morta si risvegli e di nuovo s’immerga nello specchio triste, scuro, della sua fatale vanità.
Note di traduzione
di Růžena Hálová
Il Romanzo di Manfred Macmillen, pubblicato a Praga nel 1907, è la prima parte della trilogia Romanzi di tre maghi di Jiří Karásek ze Lvovic. Appartiene al mondo della letteratura fantastica fin de siècle. Alla sua uscita, rappresentò un anacronismo, un tentativo di ridare nuova vita al romanzo gotico nella modernità di inizio Novecento. A proposito del racconto fantastico dell’Ottocento Italo Calvino, nell’Introduzione ai Racconti fantastici dell’Ottocento (1983), scrive che il soprannaturale appare al lettore di oggi “carico di senso, come l’insorgere dell’inconscio, del represso, del dimenticato, dell’allontanato dalla nostra attenzione razionale (…) Ci dice più cose sull’interiorità dell’individuo e sulla simbologia collettiva”. Nel romanzo di Jiří Karásek tutto questo è già nelle intenzioni dell’autore. Il tema principale di questo libro è il rapporto tra la realtà del mondo che abitiamo e la realtà del mondo del pensiero che abita in noi, l’oscillazione di livelli di realtà inconciliabili.
Subito, dalle prime pagine, si alza lo spettro di una Praga misteriosa, il suo fantasma pallido si fa avanti dalle lontananze scure e fatali avvolto negli onirici veli dell’irrealtà. Una città del passato, dei sogni e del mistero è percepita come un’entità che domina chiunque vi posi il piede, che incanta con la sua bellezza fatale e con il mistero della morte Praga raffigura uno spazio destinato alla ricerca dell’identità messa in dubbio o persa da uno dei protagonisti, il conte Manfred Macmillen. Da lui stesso è paragonata ad un monastero: “Quando era triste, quando voleva stare da solo, diceva di ritirarsi nel ‘monastero’, e partiva, non rivelandolo a nessuno, per Praga”.
Il conte Manfred Macmillen, dandy dal carattere ambiguo e dalla nazionalità indefinita, è un personaggio caratterizzato da una non ostentata eleganza e da una sottile ironia. Compone il proprio mondo di ambienti selezionati come se fossero delle quinte, in un’atmosfera che è in armonia con la sua vita, e a tal fine sceglie anche le persone di cui si circonda. Frequenta luoghi antichi, misteriosi e solitari; fuori da questi spazi si maschera con la noia e l’indifferenza.
Dietro le apparenze nasconde nella sua anima la passione di una vita movimentata quanto solitaria, il cui ritratto Manfred svela dinanzi al suo amico Francis, invitandolo a unirsi a lui, a entrare nel suo mondo. Un mondo che, attraverso lo sguardo di Francis, aprirà al lettore-spettatore uno spazio in cui si fondono la cornice del mondo reale e il molteplice ritratto del mondo interiore, rendendo la veridicità e la finzione delle sue immagini ancora più incerte. La maschera dandy di Manfred, o meglio il dubbio di Francis se essa sia una parte, e quanto consapevolmente giocata da Manfred, o se essa faccia parte della vita stessa di Manfred, trasforma il suo racconto in una finzione continua a cui allude anche il nome dell’opera stessa. Il tormento di Manfred per un suo misterioso doppio, un diario che si rivela identico al testo di un’opera teatrale, l’ossessione per la figura di Cagliostro in cui Manfred coglie la menzogna elevata a elemento fondamentale dello stile e la trasformazione degli altri in elemento adatto alla creazione di una propria realtà: tutto questo sviluppa simultaneamente con la narrazione esoterica la linea del gioco di vivere proprio del dandy.
Una fusione di finzione e vita reale il cui abisso è svelato da un finale aperto e incerto, quando dalla materia stessa della vita prende forma un’opera d’arte tutta incentrata sulla finzione. L’essenza di questo romanzo potrebbe essere racchiusa nell’ultima frase, dalla venatura autoironica, dell’introduzione del romanzo scritta dallo stesso Jiří Karásek : “Un buono stilista, se s’ingegna, raggiunge sempre l’incomprensibilità desiderata”.
Le librerie indipendenti parlano con due linguaggi, quello della fierezza della qualità del servizio rispetto all’anonimato delle grandi catene e quello dell’imminenza del naufragio perché “in Italia si legge sempre meno”.
Ma c’è uno sparuto gruppo nel mondo che invece non ha problemi di vendite, sono “le librerie più belle del mondo”. Il virgolettato viene dai titoli che si trovano sul web: ogni anno, forse ogni mese, c’è almeno un sito che pubblica, prendendolo da un post precedente di un’altra testata, una galleria di foto delle più belle librerie del mondo e l’articolo viene a sua volta rimbalzato da diverse testate.
E’ scomparso nella giornata di ieri a Milano Francesco Leonetti ( 1924-2017), poeta, scrittore, militante politico e figura di rilievo della letteratura italiana novecentesca. Se il suo nome in sede storica richiama innanzi tutto due riviste e due esperienze cruciali del Novecento italiano come Officina a Bologna negli anni Cinquanta con Pasolini, Roversi e altri e Alfabeta negli anni Ottanta a Milano con Eco, Balestrini, Volponi, Maria Corti e altri, la sua cifra intellettuale più autentica è stata quella di coniugare una forte passione politica con un’inesausta curiosità culturale: per Leonetti il piano della conoscenza del mondo e quella della critica dei rapporti di forza che ne determinano le gerarchie erano strettamente intrecciati. In questo senso egli apparteneva a una civiltà letteraria e politica profondamente diversa da quella attuale.
La forma della rivista, tipica del resto della cultura letteraria del Novecento, era per Leonetti il veicolo ideale di questa attitudine etica prima ancora che estetica e intellettuale, nella quale lo slancio conoscitivo e la tensione ideale si fondono. Questi elementi si ritrovano anche nelle sue tappe poetiche più significative da Percorso Logico 1960-1975 a In uno scacco fino a Le scritte sconfinate. Del resto la lucida passione che lo animava era di solito il tratto che colpiva immediatamente chi l’ha conosciuto, ma, anziché perdersi nella congerie dei ricordi, verosimilmente il modo più giusto per ricordarlo è ricorrere ai suoi stessi versi:
Io nativo cosentino in un fitto di larici
guardavo infante d’estate, mondo caldo,
alle colonie greche tra i sibariti
e ai popoli delle coste:
che danno sotto la ghiaia la sepoltura
a corpo rannicchiato, come a feto.
E ho naso forte e sesso
con allegrezza. Utopia nella testa…
La lingua è di Campanella e vociana
e di militanti moderni, addolcita
con suoni di Bologna, negli studi.
Le ragioni di arcaico
che tollero o amo, volterriano del sud,
sono di base con furore logico.
Da La prima posa in AA.VV. Poesia italiana della contraddizione, Roma, 1989
In autunno, i boschi d’alta quota del Sudtirolo si punteggiano di giallo. Sono i larici, unici tra le conifere a non essere sempreverdi, ad accendersi di colore
Progetto per S. è il primo libro di Simone Burratti, ed è una delle prime uscite all’interno di “Le Civette”, la recente collana che la Nuova Editrice Magenta ha dedicato alle opere prime. Magenta è la casa editrice che ha pubblicato Laborintus di Sanguineti nel 1956; nella storia della letteratura italiana il suo nome è legato soprattutto ad opere d’avanguardia. Anche la plaquette di Burratti è sperimentale, come si legge nel risvolto di copertina firmato da Viviana Faschi, ma lo è in modo diverso non solo rispetto alla Neoavanguardia, come è ovvio, ma anche rispetto a molta poesia di oggi che presenta un marchio esibito di sperimentalismo.
Il libro si compone di quattro sezioni (Posizione orizzontale, Costruzioni, Appunti per un distacco, Quadrato), ognuna contenente cinque testi, per un totale di venti. La terza sezione è quella più esplicitamente sperimentale: Poesia dello zenzero e Scarborough Fair possono essere considerati esempi di googlism; Cronologia consiste nell’elenco di tag o frasi tipiche della pornografia; Stinkfist è una traduzione molto libera di una canzone dei Tool, come si legge nella Nota alla fine del libro. Nessuno di questi testi, dunque, è scritto per rispecchiare o permettere l’espressione di una voce individuale; eppure sono in continuità con la voce presente nel resto di Progetto per S., che può sembrare autobiografica.
[Con minime modifiche e aggiornamenti, il pezzo che segue è tratto da La stato della città (a cura di Luca Rossomando, Monitor edizioni, 2016), un volume che traccia un profilo dell’area metropolitana di Napoli abbracciandone tutti gli ambiti, dall’urbanistica all’ambiente, dall’economia al lavoro, dalle politiche sociali e sanitarie fino alla produzione culturale. Un libro collettivo – firmato da 68 autori – che si propone come supporto per una discussione sulla città di Napoli].
di Chiara De Caprio
A mo’ di premessa. Estate del 2015. Giurie e lettori discutono se si possa premiare una scrittrice senza volto: il suo nome è Elena Ferrante, e sta vendendo un sacco di copie negli Stati Uniti con una quadrilogia di Neapolitan novels. A sponsorizzarla allo Strega è, tra gli altri, Roberto Saviano, che con Gomorra (Mondadori, 2006) ha venduto milioni di copie, vinto premi, fatto balzare sulle copertine dei giornali le periferie napoletane e il sistema della camorra.
Al di là delle differenze, con Ferrante e Saviano la letteratura, incrociando le sue strade con quelle del cinema e della televisione, diviene fenomeno di massa e occupa uno spazio assai più ampio di quello che le ritagliano l’industria del libro e il mercato editoriale. E tuttavia, se anche non considerassimo Ferrante e Saviano, la produzione di romanzi e narrazioni “di” e “su” Napoli non rimarrebbe affatto sguarnita. Anzi, ce n’è per tutti i gusti, come rivela anche solo un mero ordinamento cronologico di alcuni romanzi, narrazioni e raccolte di racconti editi tra il 2000 e il 2015.
Tra il 2000 e il 2001 Antonio Franchini fa i conti con la memoria personale e collettiva nel suo L’abusivo (Marsilio), Domenico Starnone racconta la fiumana di oscenità, intemperanze, bugie che il ferroviere Federì riversa su moglie e figli nel romanzo con cui si aggiudica il Premio Strega (Via Gemito, Feltrinelli). Nel 2002, dopo Mistero Napoletano, Ermanno Rea narra in La dismissione la storia amara dell’Ilva di Bagnoli, cui seguirà l’ultima parte della trilogia sulla città, Napoli Ferrovia (Mondadori, 2007). Tra il 2002 e il 2006, edizioni e/o pubblica I giorni dell’abbandono e La figlia oscura con cui, dopo L’amore molesto (1992), Elena Ferrante chiude una trilogia di romanzi dedicati al rapporto con la maternità di figure femminili chiamate anche a interrogarsi sul loro allontanamento da Napoli.
