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La crisi della riproduzione e la formazione di un nuovo “proletariato ex lege”

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Intervista di Francesca Coin a Silvia Federici

Negli anni Settanta siete state le prime a parlare contro il lavoro domestico mostrando come il processo di accumulazione nelle fabbriche iniziasse sul corpo delle donne. Cosa è cambiato in questi anni?

Il lavoro gratuito è esploso, quello che noi vedevamo allora dall’angolatura specifica del lavoro domestico si è diffuso a tutta la società. In verità, se guardiamo alla storia del capitalismo vediamo che l’uso del lavoro non pagato è stato enorme. Se pensiamo al lavoro degli schiavi, al lavoro di riproduzione, al lavoro agricolo dai campesinos ai peones in condizioni di semi-schiavitù, ci rendiamo conto che il lavoro salariato è stato in realtà una minoranza circondata da un oceano di lavoro non pagato. Oggi questo oceano continua a crescere nelle forme di lavoro tradizionali ma anche in forme nuove, perché ora anche per accedere al lavoro salariato devi fare quantomeno una parte di lavoro non pagato. In Grecia mi hanno detto che ormai è necessario fare sei o sette mesi di lavoro non pagato nella speranza di trovare un lavoro pagato, quindi in varie situazioni si ripete la stessa dinamica: ti assumono a titolo gratuito, lavori sei o sette mesi e poi ti lasciano a casa. La coercizione del lavoro non pagato è ormai una pratica sempre più diffusa. Le scuole da questo punto di vista sono state le prime a servirsene. In questo caso è stata centrale l’idea dell’addestramento. Il training viene presentato come un beneficio per lo studente ma in verità lo spreme sin dai primi anni. L’età, infatti, si sta accorciando, si comincia a parlare di lavoro gratuito già nella high school. Nei giornali in questi giorni si parla molto di worker gig. Gig è un’espressione che viene dal mondo musicale dal jazz, una gig è un pezzo improvvisato, ora questo concetto viene applicato al mondo dell’impiego. Si tratta di prestazioni a chiamata senza alcuna garanzia che estendono il mo- dello Uber a tutti i settori, a indicare una precarizzazione della vita trasversale al mondo del lavoro che ha raggiunto livelli elevatissimi. Questo è importante dal punto di vista del femminismo, in parti- colare dal punto di vista di quelle femministe che consideravano l’ingresso nel lavoro salariato come una sorta di avanzamento o di emancipazione, mentre si prefigura sempre più come lavoro non pagato.

Tu avevi già indicato tempo fa come la crisi del fordismo fosse contraddistinta dal ripetersi di “crisi riproduttive” caratterizzate dall’erosione di tutte le sicurezze sociali. La trasformazione degli ultimi quarant’anni è stata quasi stupefacente, da questo punto di vista, perché da un lato ha reso sistema il lavoro non pagato e dall’altro ha tentato di renderlo invisibile attraverso un discorso colpevolizzante che attribuisce le cause dell’agonia sociale odierna a chi più ne fa le spese. Penso per esempio alla narrazione che produce e stigmatizza “i furbi del cartellino” – se ne parla in questi giorni – a nascondere lo smantellamento del welfare dietro il bisogno di disciplinare tutti quei soggetti che – si dice – “vivono alle spalle della società”. Che implicazioni ha tutto que- sto nelle relazioni sociali?

È il mondo sottosopra. Sino agli anni Settanta c’è stata una politica fordista – in verità si tratta di una politica che precede il fordismo e che si fonda sull’investimento da parte dello stato nella riproduzio- ne della forza lavoro. Si tratta di una concezione che culmina con il New Deal al fine di creare una forza lavoro più docile e più produttiva. alla fine dell’epoca fordista questa concezione salta. Dall’in- vestimento statale si è passati alla finanziarizzazione del lavoro di riproduzione, quello che una volta lo stato sussidiava oggi lo si deve pagare. una volta che il sussidio statale è stato eliminato, la riproduzione è diventata un momento di accumulazione. La rimozione dei sussidi ha costretto gli studenti a farsi carico di un debito enorme, quindi ci troviamo oggi con una popolazione studentesca fortemente indebitata prima ancora di entrare nel mondo del lavoro. Lo stesso è avvenuto nel campo della salute e nel campo dell’assistenza sociale, sopratutto per quanto riguarda l’assistenza agli anziani, il day-care e gli asili nido. Gli Stati uniti sono stati all’avanguardia di questo processo. Negli Stati uniti chi ha bisogno di assistenza deve pagare somme consistenti e i pochi assistenti sociali che sono rimasti sono oberati di lavoro. C’è stata una taylorizzazione del lavoro d’assistenza, in questi anni. Da un lato la spesa sociale è stata tagliata e dall’al- tro i servizi sono stati taylorizzati. Dunque oggi coloro che praticano l’assistenza sociale si trovano con un numero di utenti raddoppiato mentre aumenta anche il lavoro non pagato. Questa riduzione al mi- nimo dei servizi è al centro della crisi di riproduzione che stiamo vivendo. Si tratta di una crisi che colpisce anzitutto le donne, i bambini e gli anziani, con forme molto drammatiche. La situazione nelle nursing home, negli ospizi per gli anziani è preoccupante in quanto l’insufficienza di personale viene compensata con una continua medicalizzazione. I maltrattamenti nelle istituzioni di cura siano diffusi e continui. Gli anziani vengono spesso sedati e legati al letto. Non a caso il numero di suicidi tra loro è molto aumentato. L’uso dei farmaci è pratica comune anche tra i bambini nelle scuole al fine di costringerli a essere docili e disciplinati. Questo risvolto della crisi della riproduzione è il risultato del passaggio dalla spesa sociale al mercato. Ciò significa che devi assumerti il costo della riproduzione e in molti ambiti questo ha conseguenze letali per la popolazione. tu fai riferimento anche a un altro aspetto della crisi della riproduzione e cioé al public shaming – i rituali di svergognamento pubblico con cui si accusano i pochi che ancora godono di un minimo di sussidio statale di essere dei privilegiati e dei fraudolenti. Questi malcapitati vengono messi alla berlina e accusati di essere la causa dell’impoverimento del budget quasi fossero loro che dissestano l’economia. In Italia il public shaming ha raggiunto livelli vergognosi. Mi pare im- portante ribadire che si deve rifiutare con forza l’idea che il dissesto finanziario dello stato sia dovuto al misuso del sussidio statale, e dire che è una responsabilità diretta dello stato che in tanti casi costringe il proletariato alla criminalità. Ci stanno costringendo a essere criminali per sopravvivere perché hanno tagliato le forme di sussistenza e di accesso legale alla riproduzione in modo tanto drastico che non è possibile sopravvivere per grosse fasce della popolazione senza entrare nell’illegalità: senza vendere un po’ di droga, senza la prostituzione, l’assegno falso. È per questo che gli Stati uniti, il paese guida nell’applicazione del neo-liberalismo, è anche il paese guida per la creazione di una società carceraria, cioé di una società dove sistematicamente, come sistema di governo, si incarcera una grande parte della popolazione perché non è fonte di reddito e perché è vista come potenzialmente sovversiva e combattiva, come una popolazione che, essendo stata storicamente discriminata, può reclamare riparazioni per quello che gli è stato tolto. e quindi viene preventivamente incarcerata e esclusa da quelle poche vie legali che gli sono rimaste per la sopravvivenza, in un circolo vizioso e perverso. Marx sottolineava come lo sviluppo del capitalismo portasse alla formazione di un proletariato ex lege. potremmo dire che la formazione di un proletariato ex lege è al giorno d’oggi un fenomeno sistematica- mente perseguito a livello globale. Lo vediamo chiaramente nel caso dell’emigrazione. per sopravvivere è sempre più spesso necessario entrare nella illegalità e questo permette poi allo stato di intervenire con violenza sulla forza lavoro.

Stavo leggendo recentemente dei dati sulla Grecia che osservavano come lo smantellamento della spesa pubblica vada contro le donne due volte, la prima volta perché i tagli alla spesa sociale lasciano a casa anzitutto le donne assunte in modo predominante nei settori dell’assi- stenza sociale e la seconda perché i tagli costringono le donne a tornare a svolgere ruoli tradizionali di assistenza e di cura non pagati. Si diceva anche che la violenza sulle donne dovrebbe essere interpretata come cartina tornasole del clima di violenza sociale introdotto dalle politiche di austerità.

La violenza è enormemente aumentata in questi anni. È la violenza della guerra permanente. Ormai ogni pochi anni si distrugge un paese. Il mondo è sempre più un luogo di guerra e un sistema carcerario. La violenza capitalistica continua ad aumentare. Lo si vede dalla recrudescenza delle pene e dalla militarizzazione della vita. Oggi negli Stati uniti e in America Latina le polizie sono addestrate dai militari; gli Stati uniti hanno costruito carceri in tutto il mondo; le compagnie e le corporazioni hanno i loro eserciti privati e il numero delle guardie di sicurezza è in continuo aumento. Il modello della violenza sta plasmando la società e la soggettività a partire dalla soggettività maschile. Come sempre si tratta di processi che colpiscono anzitutto le donne. Di recente ho partecipato a un Forum sul femminicidio in Colombia in un porto del pacifico nella zona di buenaventura dove ci sono stati molti massacri. Lì si possono vedere molti dei fattori che contribuiscono a questa violenza. buenaventura è forse uno dei posti più belli del mondo. e’ una città sul pacifico in mezzo a una foresta tropicale meravigliosa ma recentemente contaminata a causa dell’estrazione dell’oro. Le acque e i fiumi che la popolazione usava per la propria riproduzione sono stati contaminati dal mercurio. Quindi ci sono continui scontri, perché la politica estratta porta allo sfruttamento e all’espulsione delle popolazioni locali. In questi luoghi la violenza, sopratutto la violenza contro le donne, serve a terrorizzare la popolazione. un’antropologa latino americana, Rita Segato, ha scritto un libro interessante a questo proposito. Lei parla di violenza-messaggio, di crudeltà pedagogica nel senso che uccidendo in forme atroci le donne, cioé persone inermi che non sono parte degli eserciti combattenti. Si avverte la popolazione che non può resistere all’espulsione perché si scontra con forze che non hanno pietà. uccidere le donne equivale a dare un messaggio di crudeltà incondizionata. Si deve aggiungere che le donne sono il motore della ripresa dell’economia globale. Negli anni Settanta il lavoro femminile ha riattivato la macchina economica. tradizionalmente le donne si confrontavano con la violenza nella sfera domestica, il marito attraverso la violenza disciplinava la moglie quando questa non compiva il suo lavoro domestico. Oggi le donne per poter sopravvivere devono spesso lavorare in luoghi dove sono particolarmente esposte alla violenza maschile. Si dice che le donne che emigrano dal Guatemala per gli Stati uniti prendano contraccettivi perché sono sicure che nel percorso uomini le stupreranno. Molte cercano forme di sopravvivenza vendendo cose nelle strade così che tutti i giorni si scontrano con la violenza e con la polizia. Il lavoro del sesso, il lavoro nelle maquilas – le nuove piantagioni in cui si lavora anche 14-16 ore al giorno – il lavoro delle venditrici ambulanti.. sono tutte occasioni di violenza. La violenza ha anche un effetto intimidatorio. previene o limita la possibilità di auto-organizzazione. La militarizzazione della vita fa sì che le donne si scontrino sempre più con uomini che lavorano con la violenza: il soldato, la guarda carceraria, la guardia di sicurezza. Questa militarizzazione ha un’influenza sulla soggettività e sui rapporti personali. Fanon scriveva che chi tortura tutto il giorno non può trasformarsi nel marito modello quando torna a casa, perché continuerà a risolvere i conflitti con le modalità a cui è abituato. Questo oggi lo vediamo in una società che è sempre più orientata alla guerra dove lo sfruttamento si regge sulla violenza diretta e questo ha sempre più influenza sui rapporti tra donne e uomini.

Negli anni Settanta mostravate come lo sfruttamento si fosse na- scosto nella soggettività, nella femminilità, naturalizzato e reso invisibile al punto che il lavoro delle donne veniva considerato una dote naturale. Trasformare quest’invisibilità in una lotta politica è stato fondamentale per mettere in evidenza la modalità con cui l’accumulazione avviene attraverso il corpo e sul corpo. Il nascondimento dello sfruttamento nella soggettività – penso al lavoro migrante e a La razza al lavoro di Anna Curcio e Miguel Mellino – viene dato talvolta come acquisito ma spesso mi appare, invece, un dato assai sfuggente. Penso all’idea di homo oeconomicus. Si fa ancora un ampio uso di questa categoria, dell’idea di libertà e dell’imprenditore di sé, eppure oggi l’imprenditore di sé non ha più sicurezze, l’unica sua assicurazione sul futuro è lavorare di più a costo ancor più basso, non è questo homo oeconomicus un’altra forma di sfruttamento presentata come emancipazione?

Questa dell’homo oeconomicus, della scelta e dell’auto-impiego, è un’ideologia del tutto neo-liberale. In realtà l’autonomia concessa dall’auto-impiego è limitatissima. Se da un lato l’irregimentazione della fabbrica dalle nove alle diciassette era una prigione è altrettanto una prigione non sapere se tra sei mesi tu potrai avere un reddito che ti permette di vivere, cosicché non hai alcuna possibilità di pianificare e di programmare. Di fatto non c’è niente di emancipatorio nel vivere con una instabilità continua, con l’ansia permanente di fronte alla precarizzazzione della vita. Bifo ne parlava in uno dei suoi libri. Diceva che la precarietà incide nei rapporti personali, crea personalità disposte a un certo opportunismo, costrette a coltivare rapporti sociali in funzione della sopravvivenza. Questo noi lo vediamo anche nei movimenti. Se una volta c’era una separazione netta tra il lavoro e la politica – la politica entrava nel lavoro quando lo si rifiutava ma il lavoro non era un impiego politico – adesso i confini si confondono, e ciò ha conseguenze negative, perché introduce forme di opportunismo nel politico e io credo che questo sia uno dei problemi maggiori che incontriamo oggi.

Lo scorso anno quando eri in Grecia parlavi degli spazi occupati e degli squat di Atene come esperienze importanti per sottrarre le condizioni della riproduzione al comando monetario. In questi anni ci sono state sperimentazioni molto ricche, forme collettive di esproprio nei supermercati, pratiche di auto-riduzione degli affitti e delle bollette, esperienze di riappropriazione della terra, creazione di circuiti economici alternativi capaci di usare la riproduzione come opportunità per liberare la vita dallo sfruttamento. In che modo si disfa questo comando monetario?

Si sfugge al comando del denaro anzitutto difendendo i nostri “beni comuni” e riappropriandosi del controllo e dell’uso della ter- ra, delle foreste, delle acque. Questa oggi è una delle lotte più impor- tanti che si danno nel mondo, e non a caso il capitalismo sta distruggendo intere regioni per assicurarsi che la loro ricchezza minerale non vada in altre mani. La lotta contro l’estrattivismo, così come contro la monocoltura, il transgenico, il controllo delle transnazionali sopra le sementi è al centro della politica dei movimenti sociali in America Latina come anche negli Stati uniti e in Canada. una delle lotte più forti oggi negli Stati uniti è la lotta dei Sioux contro la costruzione di un oleodotto che attraverserebbe il loro territorio connettendo il Dakota con l’Illinois. rappresentanti di popolazioni indigene, oltre a molti altri attivisti, stanno arrivando da varie par- ti del paese e dell’America Latina per bloccare questo progetto. e’ importante ribadire che queste lotte per la difesa dei beni comuni non sono mai puramente difensive. tutte creano “il comune”. Di- fendere la terra significa difendere anche la possibilità di controllare il territorio che è fondamentale per la costruzione dell’autonomia e dell’autogoverno. In area urbana gli squat e le reti di organizzazione che le donne creano nelle strade – perché oramai la riproduzione in molti paesi sempre più si sposta nelle strade – creano nuove for- me di sussistenza e solidarietà. Nelle favelas brasiliane o nelle villas argentine gli espulsi dalle zone rurali creano nuovi quartieri, nuovi accampamenti dove costruiscono case, orti, spazi per i bambini. Ho visitato una di queste “ville” in argentina, Villa retiro bis, dove ho incontrato donne che mi hanno fatto un’impressione enorme. Ho avuto la sensazione di qualche cosa di nuovo perché sono donne che vivono in una situazione in cui ogni istante della loro vita quotidiana diventa un momento di discussione politica. Il punto è che qui nien- te è dovuto, niente è garantito, tutto deve essere conquistato. tutto deve essere difeso. L’acqua, la luce devono essere contrattate con lo lo stato. però non si permette allo stato di organizzare la propria vita. Si lotta con lo stato per avere le sementi, per avere la luce gratis, per avere l’acqua potabile, per avere materiale per potere costruire la strada invece di avere solamente il fango e quindi è sempre una lot- ta continua. Queste donne stanno cercando di creare una loro vita, sono collegate tra loro, hanno creato la casa delle donne, dove ci sono anche spazi per assistenza preventiva. Gli hanno costruito un muro per separare la “villa” dal resto della città, per impedire altre appropriazioni e loro l’hanno distrutto, usano il teatro degli oppressi come forma di formazione politica, per instaurare un dibattito politi- co tra di loro, per affrontare certi problemi come può essere l’abuso sessuale in un modo anche divertente che invoglia le altre donne a partecipare. ecco, io non so se quanto sta avvenendo avrà la capacità di contrastare la macro-politica, ma so che qualcosa di nuovo sta avvenendo e dobbiamo partire da qui.

Tratta da:

Francesca Coin (a cura di), Salari rubati. Economia politica e conflitto ai tempi del lavoro gratuito, Verona, Ombre Corte, 2017, pp. 99-106.

Donne e uomini lontani, come corpi estranei

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di Domenico Talia

Sulla superficie di questo romanzo c’è la storia di una donna che cresce nell’estremo Sud, studia alla Cattolica a Milano e diventa giornalista perché le piace raccontare le vite della gente. Il racconto della vita di questa donna è però quasi un pretesto per incidere con un coltello affilato un solco profondo tra uomini e donne, tra due modi di vivere il mondo, tra due visioni che difficilmente in Corpo Estraneo (Rubbettino, 2017) trovano una pur minima sintesi. Annarosa Macrì ha scritto un romanzo femmina, dove gli uomini sono corpi estranei, incapaci di sincronizzare le loro vite con quelle delle donne. Un romanzo in cui i maschi non hanno scampo, sono costretti in un angolo e per loro non c’è redenzione. Ogni capitolo ha il nome di una donna, tranne il primo intitolato ad un medico il cui nome evoca un poeta, il professor Leopardi. Un medico che, dovendo curare Bianca, la protagonista, la esamina, l’analizza, la scruta anche all’interno con un sondino, senza avvertire quello che lei realmente sente, senza comprendere quanto lei si senta lontano da quel corpo che il medico deve e vuole curare.

Bianca è una ragazzina studiosa, un’universitaria secchiona che arriva alla Cattolica per studiare e finisce per trovarsi coinvolta nel ’68 milanese. Una giovane donna che vede i costumi sociali cambiare e che si trova a suo agio soltanto con le sue amiche. Bianca prova sempre a lasciare il suo uomo, vuole lasciare tutti gli uomini. Anche dopo essersi sposata, sente che il marito diventa per lei un corpo estraneo, anche il figlio che porta nel suo grembo, a volte, le sembra un corpo estraneo. L’unico uomo che ama, con il quale si sente pacificata, è suo padre, il quale muore quando lei è ancora ragazza e le lascia in eredità la grande passione del giornalismo.

Come quasi tutti i romanzi, anche questo è una scusa, neanche tanto nascosta, di raccontare le cose importanti della propria vita. La storia di una donna che fa i conti con gli uomini che ha incontrato nella sua esistenza. Tutti egoisti, ingombranti, silenziosi quando c’è da parlare e spendaccioni quando c’è da risparmiare. A volte nella narrazione di Annarosa Macrì, l’estraneità umana si unisce a quella geografica. Non soltanto i corpi sono estranei, sono estranei a Bianca anche i luoghi. Lei che lascia l’estremo Sud e arriva a Milano nel pensionato dell’Università Cattolica dove trova donne solidali ma anche tanta solitudine. Lei che si sente un piccolo corpo estraneo anche nella grande casa dei conti milanesi Grandi Rebecchi. Quando deve fare la “signorina” per il piccolo conte che deve accudire in un mondo ottocentesco, dove la pronuncia non perfetta di una vocale è sufficiente a farle perdere il lavoro.

All’interno del romanzo ci sono anche delle (apparentemente) piccole descrizioni che aprono squarci di vita illuminanti, come il racconto di Leopoldo Trieste che segue di nascosto Salvatore Quasimodo per le strade di Reggio Calabria e, in un giorno di pioggia, scopre che anche i poeti sono costretti ad usare l’ombrello quando piove. Come il racconto di un giovanissimo e tracagnotto Armando Verdiglione, collega di studi della protagonista a Milano, negli anni in cui non era ancora diventato l’allievo di Lacan e lo psicoterapeuta della Milano bene.

Un altro momento arioso del romanzo è il racconto del ’68 visto dall’interno della Cattolica, in una Milano travolta dalle occupazioni studentesche (“falce e martello, borghesi al macello”). Di Piazza Fontana con le sirene delle ambulanze che sono ferite lancinanti nelle orecchie di Bianca. Di Giorgio Bocca, giovane e bello, sempre presente nelle assemblee studentesche. Dei suoi appunti illeggibili che servivano a raccontare la protesta. Di Mario Capanna studente modello di filosofia, ospite del cattolicissimo Collegio Augustinianum, dal quale viene espulso quando diventa uno dei leader del movimento.

Insieme a queste vicende storiche, il romanzo evoca anche una teoria della solitudine. Non ci sono soltanto corpi estranei nella vita di Bianca. Il suo stesso corpo è estraneo ai suoi pensieri, a lei stessa. Bianca è una crisalide in un bozzolo in cui vive con disagio, che rifiuta. Il libro racconta anche di quando Bianca scopre di essersi ammalata e vive la malattia come vive gli altri dolori della vita, con lo stesso fastidio di quando si scoprono i parassiti su una pianta. Bianca rifiuta il suo corpo e rifiuta anche il male nel suo corpo. È costretta a malincuore a curarsi, ma sente la malattia come qualcosa di estraneo al suo essere, fuori dal suo orizzonte mentale. Ignora la malattia pensando ad altro, al suo lavoro di giornalista, alla passione del raccontare la vita degli altri, meglio se gli altri sono donne, come le badanti polacche con le quali fa un lungo viaggio fino a Lublino.

La questione più urgente che pone Corpo Estraneo è il difficile rapporto tra donne e uomini, che l’autrice illumina da un punto di osservazione femminile lasciando agli uomini piccoli ed angusti spazi di manovra. I tempi che viviamo registrano grandi trasformazioni nel rapporto tra i generi. Le cristallizzazioni di potere maschile si stanno sciogliendo sempre più velocemente e mentre le donne nel nostro tempo riempiono spazi sempre più grandi e prima negati, i rapporti si fanno più articolati e, soprattutto per gli uomini, la vita e le relazioni diventano sempre più complesse. Bianca su questa questione ha le idee abbastanza chiare e il romanzo della sua vita le narra con un linguaggio duro, onesto, facendo sentire al lettore la tensione e la passione di una donna ostinata e sincera, anche nelle piccole cose, perché come lei dice ad una delle sue tante amiche: “Tutto merita di essere raccontato, non ci sono vite banali, tutte le vite sono uniche se le guardi da vicino”.