Negli stessi anni Nel corpo di Napoli (Mondadori, 1999), A capofitto (seconda edizione rivista, Mondadori, 2001), Di questa vita menzognera (Feltrinelli, 2003) e la raccolta di racconti Magic People (Feltrinelli, 2005) danno corpo alla vocazione di romanziere e narratore di Giuseppe Montesano. Nel 2015, mentre il grande pubblico si appassiona alla quadrilogia “napoletana” che Elena Ferrante dedica all’Amica geniale (2011-2014), esce per Neri Pozza Il genio dell’abbandono, romanzo in cui Wanda Marasco narra la parabola esistenziale e artistica di Vincenzo Gemito servendosi di una lingua che sembra essa stessa voler incarnare la guizzante potenza visiva delle sculture di Gemito.
Questa la superficie, fatta di titoli, autori, case editrici, date. Restano, sul fondo, le domande più importanti: in quale Napoli sono ambientate queste storie? Che cosa accade ai personaggi una volta immessi in uno specifico spazio urbano, quello napoletano, saturo di storie e narrazioni?
Lo spazio e la lingua
Senza alcuna pretesa di completezza, alcune immagini si dispongono in sequenza, quasi a suggerire la possibilità di un percorso: una bruma rossastra e ostinata che s’insinua negli angoli più remoti delle case di Bagnoli; la pioggia scrosciante che riporta a galla quanto fogne e sottosuolo avevano inghiottito; l’opacità violacea del mare; lo spazio urbano, saturo di suoni: il tonfo sordo di sprofondamenti e voragini, i clacson nervosi delle auto e dei motorini, il «precipizio di voci» e urla che col loro timbro sembrano rendere diversa la qualità e la consistenza dell’aria: più opaca, più pesante, più aggressiva.
Tratte dal romanzo-inchiesta di Rea e dai romanzi di Montesano e Ferrante, le immagini appena proposte nulla concedono al canone della città “da cartolina”: inondata dal sole, pigramente adagiata su colline da cui, complice l’aria tersa, si scorge la sagoma del Vesuvio o il profilo sinuoso di Capri. Nulla, dunque, di quell’insieme di topoi che hanno contribuito prima a definire e poi rendere riconoscibile una certa “napoletanità” di maniera; semmai, un diverso sistema di immagini che, con la sua compattezza, costituisce una precisa indicazione sui modi in cui i narratori hanno ripensato la relazione tra città reale e raffigurazioni della città, ridefinendo – per continuità o differenza – il loro rapporto con quel ricco patrimonio di rappresentazioni letterarie che di Napoli sono state proposte tra Otto e Novecento.
Non è superfluo richiamare il fatto che l’aggettivo “napoletano” si riferisce in queste pagine a due caratteristiche: ambientazione e veste linguistica. Innanzitutto, per narrativa napoletana s’intendono quelle narrazioni che ambientano le loro storie a Napoli e nel suo hinterland; in seconda battuta, si vuole sottolineare il fatto che, tra queste, alcune esibiscono un impasto linguistico tra i cui ingredienti figurano l’italiano locale e il dialetto: viene così delineato uno spazio che ricrea e rielabora la situazione socio-linguistica della Napoli di oggi o del passato.
Richiamiamo, per ora, alcune modalità di rappresentazione della città. Che di Napoli ce ne siano due, anche nei romanzi, è stato osservato molte volte. E, come per la città reale, anche per le Napoli dei romanzi è stato discusso se queste due metà siano conseguenza della Storia o della Natura; in quest’ultimo caso, la frattura tra due poli viene assunta come un dato, a un tempo, morale e biologico della città: la Napoli bassa, agitata da istinti e sfrenatezza, senza soluzione di continuità e fratture storiche, diviene così il luogo in cui si consuma l’eterna battaglia della fame e del sesso, e dei poveri contro i poveri.
Data la forza interpretativa che questo modello ha avuto (in Domenico Rea e Anna Maria Ortese, per esempio), è utile capire come i romanzi di Napoli degli ultimi anni ci abbiano fatto i conti. Scopriamo così alcune cose. Anche in virtù di una collocazione temporale che parte dagli anni Cinquanta e Sessanta, i romanzi della quadrilogia di Elena Ferrante sono quelli in cui Napoli è rappresentata attraverso un modello nel quale due poli contrapposti nello spazio rimandano a una diversa organizzazione culturale, sociale e linguistica: la risalita di Elena dallo squallore del Rione alla casa inondata di luce di Posillipo trova un correlativo nella sua aspirazione all’italiano e nel suo atteggiamento di rifiuto e rimozione delle voci dialettali; la scelta dell’italiano, quindi, sa sì di emancipazione, ma reca memoria del doloroso e necessario allontanamento, fisico ed emotivo, dalle tane e dai ripostigli bui del dialetto. Questo perché nelle storie della Ferrante le voci dialettali rimandano a un universo dominato dalla violenza e dall’oppressione patriarcale. Nei romanzi L’amore molesto e La figlia oscura il dialetto agisce su madri e figlie come «un frullato di seme, saliva, feci, orina» che, paralizzandone gli organi fonatori, le riduce al silenzio. Narrare la propria storia significa, però, per le protagoniste-narratrici, ascoltare il suono delle parole dialettali, comprendere il modo in cui esse hanno condizionato scelte e movimenti, e fare, infine, i conti col proprio disgusto verso «la cavità cupa del ventre» femminile. Quando, alla fine della Figlia oscura, nel ricevere una telefonata, Leda risponde «commossa» alle figlie che accentuano in modo esagerato la sua cadenza napoletana, capiamo che qualcosa, infine, si è mosso nel suo spazio interiore: il rapporto più flessibile tra dialetto e italiano è spia di una diversa relazione con il suo ruolo di madre e col passato.
Già nell’Amore molesto, del resto, Elena Ferrante faceva di Napoli un luogo in cui si dipana una trama che svela una verità a un tempo personale e universale. E, tuttavia, anche nel primo romanzo la griglia urbana non scolorisce in una rappresentazione convenzionale; anzi, il movimento dei personaggi attraverso uno spazio mai generico contribuisce a produrre l’accerchiamento della protagonista Delia: è la città stessa che la incalza e le toglie l’aria.
Pur partendo talvolta dal modello delle “due Napoli”, le storie situate dopo gli anni Ottanta assumono, invece, come operatori di narratività gli sconvolgimenti nel tessuto urbano verificatisi a partire dagli anni Cinquanta (cioè, gli anni del laurismo, delle speculazioni edilizie, dell’espansione delle periferie). Anche nei romanzi, Napoli diviene centrifuga, si ramifica e si collega alla costellazione di paesi dell’Area Nord che s’incuneano verso la provincia di Caserta. Non solo in Gomorra, quindi, la visione dualistica è problematizzata e soggetta a verifiche. Per esempio, nei romanzi di Montesano le due Napoli, alta e bassa, borghese e plebea, italiana e dialettale, si sgretolano e confondono l’una con l’altra: perché ora al Vomero e Posillipo piove, il mare appare come una lastra grigia e l’aria è irrespirabile; ma anche perché nei due quartieri residenziali e italofoni vivono anche e soprattutto camorristi e nuovi ricchi.
A determinare la messa in crisi del modello delle due Napoli sono, in effetti, alcuni fenomeni che a partire dagli anni Ottanta e Novanta caratterizzano Napoli e il suo hinterland: la moltiplicazione delle periferie; il proliferare di cinture viarie esterne, bretelle e raccordi autostradali; la sostanziale contiguità politica e consumistica tra quartieri “borghesi” e “popolari”; la diffusione dei centri commerciali, che di questa contiguità diventano l’emblema per eccellenza.
Questo allargamento degli spazi non comporta per forza l’oblio di quelli tradizionalmente rappresentati: al contrario, non mancano casi in cui il confronto con la produzione narrativa otto-novecentesca porta a una rilettura attualizzante dell’immaginario topografico tradizionale. Può così accadere che in Magic people di Montesano il “palazzo-microcosmo”, nel suo doppio statuto di luogo della città reale e della città narrata, assuma, di volta in volta, i tratti di uno studio televisivo di un reality show, di un manicomio, di un lager: se nella narrativa napoletana l’interno poteva essere tana, rifugio, cavità materna, esso ora diviene gabbia, prigione.
Tra italiano e dialetto
Che sia rappresentata secondo un modello spaziale duale e centripeto o, al contrario, multifocale e centrifugo, negli ultimi quindici anni l’ambientazione napoletana comporta spesso una caratterizzazione linguistica che si fonda sulla presenza del dialetto e delle varietà d’italiano locale (la diversità dei romanzi di Ferrante è doppiamente significativa, perché proprio quel dialetto rimosso dalla superficie linguistica agisce nella trama e sui personaggi). Certo, le soluzioni sono diverse: c’è posto per gli usi iperrealistici e grotteschi di Magic People, così come per le potenti escursioni stilistiche che, a partire dal dialetto e dall’italiano locale, si registrano in Di questa vita menzognera e Il genio dell’abbandono. Proprio i due romanzi di Montesano e Marasco permettono di mettere a fuoco un ulteriore aspetto. Ciò che è notevole in alcuni romanzi di Napoli non è solo il lavoro sul serbatoio locale e la resa dei fenomeni d’interferenza tra dialetto e italiano, ma anche la qualità stilistica con cui sono restituiti i rapporti tra le altre varietà del repertorio nazionale: la pressione “orizzontale” dei codici della vita quotidiana, l’ampia gamma dei sottocodici delle professioni e dei gerghi, le retoriche dei linguaggi politici e dei nuovi media. Sebbene le soluzioni di Montesano e Marasco, ma anche di Starnone, siano diverse, è però vero che la lingua dei loro romanzi è a un tempo doppia, plurivoca, aperta a spinte centrifughe verso l’alto e il basso. Se si può parlare di ricreazione mimetica di usi linguistici della città reale, è solo a patto di riconoscere che, nel suo complesso, l’efficacia della soluzione proposta da questi narratori trova il suo fondamento nella consapevolezza della inquieta relazione che linguaggio e narrazioni intrattengono con la realtà. Attraverso la postura della voce narrante, i romanzi sono sorretti da una tensione conoscitiva che spinge a sfidare l’opacità che s’interpone tra la pagina scritta e tutto ciò che la circonda; il gusto per elenchi di parole, i fenomeni di correctio e le soluzioni parafrastiche in italiano e dialetto mirano a restituire alla trama la capacità di significare, con la sua alterità, nello scarto e tra le faglie di formulazioni concorrenti.