Prove d’ascolto #7 – Niccolò Furri

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da: le colonnine infami (2012-2013)

 

gentile cliente ovvero da dove è partita la crisi nel 2007

IO SONO QUI. Geo-grafie di sé e dell’ambiente intorno a sé

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Progetto a cura di Emanuela Baldi, Francesca Campigli, Francesca Matteoni, Paola Papi, in collaborazione con Associazione Zappa! e Istituto Comprensivo Ugo Betti, con il patrocinio del Comune di Camerino.

IO SONO QUI è un progetto artistico-formativo rivolto a bambini e ragazzi tra i sei e i dodici anni, che si snoderà tra le strade e le piazze di Camerino tra Giugno e Luglio. Si compone di più interventi a carattere laboratoriale, con modalità esecutive e strumenti diversi, ma con una unica finalità: fare sperimentare ai partecipanti il mondo che li circonda e trovare in esso una dimensione di appartenenza e identità.

La proposta s’incentra sul valore dell’arte che trasforma grazie alla sua energia creativa, che permette di superare ostacoli e di convertire limiti in potenzialità ed ha come presupposto il principio che il mondo dipende da come lo guardo. Durante le attività verrà quindi presa in considerazione la relazione col reale, e la sua soggettività, in base alla qualità delle esperienze vissute e agli stimoli percepiti.

Accompagnati per 5 settimane in un  viaggio di presa di consapevolezza, dove il processo di apprendimento è mirato a esperire la creatività come strumento di libertà individuale e di rielaborazione del vissuto, gli studenti vivranno un’esperienza di consapevolezza a più livelli, emotivo/emozionale, intellettuale/didattico e fisico/performativo, in cui sperimenteranno attraverso diverse pratiche artistiche la propria capacità espressiva.

Il progetto è composto da 4 macro attività collegate tra loro: quattro laboratori con diversi registri espressivi, dalla scrittura al disegno, dal gesto performativo al disegno. In particolare: S-GUARDO, un percorso di educazione all’immagine attraverso la fotocamera; +SPAZIO, una esplorazione delle misure e dei concetti di spazio e tempo; ALICE IN 4 TEMPI, lettura e rielaborazione di un classico per immaginare nuovi scenari possibili; IMMAGINE CORPOREA, rielaborazione dell’ambiente che ci circonda attraverso l’empatia.

I partecipanti saranno protagonisti di un micro processo formativo sia individuale che collettivo, al termine del quale “torneranno a casa” con nuovi sguardi, nuovi valori, nuovi significati che convergono tutti in una ricerca verso il cuore delle cose, un essenziale, un riferimento valoriale da condividere con la collettività. Gli interventi faranno leva sulla curiosità dei bambini verso l’esplorazione, la scoperta e la conoscenza, passando attraverso l’osservazione del mondo che ci circonda, la relazione con i luoghi e il tempo, l’immaginazione di nuove possibilità, l’azione in empatia con l’altro, infine la crescita e la comunicazione del vissuto.

Il percorso si concluderà il 22 luglio, con un evento finale di restituzione pubblica, in cui i bambini e le bambine condurranno gli adulti attraverso l’esperienza vissuta. Tutto il processo sarà documentato ed i risultati saranno narrati in un video, una pubblicazione ed un piccolo percorso espositivo.

Il progetto è curato da uno staff di artisti e professionisti della formazione che condividono il valore evolutivo delle pratiche artistiche e riconoscono le arti come esperienze che trasformano, in particolare quando svolte in modo collettivo e partecipato. Le metodologie condivise dalle operatrici del progetto hanno carattere partecipato e sono volte al coinvolgimento dei vari soggetti all’interno di un processo formativo, creativo e artistico, tenendo conto delle varie caratteristiche dei partecipanti. In particolare si farà riferimento a un approccio learning by doing (imparare facendo) e alla condivisione delle pratiche proposte in una maniera trasversale e non giudicante, ma che accoglie le risposte di tutti alle varie proposte e che include così ognuno con le proprie attitudini e disponibilità a mettersi in gioco.

IO SONO QUI è uno dei progetti selezionati dal bando Progetti volti alla promozione di attività volte al recupero delle regolari attività scolastiche ed extrascolastiche nelle zone colpite dal terremoto, sostenuto da MIUR, IPSSEOA Costaggini Rieti, Ripartiamo dalla Scuola.

Info su pagina facebook IO SONO QUI

www.zappalab.com

iosonoqui.lab@gmail.com

Piero Melati – Giorni di mafia. Dal 1950 a oggi: quando, chi, come.

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Estratto dal nuovo libro di Piero Melati

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5 luglio 1950

La morte del bandito Giuliano

 

La notte tra il 4 e il 5 luglio del 1950 il cadavere di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, fu esibito alla stampa «giacente per terra e crivellato di colpi» nel cortile di una casa di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Era ritenuto il responsabile della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) in cui morirono undici persone (nove adulti e due bambini) e altre ventisette rimasero ferite (tre non sopravvissero). I lavoratori, in gran parte contadini, si erano riuniti in una gola di montagna tra i paesini di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello per festeggiare la vittoria alle recenti elezioni regionali del Blocco del Popolo, sotto il simbolo «Torna Garibaldi». Furono falciati a colpi di mitra.

Fu la prima strage dell’Italia repubblicana. «Di sicuro c’è solo che è morto», scrisse sull’«Europeo» il giornalista Tommaso Besozzi in una inchiesta che smentiva la ricostruzione ufficiale, secondo cui Giuliano era stato ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. «Quel segreto è un buco nero della nostra storia, che ha autorizzato e legittimato altri segreti, altri buchi neri, facendo dell’Italia un paese dai molti buchi neri», ha scritto lo storico siciliano Francesco Renda.

Eppure, il bandito di Montelepre è il personaggio più biografato della Repubblica: gli sono stati anche dedicati 5 film e 3 musical. Quando, nel 1961, il regista Francesco Rosi realizzò l’opera cinematografica più famosa, ben 14 libri avevano preceduto la pellicola. Poi ne sono seguiti altri 37. Senza dimenticare le 15 edizioni discografiche, molte delle quali simili ai moderni corridos messicani dedicati alle gesta dei narcotrafficanti.

Storie, leggende, cronache, canzoni: eppure ancora oggi il caso Giuliano è un mistero. Non ne sappiamo più di quanto apprese, quel 5 luglio del ’50, lo scrittore americano Truman Capote. Capote era appena arrivato a Taormina, dove in una casa senza luce né acqua avrebbe scritto il suo secondo romanzo, L’arpa d’erba. Nel 1966 avrebbe poi pubblicato il suo libro più famoso, A sangue freddo, sul massacro di una famiglia nel paesino di Holcomb, in Kansas, un testo che ridusse per sempre la distanza tra letteratura e giornalismo.

Scrisse Capote: «Un pomeriggio ero appena arrivato in città quando incominciò a piovere. Non vidi anima viva finché arrivai dal tabaccaio. Si era raccolta una vera folla dove i giornali, con i titoli a caratteri cubitali, svolazzavano nella pioggia. Ragazzetti a capo scoperto se ne stavano immobili senza badare all’acqua, con le teste accostate, mentre un ragazzo un poco più grande, il dito puntato all’enorme fotografia di un uomo accasciato in un lago di sangue, leggeva ad alta voce: Giuliano è morto, ucciso a Castedduvitranu. Triste, triste, una vergogna, un peccato, dicevano i vecchi; i giovani non dicevano niente, ma due ragazze entrarono nel negozio, e quando uscirono avevano in mano copie della «Sicilia», un giornale con tutta la prima pagina presa da una gigantesca fotografia del bandito ucciso. Proteggendo i loro giornali dalla pioggia, le ragazze si allontanarono di corsa, tenendosi per mano, scivolando sulla strada lucente».

Di sicuro, allora come oggi, c’è solo che Giuliano era morto. Ucciso, magari, a sangue freddo. Dalla mafia.

 


 

 

Piero Melati, palermitano, per molti anni viceredattore capo de “Il Venerdì di Repubblica”, si occupa di attualità e cultura. Ha seguito per il giornale “L’Ora” di Palermo la guerra di mafia e il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Con “la Repubblica” ha aperto le redazioni locali di Napoli e Palermo ed è stato viceredattore capo della cronaca di Roma.

No taxation without representation

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di Helena Janeczek

Dopo due anni d’attesa credevo che era fatta. Il decreto prefettizio firmato in data 12 aprile e notificato il 23 maggio dal mio comune di residenza, comunicava che mi è stata “conferita la cittadinanza italiana”. Ero così euforica che mi sono illusa di poter votare subito. “Deve aspettare il giuramento” m’hanno detto all’ufficio elettorale. Sono tornata a casa con la coda tra le gambe.

Non credo di esagerare…

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di Monia Gaita

Non credo di esagerare se affermo che siamo diventati un popolo di arresi, di stanchi, di vinti e desistenti. La frattura tra volontà e realizzazione è sotto gli occhi di tutti. Ognuno la possiede in dotazione variabile. La gente è riluttante a unirsi per dare uno sbocco congiunto alle proprie istanze. Si cammina da soli, si rinuncia alla lotta, si accetta e si mescola il giusto e l’ingiusto come soluto e solvente, in nome di una neutralità generica che annienta lo slancio e blocca i progetti. Abbiamo espropriato il fare di troppi latifondi, aggravato la povertà del pensiero, sconvolto la struttura sociale della linearità logica a favore di un impianto centralizzato instabile e confuso. Siamo schiavi di consorterie e corporazioni, schieramenti associativi collusi e prepotenti, disarticolati e frammentati disegni di miglioramento, sporadiche e maldestre imprese di rivolta. Per non parlare della politica, a metà tra demagogiche réclame a buon mercato e soluzioni friabili, incongrue e partigiane. Questa incertezza manomette il quadro delle relazioni, dal lavoro alle aspettative individuali, permeando di sé persino i luoghi. Diventiamo sostituibili e prosciugati da una precarietà che sempre di più ci annette alla fragile alleanza ramo-foglia. Il tempo ha rotto il negoziato con la contemplazione amica e consolatrice, ci porge solo piccoli bocconi, virate improvvise o striminzite fasce d’aria. Anche le parole hanno fretta e culminano nei trafori dell’ansia: sembrano profughi in cerca d’accoglienza mentre troviamo difficile accogliere pure noi stessi. Siamo dimissionari ancora in carica di una vita che non ci appartiene più. Ecco perché perdiamo il senso: il senso dei valori, del dovere, dell’amore, della gioia, della solidarietà. Abbiamo paura di difenderlo, di proteggerlo, di custodirne il seme. Con la pienezza stipuliamo un armistizio meramente provvisorio, freddi e motivati patrocinatori della teoria del “mi conviene”. Tradiamo all’occorrenza, stringiamo patti caduchi che sbandieriamo eterni. Abbandoniamo con disinvoltura, vigliaccheria o ragionato calcolo. Quando la pressione delle energie richieste si fa forte, preferiamo lasciar andare, capitolare senza ardimento e senza dignità. Si svuotano anche gli spazi che abitiamo. I paesi del Sud lo dimostrano. Qui i campi sono più vincolati al cielo che agli uomini. Di uomini ne sono rimasti pochi e forse, coi decenni, si estingueranno come i dinosauri. Ci sottraiamo alla natura, ai rapporti autentici, al coraggio, all’area della riflessione e delle responsabilità. Così si impennano gli indici della solitudine e ci affidiamo al leggero, inoffensivo reame dell’effimero. Diventiamo seguaci del superfluo, cospiratori di ovvietà. Una mancanza di peso che oltre a toccare i gesti, imbraccia il fucile anche contro il linguaggio. La civiltà innesta la retromarcia pure con le parole. Il dire congeda il poderoso esercito di varietà e di grazia dei lessemi correndo sul nastro trasportatore della ripetitività espressiva. L’abbassamento del linguaggio sanziona un regresso, un arretramento del comunicare che lacera e sfigura anche gli anelli del sentire. Cosa significa, allora, imboccare la via di un’insurrezione consapevole? Trasformarci da operatori d’inerzia a operatori d’azione, uccidere e saccheggiare non quello che siamo, ma quello che siamo diventati un po’ per paura, un po’ per ignavia imitativa, un po’ per abitudine.