Un secondo aspetto va evidenziato. La compresenza di registri diversi, l’urto e l’incontro tra italiano e dialetto, i movimenti tra scritto e parlato – in una parola, la polifonia della lingua – rimandano a prospettive esistenziali e sistemi assiologici tra loro in competizione e in contrasto. In Via Gemito di Starnone, il confronto con l’ingombrante figura del padre, persino quando avviene nella forma di un ricordo provocato dal «soffio di vecchissime rabbie», si traduce in una perdita della capacità di «misurare le parole», in uno scivolamento verso le esagerazioni «rozze» e «imprudenti» che Federì era solito affidare al dialetto. Nella produzione di Montesano, sono invece l’italiano locale basso dei cafoni arricchiti e la lingua di plastica dei reality a rubarsi a vicenda la scena e a dispiegare – dagli schermi televisivi, lungo le strade della città, nelle residenze in collina dei nuovi ricchi – il loro potenziale entropico sul narratore: sulla testura linguistica della sua voce, sulle sue capacità di conoscenza e interpretazione del mondo.
Allo stesso modo, il confronto e la tensione tra i personaggi che affollano Il genio dell’abbandono di Marasco assumono consistenza sonora non solo attraverso la mescolanza di italiano e dialetto, ma anche con la ricreazione di un’ampia gamma di registri dell’italiano: sul versante dello scritto, sono abilmente resi gli appunti del dottor Virnicchi sull’internato Gemito; l’asciutta (e, per Gemito, reticente) notazione del registro degli orfani dell’Annunziata con la sua pretesa «di svuotare burocraticamente il mistero di una creatura»; le lettere e le memorie di Gemito, con tutto il campionario di errori tipici delle scritture semicolte, sempre in bilico tra oralità e scrittura, dialetto e italiano. Sul fronte dell’oralità, nel romanzo della Marasco, tra botteghe e bassi, cliniche e “salotti buoni”, le parole e le frasi in italiano, francese e napoletano rincorrono e accerchiano Vincenzo, si mescolano ai suoi discorsi per poi spegnersi nel momento in cui la notizia della sua morte si diffonde in una città che si riscopre smarrita e senza voce per «lacuna» o «pentimento».
Sebbene sia diversa la soluzione proposta, anche nell’Abusivo e in Gomorra (e, in modo tutto sommato non diverso, nella Dismissione) hanno una precisa funzione – stilistica e narrativa – le tecniche di riuso, prelievo e inserzione di un’ampia gamma di testi e parole dei linguaggi specialistici: inserti provenienti da altre sfere mediatiche, brani di articoli di cronaca locale, intercettazioni, verbali d’interrogatori, parole del gergo malavitoso e stilemi della cronaca giornalistica. Separando ciascuno di questi elementi dal suo contesto originario e riposizionandolo nell’architettura del romanzo, Franchini prima e Saviano poi mettono in luce formazioni discorsive e strategie retoriche degli universi di discorso di cui parlano: è anche attraverso questa opzione per un linguaggio capace di ricontestualizzare tessere testuali diverse che prende forma il peculiare timbro della voce che nell’Abusivo e in Gomorra dice “io”. Se questi materiali sono inseriti in una narrazione in cui la dimensione autobiografica è un modo di dizione e una postura etica, è appunto per far sì che il lettore sappia che questa voce si assume la responsabilità di interpretare, valutare, e dire.
Le osservazioni relative alla voce che nei romanzi dice io, ci fanno più decisamente entrare dentro gli ingranaggi dei testi. A questo livello, c’è dunque un altro, decisivo, aspetto della relazione tra spazio e lingue: la funzione che le voci di Napoli hanno sulla storia narrata. In questa prospettiva, un dato va messo in rilievo per i romanzi di Ferrante, Marasco, Montesano, Starnone: le voci della città giocano un ruolo significativo tanto nel costruire l’immaginario spaziale quanto nel definire la relazione tra spazio e personaggi. Infatti, avvolgendoli, quasi sempre minacciosamente, il dialetto e l’italiano di Napoli costringono i personaggi a riposizionarsi all’interno del sistema spaziale della città. In particolare, poiché in Via Gemito, in Di questa vita menzognera e nei romanzi di Ferrante la narrazione è autodiegetica, l’assedio di voci che si è appena descritto minaccia in primo luogo quella del protagonista: è la stessa voce narrante a doversi modulare in relazione a questo assedio, a dover rifiutare “le voci degli altri” o assumerle come parte integrante del proprio timbro attraverso mosse e contromosse di riposizionamento: discendere, risalire, riattraversare, fuggire, sono allora tutti movimenti possibili nello spazio urbano. Se muoversi nella propria città significa anche muoversi nel tempo, attraversare Napoli ha per il narratore-protagonista una precisa funzione: quella di ripercorrere la storia, personale o collettiva, dei luoghi, al fine di verificare attraverso quali parole e in quali forme esperienza e memoria possano essere nuovamente dicibili. Non sarà, quindi, sorprendente il fatto che il narratore-protagonista di Via Gemito possa trascorrere «tutto il pomeriggio a cercare date, identificare spazi, trovare proposizioni per immagini fluide». È infatti il nesso tra la forma dei luoghi e la quantità di passato, personale e collettivo, che ciascuno di essi custodisce a spiegare perché nei romanzi di Napoli siano privilegiati alcuni movimenti; sono infatti proprio gli attributi che definiscono la densità spaziale della città — stratificazione storica del tessuto urbano, verticalità dello sviluppo, presenza di cavità sotterranee — a favorire l’investimento narrativo e simbolico nei movimenti di discesa, nelle posture e nei gesti effrattivi.
I movimenti che parlano
Con un movimento di discesa e una rocambolesca fuga notturna prende avvio Il genio dell’abbandono. Scappato dalla casa di cura, Vincenzo Gemito si sottrae ai possibili inseguitori percorrendo «la via più lunga e disturbata dai ricordi»: la buia e ripida strada del Moiariello, che congiunge la collina di Capodimonte alle vie del centro greco-romano. Minacciato da latrati di cani e voci del passato egualmente terribili, Vincenzo si muove tanto più avanti nello spazio quanto più indietro nei ricordi e nel tempo, fino all’attimo-zero in cui tutto ebbe inizio, con un rumore che parla di abbandono e rifiuto: il tonfo del neonato nella ruota dell’Annunziata.
Non sembrano estranei alla spazialità verticale tipica di Napoli anche i tentativi di discesa negli scantinati e nei sottoscala di un rione di periferia presenti nei romanzi di Ferrante, così come è certamente connesso alla topografia cittadina il movimento ascensionale delle protagoniste dal Rione alle colline di Posillipo e, poi, da Napoli a Roma, Firenze, Torino. A loro volta, nei romanzi di Montesano l’immagine di Napoli come città verticale viene sottoposta a riletture e aggiornamenti. Il tradizionale modello verticale e centripeto s’interseca con un altro, centrifugo, verso la periferia diffusa che si distende tra Caserta e Napoli; inoltre, la discesa e l’immersione nel ventre non riattiva energie ma sconvolge, destabilizza e riporta a galla detriti, rifiuti, cadaveri: «il residuo non ulteriormente consumabile» (come lo ha definito Giancarlo Alfano) che Napoli deposita dentro di sé.
A ben vedere, anche in due narrazioni come La dismissione e Gomorra, certo diverse dai romanzi appena analizzati, è possibile riconoscere zone testuali in cui la postura “effrattiva” del narratore e il suo sguardo attento alle manipolazioni inflitte al territorio concorrono a descrivere Napoli e il suo hinterland come spazi cavi, sagomati prima dalla natura e poi divorati dagli interessi economici: ridotti, alternativamente, a nudi scheletri o corpi rigonfi. Gesti e immagini che parlano di violazioni ed effrazioni costellano il libro di Saviano. Basterà un esempio: alle violazioni che la camorra infligge allo spazio-corpo di Napoli e del suo hinterland (il porto «ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri», il «cranio nudo della provincia napoletana», il «ventre molle di Forcella» violentato dalle sparatorie), corrisponde, uguale ma di segno contrario, il movimento con cui Roberto entra nella grande villa, vuota ma ancora controllata dal clan, del boss Walter Schiavone: qui il protagonista compie il gesto «idiota» e liberatorio di svuotarsi la vescica in una sontuosa vasca che, come tutto il resto dell’arredamento, è ispirata a quella di Tony Montano, il gangster cubano di Scarface.
Non è un caso, dunque, se, il lettore della Dismissione è tentato di dare particolare valore simbolico all’esplorazione notturna che Vincenzo Buonocore, il protagonista, conduce attraverso l’Italsider: «senza più fumi né fiamme; senza più voci, richiami, sibili, sfrigolii; senza l’inconfondibile miscela sonora propria dello stabilimento che non si ferma». Infatti, nella decisione di introdursi di notte all’interno della fabbrica si manifesta con chiarezza l’atteggiamento del tecnico specializzato, che al silenzio e alla liquidazione dei reparti, risponde con la precisione e il rigore «assoluti» con cui esegue il suo ultimo compito: smontare le colate continue. Nella narrazione di Rea-Buonocore, muoversi con movimenti esatti, nominare secondo tassonomie precise, disegnare mappe, stendere inventari sono tutti gesti e operazioni attraverso i quali riprendere possesso, almeno sul piano emotivo e memoriale, di quegli spazi ormai vuoti che vengono sottratti alla classe operaia, così come prim’ancora, proprio collocando la grande fabbrica in un «sito di vulcaniche bellezze e acque benedette», le erano stati sottratti aria e mare. Insomma, anche per Rea, entrare nelle cavità significa opporre alle verità opache delle cronache e delle versioni ufficiali, una “storia” che riverberi sulla pagina scritta il senso della relazione tra spazi e uomini, e del dialogo tra le loro voci.
Proviamo a concludere: oltre alla loro intima solidarietà, scelte stilistiche, postura narrativa, statuto gnoseologico ed etico della voce narrante ci hanno consentito di mettere a fuoco l’importanza che nella costruzione delle trame e dei personaggi hanno i movimenti nella rete spaziale e sonora di Napoli. L’attraversamento degli spazi è anche un attraversamento delle voci e delle lingue: gli uni e le altre non funzionano come fondali «docili» e remissivi; piuttosto, distorcono i percorsi dei personaggi, li costringono a traiettorie di allontanamento e ritorno, a effrazioni e discese. Chiedono di ascoltare e ricordare, di narrare, e comprendere.