 

Vasio di mezzanotte

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di Francesca Fiorletta

Recentemente pubblicato da nottetempo edizioni, “Tuono di mezzanotte” è una brillante raccolta di racconti di Carla Vasio, in cui grandeggia tutta la sua affilata prosa onirica.

Di seguito, uno dei quattordici spaccati di vita (e magia) che compongono il libro.

 

Beatrice detta Bea

Incompresa, esasperata, drammatica, la Bea sbatte la porta, accende il lampadario appeso al soffitto, scaraventa la cartella sul letto e si getta bocconi sul tappeto.
Attraverso la finestra spalancata entra un forte odore di erba tagliata, guizza qualche riflesso mobile senza altra causa che non sia il riverbero del tramonto, interviene il suono impaziente di un clacson o lo stridore di una marcia male ingranata.
La Bea aspetta la primavera: la Bea è sicura che non ha mai tardato tanto a venire, ma questa sera il cielo è già di una trasparenza perfetta.

Lettura insolita a Campo Boario: cinque libri – o quasi – (e interventi sonori)

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DOLCI + RAOS, MORRESI, SEVERI, SCAPPETTONE + ARIANO > 20.06.17

 

 

 

da I processi di ingrandimento delle immagini

di Paola Silvia Dolci

 

Cremona. Lungofiume, c’è il sole.
I due sparano ai papaveri,
ai diphylleia grayi che saltano in aria
come palloncini pieni di fumo.

La gente si sveglia con un cane
che gli salta sul letto.

 

 

/

 

da Le avventure dell’Allegro Leprotto

di Andrea Raos

 

Penso il pensiero
altrui formarsi e farsi fiato e vedo
che le cose accadono
e non sono mai le stesse:
tutte cambiano,
le buone ingrigendo come il giorno, le cattive
fisse in uno sguardo pronto a spegnersi.
Così sono guardato
mai guarito dalle cose.

 

*

 

Tutto sta
in un giro di chiave
e in un doppio giro di chiave
e se voglio continuare
e mi sento cadere
giro ancora la chiave.
Tutto cade
non so dove.
Tutto è neve.
Quanto è breve.

 

 

/

 

 

da anti-sismiche

di Renata Morresi

 

Una casa avrà i vecchi e gli allettati
allineati per orizzontale e composti
gli uni sugli altri, alternati da strati
di badanti polacche e moldave,
per il sostentamento disposte ad incastro,
a spina di pesce, coi centenari montanari
a triplo vincolo, le vecchissime vergare
marchigiane usate a mo’ di foratelle,
gli intubati sussunti nel grande disegno,
le fantesche innestate come impianti,
i curati e i curanti, i validi e gli invalidi,
canterti delle nuove anti-sismiche,
anti-abitanti, senza bisogno.

 

 

/

 

 

da Sinopia

di Luigi Severi

 

non era rimasto nessuno
così è uscito dalla stanza, ha salutato l’infermiere
dopo aver riposto nella bara con ordine la sua biancheria, aver investito
i suoi ultimi fondi pensione, a perdizione

 

da qualche parte filtra, in quel nero dove non si trova
(lacca di robbia, asfalto, blu d’oltremare: mescola
in furia, stendi senza tregua: stare),
questo è l’assedio immobile, premeditato / stop:

 

trattenere, rilasciare, trafiggere, credere sempre meno
fino all’ultima molecola che inspiri / crepa la guaina, poco,
crepa la guaina, in fondo, come si dice, al tubo: Schlauch
[Indica due punti] E qui, e qui – sotto pressione

 

corpo di vecchio e voce, per difendersi
è legno che brucia e in quell’attimo
forse sai (proprio alla fine) di guardare
(disegno che è una brutta imitazione):

 

la prima, finalmente, parola che dici

 

 

/

 

“Imagine a Cinder-Wench”

da The Republic of Exit 43

di Jennifer Scappettone

 

 

 

 

*

 

letture e performance per 5 testi:

> I processi di ingrandimento delle immagini, di Paola Silvia Dolci
> Le avventure dell’Allegro Leprotto, di Andrea Raos
> Anti-sismiche, di Renata Morresi
> Sinopia, di Luigi Severi
> The Republic of Exit 43, di Jennifer Scappettone

 

martedì 20 giugno 2017 

Studio Campo Boario
(Roma, Via Campo Boario 4/A)

ore 18:30

 

***

Marco Ariano è batterista/percussionista, compositore di musica improvvisata, artista multimediale. Sperimenta scritture poetico-scenico-sonore ed elabora dispositivi/strategie di produzione musicale. Nel 1999 fonda il laboratorio di ricerca artistica CarneCeleste con il quale sviluppa l’idea di un “teatro di eventi sonori” realizzando performance, installazioni e opere multimediali. È fondatore/co-fondatore di gruppi legati a pratiche eterogenee di improvvisazione, come Opera Mutica, Xubuxue, Difforme Ensemble, Ensemble Intondo.

Paola Silvia Dolci, ingegnere civile. Diplomata presso il Centro Nazionale di Drammaturgia. Collaborazioni con riviste letterarie. Direttore responsabile della rivista indipendente di poesia e cultura Niederngasse. Tra gli altri ha tradotto Maxine Kumin e Galway Kinnell. Ha pubblicato Bagarre (Lietocolle, 2007), NuàdeCocò (Manni, 2011), Amiral Bragueton (Italic Pequod, 2013) e I processi di ingrandimento delle immagini (Oèdipus, 2017).

Renata Morresi ha pubblicato Cuore comune (peQuod, 2010), Bagnanti (Perrone, 2013) e La signora W. (Camera verde 2013), quest’ultima apparsa anche in traduzione francese su Nioques 14 (2015). Ha tradotto Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012, Premio Marrazza 2014) e nel 2015 ha ricevuto il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Sta ultimando la traduzione di Zong!, poema della canadese NourbeSe Philip. È redattrice di Nazione Indiana e di punto critico°.

Andrea Raos è scrittore e traduttore. Il suo ultimo libro è Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali (Arcipelago Itaca, 2017).

Jennifer Scappettone ha pubblicato From Dame Quickly (Litmus Press, 2009), Thing Ode / Ode oggettuale (La Camera Verde, 2008), tradotto con Marco Giovenale, Err-Residence (Bronze Skull, 2007), Beauty [Is the New Absurdity] (dusi/e kollectiv, 2007) e The Republic of Exit 43: Outtakes & Scores from an Archaeology and Pop-Up Opera of the Corporate Dump (Atelos Press, 2017). La sua monografia Killing the Moonlight: Modernism in Venice è uscito nel 2014 presso Columbia University Press. Ha tradotto e curato Locomotrix: Selected Poetry and Prose of Amelia Rosselli (University of Chicago Press, 2012, Raiziss/De Palchi Book Award dell’Academy of American Poets). Insegna letteratura alla University of Chicago. Il suo sito web è http://oikost.com/

Luigi Severi ha scritto saggi sulla letteratura rinascimentale e novecentesca (tra cui l’e-book Sull’intellettuale dissidente, e-dizioni Biagio Cepollaro, 2007). Libri di poesia: Terza persona (Atelier, 2006), Specchio di imperfezione e Corona (La camera verde, 2013), Sinopia (Anterem, 2016).

MSQ→AMS→PAR #2

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di Andrea Inglese, Barbara Philipp, Aleksei Shinkarenko

Secondo episodio, di cinque. Il primo è uscito qui, in versione italiana, e sul sito amico Remue.net, in versione francese. Sulla natura del progetto, leggere in coda al pezzo.

Invece no. La caccia in fondo è una roba fascista, e il fascismo non mi ha mai entusiasmato. Capisco che ce ne sia.

Grazie, Sergione

5

di Helena Janeczek

– Sergio, mi serve il tuo aiuto.
– Whatever, princess.
– Quando questi sparano da giù, a quelli sotto l’abbazia di Montecassino che cosa esattamente gli arriva in testa?
– La gittata?
– Sì, la frammentazione, l’impatto. Del fuoco di sbarramento. L’appoggio dell’artiglieria, in genere. Però hanno beccato i loro uomini, regolarmente.
– Okay. That’s how it goes.
– Okay. Ma me lo spieghi bene?

Sergio Altieri me lo spiegava bene. Mi spiegava come si produce uno shrapnel, come sfonda il cranio o dilania i tessuti, come un’esplosione acceca, assorda ecc. Poi chiedeva come stavano mio figlio e mia madre, quanti anni avessero, se era tutto a posto, a parte ciò che non lo era. Ricambiavo la domanda.
L’ho rivisto poco più di un mese addietro, assieme a Gianni Biondillo, dopo un numero di anni che non so precisare. Scorgere la sua stazza da grizzly, talmente incongrua con quella festa dell’editoria milanese, mi ha allargato il cuore, come sempre.
Ci si sentiva al riparo, vicino a Sergio. Accanto a Sergione non c’era spazio per il cinismo educato, il pettegolezzo, la sfiducia. Sergio Altieri era convinto che il mondo degli uomini stesse andando verso il definitivo game-over e che bastava poco perché, da sempre, la crosta di civiltà si rompesse e ne eruttasse la sopraffazione del homo homini lupus. Era un uomo che ne pativa, credo, nella misura in cui i suoi libri mettono in scena quella violenza e quel nichilismo. Era un uomo molto più sensibile di tanti che credono di esserlo e, a suo modo, ne era consapevole: una cosa assai meno scontata dato l’aspetto, l’eloquio e l’estetica dei suoi romanzi.
Non credeva in niente, Sergione Altieri. Ma credo gli farebbe piacere che il bene che ha disseminato gli stia tornando indietro, come si evince dal cordoglio, così corale e così sincero, che accompagna la sua morte doloramente improvvisa.
Ti terremo nelle nostre librerie e memorie che non prendono la polvere, se abbiamo ancora un po’ di tempo prima della Fine. Grazie, Sergio.

ps. Digitando “Alan D. Altieri”, potete trovare gli articoli dedicati a Sergio.

Letteratura e memoria/2: Michele Mari

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di Stefano Gallerani


Michele Mari
Leggenda privata
pp. 171, € 18,50
Einaudi, “Supercoralli
Torino, 2017

La riedizione (rivista e aggiornata) dei saggi contenuti ne I demoni e la pasta sfoglia (Il Saggiatore; già Quiritta e Cavallo di ferro) e quella del romanzo leopardiano Io venía pien d’angoscia a rimirarti (Longanesi prima, Einaudi ora) ha preparato, nei mesi scorsi, l’uscita dell’ultimo libro di Michele Mari: Leggenda privata (Einaudi, “Supercoralli”, pp. 171, € 18,50). Tre anni dopo l’aperçu ottocentesco di Roderick Duddle e sette dopo la psichedelia letteraria di Rosso Floyd, Mari vira su se stesso come già esplicitamente nel suo romanzo più vertiginoso, Rondini sul filo (Mondadori, 1999) o, in maniera più trasversale, nel volumetto fotografico Asterusher (Corraini Edizioni, 2015), non a caso sottotitolato “autobiografia per feticci”.

Irish in Italy

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Dopo l’allestimento dello scorso inverno alla Biblioteca Nazionale di Roma, torna oggi, 16 giugno, Bloomsday, la mostra Irish in Italy sui rapporti tra letteratura e politica irlandesi e italiane nella prima metà del Novecento.

In mostra per due settimane le più importanti prime edizioni italiane di Yeats, Joyce, Synge, Wilde, Shaw e di altri autori irlandesi, insieme alle lettere di Pavese, Montale, Joyce, Bragaglia, Yeats.

L’esposizione è ospitata nella sede romana della University of Notre Dame dal 16 al 30 giugno e l’ingresso è gratuito. Altre informazioni qui. [ot]

La poesia come ape operaia. Su Fatti vivo di Chandra Livia Candiani

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nota di Giorgio Morale

 

Silvio Perrella in un articolo su Il Mattino (19, 5, 2017) a proposito di Fatti vivo, il nuovo libro di Chandra Livia Candiani (Einaudi 2017) nota che “Chandra Livia Candiani mentre scrive è come se pregasse; i suoi sono esercizi di armonizzazione tra quel che è passeggero e quel che resta e sta ‘sopra il disordine della realtà’. Scrivere versi pregando è per lei l’infinito inseguimento degli elementi primi, come la pioggia o la sete. È il tentativo di scrutare ‘il fondo/sereno delle cose’”.

 

Anche Antonio Prete su Il manifesto (21, 5, 2017) parla della poesia di Chandra Livia Candiani come preghiera: “I versi di Chandra Livia Candiani – ho vive in me le impressioni che hanno accompagnato la lettura dei precedenti suoi libri – ospitano gli oggetti, la loro aura onirica, la loro anima, circondandoli di un sentimento del tempo e trasformandoli in presenze intime… A uno sguardo che è di stupore e di preghiera, insieme. Il mostrarsi del mondo – del suo suono, del suo furore – è accolto in una parola che è insieme accoglimento dell’esistente e interrogazione di sé… La poesia è tutta ospitalità che fa rifiorire quel che accoglie, oggetto o ricordo, presenza umana o animale”.

 

Vorrei porre in evidenza due cose che emergono da queste citazioni. Innanzitutto il rapporto tra io e mondo, per il quale le “presenze intime” diventano “sentimento del tempo” e il “mostrarsi del mondo” diventa “interrogazione di sé”. Questo ritrovare se stessi nel mondo e scoprire nel mondo quel che si ha dentro di sé è un atteggiamento che Candiani ha portato a piena evidenza ne La bambina pugile e che viene approfondito in Fatti vivo: “sono buttata in tutto ferito, / in questo solo questo mondo”. È un atteggiamento che rende il poeta accogliente e allo stesso tempo partecipe delle gioie e dei dolori del mondo e che rende la poesia “cantico” e “preghiera”. Di accoglienza del mondo e di sentimento del tempo oggi c’è molta necessità, ed è questo che rende quella di Chandra Livia Candiani una poesia di cui il nostro tempo ha bisogno. Si tratta di una accoglienza che non arretra di fronte ad alcuni aspetti in ombra della realtà, di fronte al dolore e al male del mondo: “Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto”. Perciò la poesia di Livia Candiani esprime un desiderio di “aspirare / il cielo” ma anche di “farsi terra e polvere”. Senza opporre barriere e difese: “Lasciati bruciare”.

 

In questo atteggiamento c’è anche un risvolto etico e quindi pragmatico: “L’amore è diverso / da quello che credevo, / più vicino a un’ape operaia / a un tessitore / che a un acrobata ubriaco, / più simile a un mestiere / che a un sentire”. Siamo molto lontani dall’immagine del poeta e dell’uomo come acrobata tipico delle avanguardie novecentesche. Amare è un mestiere, e accogliere implica un’azione che è quella di raccogliere quanto è violentato e disperso.

 

Come ha detto Erri De Luca nel suo intervento alla riunione nazionale di Emergency, a Genova l’1 luglio 2016, “Il mio verbo moderno è raccogliere: un raccolto di vite che non abbiamo seminato, allegato, educato”. Realizzando il significato originario del verbo dire, in greco legein cioè raccogliere, Chandra Livia Candiani con la parola raccoglie questo che “Mio mondo / chiamano / mio mondo / essere senza mondo”. Il respiro del poeta, metonimia per dire la parola, “porta brandelli di mondo”. Ecco infatti che nei suoi elenchi Chandra Livia Candiani raccoglie “Abu faccia sbriciolata” e i nomi dei bambini morti annegati nel Mediterraneo, “lo sgombero visto da un bambino” rom e l’uomo che chiede “Dammi da mangiare / dammi da bere”, e perfino gli animali privati del loro ambiente naturale: “elefante, leone, tigre, orso bruno, lince, storione…”

 

L’auspicio è che possa verificarsi per il lettore quello che nella prima sezione del libro dice Il portone: “quelli che entrano / non usciranno uguali”. E che ognuno dei lettori raccolga queste “istruzioni per farsi vivi”, perché “Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati”.

 

Poesie tratte dalla nuova raccolta di poesie di Chandra Livia Candiani, Fatti vivo (Einaudi 2017).

 

L’amore è diverso

da quello che credevo,

più vicino a un’ape operaia

a un tessitore

che a un acrobata ubriaco,

più simile a un mestiere

che a un sentire.

Io amavo

un po’ con la memoria astrale

e un po’ con giustizia poetica,

ma l’amore

è più vicino a una scienza

che a una poesia,

ha delle sue regole di risonanza

e altre di respingenza,

ha angoli di incidenza

per profili alari e luce,

ma non ha regole per il buio

e l’assenza di ali.

L’amore è molto simile

all’insonnia,

non devi soffrirla

solo ospitarla,

lasciare che ti squassi

faccia di te un sistema nervoso

senza isolamento,

una corda tesa

di strumento musicale ignoto.

Essere temi musicali

non è una vocazione

ma una disciplina di spoliazione,

è farsi ossi

limati

dalle onde

goccia che si disfa

nel galoppante mare.

*

Il dolore degli altri

non mi sta in mano

e nemmeno in gola

più che altro sta nel petto

nella sua memoria

luogo schivo

che fa stazione

che scartavetra le fughe.

*

Mentre morivo

annegata di promesse

piombate al fondale

col cemento,

mentre deglutivo mare

non pensavo,

elencavo pezzetti di bene

scrostato dalla pelle:

le ombre salvifiche

le ciglia sotto il sole deserto

le labbra bambine

al capezzale del latte.

L’angelo africano

è un baobab

ha radici.

Mentre morivo

mi prendeva una nostalgia

che rapiva via

verso le rapide nuvole

e lui

l’angelo

teneva teneva.

*

E gli uomini della volta celeste

salivano e scendevano

uno spezzava il pugnale

contro la tua roccia

uno scavava con la zappa

fino al tuo serbatoio buio

metteva alla luce i reperti

li nominava

erano blu

uno scardinava il tuo uscio

chiedevi:

Mi porti in un posto sorvegliato?”

Nessuno è invasore del paesaggio

piuttosto il paesaggio resta per loro

non si muove.

Legge interna dei dormienti

un silenzio scrive che dormi

scrive che ti alzi

scrive che voli.

Fino a qui.

Diritto marittimo

di aspettarti.

Quando una leggenda si sbriciola

gli occhi diventano sassi.

Tu ascolta il prodigioso

canta il nome

non lasciarmi in pace.

*

Dammi da mangiare

dammi da bere

dammi i soldi bui

dammi terra sotto i piedi

dammi le mani

e l’acqua per cancellarle.

 

Da dove vieni bruci.

L’acqua le mani

gli angoli acuti

per la città dei tuoi passi

ecco

spiccioli di alta e bassa marea.

Fame è misterioso

richiamo

alza e abbassa regge lascia

ti reggo mi lascio.

 

Dove sono i miei uccelli?

Dove sono i miei cervi?

Chi non canta sui rami?

Chi non salta tra i cespugli?

Dov’è il vento,

il mio pescatore di uccelli?

Dov’è il giardiniere

che sa far ridere i crisantemi

dove sono i passi freddi

delle mucche nella notte?

 

Guarda, quante mani ha la pioggia

la terra tigre d’erba sotto l’asfalto

gli inciampi nel canto degli uccelli

che scavalcano l’aria.

“Devi” dicono gli alberi

alla leggera forza che smalta il verde

nel nero del ramo in inverno,

guarda il cielo che non è di nessuno

deserto di rondini e rondini.

Mangia parole,

vive.

 

Dammi l’acqua

dammi la mano

dammi la tua parola

che siamo,

nello stesso mondo.

Prove d’ascolto #6 – Alessandro De Francesco

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9 testi da (((

posa la mano su una superficie traslucida che respira

dentro al palmo della mano la curva della superficie si alza e si abbassa a temperatura tiepida       talvolta freme     si arresta      ricomincia a pulsare      il tessuto è schiarito da un punto luce senza provenienza

nonostante la semi-trasparenza del tessuto non è dato capire se c’è un corpo dentro    o una stanza    o se tutto il contenuto è nella superficie stessa     che continua a respirare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
stanno chiusi tutti dietro    alcuni possono uscire per qualche minuto quando si deve fare benzina poi vengono nuovamente spinti dentro     le scosse del veicolo e le curve modificano la loro distribuzione nello spazio     talvolta gli uni premono gli altri respirando affannosamente    altre volte sono disposti in una geometria provvisoria      non parlano quasi mai     l’odore dei corpi e il tatto prevalgono sulla vista   l’abitacolo è privo di finestrini ed è probabilmente notte ormai     la notte      questo atto di essere trasportati da un luogo all’altro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
il rombo ha frequenze molto profonde ed è prolungato nel tempo a un volume elevato satura tutte le stanze ma non se ne capisce la provenienza    le finestre sono chiuse ed è troppo presente perché possa infiltrarsi dalle fenditure ogni tanto sembra possibile distinguere pezzi di linguaggio in una massa unica quasi senza variazioni    nessuno dei presenti si ricorda quando è iniziato esattamente   qualcuno nota in un angolo di una stanza che un corpo si sta muovendo   è di dimensioni molto ridotte e pulsa a ritmo irregolare    talvolta lentamente   altre volte a fremiti   non ha occhi né arti    forse dei peli stanno sotto questo oggetto liscio che è in vita       le minime variazioni del rombo sembrerebbero dipendere   secondo alcuni   dal ritmo della sua respirazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
nel tardo pomeriggio  di ritorno dal lavoro   si rende conto che una massa corporea molto alta sta immobile nell’arco della porta tra una stanza e l’altra     sembra che lo osservi ma non ha né arti né occhi né forma definita   non dice niente    non vuole niente     è un territorio di tessuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
spesso volumi convessi appesantiscono i rami degli alberi           talora sono fatti di foglie che ritmano l’aria             altre volte da condensazioni bianche dove scavano gallerie                           i rami allora tracciano volte     passaggi di sotto       cunei lunghi

dentro i volumi   nelle intercapedini scavate dai vettori   o nella tana vuota ricoperta di foglie vengono forse posizionati obiettivi che abbracciano un ampio arco di paesaggio    cercando informazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
le tende     fatte di tessuto sintetico bianco e ricoperte da un sottile strato di neve     sono disposte su uno spazio molto vasto dove predominano     polvere marrone    pietre      e le colline circostanti    il perimetro militare regola gli accessi      dal promontorio non è possibile avvistare persone al di fuori di qualche

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
sopra una distesa di luci e nervi le cose corrono veloci dietro il pendio è una volta convessa in discesa   riflessa in verticale  con l’aiuto di pinze corridoi di gomma e traiettorie vengono posizionate due telecamere alle estremità dell’oggetto   che si trova attualmente     secondo alcuni   dietro il frigorifero     al rumore dell’accensione sullo schermo appare improvvisamente il volto di una bambina che fissa l’obiettivo     le vengono fatte domande   alle quali non risponde

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
tempo minerale      corpo vitreo       tegumenti
e piú tardi      o allo stesso tempo      27 immigrati rumeni chiusi dentro una camionetta vengono scoperti sul territorio e rinviati oltre il confine

in una teca del british museum un uomo sumero in bronzo sta aspettando         davanti a sé       da 4000 anni     con occhi lisci e senza pupille           esplora spazi siderali   il rumore della membrana    la bacca rossa che cade nel ruscello mentre nessuno passa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
l’appartamento è vuoto da sempre le luci sono accese in tutte le stanze e non ci sono interruttori per spegnerle   il quadro elettrico è assente             in un angolo di una stanza   non lontano da una finestra     una palla           respira     la superficie è interamente ricoperta dal derma e innervata da un sistema circolatorio piuttosto visibile sotto lo strato della pelle     la sfera misura circa 18cm di diametro non ha orifizi e non emette suoni  il suo unico moto è dato dal rigonfiamento ritmico   a intervalli di circa 4 secondi        dovuto alla respirazione

 

 

 

 

 

 

*

 

 

Esercizio ragionativo in forma di descrizione e sintesi visiva su Parentheses di Alessandro De Francesco.

di Mariangela Guatteri

(Maggio 2016)

 

In una gabbia tipografica voluta minima ci sono spazi ciechi in cui solidi e superfici respirano.