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Bibliografia minima
Un quadro sull’imagery di Napoli nel romanzo del secondo Novecento è offerto da G. Alfano Un ‘vivere pieno di radici’. Il modello spaziale di Napoli nel secondo Novecento, in Id., Paesaggi mappe tracciati. Cinque studi su letteratura e geografia, Napoli, Liguori, 2010, pp. 91-150; sull’alterità geografica e culturale della Napoli dell’Amore molesto, v. anche Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano, in Made in Italy e Cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palermo, Palumbo, 2015, pp. 288-317.
Modellizzazioni del repertorio linguistico di Napoli sono illustrate in N. De Blasi, Per la storia contemporanea del dialetto nella città di Napoli, in «Lingua e Stile», 37, 2002, pp. 123-157; su dialetto e italiano di Napoli si può leggere ora N. De Blasi, Storia linguistica di Napoli, Roma, Carocci.
Analisi degli impieghi di italiano e dialetto nei romanzi e nelle narrazioni di Ferrante, Montesano, Rea, Saviano, Starnone sono in P. Bianchi, La funzione del dialetto nella narrativa di autori campani contemporanei, in La città e le sue lingue, Napoli, Liguori, 2006, pp. 267-280; C. De Caprio, La città lebbrosa, la smorta terra e il mare. Dimensioni linguistiche dello spazio urbano tra fictio e realtà. “Di questa vita menzognera” e “Magic People” di Giuseppe Montesano, Dante & Descartes, Napoli, 2006. Di molti dei testi qui esaminati, in relazione agli assetti della narrativa italiana, scrive G. Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), in «Allegoria», 57, 2008, pp. 95-136.
Per la rappresentazione del femminile e del materno in Ferrante ho tenuto presente S. Milkova, Mothers, Daugheters, Dolls. On Disgust in Elena Ferrante’s “La figlia oscura”, in «Italian Culture», 31/2, 2013, pp. 91-109; Tiziana de Rogatis, L’amore molesto di Elena Ferrante. Mito classico, riti di iniziazione e identità femminile, in «Allegoria», 69-70, 2014, pp. 273-308 e i saggi raccolti in The Works of Elena Ferrante: Reconfiguring the Margins. History, Poetics and Theory, New York, Palgrave Macmillan, 2016 (si veda, per l’attenzione alla categoria del post-umano, il contributo di Enrica Maria Ferrara).
Un accesso alle questioni relative all’autofiction, alla dicotomia fiction/non-fiction e allo statuto della voce narrante nella produzione di Saviano è offerto da C. De Benedetti, F. Petroni, G. Policastro, A. Tricomi, Roberto Saviano, “Gomorra”, in «Allegoria», 57, 2008, pp. 273-308; A. Casadei, Realismo e allegoria nella narrativa italiana contemporanea, in Finzione cronaca realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, a c. di H. Serkowska, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 3-21 e R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014, in particolare pp. 190-195; con attenzione al passaggio di medium, v. M. Moccia, Raccontare Gomorra, in «Between», 5/10, 2015; per aspetti della relazione con lo spazio e l’ambiente, v. N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2017, pp. 157-162.
Judite Canha Fernandesè nata a Funchal, sull’isola di Madeira, nel 1971. È performer, femminista, curinga (di Teatro dell’Oppresso/a), scrittrice, bibliotecaria, attivista, madre e ricercatrice, senza un ordine preciso, ed è stata rappresentante europea nel Comité International della Marcia Mondiale delle Donne tra il 2010 e il 2016.
Le sue opere spaziano dalla poesia al teatro, dalla letteratura per l’infanzia ai racconti brevi. I componimenti che presento, tradotti da me, fanno parte del «Manuale di atti sovversivi», pubblicato nella raccolta O mais difícil do capitalismo é encontrar o sítio onde pôr as bombas (La cosa più difficile del capitalismo è trovare il posto dove mettere le bombe, Urutau Editora, São Paulo, Brasil. Poesia, 2017, inedita in italiano). Il Manuale nasce da un esperimento di creazione collettiva. Judite ha chiesto a un certo numero di persone di dirle un gesto – un semplice gesto privato – che ognuno di loro fa, quotidianamente o meno, contro il capitalismo. Il risultato è un manuale poetico e collettivo straripante di idee sovversive.
manuale di atti sovversivi
II. (atti di ricapitalizzazione)
decoro la casa con mobili e fiori di strada
smetto di mangiare carne spengo la tv
sono inutile non servo
(non servo per sposarmi non servo per lavorare
non servo per dare l’esempio l’arte non serve a niente
io non servo)
offro arte sulla via pubblica faccio la pipì nei prati.
faccio e disfo i colori
riutilizzo
i dolori, gli amori, il tempo.
pago l’affitto in collettivo, secondo i redditi
o
la loro
mancanza.
faccio pupazzi da dito e li scambio per la lana delle vicine
cerco il nome di una poetessa dell’Ottocento
fra i contatti del telefonino
uso i vestiti di mia madre
tengo i soldi sotto al cuscino
bevo il caffè del commercio equo.
il problema è che ogni volta che voglio mettere una bomba contro il
capitalismo, nel frattempo lo uso.
(perdonami signore, perché pecco di ridondanza. attraggo e capto
fondi di capitale per distruggere nidi di capitale)
per costruire la bomba (o la faccio in un picnic)
o cerco la ricetta su internet
chiedo un prestito a una banca
vado a far compere al centro commerciale
e non so mai dove mettere la bomba.
divorzio da un bancario.
(e quella banca non sarà mai più la stessa:
bca banif santander)
torno a casa
semino il mio orto
condivido semi
faccio pacchettini che vengono da regali precedenti
scrivo lettere su carta sottile
e le digitalizzo per mandarle a te.
*
III. (atti di collettivizzazione)
non ho proprietà privata nel frigorifero,
cucino sempre amore collettivo.
cerco di esistere liberamente
o libera dalla mente, non so.
converso per via telepatica
trasformo casa mia in un festival gratuito
e ripeto tutti i gesti. di tutte le infanzie.
di tutte le domande.
amo come se il cuore fosse una bomba a orologeria,
inserisco una frase poetica nella traduzione di una lettera commerciale
sopporto il calore delle profondità vulcaniche senza reagire.
senza reagire
cuocio l’argilla
fino a essere capace di decidere per me quel che vorrò.
sono l’eroina inevitabile delle mie routine.
empatia. urgentemente.
(era ancora il 19 gennaio del 1923 e si diceva già la stessa cosa)
allatto mio figlio. posso alimentare
con il mio stesso corpo
la vita bella e semplice, spontanea e miracolosa.
o anche no. non sono madre.
non mi riproduco.
bacio persone dagli organi riproduttivi uguali ai miei per la strada.
occupo una casa, uno squat.
mi ricordo tutti i giorni che sono bella anche quando il mondo
insiste a dire che sono brutta.
mi ricordo tutti i giorni della bellezza anche quando il mondo mi
spaventa.
mi ricordo e mi meraviglio tutti i giorni.
imparo che l’amore non dipende da una sola persona.
sola soltanto.
per niente sola,
fra tanti passeri in cerca di una poesia collettiva.
*
IV. [atti d’azione (diretta)]
racconto la mia storia.
(alle persone non piace ascoltare sofferenza altrui, per questo
racconto sempre la mia storia
e la mia storia è quella che nessuno vuole ascoltare.)
ho riunioni felici e riunioni difficili.
nel mezzo di una città prodigiosa, faccio graffiti su cartelli d’annunci
(soprattutto su quelli che vendono felicità)
sputo fuoco
e poi la manifestazione avanza, viola e siderale.
disfo demolizioni
e nel mezzo delle aggressioni, grido all’uniforme:
“la pace, il pane, la casa”.
la pace il pane la casa.
occupo il banco de portugal poi l’azienda sanitaria locale.
mi amo.
(eccoti una bomba, industria cosmetica! eccoti un’altra bomba,
industria farmaceutica! e un’altra,
apparato psico-psichiatrico!)
restituisco la mia tessera militare come obiettore di coscienza,
restituisco alla pide tutti i dischi di zeca afonso meno uno.
questo lo ascoltiamo nello sgabuzzino tra spavento e confusione.
una volta
ho fatto passare in televisione un disco che sputava su george w. bush
dicendo che era una ballata romantica.
iniziava così: george era un bambino basso
molto più basso del comune. mi ricordo benissimo
di voler assaltare una banca. più di tutto.
(più di fare vendita diretta dei miei cd alla fnac)
entrerei con la tuta da sub dal condotto della via costiera
e poi capirei
il capitale è un cubo d’acciaio con la serratura su un lato che
trattiene l’aria all’interno.
per fortuna mia
ho un mini server in casa,
la mia cloud proprio sul letto.
lo stato, per sapere dei miei sogni,
deve sfondare la porta,
e google non ha ancora salvato il mio pensiero.
*
V. (atti del fine settimana)
di venerdì non produco, fingo soltanto.
ho allargato il fine settimana
– i take my time i make my time –
uso i miei piedi e una bicicletta usata
dedico il mio tempo ed energia a cose inutili
coltivo la distrazione, faccio cose senza senso
lavoro con scambi non monetari, non contabili, effimeri
e imprevisti
con persone che non conosco e altre che amo.
i fine settimana sono per i lavori dell’anima: tessere mazzi
d’incenso,
propagare erbe prendersi cura dei fiori.
non mi depilo. resto lì, il ginecologo non sa bene che fare
con le mani
e io serena, in mezzo ai peli,
mi riconosco bella, riservata e domestica.
nella casa accanto, durante una valutazione strategica del funzionamento,
un ateo risponde al questionario su quale pensa che sarà il futuro
dell’impresa:
“il futuro appartiene a dio.”
e dio danzò,
e io con lui. danzare è stata. sempre.
una delle mie sovversioni preferite.
atto ad atto
permanentemente sana
anche quando svengo
o quasi sparisco
perché sono la speranza
e non c’è antidoto più sovversivo.