In una gabbia tipografica voluta minima lo spazio è diminuito con accorgimenti che lo rappresentano perimetrato, sovraffollato, saturato da un suono, privo di aperture, ingombrato, stipato, confinato in una stanza.
Qualcosa, seppur minima, respira; e succede che sorge il dubbio circa il contenuto della superficie di un tessuto.
Il contenuto della superficie potrebbe essere lo spazio da esplorare: il tessuto stesso.

Uno spazio tessutale rappresentato in una gabbia tipografica voluta minima è costituito di segni testuali.
Una superficie tessutale ha ulteriori dimensioni rispetto a quelle immediatamente visibili quando la si scorre.
Si scopre che i suoi costituenti sono molteplici e di varia natura ma non è possibile toccarli. Il senso del tatto non è in una condizione produttiva, non genera aria (un gesto sui segni testuali non sposta nulla).
Eppure c’è una continua attività respiratoria.

Respirano corpi che sono un incognito; senza identità, ad alcuni l’aria manca.
Ci sono palle, superfici, immigrati e masse corporee che occupano quasi tutto lo spazio.
Ciò che respira è senza orifizi.

Senza orifizi non si può respirare se non attraverso il proprio tessuto poroso o tramato o che consente l’osmosi.
Qui ancora non si ha certezza di come avvenga la respirazione. Apparentemente non è manifestata alcuna necessità di scambio; ciò risulta coerente con l’ipotesi che quello che respira contiene tanto il suo spazio interno quanto quello esterno.

Chi ha fatto esperienza di spazi diminuiti, tornando a respirare, può comprendere cosa, in definitiva, una delle azioni automatiche vitali per eccellenza consente in termini di dimensioni. Queste non si limitano affatto a quelle volumetriche, o facilmente misurabili, oppure di immediata percepibilità. L’automatismo respiratorio nutre il tessuto e lo fa muovere; la dimensione vitale del respiro è uno spazio che non si vede, che potrebbe risolversi sulla superficie, su una stringa, oppure essere contenuto in essa, ribaltando le consuete cognizioni dello spazio.

In forma di descrizione la superficie tessutale del linguaggio osserva quello a cui dà forma e fa muovere, e informa e istruisce; dà notizia perciò del suo territorio d’azione.
Una tenda innevata su un’area vasta, perimetrata e militarizzata. Un territorio, una superficie traslucida. Pezzi di linguaggio sono riconosciuti in un’unica massa sonora compatta. Paesaggi cadono con un solo salto nelle traiettorie di captatori d’informazione. Archi di paesaggio, tane, corridoi, schermi e distese cablate: luci, nervi. La presenza umana è irrilevante; non dice; respira male; sta in uno spazio esiguo.

Quando è iniziato tutto ciò, non è un tempo congeniale alla memoria dei fatti. Questi succedono correndo lungo nervature tessutali; hanno i loro percorsi nelle loro conseguenze; sono informazioni: le regola una matrice che vive in una gabbia tipografica.
Nella gabbia tipografica non c’è orifizio: né entrata né uscita. C’è superficie, e questa ha trovato il modo di respirare mentre contiene e si contiene nel mondo.

 

 

*

 

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

 

Platone!

0

di Francesco Bargellini

Il vagabondo

La gente non sa:
senza questo tragitto attraverso ogni cosa,
senza vagabondaggio

se pure la incontri non avrai intelligenza
della Verità

Parmenide 136e

***

La fine

alla fine di tutto l’amore
vedrà all’improvviso un mirabile
bello essenziale

o Socrate, a questo serviva
tutto il dolore

Simposio 210e

***

La cura

Quelli che putacaso
si danno alla filosofia rettamente
rischiano che ad altri si celi

che non hanno altro pensiero
che di morire e di essere morti

Fedone 64a

***

Il babau

Sorrise Cebete, e disse: Socrate,
prova a convincerci
come temessimo;

o meglio,

non come temessimo
noi ma ci fosse
anche dentro di noi un bambino
che ha queste paure;

ecco, allora convincilo
a non temere la morte
come il babau

Fedone 77e

***

La pianta

La specie di anima che in noi è dominante
va pensata così: un demone
che Dio ha assegnato a ciascuno.

E diciamo che esso ci abita il vertice della persona
e ci solleva da terra

perché congeneri al cielo, e in quanto
la pianta che siamo
non è terrestre ma urania,

e diciamo benissimo

Timeo 90a

***

La sepoltura

E come ti seppelliremo?

Come volete, disse,
se mi prenderete.
Se non vi scapperò via

Fedone 115d

 

Testi tratti da: Platone! (Aragno, 2017)

MSQ→AMS→PAR #1

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di Andrea Inglese, Barbara Philipp, Aleksei Shinkarenko

Si tratta di materiali per costruire storie: foto, disegni, frasi. O sono, forse, resti di storie. Arrivano troppo presto o troppo tardi. In ogni caso, tutto è cominciato a Minsk, da dove Aleksei Shinkarenko, fotografo bielorusso, ha inviato a Barbara e a me delle piccole serie di foto, durante l’inverno del 2015. Barbara Philipp, artista austriaca residente ad Amsterdam, rispondeva alle foto con dei disegni, a volte degli acquarelli. E io rispondevo alle foto e ai disegni, con dei testi scritti direttamente in francese.

Com’è trascorsa la notte

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com-e-trascorsa-la-nottedi Edoardo Zambelli

Filippo Tuena, Com’è trascorsa la notte, Il Saggiatore, 2017, 232 pagine

Mia adorata, la prima cosa che vorrei tu facessi per condividere questa specie di sogno nel quale mi trovo immerso è figurarti un palazzo lussuosissimo, ricco di saloni e gallerie, torri e terrazzi, giardini e fontane, scalinate e viali, grotte e cortili; e che questo immenso palazzo appaia tutto intero di fronte a noi; ne vediamo l’insieme e il particolare; ne siamo fuori e ne siamo dentro.

Così inizia Com’è trascorsa la notte, l’ultimo libro di Filippo Tuena. Un misterioso narratore invita la sua amata (e con lei il lettore) a immaginare il teatro dell’azione, la introduce alla fantasticheria notturna che sta per iniziare.

È un invito, ma è anche la prefigurazione di ciò che il lettore si appresta a leggere. Difatti anche lui si troverà allo stesso tempo fuori e dentro la storia, ne vedrà lo svolgersi e allo stesso tempo i meccanismi che la muovono.

La scena è quella della commedia shakespeariana: la preparazione ad Atene del matrimonio tra Teseo e Ippolita, la fuga dei due innamorati Ermia e Lisandro per sfuggire al matrimonio di lei con Demetrio (voluto dal padre di lei, Egeo, ma categoricamente rifiutato dalla ragazza), e di lì tutta la sarabanda di eventi che avverranno nel “bosco nei pressi di Atene”, popolato da magiche presenze, regno di Oberon e Titania, dove il folletto Puck combinerà guai versando il succo di viola del pensiero su occhi sbagliati.

Dicevo, la scena è quella, ma Tuena non si limita a dar voce ai soli personaggi della storia, estende questo diritto di parola anche agli attori che li interpretano. Si viene così a creare un incrocio di voci, di sdoppiamenti, un continuo moltiplicarsi di situazioni.

Dunque, immaginati sì al centro di questo strambo luogo di rappresentazione (gallerie, cortili, scaloni) ma pure immagina che rimani qui, accanto a me e mi ascolti sussurrare con diverse voci le vicende del “bosco nei pressi di Atene” come se quel che accade appartenesse al mio passato, in parte condiviso con te, in parte vissuto per mio conto. Ma lo sai, nella memoria le immagini si confondono. Si confondono gli atti coi desideri e le diverse figure che appaiono si compenetrano le une con le altre.

Filippo Tuena torna quindi in libreria con un’opera bizzarra. In certo modo, si potrebbe pensarla come un’evoluzione del precedente Memoriali sul caso Schumann, perché ne riprende la narrazione a più voci (cosa che comunque Tuena aveva già sperimentato con La grande ombra), e prosegue quella sorta di annullamento degli artifici del romanzo che ne erano caratteristica evidente (assenza quasi totale di descrizioni, ambientali o fisiche, nessun dialogo diretto vero e proprio).

A ben vedere, però, in Com’è trascorsa la notte, Tuena compie un passo ulteriore. Rinuncia ai personaggi, qui ridotti a semplici funzioni, a voci che si inseguono.

Mi viene in mente che Federico Fellini, dopo 8 e mezzo, diceva di non essere più interessato a raccontare una storia; che ciò che gli piaceva fare era lavorare, semplicemente andare sul set e lavorare, e in effetti tutta la seconda parte della sua carriera è fatta di film che hanno un andamento da deriva onirica, con protagonisti che si limitano a percorrere il territorio del sogno, privi (o quasi) di una reale psicologia. Si potrebbe addirittura affermare che i veri protagonisti degli ultimi film di Fellini siano i film stessi.

Questa stessa cosa, a me pare, si può dire anche dell’ultimo libro di Tuena. Perché anche qui, in effetti, il vero grande protagonista è l’atto del raccontare, e quindi, per estensione, il libro stesso.

Continuerò a chiamarlo “libro”, perché chiamarlo romanzo sarebbe allo stesso tempo un togliergli e un aggiungergli qualcosa. Forse sarebbe più facile fare un elenco di cosa non è, poi farne la somma, e così si otterrebbe un risultato che almeno un po’ si avvicini alla verità: riscrittura dell’opera di Shakespeare, insieme di monologhi, saggio sulla pittura dedicata al Sogno d’una notte di mezza estate, meta-romanzo, lunga e frammentaria riflessione sulla natura delle storie, giocoso resoconto di un’avventura onirica, trattato sull’amore in tutte le sue declinazioni e possibilità.

Ecco, tutto questo insieme, senza nello specifico essere nessuna di queste cose.

Pur nella sua brevità, è un’opera tanto complessa che potrebbe essere oggetto di lunghe trattazioni dedicate ad ognuno dei suoi aspetti. La cosa che a me personalmente ha più affascinato (l’ho già citata prima) è la continua riflessione sulla natura di una storia. Cosa rimane di un racconto? Di cosa è fatto? Possono i personaggi in qualche modo decidere il proprio destino? A tutto questo, Tuena dà la sua risposta (che qui è inutile riportare, perché è più bello andare a cercarla tra le pagine del libro).

È però utile una riflessione, che al lettore viene consegnata dalla voce dell’attore “che doveva interpretare Filostrato”. Questi, infatti, si trova ad un certo punto a rimuginare sul perché Shakespeare abbia scelto come motore dell’azione proprio il matrimonio fra Teseo e Ippolita, matrimonio che qui, nel Sogno d’una notte di mezza estate (e quindi anche nel libro di Tuena), alla fin fine si risolve in un momento di gioia, di trionfo d’amore, ma che invece, in altre rappresentazioni, vive un destino tragico. Non il matrimonio in sé, ma ciò che ne viene poi: la nascita di Ippolito, la tragedia di Fedra.