(Tommaso Labranca ha scritto molto. E molto di ciò che ha scritto ha avuto diffusione carbonara, roba per pochi iniziati, autopubblicazioni, email, blog… Luca Rossi, dopo la sua morte, ha raccolto alcuni di questi testi introvabili, li ha organizzati e ora, nella collana dei libri di Tipografia Helevetica, finalmente ripubblicati (per i tipi della “loro” microcasa editrice). In attesa del doveroso anti-meridiano labranchesco, questo mi sembra un buon inizio. Pubblico qui di seguito la affettuosa introduzione al volume di Luca, spronandovi ad acquistare il volume. Basta un click. G.B.)
di Luca Rossi
Se solo fossi stato più veloce. Avrei potuto prendere la rotella della pizza Alessi a forma di orso polare blu che Tommaso aveva coordinato con il portabiscotti Mary Biscuit in termoplastica blu, con la zuccheriera Gino Zucchino Alessi, sempre in blu e avrei potuto operare il salvataggio cerebrale. Avrei usato lo spremiagrumi Mandarin per scolare il cervello e lo avrei collegato al powerbank che ho sempre nello zaino. Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo: l’avrei potuto mettere in un acquario per pesci e lui sarebbe rimasto lì dentro, completo di occhi e nervo ottico, con tutto l’occorrente per continuare a guardarmi durante la procedura. Avrei sostituito la batteria portatile con un avviatore d’emergenza per auto o con una batteria per tir e avrei tenuto Tommaso in vita, lì immerso un altro po’ in una sostanza lattescente e nutritiva. Dall’acquario avrebbe continuato a guardarmi, con gli occhi sempre aperti, ancora vivi, alimentati dallo starter, collegato in due punti distanti del midollo spinale, per alimentarlo. Tommaso mi avrebbe guardato tutto il tempo, attraverso gli occhi, fissi, ma non spenti, un po’ come succedeva in una delle scene più pulp di Robocop II:un cervello, estirpato e messo sott’olio, ascolta i chirurghi parlare di come il resto della sua persona verrà smaltito, in umido probabilmente. Io avrei dedicato la massima cura a questi amabili resti, li avrei dispersi sul Sacro Monte di Varese, come voleva lui, facendo partire sull’iPhone Ascent (An Ending) di Philip Glass, come concordato con lui e subito dopo un pezzo qualsiasi degli Wham! Con George Michael che di lì a poco si sarebbe nullificato come Tommaso.
Penso che Tommaso avrebbe vissuto bene anche all’interno di un barattolo di miele che era la sua unica dipendenza. Avremmo continuato a parlare, telepaticamente. Certo ci sarebbe stato qualche problema per andare al ristorante e anche per elaborare un complicato dress code per un nuovo indimenticabile evento della stagione autunnale della MaisonLabranca, ma avremmo avuto tutto il tempo del mondo per trovare una soluzione.
In questa brutta copia del Cervello di Donovan io non avrei avuto la faccia di Lew Ayres, il primo Dottor Kildare e non avrei nemmeno potuto contare sull’assistenza della futura signora Reagan, ma al massimo della mamma di Tommaso che si sarebbe messa a urlare vedendomi prendere i guanti di lattice e la rotella della pizza a forma di orso polare che a Tommaso piaceva tanto, ma che non aveva mai usato.
Sarebbe stato il degno epilogo dell’agosto oscuro di Tommaso Labranca, un agosto passato a lavorare all’ennesima biografia su commissione e che si sarebbe concluso come uno dei libri più celebri del poco celebre Clifford Siodmak, che da noi è arrivato solo sotto forma di Urania altamente disintegrabile, fragile come tutte le cose belle.
Tommaso però avrebbe potuto continuare a scrivere, mi avrebbe dettato le cose telepaticamente, proprio come a scuola, come avviene nelle pagine più belle di quell’Urania: un dettato come a scuola e avrebbe finito il libro sul mondo del lavoro e del lavorìo intellettuale che aveva il nome di lavorazione Cyclon come la polvere che il padre di Tommaso, gommista, usava per pulirsi le mani e che aveva scelto per quel suo suono così dannunziano.
Nel cervello di Tommaso, quell’insieme di volute grigie che ora mi osserva silenzioso dall’acquario, sarebbe stato un Cuore 2.0 ambientato nel meraviglioso mondo di chi millanta una miseria balzachiana perché per vivere «lavoro coi libbri!» come ama urlare alle amiche coatte.
Il nuovo Cuore o Cyclon sarebbe stato pubblicato da Ventizeronovanta? Non è detto. Tommaso diceva spesso di voler cercare un altro editore, diverso da noi, cioè da me solo ora che lui si è ridotto a encefalo galleggiante, ma chi? Nel dubbio un contratto con se stesso, con Ventizeronovanta non era vincolante, ma avrebbe dovuto sottoporre il testo al vaglio del giudice-editor più severo: lui stesso.
Ci aveva preso gusto a farsi le cose da solo, perché «tanto non vendo, non m’interessa vendere se devo scrivere cose che non mi piacciono» e quindi era meglio vivere dignitosamente con le biografie alimentari come quella del cantante di Pontedera, oppure elemosinando articoli da Libero, «gli unici che mi fanno lavorare» e, sento che telepaticamente il cervello lo sta impremendo a fuoco tra le mie sinapsi, gli unici che mi facciano scrivere quello che voglio, come lo voglio.
Steve Martin, del quale Tommaso aveva curato la biografia per Excelsior 1881, l’editore che ci ha fatto incontrare (nel senso che grazie a Excelsior 1881 abbiamo preso a frequentarci ogni giorno, quando stavamo editando un mio libro), viene sedotto da un cervello in Ho perso la testa per un cervello: il protagonista s’innamora di una conserva di neuroni. In tutti i cerebri però è radicato un forte istinto di sopravvivenza, siano essi in vetro o all’interno della scatola cranica, o in un hard disk esterno pieno di file interrotti. Così quella cartella, nominata maliconicamente “cose da fare” chiede giustizia, perché la morte, prematura, di un cervello eccezionale, è sempre un’ingiustizia, anche se questo cervello non è morto.
Come il protagonista del Cervello di Donovan anche io mi chiedo cosa abbia originato il pensiero di Labranca, perché l’encefalo non me lo vuole dire. «Il pensiero è frutto di un processo chimico, il problema è scoprire quali combinazioni chimiche siano responsabili del successo, della gioia, del dolore, del piacere» diceva il Dottor Kildare a Nancy Reagan guardando dentro l’acquario nel quale galleggiano i neuroni di un miliardario mitomane.
Il cervello di Tommaso invece è reticente, quindi devo rispondermi da solo: è l’isolamento, quella solitudine che ricercava e nella quale mi era permesso entrare solo in punta di piedi. La solitudine che difendeva e che percorreva, percorravamo, in bicicletta nella lunga estate milanese fatta di asfalto rovente e di parcheggi facili, una città svuotata dalla volgarità impiegatizia sciamata verso località amene animate da dj set chiassosi, olio abbronzante su addominali faticosamente piallati per nove mesi all’anno in attesa di questi quindici giorni di trasgressione.
Sento che queste cose me le sta suggerendo il cervello telepaticamente. È questo cervello che ha scritto i frammenti che andrete a leggere e che sono stati scritti in anni diversi, ma sempre in questo periodo, il periodo che va dagli ultimi giorni di agosto ai primi di settembre, fino alle prime castagne mature, chiuse nel loro riccio come il cervello di Tommaso era chiuso nel corpo prima che lo liberassi. Sono anche i ricordi più belli che ho di Tommaso. Lo vedo con l’encefalo inserito nel corpo, io e lui, attraversare la città svuotata con le bici del comune e la cartella stampa del suo ultimo libro, Vraghinaroda per portarlo in gallerie d’arte e redazioni che non risponderanno mai. Oppure lo rivedo a raccogliere castagne nei boschi vicino a Varese «La mia Combray» o ad attraversare il decumano dell’Expo in una sera di ottobre dell’ultimo autunno che ha visto, la stagione che amava, tanto quanto odiava l’estate. È questo agosto oscuro, quello che ha distrutto il suo corpo fisico che lo ha elevato sopra quel grigio cielo impiegatizio dove Labranca ha ambientato 1+1=1 e che odiava fino al midollo (quindi anche ora che è un cervello), fin da quando lavorava all’enciclopedia della pesca DeAgostini, della quale ricordava maliconicamente il bar della metro di Caiazzo e l’Apple II che aveva portato un capodanno a casa per lavorare, proprio come noi due a capodanno 2015 che ci siamo trovati a lavorare a Tipografia Helvetica mentre il resto del paese faceva il trenino. Eccola la patetica libertà di chi vive nel meraviglioso mondo delle letterine e cerca di scaldarsi nel freddo inverno metropolitano solamente con collaborazioni a riviste e quotidiani come in Iva è partita, fiaba patetico-fiscale che è la vita di chi si deve procacciare un reddito giorno per giorno. Così quando l’ultimo modello di iPhone, che racconta mesi di stenti per pagare le rate e che non suona perché le redazioni sono chiuse ad agosto come a dicembre. In questa bolla di caldo africano o di gelo iperboreo si consuma la tua personale apocalisse urbana, fatta di attese irrealizzate e fatture non pagate. Viene da chiederti dove hai sbagliato, forse peccando di eccessiva purezza.
In uno di questi agosti Tommaso aveva scritto le Poesie dell’agosto oscuro e H20, Il sussurro dell’acqua, che chiude la raccolta e che è stato presentato in occasione del primo compleanno di Ventizerovanta. È stato invece il silenzio dei boschi insubrici a ispirargli Una zampa più corta ed Applesina, in uno dei pomeriggi passati a raccogliere castagne. «Ti fa piacere se li pubblichiamo? Anche se tu dicevi che alla tua morte avrei dovuto bruciare tutto?» Il cervello mi fissa, ma non risponde. Mi viene voglia di usarlo come un iPod Shuffle, uno strumento magico in grado di azzeccare sempre la playlist giusta per uno specifico stato d’animo, un libro-game che ha per protagonista Milano o una LabrancApp che sfruttando il gps e la realtà aumentata attivi un’ologramma tridimensionale di Tommaso ogni volta che attraverso in bici un luogo della città che ho visitato con lui. Quello che invece posso fare è un Labranca superpocket compatto e tascabile, che è un po’ quello che è stato raccolto nelle pagine che seguono. Accontentiamoci nell’impossibilità di avere un Labranca “aumentato”, ridotto nel peso e nello spazio occupato, ma virtuale e interattivo, ologrammatico, vivo in qualche modo, con il quale interagire ancora, come l’intelligenza artificiale del film Lei, ologrammi più veri dei replicanti senz’anima quotidianamente immessi e ritirati in un mercato in cui è difficile distinguerli dagli uomini dotati di anima. Una specie di Blade Runner 2049, ma con le prime umide foglie gialle settembrine al posto della pioggia sempiterna a manifesto di questi anni incolori. Il cervello di Labranca sarebbe più umano di tanti uomini interi. Potrei metterlo in un tupperware con del ghiaccio secco e infilargli un cappellino di lana per il freddo. Lo metterei nello zaino e poi nel cestino di una BikeMi e pedalerei alla volta del McDonald’s di Porta Venezia o di Brenta o in uno dei tanti posti in cui andavamo assieme a lavorare. Sarei disposto a correre il rischio di farlo spiaccicare sull’asfalto, proprio come nel finale di Robocop II. Rabbrividendo ogni volta che la ruota della bicicletta incontra l’infida superficie di porfido del temibile pavé cittadino, perché tutti i cerebri celebri del cinema fanno sempre una brutta fine. E troppo spesso anche nel mondo vero.
Questo racconto è stato presentato e letto al corso della Scuola del Libro “Scrivere un racconto che piacerebbe al New Yorker” tenuto da Luca Ricci
Tutto iniziò con un capello più lungo del normale. Quella mattina Lucio Scolari si stava pettinando e, come tutte le mattine, lavorava al camuffamento del suo principio di calvizie.
La piazza scoperta sulla sua testa si allargava e la lacca, che doveva ridistribuire i pochi capelli rimasti, seguendo un algoritmo più efficiente, non bastava più.
Si era accorto, quella mattina, che uno dei capelli con cui era solito ombreggiare la chierica, si era fatto grosso, nero come un cavo elettrico, e lungo, molto più lungo degli altri.
Gli fece fare due giri intorno alla piazza e lo fissò con un grappolo di capelli presi da un lato e paralizzati con diverse spruzzate di lacca.
Poi smise di pensarci e andò in ufficio.
Simone Fibonacci, il suo project manager, lo convocò nel suo ufficio per informarlo della situazione: Globalware Italia, il cliente che foraggiava tutta l’azienda con le sue grasse commesse, richiedeva la presenza di un analista software nella sua sede di Milano.
– È per quel problema che c’è stato lo scorso week end? – chiese Lucio. Fibonacci annuì. – La spiegazione che gli abbiamo dato non li ha convinti.
– Infatti era un po’ debole.
– Non potevamo dirgli che i loro siti web sono andati giù perché la nostra rete non ha retto il carico, che dici Scolari?
– Dico che in questo caso non ci sono molte scuse che tengano. Forse dire la verità…
– Non se ne parla. Ci fanno il culo a brani. Tu stasera parti per Milano e ti inventi una scusa migliore della nostra.
Mentre stava per uscire dall’ufficio del Fibonacci, i suoi capelli cominciarono a forzare lo strato di lacca che li teneva congelati.
– Scolari, una cosa… – intervenne il project manager senza alzare gli occhi dal notebook. – Ti ho girato un’email di quel coglione di Serafini, della Banca di Trento. Dagli una risposta, io non ci ho capito niente. Sempre a rompere i coglioni, quello lì. Un giorno o l’altro li mando a cagare, ‘sti pezzenti.
Lucio annuì senza voltarsi, temendo che i suoi capelli stessero prendendo il volo e si infilò in bagno. Davanti allo specchio non c’era sentore di ribellione: la lacca stava tenendo, ma allora perché sentiva questa sensazione, questo formicolio? Si osservò meglio e vide che il capello anomalo si era ingrossato ancora, soprattutto sulla punta, dove stava emergendo un pezzetto di metallo. Lo infilò sotto il ciuffo e uscì dal bagno.
Prese il Frecciarossa Roma-Milano delle 19, perché fino alle 18 era dovuto rimanere in ufficio. Anche se non importante come Globalware, la Banca di Trento era comunque un cliente di rilevo, checché ne dicesse Fibonacci. A volte non capiva come potesse, uno come lui, fare il project manager: l’azienda aveva bisogno di dirigenti come un bambino ha bisogno della mamma. Lui sapeva che molte volte bisognava sacrificarsi per questo bambino, passare notti insonni, preoccuparsi se qualche server faceva i capricci, chiudersi in ufficio durante il week end finché il problema non era risolto. Invece il Fibo se ne andava, per dire, tranquillo in settimana bianca e lasciava a lui tutte le incombenze.
Non ci restano
molte sorprese
ma il gesto è sufficiente
a rinfrescare la memoria
Preliminari
Parliamone poi stasera
in un contorno di ebollizioni, fritture
e mescolamenti nella
processione fluida di idrolisi o
più congeniali amilasi,
definiremo ogni istanza al momento esatto
concentrati su un comune punto di fumo
davanti alla croccante scissione dei trigliceridi
e contemplare intanto l’imbrunire di una
generazione di destrine.
Lascia l’invidia agli occhi coagulati
delle proteine.
Decideremo allora se e quando
aumentare o calare la temperatura
con un gesto azzurro e progettuale.
Credo che lo slogan “buona scuola”, con cui il governo Renzi ha chiamato l’ultima riforma scolastica, sia speculare allo slogan berlusconiano “forza Italia”: cioè superficialmente sottoscrivibile da tutti, nella sua genericità. Chi, infatti, potrebbe auspicare una cattiva scuola? Eppure quella disegnata dalla legge 107, nei fatti e nei giudizi di moltissimi insegnanti, è una cattiva scuola. Ne sono convinte due insegnanti di Palermo, Stefania Auci e Francesca Maccani (quest’ultima in realtà trentina trapiantata nel capoluogo siciliano), che su tale riforma hanno scritto un agile libretto intitolato, appunto, La cattiva scuola (pp. 105, 8,00 euro), pubblicato lo scorso ottobre da Edizioni Tlon.
(Questo testo fa parte di un dossier curato dal Cartello (Forlani, Inglese, Schillaci e il sottoscritto) uscito nella rivista francese “La Revue Littéraire” e ora nel numero 68 di “Nuova Prosa” col titolo Esercizi di sopravvivenza dello scrittore italiano.)
Il mio quinto romanzo, l’ultimo venuto, è stato rifiutato da tutti gli editori, come del resto i precedenti.
chiuso il tuo chiuso dentro un cassonetto
conchiglia inconchigliata col suo mollo
fra la calda immondizia, in un brodetto
sapido di primordi, finché il collo
ancora umano troppo umano non
lo scannano spirali in giro lento
di un vecchio camion nella notte con
tritarifiuti d’ordinanza -il vento,
folate fredde in mezzo allo sfasciume,
fa volteggiare un po’ di cartastraccia
fra le baracche sul greto del fiume.
Il vento a due spazzini il cuore agghiaccia
con l’urlo che dà in fondo all’infernale
compattatrice -un urlo d’animale.
* * *
senza titolo
per la mia mente è davvero incredibile
che tutto venga dopo quel falotico
mondo del mercato. ma non starò
qui nel modello a smidollare gli alibi
di chi voleva raddrizzare i torti
-alibi nostri, certo, che nell’urto
dell’accaduto -quasi la pezzuola
sulla piaga di uno morto male –
hanno scolato subito. ma pare
che nel silenzio ancora il ringhio sale
della cagna-poesia. al capitale
-qualcuno ha detto- può restare in gola
l’osso senza carne della parola
(avesse l’osso forma di pistola…)
* * *
sonetto del mattopardo
tranquillo te ne stai come un pupazzo
di segatura che scuote la testa
ogni tanto, quel tanto che rispazzoli
i sonagli che in cima fanno cresta.
quel berrettino a punta ha un suono pazzo
-se il suono senti bene è un po’ una festa
del morto o vita che tintinna a cazzica
-ti dice di un destino cartapesta,
che incarni una finzione di te stesso,
un sogno d’altri ch’è un quadro sconnesso
di fiori, tutti finti, che strapazzi
solo per imitare una protesta
sensifera, di linfe, un breve sprazzo
nulleo, del nulla della luce pesta
* * *
scacchiera/zugzwang
otto colonne e righe se tu prendi
le linee da sinistra -se conduce
la destra il verso a specchio -se sei luce
spettrale che attraversa -se comprendi
fra algebre il sistema che palude
è a sbiechi alfieri avversi – se sorprendi
tu l’altra mente e mentre sali scendi
a lama di rasoio – se traluce
la trama sua fra i tagli, le caselle
-se si accartoccia il fronte, si deforma
il nero bianco quadro come pelle
squarciata, se lì entri, un po’ a tentoni
rovisti e sei toccato dalla forma
a sbalzo dell’assurdo -se abbandoni
* * *
sonetto dell’area cinquantuno o dreamland
ardono oggetti di una luce ambrata
-luce, tra le montagne del nevada,
ellittica, che pulsa, è alla spianata
della statale, fila in autostrada
verso ovest -svanisce, diventata
due globi verdi e piccoli nell’aria
o aerei neri segreti o stellata
traccia d’antimateria che dirada
nel bianco del deserto: cominciata
con dischi somiglianti al mezzo dollaro
l’azione aliena, va a zigzag. sì, gli ufo
per le frangiate palpebre, una bolla
dove la carne sogna -sogni il gufo
la stella che è felice mentre crolla.
* * *
2.
disamato amante
quella lingua che come un martelletto
clicca la lingua in forme stabilite
dai codici d’amore sembra in lite
con la maschiezza, maschera in lucchetto.
dal tuo baciare io mi disconnetto
e guato nei tuoi occhi d’antracite
un vuoto che chi sa se è mite o immite.
eppure ti desidero, lo ammetto,
e forse è dopo un po’ che ti interessa
darti ad un estro, farti nel rapporto dark lady, dama d’acme, diavolessa…
ma temo, sai, di rimanerne assorto,
quiete vedo vorrei tifonessa
-gli scogli tuoi saranno mai il mio porto?-
* * *
osceno/sentimental
ehi, senti? mento! è da poeta, in fondo,
però riuscissi a dirlo questo groppo
-un solo atomo, a muoverlo, e il troppo
sciocco delirio dove per te affondo
sarebbe estremo limite di lingua,
salvezza, a me, che osceno come il papa
di de sade, che sodomizza un tacchino
sto qui ad amarti, mentre si dissangua
il cuore prosciugato dal tuo napalm,
svuotato per riempirsi di un pochino
di te, di un’ora sola del mio oppio
sfumato dalla storia, via dal mondo
-sessi incrociati sulla sedia a dondolo
bastavano, bastava quel galoppo.
* * *
3.
prova d’inchiostro
(per gelsomino d’ambrosio, in memoria)
nella tensostruttura di un sonetto
chi sa sei tuoi racconti disegnati
avrebbero a soffrire, limitati
da spire rime cavi e un architetto
pentito già da prima -non sia mai
che immagini sfiottate dal tuo petto
sia io a dissipare. allora spero
vuota la prova. ancora non sciupati
per vie d’inchiostro i silenzi, le ore
della tua lady d’indaco, gli spersi
veli nei venti con l’aspide flessile
e il corvo re… vedrebbe ogni lettore
come in lisci cucchiai dentro i miei versi,
di un grande sole il pallido riflesso.