Quello che sembra voler suggerire qui l’autore è che una storia, qualsiasi storia, non si esaurisce nel momento in cui termina la narrazione. Ha bensì una vita molto più lunga, fatta non solo di un dopo, ma anche di un prima. Succede infatti qualcosa prima di una storia, e quando arriva la parola “fine”, in realtà quella storia va da qualche parte. Forse si limiterà semplicemente a trovare posto nell’immaginario di un lettore (che non è poco), oppure forse, con un po’ di fortuna, genererà altre immaginazioni, altre fantasie, altre storie.

Tuena viene da pensarlo come uno scrittore abitato da voci che si sovrappongono, lo incalzano, lo costringono quasi all’urgenza di metterle su pagina. E ad un certo punto, dopo il finale di Com’è trascorsa la notte, compare anche la sua, quella di Filippo Tuena intendo. Mai, infatti, mi era successo di imbattermi in un libro in cui anche la dedica e i ringraziamenti sembrano far parte della storia che è appena terminata.

Io sono la costumista e di tutti prendo le misure. Conosco i fianchi le spalle la pancia il culo ma adesso raccatto maschere e costumi e li rimetto nel baule dei teatranti, perché quel che oggi è finito ricomincia domani, più o meno allo stesso modo.

Prove d’ascolto #5 – Mario Corticelli

2

da pioggia. rovine

 

/

 

la conservazione della pioggia avviene tramite il crollo della pioggia

consecutivo. la ricostruzione della pioggia

consecutiva è tramite il crollo della pioggia

la ricostruzione disinvolta della pioggia

il consolidamento e il ripristino del crollo è tramite la pioggia.

se il paesaggio appare sfumato.

riportare il teatro allo stato precedente.

livellare o erigere colline, creare laghetti e corsi d’acqua

sono creati sono in crescita.

demolire in parte.

 

 

/

 

questo inconveniente

nelle vicinanze

articolato fino alla convenienza

nelle vicinanze

articolata fino all’inconveniente

sembra inarrestabile

rampicante

il luogo spartiacque

le cui parti distrutte o staccate

scrosciano articolate

sembra una prospettiva

rampicante

precedente

 

 

/

 

a ogni tratteggio ricomincia da capo

vi accede una scalinata

una copertura a forma di tetto

inclinata il tramonto

nidi di piccioni, cascatelle, numerosi altri oggetti

come ingresso la ripetizione

della caduta

del prato sul prato

come ingresso, luogo

di stanza

la caduta come ingresso

una bella entrata regolare

la distanza tra prato e stesso prato

tra pioggia e stessa pioggia

la caduta della pioggia

sulla stessa pioggia

l’intervallo

 

 

/

 

trovare un piano che sostiene gocce di pioggia, aggirare, sfiorare passando un piano che sostiene gocce di pioggia, oltrepassare, scavalcare, cadere su un piano che sostiene gocce di pioggia muovere increspare un piano che sostiene gocce di pioggia trovare

erigere

tenere un piano che dà sfondo a gocce di pioggia spingere un piano evitare sbattere contro un piano che dà sfondo a gocce di pioggia superare aggirare un piano fendere un piano o increspare trovare che il piano dà sfondo a gocce di pioggia dare sfondo trovare che le gocce trovare il piano che dà sfondo a gocce di pioggia dare sfondo alla pioggia. trovare

acqua

luogo

trovare

suddividere una porzione di luogo che contiene acqua in gocce d’acqua e luogo privo di acqua, aggirare, evitare, attraversare una porzione di luogo che contiene molta acqua, suddividere, lambire una porzione di luogo ricca d’acqua mantenere una porzione di gocce d’acqua nel luogo ugualmente mantenere il luogo suddiviso in gocce d’acqua suddivise nel luogo, sostenere, trovare che il luogo contiene acqua, trovare che l’acqua contiene gocce d’acqua, trovare il luogo che contenga acqua suddividere il luogo. trovare

che la pioggia

che l’animato differisce dall’inanimato a causa del vivere

che la pioggia

rasentando i rami degli alberi

 

 

/

 

si osservi come da ciò consegue che, quando si vedono formiche risalire i

tratteggi della pioggia verso le nuvole, è possibile inferirne la dolcezza

 

 

/

 

un raggio di luce solare illumina il punto scelto per il foro

verso la natura

inserito nella natura

il fulcro da inserire nel paesaggio lungo percorsi

verso la natura aprendo alla natura

si trasformi

un’isoletta di pioppi filanti

sei colonne superstiti

dalla colonna mancante dieci, venti

fusti si intrecciano ora

salendo

con un moto verso l’alto

scendendo

con un moto verso il basso

salendo

la media versa al basso aprendo alla natura

o le sue punte non possono sbriciolarsi

 

 

/

 

frustuli, rocchi

precipitati e disposti lungo la linea dell’ipotetico crollo naturale

diagonale per via del vento

senza limite nell’estendersi del piano.

si prendano a esempio gli aghi dei pini.

si conviene che risalgano ai rami

esaurito il contatto con la terra

che è una superficie

le cui pieghe sono linee lunghissime

tratteggiate in aghi di pini.

 

 

/

 

cui era collegato da un ponticello

all’esterno presentava un colonnato

coperto da una cupola

sopra tre serie di finestre

un portico semicircolare

cui era collegato da un ponticello

più dietro l’interno

ancora più dietro

l’esterno e dopo il colonnato

una sola scalinata a due bracci

all’interno ripete il retro che impedisce di farne una sede

ancora più interno

dietro

lasciato privo di intonaco

coperto da una cupola in parte

entro un colonnato

cui era collegato da un ponticello

sul retro a portare l’interno

che impedisce di farne una sede

 

 

/

 

si costruiscano torri di pioggia

parzialmente abitabili

non abitabili oppure

abitabili

conseguentemente abitate

conseguentemente

presto

disabitate

sul punto di essere abitate oppure

di essere disabitate

conseguentemente sul punto di essere

nonostante il contatto intermittente con il suolo

 

 

/

 

consentire attorno alla colonna la presa di un rampicante dalla base e il

risalire.

consentire attorno ai fili di pioggia la presa di un rampicante e parimenti il

risalire.

consentire attorno alle caviglie il rampicante e il risalire e parimenti le

variabili posture.

variare le posture consentite.

al cessare della pioggia resta la colonna.

al cessare del corpo resta la colonna.

al rovinare della colonna raccogliere il rampicante seccarlo al cessare della

pioggia farne un falò.

consentire al fuoco la presa sull’aria e il risalire e parimenti le variabili

posture.

al cessare del rampicante liberare l’aria e consentirne le più variabili

posture fino al ritorno del vento.

 

 

*

 

Testi in corso di elaborazione sotto il titolo di “pioggia.rovine” di Mario Corticelli

di Alessandra Cava

 

 

*

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

Over Game: Lucio Saviani

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Nota su Ludus Mundi

idea della filosofia di Lucio Saviani

Di

Francesco Forlani

 

Nella nota con cui Italo Calvino accompagna il volume Le più belle pagine di Landolfi, la parola che più ricorre e ricorrendo ne spiega il motivo, è gioco. La prima regola del gioco, per il lettore di Landolfi, avvisa Calvino, “è che presto o tardi ci si deva aspettare una sorpresa”. Ecco. In ogni libro di Lucio Saviani, parlo da lettore non averti (questa è la parola francese per dire addetto, specialista, avvisato) accade sempre qualcosa che alla fine o dal principio sorprenda; talora un paradigma impensato, talaltra una figura dimenticata o, come nel caso di questa sua ultima opera, un lungo poemetto filosofico di Pasquale Panella a fare da esergo. Del resto cos’è un esergo, se non un fuori\dentro l’Opera? E se non v’è vero confine che non sia ineffabile come faremo a sapere con certezza che chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori?

L’esplorazione del limite – se ogni gioco ha una regola è altresì vero che i giochi possono spostare o reinventare la linea del limite e insieme la sua pericolosità- che Lucio Saviani in tutti questi anni ci ha descritto, analizzato, raccontato, gioca un ruolo importante in Ludus Mundi Idea della filosofia ( Moretti & Vitali) come viene del resto riportato nell’introduzione.

 “Questo libro rappresenta il punto in cui confluiscono e trovano un senso unitario gli esiti di un percorso iniziato nei primi anni ottanta. la riflessione intorno al problema filosofico del gioco è spesso presente, in forme diverse, nei punti centrali di alcuni miei lavori che sono del decennio successivo, come Voci di confine (1993), A dadi con gli dei, (1994), Segnalibro (1995) e Ermeneutica del gioco (1998), di cui qui vengono riprese e rielaborate alcune parti.”

 Il rigore con cui il filosofo discetta di gioco, la chiarezza degli argomenti che ne indagano la centralità nell’idea stessa di filosofia, è assimilabile a mio avviso a certi libretti con il mode d’emploi, il complesso sistema delle regole, che certi giochi di società comuni ai nostri tempi, che si tratti del Monopoli o dello Scarabeo, Risiko o della più antica e tradizionale tavola degli scacchi, mette ben in vista all’interno della propria confezione. Potremmo allora dire che il saggio di Lucio Saviani sta al poemetto filosofico di Pasquale Panella come la regola al gioco? La filosofia alla poesia? Non saprei ma di una cosa ne siamo più che certi; chi volesse trovarvi per esempio citazioni letterarie “tematiche” – su tutte, quella giocata su tutte le ruote dei lettori amanti dell’azzardo, Il giocatore di Dostoevskij– o annotazioni pop, tipo una fenomenologia del gratta e vinci e simili vivrà la sorpresa di non trovarvi nulla di tutto questo, fortunatamente aggiungiamo noi, proprio perché alla stregua di un libretto con le istruzioni per l’uso, tratta delle regole che fondano il gioco ma non delle pratiche, tutte le pratiche che senza di queste non potrebbero nemmeno aver luogo. Non v’è affatto arbitrarietà, quella del bambino che annuncia il tempo del gioco al proprio compagno con la formula “facciamo che…” o del narratore che crea “i fatti”, ma disposizione genealogica e dunque storicizzata dei concetti chiave. Ripercorriamo così i frammenti dei presocratici, le indicazioni e controindicazioni di rispettivamente Platone ed Aristotele sulla questione della Mimesis, e dell’autenticità di ciò che appare, ma sarà soprattutto in area tedesca, in primis Nietzsche e Heidegger e a seguire, Huizinga, Fink e Gadamer che il pensiero filosofico del gioco si gioca le sue carte. Lato francese, si leggeranno le inattuali di Jacques Derrida e Vladimir Jankélévitch sul game over.

Ecco allora che in un momento in cui i filosofi non “giocano” più il ruolo di penseurs sur scène – così Peter Sloterdijk aveva intitolato una sua opera dedicata a Nietzsche – ma quello di intrattenitori di massa, alla Michel Onfray, per citarne uno, leggere un filosofo che trattenga il fiato, che “sospenda” la scena, non può che salutarsi come si accoglie una bella sorpresa. Prima di lasciare la parola al filosofo Aldo Masullo che ne ha firmato la postfazione mostrando quanto necessario sia oggi partire da questo paradigma, eccomi ritornare  lì dove avevamo cominciato.

Grazie a Ludus Mundi finalmente potremo capire meglio insieme ai tic dei nostri giochi moderni, all’anima dei giocattoli che popolano le nostre stanze, i concetti di tempo e destino, o la gravità della frase, per quanto ostentatamente pubblica, “Les jeux sont faits, rien ne va plus”. E rassicurarsi grazie a questa lettura del fatto che la filosofia, il pensiero,  possa esercitare ancora la propria libertà fino in fondo, intervenire perfino a giochi fatti sulla realtà. Ma soprattutto risuoneranno più forte che mai perfino le meravigliose pagine del racconto di Tommaso Landolfi, “Lettera di un romantico sul gioco”, come quando scrive:

Pure, miracolo della grazia, v’è per imperscrutabile decreto in questa condizione alcunché d’eroico: qui spira il largo, sebbene vorace, vento degli spazi, che dissipa i meschini ambagi, i vili e uggiosi compromessi, qui, un istante re e imperatore, quello seguente verme della terra, il rampollo dell’uomo, sia travolto o trionfi, è ugualmente travolto, e dunque sempre trionfa, se con puro cuore chini il capo ai voleri del cielo. Qui egli, percosso di religioso stupore, vive le sue ore più gravi; qui, da ultimo, l’Avventura e il Mistero, questi supremi doni della Provvidenza, menano la loro libera vicenda. Sia dunque lode al gioco, la più alta attività dello spirito umano!

 

 

Postfazione  al libro Ludus Mundi

Filosofia del gioco e gioco della filosofia

di Aldo Masullo

La destrutturazione antimetafisica, operante nell’ermeneutica novecentesca, riduce la filosofia a linguaggio che si autointerpreta, o infine a scrittura, e si serve della ‘ermeneutica del gioco’ per simboleggiare la poetica gratuità dell’interpretazione o il casuale tracciarsi della ri-scrittura. Essa rivela il suo paradossale errore metafisico, oscillando tra due polarità.

O, con Heidegger, s’identifica il potere dell’“altro” con quel “far-esser-la-presenza [An-wesen-lassen]”, a cui l’“esser-presente [An-wesen]” è sospeso. Perfino il linguaggio, il luogo stesso della presenza, fonda la sua presenza in “altro” da sé. L’avvertimento di Heidegger è lapidario: “l’essenza del linguaggio non è un fatto linguistico”.

Oppure, per liquidare l’equivoca significatività dell’“altro”, lo si nega. Così Derrida riduce l’“altro” del linguaggio effettivo al gioco gratuito dei rinvii, all’assenza di qualsiasi ragione, alla pura negatività del caso, insomma a un nulla. Per lui lo stesso discorso filosofico che parla del gioco del linguaggio si risolve nel gioco della “ri-scrittura”, nel semplice e magari “inutile” anche se intellettualmente raffinato spostamento di “margini”, che si compie mentre si ri-percorrono le tracce delle scritture “filosofiche”. Qui non v’è più alcun positivo “altro”, di cui un gioco che gioca possa essere figura.

Certo non si può fare a meno di obiettare che al concetto di “originario” non appartiene affatto, intrinsecamente, il significato di fondamento. L’“originario” in se stesso vuol solo dire l’estrema prossimità di un limite. Il limite è “origine” in un’accezione non metafisica o fisica, ma analoga all’astrazione geometrica, con cui il punto viene definito “origine” di una semiretta, la linea “origine” di un semipiano, il piano “origine” di uno semispazio. Se dalla nozione ideale di limite si passa alla sua applicazione empirica, caso esemplare ne è la linea immaginaria dell’orizzonte come contorno del campo di visibilità definito da un punto di vista. la linea d’orizzonte, come ogni limite, si coglie sensibilmente in un “di qua”, in ciò che le è estremamente prossimo e, visualizzando l’“origine”, è l’“originario”. Essa cioè, nella sua potenza di apparizione sensibile, irresistibilmente suggerisce all’immaginazione un “di là”, un “oltre”.

Ma in un decostruzionismo radicale non può concepirsi un “di là” del limite, neppure immaginario, così come non può concepirsene un “di qua”. La nozione di gioco è stata introdotta proprio per sostituire, e quindi escludere, la nozione di limite. Il limite infatti implica necessariamente il “di qua”, la “presenza”, e insieme il “di là”, l’“assenza”. Derrida, nel ridurre il linguaggio a scrittura, e questa a gioco, intende purificare la filosofia dall’idea metafisica di “presenza” ma, con ciò, anche dalla complementare idea di “assenza”. Espunta la nozione di limite, e dunque la possibilità stessa della verità, la quale o è in sé, perfettamente determinata, o non è, non si dà più “presenza piena”, ma neppure assenza. La filosofia, risolta nel linguaggio interpretante e nel ri-scriversi della scrittura, non s’arroga più d’essere totalizzante, dunque non pretende più di unificare il molteplice nei limiti della determinatezza, e di ridurlo così a presenza di verità. È un esercizio senza “origine” e senza termine, un puro gioco che non dipende da alcuna presenza, o alternativa di presenza e di assenza. Anzi, proprio presenza e assenza non sono che possibilità del gioco.

Non resta alcuna verità, la cui presenza riempia i significati o la cui assenza li trascenda.

C’è ormai solo un gioco di segni, e di relazioni di significanza (significanti-significati), che in questo gioco si fanno e disfanno. si tratta di un gioco che, pur senza regole, senza principio e senza fine, senza vincitori né vinti, senza scopo e senza risultato, tuttavia, per il solo fatto d’esser giocato in un campo (il linguaggio) costituito da un numero finito di elementi, non può assurgere alla leggerezza del play, del gioco giocante. Esso piuttosto inevitabilmente si riduce alla pesantezza dell’agonistica ripetitività del game, del gioco giocato. Infatti, “una modificazione del codice non può provenire da un puro movimento interno al codice stesso”. E, fuori del codice, non c’è “altro”.

A questo punto, appare evidente che, attraverso l’“ermeneutica del gioco”, con l’incauta presunzione di cancellare l’errore metafisico o umanistico di un “oltre” come assolutamente determinato “altro” e, in quanto tale, come “fondamento”, si rende in effetti impensabile la serietà dell’esistere, ovvero l’iniziativa e la responsabilità.

Alla nozione di “altro”, respinta come indebita entificazione dell’Essere, non si risponde se non con la pura e semplice negazio- ne dell’Essere. Così, la difficoltà si radicalizza.

Negl’incunaboli della “filosofia ermeneutica”, ossia nei corsi heideggeriani degli anni 1919-1923, “e-sistere” vuol dire l’incessante trascendere, l’uscire dalla semplice identità di ente, e l’uscire ogni volta dall’essere usciti, l’intenzionale muoversi-verso. perciò un e-sistere che, al “di là” della sua identità, del suo essere il linguaggio interpretante, verso nulla possa trascendere, non è affatto un e-sistere, ma un fortuito gioco di segni. Effetto di una casuale combinatoria, esso non è la soggettività, ma il suo fantasma.

Il gioco può ben essere la metafora di un codice o sistema di segni, il cui funzionare è la significazione linguistica, immenso prodursi di significanti e complicato istituirsi di significati. Ma qual è il senso, la radice vitale, da cui il codice si genera e che lo mette in movimento e lo fa funzionare, e che tuttavia non è, né può essere, contenuta nel codice? Come può la stessa giocosa mancanza di origine e di scopo del linguaggio esercitarsi interminabilmente, se non radicata nella serietà della vita la quale, come dolore o piacere, essendo non indifferente perdersi nel cambiare ma sempre appassionato concentrarsi vissuto, con essa gioca?

Questa è la decisiva questione, con cui è necessario confrontarsi. La sua intera scansione apre, del resto, la strada verso la finale formulazione esplicita della domanda, che fin dall’inizio la sottende.

Nel giro di pensieri del secondo Heidegger, di Gadamer, di Derrida, l’Essere si risolve nel linguaggio. Allora la filosofia, ponendo la domanda sull’Essere, non fa che interrogarsi sul linguaggio.

Qui si pone la difficoltà radicale. il linguaggio è un contesto di significazione, l’Essere è un contesto di senso. Se la filosofia è il linguaggio stesso nel suo autointerpretarsi, essa non sull’Essere in effetti s’interroga, ma soltanto sui significati.

Cos’altro allora resta alla filosofia, se non riconoscersi in un semplice gioco di segni?

Fermarsi a ciò, secondo Lucio Saviani, che per lunghi anni ha esplorato la serrata ricerca novecentesca sul gioco come via al superamento del pensiero metafisico, esprimerebbe una “idea di [questo] superamento ancora tutt’interna al discorso, al progetto del moderno, o di pratica dei margini della modernità, come scrittura- lettura di ‘bordo’ e note a margine del linguaggio (e del testo) della metafisica”.

Paradossalmente chi come Saviani si pone da questo punto di vista pensa di sottrarsi alla prigionia del linguaggio filosofante non uscendone, ma al contrario lavorando al suo interno, facendone aumentare al massimo la tensione, e alla fine lasciando che esso esploda. A lui, nella pratica filosofica del linguaggio, sembra possibile “la novità di una chance in termini di contaminazione, oscillazione e ‘indebolimento’ dell’idea di essere e di tutte le opposizioni metafisiche […]”. Certamente la filosofia, secondo la sua natura, non può non formulare definizioni, perfino di se stessa e dei concetti con cui lavora. Però lo stesso pensiero del gioco, come Saviani scrive in questo libro, “irrompe, scalzando di continuo ogni lavoro di definizione”.

A chi argomenta in questo modo sembra, in conclusione, che dalla costitutiva e perciò insopprimibile metafisicità della filosofia come gioco del linguaggio con se stesso, non si possa salvare la prospettiva antimetafisica se non in quanto “il gioco innesca la sua carica esplosiva innanzitutto su se stesso”.

A questo punto sopravviene irresistibile l’ultima e radicale domanda.

Cosa vuol dire l’esplosione del linguaggio, se non la rovina del riparo che esso costituisce, e il finale restar del pensiero esposto ad “altro”, per quanto sempre dentro il cerchio della soggettività, anzi forse nel cuore di essa, ossia gettato nella tanto familiare quanto oscura terra del senso ?

I “significati” non sono che le pensabili oggettività degli enti, ossia ben definite funzioni dell’operare interpretativo del linguaggio.

Il “senso” invece è la vita che, in sé ri-piegandosi, di continuo da vivente diviene vissuta. impulso irresistibile ne è il tempo, traumatico irrompere della differenza, nativa emozione del cambiamento, patita contingenza del sé: insomma non la compromessa “presenza” teoretica della verità ma l’assoluta “attualità” del patire.

Solo così s’intende come possa il linguistico gioco dei segni fare i conti con la serietà di “altro”, che non sia il metafisico simulacro di un fondamento.

“Oltre” il linguaggio, non come un “di là” bensì un “di qua” da esso, e dunque dentro l’orizzonte della soggettività, vigoreggia l’affettività del vissuto.

La soggettività non si riduce al linguaggio.

In essa vive anche “altro”. Questo, a essa intimo, è l’“originario” noi stessi, che è tale, non originato da alcunché, poiché nulla di vissuto v’è, “prima” del vissuto. È l’ambigua emozione d’irrimediabile perdita eppur di nuova possibilità, del sentirsi morendo nascere e nascendo morire, il tempo appunto, la radice di ogni “senso” che, vissuto, di volta in volta noi siamo.

Con l’esplosione del linguaggio, dileguano le protettive finzioni del suo gioco.

Ora l’arcana nudità della vita vissuta, come dolore e come piacere, fronteggia seriamente il pensiero. Essa, estrema severa occasione, lo consegna all’ineludibile prova dell’etica. La filosofia intanto si fa “pratica del limite ed esercizio di radicale finitezza”.

Transessualità e letteratura

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giò-chiambrettidi Yasmin Incretolli

A differenza degli scritti autobiografici, la narrativa d’autore per opera di persone transessuali è praticamente irreperibile.

Apparentemente sembra che la legittimità editoriale della loro creatività debba sottostare alla richiesta d’intimità ed esibizionismo.

Il lettore prevede dalla narrazione alcuni paradigmi che costituiscono convenzionalmente un iter di cambio di sesso: intenso disagio, vulnerabilità, tormento interiore e indeterminatezza – con aneddoti su più punti culminanti della fenomenologia.