* * *
piede di madonna
non sempre trovi gli occhi allineati
il collo a volte va sulla clavicola
largo e per fasci muscoli s’irradiano
in modi che ci sembrano arteggiati
con un pennello alla brava, così
a scrollo, disunita abissità
dal rimanente incarnato -ti scorrono
a tratti caravaggio, in sprezzatura,
parti anatomiche, per la pittura
di luce transversa, di chiaroscuri
dal disegno che abbozzo ti procuri
con bianca biacca e fosco fondo -caro
di più il chiarore in zuffa e nell’asprura
con ombre e ogni genere di scuri.
fra le stranezze plurime
dei corpi soffro solo quello strano
collo del piede di maria, mostrato
ai viandanti, fra strada
e soglia -un poco sa di crudeltà
(te la ridi della deformità?)
Nell’architettura seriale di periferia che si viene ormai imponendo in un’ampia area della poesia italiana, ridotta a vasta e uniforme pianura di nebbie occasionalmente adorna di caseggiati cubiformi, o a cumulazione catalogica di superficie, dominata da un combinato (mal-)disposto di epigonalismo e accademia, abbiamo avuto il piacere di imbatterci in un tesoro inaspettato, uscito per i tipi di Nino Aragno editore nella collana i domani, l’aureo Prova d’inchiostro e altri sonetti, di Mariano Bàino, la cui voce poetica si configura ancora una volta come una ventata d’aria fresca. Mariano Bàino è un autore che ci è intimamente congeniale per più di una ragione: anzitutto, l’estrema ricchezza formale ed espressiva che connota la sua produzione, sia poetica, sia narrativa; in secondo luogo, la profondità conoscitiva e la forte assertività e positività ontologica ed esistenziale (e resistenziale, considerato l’environnement e le sue nicchie an-ecologiche) di cui ogni sua opera è portatrice: una profondità e una positività tanto più veementi e coese, quanto più colpisce l’orecchio e l’intelligenza del lettore la patina di sommessa e signorile ironia che di Mariano Bàino è la cifra stilistica più evidente.
La silloge, articolata in quattro sezioni, si configura come una neo-rossiniana piccola messa solenne, o meglio, come una piccola grande opera-mondo, un mondo che si manifesta da principio come sostanza deiettiva, residuo disorganico, rifiuto, nella contemplazione dell’esistente degradato che è al centro del sonetto incipitario, mundus (homeless man). La stessa forma del sonetto, in quest’incipit, è torturata e tormentata nella sua struttura ordinaria, e marcata con combinazioni rimiche anomale (“con”, “non”, ordinariamente proclitiche, da clausola grafica di verso atonale), che minano l’apparente solidità dell’armatura wyattiano-shakespeariana dello schema metrico, trasformando il metro stesso in allegoria di un tessuto di realtà nelle cui leggi si incasellano sbavature e storture. Un esempio simile di allegoria tramata nel ritmo e nella scansione strofica è nel componimento senza titolo, la cui disposizione inversa, terzine che precedono le quartine, è più caratteristica della poesia d’oltralpe -si pensi ai decasyllabes di Résignation, lirica incipitaria dei Poèmes Saturniens di Verlaine. In questo sonetto appare evidente il parallelismo fra la struttura formale invertita e la denuncia dell’inversione segno-significato del mercato, deprivatore di senso. Nello stesso contesto, tuttavia, rinveniamo l’allusione marxianeggiante al rovesciamento dialettico fra la preponderanza del mercato e il “ringhio … della cagna-poesia”, ambiguamente connotata come cagna da guardia e nel contempo cagna da lupanare, grazie a cui “al capitale… può restare in gola/l’osso senza carne della parola”, rovesciamento dialettico che rende ancora più straniante la specularità formale. Ma un ulteriore passaggio da sottolineare, in questo sonetto rovesciato, è che in effetti dal punto di vista dell’originaria visione marxiana siamo di fronte a un duplice slittamento di prospettiva, con l’immagine del residuato sovrastrutturale (la poesia) che si oppone dialetticamente al mondo oggettivo dei rapporti di forza dell’economia, e vi si oppone in termini di posizione sovversivo-rivoluzionaria (l’osso della parola è efficace solo se ha “forma di pistola”). Questo che è il quarto dei sonetti della prima sezione si rivela dunque una sorta di proemio metapoetico di secondo grado, in cui tutto, dal ri-arrangiamento delle sillabe al messaggio, palesa a chiare lettere una visione paradossale della poesia: pur ingabbiata com’è in una dimensione marginale e liminare, essa funziona come grimaldello atto allo scardinamento dell’esistente, come suo speculum deformante e rovesciato, a patto però che non ceda alla seduzione dell’informe, ma persegua fino in fondo, sempre nel paradosso e nell’autocontraddizione apparenti, la necessità di soddisfare positivamente alla fame di forme che, come da lezione blochiana e da principio (disperato) di speranza, mina da sempre la materia. Risulta ora quasi banale sottolineare come, prendendo l’aire da questo paradosso-coerente del dare forma all’informe con disperata speranza, i singoli sonetti procedono sezione dopo sezione come fulgurazioni creative sorprendenti, in cui nuovi slittamenti prospettici sono sempre in agguato. Così a valle di una sequenza di singoli snapshots, dall’indecifrabilità/indecidibilità che connota il terzo uomo alla pensosa staticità hopperiana dei nighthawks, dalle sinestesie del tartufo bianco alle dissonanze di sonetto degli storni e del debito, alla grazia allucinante e totalitaria del plastico d’ape, campeggia l’ambigua figura al centro del sonetto del mattopardo, eco remota di un Pinocchio che era già emblema di uno dei momenti più giustamente noti della produzione letteraria di Bàino, ma al tempo stesso decostruita persona loquens, voce tintinnante di rime per l’occhio e rime ipermetre cumulate e tumulate in sonetto continuo, che con il suo “breve sprazzo/nulleo, del nulla della luce pesta” riecheggia alla lontana il sereniano “nulla nessuno in nessun luogo mai”. Dalla perfezione formale assoluta di scacchiera/zugzwang, in cui la limpidezza geometrica del classico schema petrarchesco di quartine a rime incrociate e terzine a rime incatenate si fa immagine uditiva delle mosse forzate dell’esistenza, alla riscrittura kavafiana di arrivano i barbari, che per converso celebra, nella distopia del collasso finale di civiltà, il trionfo della parola eccedente la forma chiusa, per terminare con l’atmosfera aliena del sonetto dell’area 51/dreamland, con i suoi ominosi dischi volanti, ein moderner Mythus di junghiana memoria, proiettato in un’area di sogno e in un tempo del sogno futuro, la prima sezione di Prova d’inchiostro racchiude il mondo in una sorta di giocosa cronaca disseminata dell’apocalissi.
La seconda sezione della raccolta torna, in parte, alla tematica amorosa che è tema di molta parte della tradizionale produzione in sonetti, e ciò che ancora una volta colpisce è il continuo gioco di trompe-l’oeil e trompe-l’oreille di cui la voce poetica della persona loquens si anima. Così, per esempio, in disamato-amante fronte e volta si controbilanciano, come un simbolo di Yin e Yang, fra “maschiezza-maschera” e “dark lady dama d’acme diavolessa”, in la single felicita l’ironia tipica di Bàino si riveste di toni neo-gozzaniani, mentre in osceno/sentimental il gioco di risegmentazioni, sia strofiche (quartine e terzine si incrociano) sia verbali, si fa portavoce di un ulteriore messaggio meta-poetico (“ehi, senti? mento! è da poeta, in fondo”). In questa sezione di ludico-verbali ἐρωτικὰ παθήματα, si stacca per il suo tono più pensoso, e per le sue forme estreme e debordanti, un nuovo senza titolo il sesto e penultimo, in cui l’oggetto libidico, ma anche l’eros in sé, si palesano fusi insieme in un “amato dèmone”, altalenante e ingombrante assenza-presenza.
Più metafisica la terza sezione, venata di uno sfaccettato amor idearum intellectualis, e spesso, in concreto, delle umbrae idearum che l’arte, figurativa o musica, rappresenta: si tratta di un tema che interessa in modo diretto o indiretto la maggior parte dei sonetti centrali ε ha una lunga tradizione in occidente, a partire dall’arte ecsfratica delle Immagini di Filostrato, per arrivare a Walser. Qui si rinviene per esempio il sonetto tributeProva d’inchiostro, che dà il titulum all’intera silloge, e in cui si opera il redde rationem di rinchiudere la narrazione/ragione/ragionamento del mondo (nello specifico, del mondo racchiuso nei racconti disegnati dello scomparso Gelsomino d’Ambrosio) “nella tensostruttura di un sonetto”, tensostruttura che raggiunge qui le massime tensioni sperimentalistiche: basti pensare al sonetto bicaudato con fronte e volta invertite piede di madonna.
Chiude infine l’opera l’ipersonetto di settenari Carnevale Minore, omaggio implicito “all’archimandrita Zanzotto” (come da notazione di Andrea Cortellessa), in cui il tono crepuscolare, quasi dimesso, da mottetti e bozzetti, meriterebbe una lunga e articolata trattazione a sé e chiude con un allegro in sordina una trama poetica unica del suo genere. Nell’ipersonetto finale, sottoinsieme che costituisce in sé un’unica struttura poematica, il moto-cross verbale a cui il lettore di Bàino deve tenere dietro, prende anse più meditative, e culmina, in “ti nascondi e si vede” con quello che sembra configurarsi come un autoritratto a distanza, un congedo dalla pelle/ordito di pixel con cui il lettore e il poeta si sono finora interfacciati/confusi.
Pierre Lemaitre, Tre giorni e una vita, Mondadori, 223 pagine, 2016
traduzione di Stefania Ricciardi
Possono gli avvenimenti di pochi giorni, tre per la precisione, cambiare per sempre l’esistenza di una persona? È esattamente quello che succede ad Antoine, un dodicenne che vive a Beauval, nella profonda provincia francese, in una delle tante anonime case a schiera, con vicini anonimi quanto lui. Antoine non ha il padre, che lo ha abbandonato quand’era piccolo, e vive con una madre fin troppo affettuosa e oppressiva. Le sue amicizie sono rare, i suoi compagni di scuola non lo considerano un vincente. Vive l’arrivo dell’adolescenza pieno di timori nei confronti della sua mediocrità, incapace di eccellere, di farsi notare.
Poi accade un fatto allo stesso tempo di poco conto eppure brutale e catastrofico: il vicino di casa uccide il proprio cane davanti ai suoi occhi. L’affetto che provava Antoine per un cane neppure suo, l’idea che coltivava di amicizia disinteressata, bambinesca, subisce un duro colpo. Da qui un concatenarsi di avvenimenti muterà per sempre la sua esistenza.
Pierre Lemaitre appare un narratore sadico con i suoi personaggi, sempre in balia di eventi dovuti al caso, deus ex machina che rimettono di volta in volta in gioco le certezze del lettore. Tre giorni e una vita ha nella sua prima parte le pagine migliori, dove i temi della colpa e dell’inganno assumono colorazioni dostoevskiane, mentre il ritratto di Antoine adulto, dopo i tre fatali giorni del suo peculiare superamento della linea d’ombra, sembra ineluttabile, senza appigli.
La scrittura di Lemaitre è concentrata su due poli: l’intreccio serratissimo, colmo di colpi di scena, e la lettura dell’interiorità del suo protagonista. Tutti gli altri personaggi, e sono molti, sembrano reagenti chimici al servizio della analisi psicologica di Antoine, un ragazzo che avrebbe potuto vivere una vita differente, se non avesse vissuto quei tre giorni maledetti.
(pubblicato precedentemente su Cooperazione n° 35 del 30 agosto 2016)
5
dice che non sa dov’è mio padre, dice che forse gira con la macchina sempre nei soliti posti quelli che conosce a memoria tutti gli stop, dove si può superare, dove bisogna stare attenti perché ci mettono gli autovelox proprio quando torni a casa dal lavoro.
dice che porta ancora il cappellino con la scritta di versace e gli occhiali neri, se c’è il sole abbassa la capotta dice che così vede meglio le ragazze e si fa vedere, sorride fa ciao con la mano.
dice che gli piace anche se è ridicolo quando mette la polo sui pantaloni di stoffa e le scarpe da ginnastica sono troppo bianche si vede che le ha comprate da poco le mette solo per andarci in giro venire da me dice che sembra come se è sempre un turista
dice che a mia madre gli viene la nausea quando lo vede vestito come uno che va al liceo, dice che è come se lo vede che si nasconde nei bagni per fumare come se lo vede baciarsi con la ragazzina che c’ha lo scooter argento gli mette una mano nelle mutandine di monella vagabonda gli parla di vasco rossi gli fa gli squilletti nel cellulare
Re Lear è lo spettacolo della vita che concepisce la sempre imminente disfatta, una vita che anticipa la rovina e corre verso la propria fine. È vita impregnata di morte, un destino che si fa carne. Ed è una carne che sa di male, che ha odore di morte (“smells of mortality”). A tratti, sui piccoli carri spinti dagli attori, sulle sue scarne scene mobili, Giorgio Barberio Corsetti sistema e presenta personaggi disposti come “nature morte”.
È una storia di donne e di uomini, di padri e figli, genitori ed eredi, e tutti, in un mondo che odora di mortalità, tutti carnefici del proprio destino.
Una verità che gli occhi non vedono e che vuole per sé chi è fuori di senno (il cieco e il folle qui guadagnano a volte un tono beckettiano; come re Lear di tanto in tanto sembra intendersi nei suoi deliri festosi con ospiti assenti, uomini di trono e di teatro, come Caligola, Eliogabalo, Ludwig, Rodolfo II e anche quel principe di Homburg che, poco tempo fa, Barberio Corsetti ha portato in scena ad Avignone).
Re Lear è lo spettacolo sinistro, infernale, il dramma di morte, dissidio, esilio, calunnia e dissoluzione, il più apocalittico e “tempestoso” dei drammi shakespeariani, continuo presagio di catastrofe e rovina del mondo. Perché Re Lear (e lo spettacolo di Barberio Corsetti ne è formidabile interpretazione) è il dramma in cui tutto è eccesso, de-lirio, un andare oltre il segno, con il suo tempo sostenuto ad ogni passo, veloce e rovinoso, dove tutto precipita, con i personaggi che corrono via verso il precipizio del destino che essi già incarnano.
Corsa scellerata e furiosa come su un pendìo scosceso, che per Barberio Corsetti è inclinato come le tavole di un palcoscenico.
La potente bellezza dello spettacolo di Barberio Corsetti è retta, sostenuta, con forza davvero regale, dal ritmo con cui la tempestosa storia prende vita e mortale vicenda. Rhythmos, prima ancora che il “moto delle onde”, significa la forma che in un istante assume ciò che è in movimento, forma modificabile, senza consistenza organica, come un drappo della veste che si ferma sulla spalla, o come l’instabilità dell’umore, ossia di ciò che scorre via. È proprio grazie a questo eccezionale ritmo, tempo che non abdica né divide, che lo spettacolo può sprigionare la sua forza e conservare al tempo stesso la sua potente stabilità.
Il tragico dissidio tra l’esercizio del potere e una dichiarazione d’amore, autorità e potestà come sorelle rivali, l’impegno dell’eredità e la necessità del riconoscimento: Re Lear, proprio grazie a queste vicende, mette in scena la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Ma come poter riconoscere un’epoca prima che sia davvero un’epoca, ossia prima della sua fine? Il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti è un interrogarci sulla nostra epoca, una domanda piuttosto rara sulla scena del tempo presente e che di questo spettacolo esprime tutta la necessaria e preziosissima inattualità.
All’Argentina di Roma ‘Re Lear’ con Ennio Fantastichini diretto da Barberio Corsetti
Lo spettacolo debutta il 21 novembre e rimarrà in cartellone sino al 10 dicembre
E il padrone, come al solito senza parlare, ha intascato il danaro e con un cenno del capo mi ha passato la busta coi pesci che un turista aveva appena comprato. Quattro spigole. Ho iniziato a pulirle. L’uomo si è fatto vicino: barba d’argento, occhi castani spensierati e guizzanti in un volto abbronzato e rugoso. Sicuramente italiano.
Abbassato lo sguardo, ho affondato il coltello nel primo pesce, l’ho aperto, l’ho ripulito con un giro veloce lasciando cadere le interiora nell’acqua, poi mi sono abbassato, ho allungato il braccio aldilà della chiazza rossastra e marrone di sangue e interiora intorno ai miei piedi, l’ho sciacquato con acqua di mare pulita e mi sono rialzato incrociando gli occhi attenti dello straniero: forse non aveva mai visto nessuno pulire del pesce nel mare. Ne ho approfittato e gli ho chiesto:
– Per quale motivo gli Inglesi non vogliono stare in Europa?
Sorpreso, è rimasto un poco in silenzio. Tanto per prendere tempo, ha fatto anche lui una domanda:
-Com’è che parli italiano adesso che avete televisione e canali e programmi?
-Perché voglio andare in Italia, perché anche se molti Albanesi da un pezzo dicono che ci sono paesi migliori, l’Italia è sempre l’Europa, ed è per questo che non capisco gli inglesi.
L’uomo ha chiuso e riaperto gli occhi. Poi ha iniziato a parlare, con lentezza, scandendo ogni parola:
-E’ che evidentemente gli inglesi pensano che stare in Europa sia peggio per loro, per la loro economia, per il fatto che le persone dagli altri paesi d’Europa possono andare liberamente da loro…
Ho risposto:
-Resteranno isolati, come noi che non sopportiamo nessuno e nemmeno noi stessi, la Grecia che ci ha rubato la storia, il Kosovo che pure sono albanesi ma sono e saranno diversi…
L’uomo mi guardava pensoso. Mi sono fermato. Lui ha detto:
-Non si sta bene in Italia, non c’è niente di buono davanti, c’è disoccupazione, soprattutto tra i giovani…
-Per noi c’è lavoro! – gli ho detto.
Mi ha guardato perplesso. Ho capito che pensava alludessi agli albanesi che fanno imbrogli e rapine e portano droga e gestiscono prostituzione. Così ho ripreso a parlare:
-Non ce ne sono più di italiani che fanno i muratori e trasportano mattoni e cemento, che raccolgono frutta nelle campagne d’estate, o che portano al pascolo greggi per giorni e per notti e fanno formaggio di capra e di pecora, o che lavano cessi…
Lui mi ha interrotto:
-Ed ha senso venire in Italia per fare questi lavori? Non è meglio restare?
foto di Patrizia Posillipo
L’ho fissato. Ero sul punto d’iniziare a parlare, di dirgli “Lo sai quanto prendo e solo d’estate? Lo sai che mia madre non ha medico e medicine e oramai si trascina come una vecchia? Lo sai che qui non c’è lavoro in inverno, e che in inverno c’è solo freddo e disperazione? Lo sai che qui devi conoscere per ogni piccola cosa, e mia madre non conosce nessuno e mai nessuno ha voluto conoscere?” E lui allora mi avrebbe risposto: “E pensi che avresti medico e medicine con i lavori che hai nominato? Pensi che avresti una casa, o che potresti sposarti e fare dei figli?”. E io gli avrei ribattuto: “Sarei in Italia, in Europa, dove tutto è più semplice e comodo e presto o tardi mi passerebbe davanti una buona occasione. Magari qualcuno mi farebbe portare una partita di droga, mia mamma non verrebbe a saperlo, forse lo immaginerebbe a distanza di mesi o di anni vendendomi fuori dalla miseria per sempre, e allora ne sarebbe felice dentro di sé… E seppure nessuna occasione mi passasse davanti, seppure dovessi patire la fame, sarebbe in un posto migliore, con le ragazze e i ragazzi che hanno gusto e vestiti e spensieratezza negli occhi. Almeno godrei nel vederli, a immaginarmi cresciuto come uno di loro”.
Tutto questo ero sul punto di dirgli, ma il tempo non sarebbe bastato. Così, in modo da fargli capire, ho velocemente abbracciato con uno sguardo accigliato il coltello, le spigole che ancora non avevo pulito, il grembiule marrone e rosso di sangue e interiora, la baracca con le conche e il padrone, che adesso mi stava guardando poiché c’era un altro cliente cui pulire tre pesci, albanese stavolta, con l’aria di chi va di fretta.
Fingendo di non averlo notato, ho riabbassato la testa per raschiare le squame dell’ultima spigola dell’italiano, ripulirgli la pancia, sciacquarla, avvolgerla dentro la carta, allungare il braccio e passare la busta, con un movimento deciso che ha indotto l’albanese ad avvicinarsi e allungarmi i suoi pesci, l’italiano finalmente a capire che non c’era più tempo e allora a farmi un sorriso dolce e un po’ divertito, come a dirmi che stavo sbagliando, che qualcuno mi aveva messo in testa stronzate, quindi – in un istante veloce, simile a quello in cui avevo abbracciato il coltello, il grembiule marrone e rosso di sangue, la baracca e le conche e il padrone – a guardare il tramonto, il mare pulito, la costa rocciosa, le colline verdi alle spalle, ed a dirmi un’ultima cosa prima d’incamminarsi e sparire per sempre dalla mia vista: