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Di sommersi e di salvati (riflessioni siriane)

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di Daud al-Ahmar*

Si sbaglia a credere che le nazioni vittime della storia (e sono la maggioranza) vivano col pensiero fisso della rivoluzione, vedendovi la soluzione più semplice. Una rivoluzione è sempre un dramma (…). La rivoluzione è l’ultima risorsa e se un popolo ha deciso di ricorrervi è perché ha imparato per lunga esperienza, che non gli resta altra via d’uscita. (Ryszard Kapuściński – Shah in Shah)

Mi dice che non sapeva cosa fare dopo la prima esplosione, non c’era ancora abituato. Era corso a radunare i pezzi dei corpi per cercare di rimetterli insieme. C’erano altri ragazzini come lui, piccole prede del panico, e tutti si affannavano a dare a quei pezzi un ordine. Era un istinto nuovo (o antichissimo) e bisognava fare in fretta, ma era allo stesso tempo un dovere ineludibile costruito sul paradigma per cui non ci si può prender cura dei vivi se non è possibile farlo coi morti.

Ali mi guarda diritto, con quei suoi occhi color nocciola la cui forma allungata ha qualcosa di turcomanno e di azero e che graffiano sempre con ironia e cinismo. Ma ora che lo conosco bene ho capito che hanno anche qualcosa che appartiene all’angoscia dei testimoni, dei sopravvissuti. Qualcosa che ha radici in una solitudine profonda, sempre oscillante tra due imperi, la memoria e la dimenticanza, e sospesa sul vuoto dell’incomunicabilità. Un sentimento nato in un ragazzino iracheno di Mosul, cresciuto con lui e in lui, negli anni e guerra dopo guerra. I suoi occhi sono anche pieni d’amore per la vita, però. Anche se talvolta mi pare un amore strano, eccessivo, costruito su una vaga e inestinguibile fascinazione per la morte.

Sediamo in un minuscolo bar di Amman, un posto dai vetri opachi e dal molto fumo nell’aria. Stringiamo birra e sigarette. Tavolini angusti e consumati costringono al faccia a faccia. Sotto il mento piattini di formaggio salato, noccioline, cetrioli; sopra le teste un piccolo televisore anni ‘80 montato su un braccio meccanico simile a quello di certi alberghi economici. La voce lontana e melodiosa di Umm Kulthum fa da sottofondo ad annunci pubblicitari a dir poco grotteschi, uomini in tanga gonfi di anabolizzanti, modelle sexy al volante di macchine sportive, resort di lusso sul mar morto o ad Aqaba. Sulla parte bassa dello schermo scorrono ininterrottamente le ultime notizie: bombardamenti sulla Siria, attentati a Baghdad e a Beirut, la spianata delle moschee a Gerusalemme chiusa dagli Israeliani.

Ali dice che vorrebbe vedere tutto raso al suolo, distrutto, ogni statua, ogni colonna, ogni argilla, ogni tempio. La devono far finita con questa parola ridicola: civiltà. Che se ne vada tutto in polvere Ninive, Ur, Babilonia, nomi che non significano più nulla per gli iracheni. “Civiltà” ripete, lanciandomi un’occhiata sarcastica mentre rimuove un pezzo di nocciolina dai denti e lo inghiotte.

Ci soffermiamo a guardare lo schermo, pensando che forse quell’amalgama di immagini musica e notizie non è poi così assurdo. Non più di quanto lo siano i caccia siriani, russi, francesi, statunitensi, turchi, israeliani e via dicendo, che si sfiorano, sfrecciando a pochissimi metri di distanza sul cielo devastato della Siria.

Poi Ali, rapito da qualche pensiero, assume quell’atteggiamento paternalista che odio e mi dice che no, non posso capire. Anche se ho qualche “referenza”, sensibilità e tanta buona volontà. Sorride perché mi incazzo. Torna sereno, raccoglie due noccioline tostate dal piattino, manda giù una gran sorsata di birra e lancia una breve occhiata allo schermo esclamando: questi giordani sono proprio stronzi! E poi: ma tu, civilizzato, sei nato in ospedale, vero? E perché? Eri malato?

Paolo dall’Oglio ha scritto di aver subito durante la guerra una potente accelerazione esistenziale. Mi pare un’ottima definizione per descrivere quel tipo di dis-orientamento che hanno i profughi quando riescono a scappare o sopravvivere. E in questo caso parola non potrebbe calzare meglio, dato che non possono più volgere verso oriente, la loro terra [non è un po’ orientalista come cosa? State ad Aqaba lui va a Izmir! Cmq “dato che Ali forse non potrà più volgersi verso oriente, dov’è la sua terra].

Che ne pensi? mi guarda, la guardo. è pericoloso, dico. E poi, cosa farai? Non lo so, non importa c’è mio fratello ad Amsterdam. Qualcosa farò. Meglio che stare qui. Quando parti? La prossima settimana vado a Izmir, poi di lì non so dove mi porteranno. Non te lo dicono mai prima. Sono dei bugiardi quelli. Mi raccomando, appena sai la destinazione contattami, ho degli amici a Lesbos e in altre isole, a Kos per esempio. Certo, ti faccio sapere. Mi raccomando, così se c’è qualche problema ti possono aiutare. Certo, ti ringrazio veramente tanto. Ma figurati. Ma si, tu mi capisci. Non so se ti capisco, so solo che io farei lo stesso.
Provo a capirti (penso). Damasco posso solo immaginarla, figurati perderla. O Aleppo. A volte penso: se distruggessero Venezia che farei, che penserei, come reagirei? Mi rivolgo spesso a Venezia quando cado in queste crisi d’identità, quando provo a immedesimarmi. Non so perché proprio Venezia, io non sono di Venezia. Forse perché come il Marco Polo di Calvino ho bisogno di una città, di una bellezza originaria che mi permetta di comparare con tutto il resto (quindi di capire). E Venezia, nel suo sprofondare, mi mette faccia a faccia con la morte: una morte lenta è più accettabile, mi dico, più umana, a patto che non sia per malattia (anche nel modo di morire o di soffrire emergono i privilegi). Penso a Venezia, forse, perché dopo anni che viaggio in Medio Oriente ho capito che il suo fascino sta nel suo orientalismo (di un occidentalismo) e in un immaginario tutto arabo; tantissime persone che ho incontrato, all’udire la mia provenienza, mi hanno subito chiesto con aria curiosa e sognante come fosse Bunduqiyya (in arabo Venezia ha un nome suo proprio, c’è chi sostiene provenga dal nome di un fucile che si mercanteggiava in epoche lontane).

L’altro giorno è passato a trovarmi Abdelqader, si è avvicinato ad una delle piante che ho sul balcone e mi ha detto: ehi ma questa è una gardenia! Ho annuito, ero sorpreso che conoscesse la pianta. Poi ha aggiunto con quell’aria spensierata che si ritrova: Damasco è piena di alberi di gardenia. Sento la vostra nostalgia soprattutto quando cambiate argomento. Mi chiedo spesso se cercare di immedesimarsi non sia un esercizio inutile o patetico o paternalista.

Comunque ascolta, appena sei a Izmir fammi sapere, questo è il numero che mi hanno dato i miei amici, se ti trovi in mezzo al mare e succede qualcosa, chiamalo. è un s.o.s. che ti mette in contatto con la guardia costiera greca. Qualsiasi cosa succede chiamalo, capito? mi raccomando. Anche se qualcosa non ti quadra con quello che vi porta, non solo se il mare è grosso. Ma si non preoccuparti. Vedrai che andrà tutto bene, è vicinissimo, al massimo un paio d’ore di barca mi hanno detto. Si si, lo so, però ricordati: appena sai il nome dell’isola chiamami. Se è Lesbos – si chiama anche Mitilini – o Kos, fammelo sapere. E in ogni caso dimmi quale sarà l’isola: ci sono sempre amici di amici da contattare. Ma si, ma si, tranquillo, avrò il telefono ti scrivo. Dai che qui non è come tra la Libia e l’Italia, mi hanno detto che è facile. Si ma poi quando arrivi avrai bisogno di qualcosa, di soldi di cibo, di farti una doccia… Dai basta cosi. Vieni qui e dammi un abbraccio. Sembra che ti devo consolare io! E io: è che mi vergogno. Dai. Basta cosi. A presto. Yalla, ciao! Ciao! Ci vediamo in Europa!
Ehi, a proposito, sai nuotare? Non ricordo più se gliel’ho chiesto o l’ho immaginato.

A Beirut trovo un libro di Pasolini in francese con testo italiano a fronte. “Poesia in forma di rosa”. Lo sfoglio con affetto, un vecchio amico. Dopo gli scritti, a mo’ di postfazione, l’edizione francese ha aggiunto un’intervista a Moravia, vi leggo che Pasolini e Genet non si sono mai incontrati; dopo la morte del poeta pare che Moravia e Genet invece si siano frequentati, lo scrittore italiano catturato dalla fascinazione del poeta per la causa palestinese. La cosa mi riempie di interesse (era una cosa che mi chiedevo da molto tempo senza mai accondiscendere alla veloce risposta della rete) ma, come a rimandare un piacere, mi affretto a chiudere il libro, soddisfatto, pensando che tornerò presto sull’argomento.

Ora ho fretta. Salgo le scale e mi ributto su Hamra. Strana Beirut, una città che non conosco e che mi pare di conoscere. Chissà perché. Forse per questa maledetta abitudine al Medio Oriente. Eppure lo stesso Medio Oriente mi ha insegnato che di “medio” c’è davvero poco, che ogni posto ha il suo bel caratterino o identità e modo di lottare per questo e quella. Eppure. Un’aria familiare.

Camminando vedo un sacco di gente seduta a terra o sui marciapiedi. Siriani. Penso: eccoli qua. Negli occhi qualcosa che non è disperazione né dolore. Stanchezza. Siedono sul grembo grigio e arido della strada, su piccole lingue di asfalto, ruvide come quelle dei gatti. Tra le braccia delle donne neonati, tra le dita degli uomini sigarette, ultimo appiglio di virilità. Derubati di tutto. Uomini-bambini dal sesso fragile. Le donne invece mi sorprendono sempre, coi loro avambracci forti cullerebbero una stiva.

Vedere il mare a Beirut è un’impresa con tutti questi palazzoni grigi. E guardando in alto penso: e se fosse il mare invece a dare colore al cielo? Un cielo grigio. Sono pochi gli sguardi verso l’alto. Io me lo posso permettere mentre i profughi per strada guardano dritto, come a invocare l’orizzonte che tagli le costruzioni infami e faccia passare un po’ di brezza. Beirut è un caldo umido difficile da sopportare, con i vapori del traffico asfissiante, i peli che ti pizzicano la pelle come se fossero quelli di qualcun altro, la sporcizia accumulata ai lati delle strade, i liquami, le mosche, i clacson, i mozziconi, le rose. Le rose sulle braccia di questo bambino che me ne offre una. Ma sono al tavolo da solo, gli dico con un arabo zoppicante. E lui mi guarda, sorride, come per dire: embé? Fairuz coccola in sottofondo cantando di rose damascene: tutto torna. Faccio cenno al bambino di andare verso le coppie. Mi guarda senza muoversi, con un sorriso dai denti bianchissimi che gli illumina la pelle oliva. Gli occhi vivaci mi fanno agguato di bellezza. Ma non cedo: fisso lo scugnizzo con aria seria, che vuol essere quasi di rimprovero, mentre sento il senso del ridicolo che mi si dibatte dentro. Fingo di distrarmi per un momento e poi torno a guardarlo ma quello è già guizzato via, lasciandomi lí da solo, con un irreprensibile e sorpresa aria da coglione a chiedermi da dove venga quella rosa rossa poggiata sul mio tavolino che giace come un’apparizione. Mi torna alla mente un racconto de l’Isle d’Adam in cui i bambini andavano a rubare fiori freschi nei cimiteri per rivenderli agli stessi borghesi che li avevano lasciati qualche ora prima sopra i sepolcri dei loro parenti. Le strade del ‘900, penso, Parigi. Beirut trattiene ancora molto del novecento, e di una certa borghesissima e sprezzante aria parigina. Di un certo modo intellettuale di fare, di guardarsi intorno, di studiare, la Palestina, la Giordania, la Siria, i maroniti, gli sciiti, i sunniti, i druzi e via dicendo. Beirut è l’unica che è rimasta penso, se salta Beirut è finita. Baghdad, Damasco, Cairo, Gerusalemme, ormai inaccessibili in un modo o in un altro, più che agli stranieri, agli arabi stessi. E quanto sono importanti le rappresentazioni simboliche e culturali di queste capitali, per gli arabi. La loro identità conta più degli Stati stessi, mi pare di poter dire. Di fatti, Faiuruz canta le città, non gli Stati, penso. Guardo la rosa, sorrido, sicuramente prima di arrivare sul mio tavolo avrà fatto un giro ingegnoso e irriverente

Un rivolo di sudore mi scivola dall’ascella al gomito, solleticandomi la coscienza. Il calore mi rimbambisce. Guardo i vestiti che indossano. Non posso stare nel limbo, preferisco l’inferno, diceva Kamal, amico palestinese mentre camminava su e giù per la stanza. Te la smetti di fare “i fora?!” (cosi chiamava l’andirivieni durante l’ora d’aria nelle prigioni israeliane), ma no, sai che favoriscono la digestione e il pensiero! Ora capita anche a me di camminare avanti e indietro per la stanza quando penso. Che pensavo? Ah, già l’Inferno. Che si tratti sempre di quel vecchio inferno che formiamo stando assieme? O invece si tratta di qualcos’altro? Quanta gente c’è a Beirut e in Libano? Qui si rischia di morire soffocati dalla folla. Vivere laddove l’uomo si è ritirato a istinto. I rifugiati siriani a Beirut non sono accolti bene. Eppure sono un milione in una popolazione di tre (che conta anche un buon numero di rifugiati palestinesi) e tutto si tiene in piedi in un equilibrio stupefacente.

Penso ai vestiti, al loro logorarsi naturale, guardo gli abiti come fossero staccati dai corpi. Strumenti umani. Penso al loro logorarsi sociale. Troppo facile riconoscere nel gomito, nella manica o nella cerniera, un contadino o un operaio. E quelli di un rifugiato? Eppure non ho mai visto abiti abiti così puliti e stirati come quelli dei miei vecchi colleghi di Gaza. O quelli dei contadini che incontravo nei campi e che quando mi venivano a trovare in ufficio avevano camice impeccabili, gilet e giacca di un eleganza scintillante. E le jalabyye bianchissime dei beduini una volta lasciati gli animali nelle stalle? Quante mani di donna ci sono dietro a tutto ciò? Eccola che infatti mi torna alla mente, la vecchia contadina umbra che durante la vendemmia mi diceva: poro marito mio, me ricordo che non se riusciva a toje de dosso quella puzza de merda! Stava sempre a accudì li porchi! Io ce provavo ma mice je se la faceva! E me lo immaginavo così il marito, con lo scrimo perfetto e le mani gonfie infilate l’una nell’altra, a sentire la messa con quel raccoglimento umile e delicato. Poi c’è mio nonno: il suo affannarsi nel farsi bello, nel rigovernarsi (una volta si diceva cosi in italiano, rigovernare) ogni mattino, nonostante la morte già lo placcasse, a letto da mesi. Una delle immagini più nobili che porto con me.

Ana, I am sick, marida, malata. L’uomo ritiratosi a istinto, ad alienazione? Everybody is getting sick because of the A.C., l’aria condizionata. L’alienazione ha già in sé il germe del privilegio (di farsi alienare)? What did you buy today? Shoes. Fi discount bi shara3 el-hamra, ci sono I saldi su via Hamra? Rinunciare ai privilegi? Profittarne per estenderli? Don’t do it habibi, you will ruin your make up, ti stai rovinando il trucco, non fare cosi tesoro. Estendere o eliminare. La trasvalutazione. Guardo le dita trasvalutate di smalto di queste giovani donne libanesi che bevono birra parlandosi tra di loro senza staccare l’occhio dal telefonino intelligente: don’t do it, habibti! Queste ragazze che parlano un arabo inglesizzato, due razze non incrociabili. Già il francese beirutino ha impregnato la lingua. Ora l’inglese. Beirut sembra realizzare l’inicrociabile. è questo l’inferno, mi dico a volte, il non saper più districare, strangolati da troppi lacci in cui tutto sembra avere lo stesso valore. Strano che Pasolini e Genet non si siano mai incontrati.

Turchia.

Ma che cosa gli dovrei dire io a uno che mi chiede cosa ne penso del Mediterraneo? È così caro, per me. Già la parola suscita un riverbero ameno in me. Ma tutto sta cambiando da un po’ di anni, da quando lo vedo dalla sponda sud, sud-est. Ho cominciato a metterci sabbia sporca dentro questo bel sentimento: il presente. Vedo scendere sabbia sporca, una clessidra che si inceppa. Un tempo sporco, una puzza di passato che ritorna. Sará la puzza della Storia? E più vado avanti più insisto nel metterci sabbia: mi faccio del male? Ma potrei fare altrimenti ormai? Tutte le evocazioni solari, sognanti, romantiche con cui mi sono forgiato da giovane pensando alla Grecia, al mare tra le terre, alla lira. In arabo lo chiamano il mare bianco, tra le terre. Ecco un’altra cosa che dimentico sempre di andare a guardare, questo legame tra colori e i mari, mar rosso, mar nero, mar bianco. Chissà se anche dalle nostre parti lo si chiamava bianco, tempo fa, il mediterraneo. Deve averlo scritto Metvajevic nel suo splendido breviario ma anche qui la memoria non mi viene in soccorso. E poi anche quel breviario è poesia, e la poesia la stavo giusto giusto riempiendo di sabbia sporca. Certo Predrag se lo può pure permettere, capirai è di Mostar, un’altra dolorosa-amorosa sponda. Ma io no, non posso. Penso ancora a Pasolini, all’apertura scenica della sua Medea: tutto è santo, tutto è santo! Esclama Chirone mostrando un mare splendido al piccolo Giasone. Per poi aggiungere: ma la santità può anche essere una maledizione.

Solo chi è umile può gridare viva la libertà. Vedo le immagini della polizia di frontiera che cerca di contenere centinaia di umani, vestiti come umani. La polizia è grottesca, invece, uomini vestiti come dei non uomini. La gente non scappa, scarta di lato, poi ci ripensa, torna indietro, scavalca i muri, si infila tra i fili spinati, si graffia, si sbuccia, prende due manganellate in testa. Sanguina, urla. Ma questi scappano dalle bombe, dalla clorina, dagli stupri della guerra, dall’inaudito. Avranno mica paura di due cyborg grotteschi? E infatti passano. Si fanno pure i selfie a un certo punto. Decine di volte mi è capitato di andare a manifestazioni contro il governo: la polizia, le cariche, il fuggi fuggi. Scorrimento pacifico, zone rosse, teste rosse. Un tipo di gioco che ha delle regole. Tutti o quasi le conoscono, perché sono le regole del proprio momento storico nel proprio paese, e il rapporto dialettico che ha una data popolazione con il proprio Stato (potere) e l’uso che questi fa della forza. Sappiamo bene come la forza diventi violenza e poi come, sempre Genet ci ha insegnato, come la violenza si faccia brutalità. Si sa che lo Stato si può permettere di rompere le regole del gioco. Ma il popolo no, a meno che, appunto, non si tratti di una rivoluzione.

Ma quello che vedo ora è una specie di dipinto del Quarto Stato che avanza tra polizie di frontiera, bambini che camminano in rime sparse, ragazzi coi backpack che sembrano farsi una gita in montagna, e invece si portano dietro la casa e la vita, facce stanche ma decise ad andare avanti con dentro gli occhi la voglia di una vita migliore, anche se hanno già capito meglio di tanti giovani europei che in quest’Europa c’è qualcosa che non torna, che c’è poco da fidarsi. Ci sono pur sempre dei diritti (a pagamento), ma sono pronti (a pagare) per i campi in detenzione, le impronte digitali, il rispetto delle regole, che non si rimetta in discussione lo statu quo, simbolico e legale. Eppure avanzano e con il loro andare sbaragliano le regole del gioco. La polizia carica, respinge, lacrimogeni botte. E allora? Dove volete che vadano dopo la manifestazione? A casa? Questo è un viaggio sola andata per il momento, poi staremo a vedere. Avanzano e cambiano le leggi, stati di emergenza, detenzioni amministrative, regolamenti temporanei, quote. Schengen, Dublino I Dublino II, Dublino III. Basta, non c’è più. Finito. Tutto finito. Le hanno cambiate con una camminata lunga un mese o due: Siria-Svezia.

Decine di manifestazioni (sorrido tra me e me) da adolescente ventenne, lotte in strada all’università. Mai riusciti a cambiare una virgola in una legge negli ultimi vent’anni. Nemmeno un capoverso, maledettissima Italia. E loro invece? Arrivano e le cambiano! Facile facile, come sedersi sull’arena, osservare il mare e l’orizzonte, il moto dei gabbiani, infilare il proprio odorato nella brezza: tutto è santo. è meraviglia.

(Ma nel momento in cui guarderemo la natura come naturale tutto sarà finito. Addio mare, addio cielo).

Chiamo Ali, il mio amico iracheno, e gli annuncio: i bambini si stanno riprendendo l’acqua dell’Eufrate! Abbiamo già scherzato un sacco di volte sui due fiumi, ride, mi chiede, e come? Gli dico che mi trovo al parco e ci sono i piccoletti siriani che giocano a pallone a piedi nudi su quell’erbetta turca di un verde tanto sgargiante: si riprendono il fiume. In piena estate con 45 gradi questi turchi annaffiano tutti i giorni parchi, automobili, negozi: persino gli spartitraffico delle autostrade sono prati inglesi. Mostruose dighe hanno permesso a questo paese di diventare il granaio del Medio Oriente. Agricoltura intensiva e via a mercanteggiare. Senza preoccuparsi se si sommergono città antichissime e interi siti archeologici o se si inaridiscono altri paesi. Ma gli uni sono kurdi, gli altri siriani o iracheni. Ali recita le parole di un vecchio poeta di Baghdad, Abd al-Wahhab al-Bayyati, è un epoca in cui nemmeno più le anime si prendono cura delle altre o osano ribellarsi. Si intenerisce anche lui ogni tanto, forse rapito da qualche ricordo della sua Mosul quando ci si poteva lavare via la polvere della strada con un bel tuffo nel Tigri o quando si poteva pisciare in santa pace sui ruderi di Ninive, tra sterpaglie e fiori di ortica. Mi dice che non devo rimproverare troppo la Turchia perché si sta prendendo più di un milione di persone mentre voi (europei) prima li bombardate e poi li lasciate morire come cani, in mezzo al mare. Gli dico che lo sta facendo per convenienza politica e strategica e anche perché in fondo non potrebbe fare altrimenti. E che la smettesse di darmi dell’europeo. Mi prende in giro e dice che sono solo un turista. Gli dico che fanno bene a rubargli l’acqua allora, e ci mettiamo a ridere.

Incontro una ragazza, amica di amici, mi dice di essere siriana, le chiedo di dove, in arabo, mi chiede dove hai imparato l’arabo le dico in Palestina mi dice di essere palestinese le chiedo di dove mi dice di Haifa. Dopo una breve pausa aggiunge: mia nonna ha le chiavi di casa. Poi: ci sei stato? è bella Haifa? Mi torna alla mente un lungo poema di Mahmoud Darwish che parla di quest’uomo di Haifa rifugiato nel sud del Libano, che un giorno parte con la sua barchetta e si dirige verso sud e vuole tornare in Palestina, nella sua cittrà, Haifa. Rema finché non lo fermano i soldati israeliani. Le dico che Haifa è bella, anche se in realtà non mi è piaciuta molto, le preferisco Acca. Mi dice che suo nonno invece era un posto vicino a Tiberiade e che ogni tanto ritira fuori la storia del cane che aveva da bambino e che aveva abbandonato a casa nella fuga. Poi mi dice che è nata a Yarmouk ma cresciuta ad Aleppo. Le dico: non finite mai di muovervi voi palestinesi, eh? Sorride e mi dice si però sono stanca! Dopo l’inizio della guerra è andata a Beirut dove ha vissuto dal 2012 fino a qualche mese fa e poi è venuta in Turchia; quest’estate ha provato di arrivare in Grecia ma non ci è riuscita, mi fa capire che si è trovata in una situazione poco piacevole e non indago oltre. Si è messa a lavorare con un organizzazione umanitaria qui. Parla un ottimo inglese, e arabo madre lingua. Un po’ di curdo. Il turco non le piace anzi non le piacciono i turchi, non si sa mica quello che stanno combinando e chi pagano. Le dico di non dirlo troppo forte, sorride. La sera fumiamo un narghilè e mi racconta la storia di sua zia, la moglie del fratello del padre. È scappata da un Aleppo in fiamme un paio di settimane fa. Doveva passare i check-point governativi per andare nella zona controllata dai gruppi ribelli e poi arrivare qui in Turchia. Era con il figlio, ricercato perché doveva fare il servizio militare. Al check-point ha dato al soldato (del governo) la carta d’identità dell’altro figlio che si chiama Ibrahim ed è in Germania. Il soldato l’ha consegnata a un ufficiale e questi le ha detto: signora ci dica la verità ed io la aiuto. Come si chiama suo figlio? Ibrahim. Allora sono andati dal figlio e gli hanno detto: come ti chiami? Ibrahim. Li hanno tenuti un’ora. Dopo di che l’ufficiale è tornato dalla donna con la carta d’identità in mano e le ha detto signora, ora è disposta a dirci la verità? Come si chiama suo figlio? Ibrahim. Hanno preso il ragazzo e gli hanno detto: come ti chiami ragazzo? Ibrahim. Li hanno trattenuti per un’altra ora. Poi l’ufficiale si è avvicinato alla donna di nuovo e lei lo ha guardato negli occhi e gli ha detto: è Mohammad, ha un cancro e dobbiamo andare di là. Dopo un cenno i soldati hanno portato via il ragazzo che è riapparso poco dopo zoppicante e col viso tumefatto. Dopo essere stati respinti la donna ha fatto il giro di mezza Siria passando per altri check-point da sud verso ovest e poi risalire. Stringendo tra i pugni quelle prescrizioni mediche che erano la sua unica risorsa e salvezza. Il suo lasciapassare e quello del figlio malato. E’ riuscita ad arrivare nella zona dei ribelli, e infine in Turchia. Ieri, mi ha detto Yasmin guardandomi negli occhi, si è presentata a casa mia ed era stravolta, coi vestiti logori. Le ho offerto di fare una doccia, le ho passato dei soldi, ha rifiutato. Mi ha detto che suo figlio era già arrivato a Izmir e lei doveva raggiungerlo perché non aveva con sé i documenti medici e dovevano andare in Grecia e poi in Germania al più presto. I medici ad Aleppo le hanno detto che non potevano farci niente. Ma in questo caso, aggiunge Yasmin, anche se non ci fosse stata la guerra non sarebbe stato diverso.

Guardo Yasmin che soffia fumo dal becco legnoso del narghilè e sorseggiando la sua birra dice – come si trattasse di un romanzo – che storia, eh? Io fuori dalla portata della parola, la osservo, annuisco a tutto quello che dice, provo grande imbarazzo. Le chiedo se riproverà a imbarcarsi, mi dice distrattamente: sì, forse. È stato come chiederle se domani viene a piovere.

La separazione è sempre dolorosa!” ripete la voce meccanica di google translator mentre due visini mi sorridono di là dello schermo. Rania e Lana giocano divertite, sono venuto a trovarle perché stasera è la vigilia della loro partenza per la Germania. Sono eccitatissime, non saprei dire se tristi o felici, forse entrambe le cose. Hanno finalmente ottenuto il visto tramite il ricongiungimento familiare, perché la loro mamma, un anno esatto fa, ha traversato in qualche stiva. Dopodiché si è regolarizzata, ha pazientato dodici mesi senza marito e figli, con l’ausilio dei servizi sociali tedeschi ha studiato la lingua, trovato casa, lavoro e ora ha potuto finalmente chiamare tutti a sé. Ahmad, il marito, ha un bel sorriso da adolescente nonostante gli ultimi due anni gli abbiano scolpito rughe che la sua discreta posizione sociale ad Aleppo non aveva previsto punto. È un padre premuroso e ha fatto di tutto perché Rania e Lana continuassero a suonare (hanno deciso di non mandarle a scuola e aspettare la Germania), e Khafif (mentre scrivo è fresco fresco di diciott’anni) invece finisse la scuola in Turchia. Non dev’essere stato facile per nessuno, né per la mamma sola, lontana ed estirpata dei figli, né per lui a far collare la famiglia e tutti gli attriti adolescenziali pervertiti dall’orrore cui sono stati sottoposti. Ha responsabilizzato Khafif il più grande, e tentato di imbrigliare quel diavoletto che è Lana. Ma forse, la cosa più difficile è stata di rassicurare Rania, la più piccola, timida e introversa, ma ricca di un’intelligenza profondissima.
Ed eccoci qui alla vigilia della partenza: Khafif ha appena finito la scuola e Rania e Lana mi fanno l’ultimo concertino personale. Sono molto felice, queste due piccolette mi sembrano in grado di levare ogni pietra dal cuore del padre che le guarda sottecchi col sorriso di soddisfazione tipico del genitore. Sono mesi che mi hanno portato Fairuz con la loro voce e i loro strumenti: Lana suona il violino, Rania la chitarra. Guardo Salime mi viene da ridere pensando al momento in cui la prematura vivace bellezza delle figlie sboccerà come un melograno folgorando la povera razza germanica: quanti grattacapi che avrà il mio amico! Suonano, ma Rania è costretta a fermarsi di tanto in tanto perché le si congelano le dita e non può continuare a pizzicare le corde: perde sensibilità. Salimmi ha già spiegato in un’altra occasione che da quando la madre è partita, Rania ha cominciato ad avere questi disturbi agli arti. Rania guarda imbarazzata il padre, come a dire, eccoci di nuovo, e si strofina con violenza le mani tra loro. Le dita sono violacee.
La separazione è sempre dolorosa. Penso a Rania cosi timida e silenziosa, quanta guerra c’è in lei e quanto dev’essere stato difficile dire addio alla madre che partiva in nave. Chissà se ne conosceva i rischi. Credo di sì, possiede quell’arguzia dei timidi cui non sfugge nessun dettaglio. Lo vedo da come si muove, dalle domande che mi pone (la timidezza ora che mi conosce meglio si è fatta furba discrezione) in cui echeggiano sempre pezzi di conversazione che ho avuto col padre (seppur queste avvengano in un inglese che lei capisce pochissimo) o dalle parole in italiano che ripete alla perfezione a settimane di distanza, e mi sussurra come un segreto tra me e lei.
Lana invece è una bottiglietta d’aranciata frizzante, non si ferma un attimo, trova sempre un pretesto per dire la sua. Gioca, ride, prende e si fa prendere in giro. Un giorno, mentre mi spiegava quanto fosse brava a suonare il violino l’ho interrotta e facendo finta di sgridarla le ho detto in inglese: ah! come siamo modesti! Ha guardato il padre con quel naso da scoiattolo curioso e gli ha chiesto in arabo: cosa significa
humble? Da quel giorno è peggio di prima e non fa altro che lodarsi e compiacersi e concludere con un: ai eem veery veeery humble!! E giù a ridere… Lana e Rania hanno due piccoli nei sulla parte destra del mento, seminati nella stessa posizione obliqua, come una costellazione che finisce sull’arco delle labbra. Penso che se riuscirò a conoscere la loro mamma, per prima cosa andrò a cercarle l’orsa maggiore sul volto. Le rivedrò in Germania probabilmente.

È la vigilia della partenza e Salim si affaccia più del solito sulla memoria: mi parla della loro fuga da Aleppo. La peculiare intimità che comportano gli addii lo spinge a dire più cose, a indugiare sui particolari, a metterci anche l’emozione. Non tutti quelli che hanno fuggito le porte dell’inferno sono disposti a parlarne, al contrario. La memoria è “legittima difesa” e poi ci si snerva nel rispondere sempre alle stesse domande. C’è un doppio binario. Il primo è la consapevolezza più o meno intimamente dichiarata che la memoria è fallace. Prendo in prestito il termine che ha usato Primo Levi con raffinata lucidità per arrivare al secondo, analizzato anch’esso dal grande chimico-scrittore italiano: la vergogna. Quella sorta di vergogna che si prova nel raccontare, superstiti del vuoto, davanti agli occhi vergini di chi non sa cos’è l’orrore.
Salim mi racconta di come l’appartamento in cui vivevano si sia trovato, a un certo punto, sulla linea di divisione tra ribelli e forze governative. Il palazzo, appena fuori della città vecchia di Aleppo, sorge esattamente in un incrocio che era divenuto di cruciale importanza militare. Accende il portatile, mette google map e zoomma fino a mostrarmi il palazzo. Mi spiega le forze in campo, le vie, i punti strategici. Il posizionamento dei cecchini. Era così due anni fa, ora è tutto cambiato. Mi mostra come i governativi avevano occupato l’ultimo piano del palazzo dove viveva mentre i ribelli tenevano sotto controllo il territorio che comincia dall’altro lato della strada. Si erano ritrovato in mezzo a due fuochi. I governativi sparavano dal tetto e i ribelli rispondevano sull’intero palazzo, probabilmente credendo che lì vi fossero soltanto soldati e cecchini fedeli al presidente. E invece gli altri piani erano ancora abitati da famiglie.
Poi mi mostra il terrazzo del salotto, comincia a spiegarmi qualcosa ma siamo interrotti da Khafif che entra all’improvviso nella conversazione. Indica il terrazzo della sua camera, più esposto ai colpi dei ribelli, e corregge il padre su alcuni dettagli. Salim lo guarda stupito e pensieroso. Poi il figlio aggiunge: ti ricordi papà quando siamo andati a prendere i vestiti in camera mia? Abbiamo strisciato fino all’armadio per evitare le pallottole e poi, usando il vecchio bastone, abbiamo agganciato la mia roba? Salim sorride imbarazzato, come se non ricordasse. Mi dice che durante quel mese in cui erano rimasti in trappola non sapeva come comportarsi, era stordito. Aveva passato notti insonni, non solo a causa degli spari, ma perché attanagliato dalla responsabilità. Sapeva che doveva prendere una decisione, prima o poi. Aggiunge: l’unica cosa che mi rendeva “relativamente” tranquillo era che i ribelli non avevano armi che potevano colpire in modo grave, o distruggere il palazzo. All’epoca avevano solo piccoli calibri e miravano ai corpi. Bastava stare fuori dal loro tiro. Mi ricordo che al tramonto il sole creava una traiettoria di luce che entrava in salotto illuminandolo perfettamente: in quei momenti dovevamo stare particolarmente al riparo. Io dormivo in quella stanza perché c’era la televisione e cercavo di capire cosa cavolo stava succedendo nel paese: la guerra era scoppiata cosi, da un giorno all’altro. Ricordo che una volta una pallottola mi ha sfiorato la nuca e si è infilata sul muro a un palmo sopra la mia testa.
Il palazzo era costantemente sotto tiro e la cosa incredibile è che due vie più in là la vita scorreva tranquillamente, negozi aperti, gente in giro, il solito traffico aleppino. Quella era la parte governativa. L’altra era l’inferno delle bombe sganciate dai jet governativi e tutto il resto. Io oltretutto ero stato rilasciato da poco, dopo aver passato tre mesi in cella (qui non si dilunga ma avverto una lieve esitazione) perché i governativi mi avevano arrestato: avevo preso parte alle manifestazioni all’inizio della rivoluzione, dimostrazioni pacifiche e piene di speranza. Ma poi avevo lasciato perdere, quando le cose avevano cominciato a cambiare piega.
Quando mi hanno rilasciato sono corso a casa ma qualche giorno dopo i militari del governo hanno occupato il tetto del palazzo. Ora, coi soldati al piano di sopra ero sicuro che mi avrebbero riconosciuto e ammazzato. Ero considerato uno dei ribelli! Ma dopo qualche scambio di battute con gli ufficiali che perlustravano le case avevo capito che la comunicazione tra i soldati e i servizi segreti non era poi così lineare (spesso gli uni disprezzano gli altri), quindi non si sono troppo curati di me.
Mi dice come la guerra sia arrivata in città, da un giorno all’altro, senza preavviso, come la pioggia… ma a questo punto Khafif rientra violento nella conversazione (è la prima volta da quando lo conosco che lo vedo sgusciar fuori dalla sua giovane età e cambiare voce e atteggiamento) e dice ti ricordi papà quella macchina schiacciata dai carri armati? Era una giornata come le altre e dal terrazzo avevano visto un’automobile che a un certo punto si era trovata davanti un carro armato, sbucato dall’angolo. Il guidatore è uscito dalla macchina e gli hanno sparato, dice Salim ma Khafif aggiunge: sì ma non lo hanno preso, è scappato in mezzo ai cespugli di quel palazzo, aggiunge indicando lo schermo. Salim lo guarda di nuovo con stupore. Ma hanno schiacciato la macchina coi cingoli! esclama il figlio ancora incredulo.
Allora Khafif entra al centro della discussione e si mette a raccontare una storia pure lui ma questa volta si rivolge al pavimento, non a me. Sono sceso giù per comprare qualcosa da mangiare al negozio all’angolo. Eravamo affamati, stipati dentro casa coi soldati sul tetto. Quando sono uscito dal portone del palazzo c’erano tutti soldati intorno. Uno di loro, giovanissimo, mi ha chiesto se potevo comprargli un panino. Ho risposto che certamente lo avrei fatto. Il tempo di correre al negozio, prendere qualcosa al volo… dopo due minuti l’ho trovato in una pozza di sangue. Ero immobilizzato dal panico. Sono rimasto come uno scemo davanti a quel corpo col panino in mano finché non ho realizzato che tutti mi stavano gridando di scappare. Ero terrorizzato dal rumore dei colpi che venivano dall’altra parte ma anche dai soldati stessi. Non sapevo cosa fare col panino, dice sorridendo imbarazzato. Ricordo solo che poi sono tornato in me, mi sono allontanato. Un altro soldato mi ha preso il panino dalle mani, mentre a un altro fu ordinato di andare a rimpiazzare il morto. Khafif stacca gli occhi dal pavimento e torna al presente come dopo una lunga trance: mi guarda con occhi acquosi come a sincerarsi che abbia anche io partecipato al suo monologo interiore.
All’epoca Khafif aveva quindici anni, mentre lo vedo con quel panino in mano penso all’accelerazione esistenziale narrata da Paolo Dall’Oglio, prima che lo rapissero.

Infine Salim mi racconta il giorno in cui ha deciso che era ora di andarsene dal palazzo. Una mattina lui e sua moglie avevano notato due fori perfetti nelle colonne di cemento armato della casa. Ho capito che erano armi nuove. Non c’era da fare altro che radunare in fretta le cose e andare via. Quello era il segnale: la guerra stava evolvendo. Torna a mostrarmi il palazzo su google map, e indica, vedi? Siamo passati di qui e poi abbiamo preso la macchina che era parcheggiata proprio vicino a quel palo e infine siamo scappati. No, papà, dice Rafif. Siamo scappati tutti a piedi verso la parte sicura della città e tu sei tornato da solo a recuperare la macchina. Me lo ricordo, benissimo.
Vedo Salim che guarda Khafif e li lascio al loro stupore di padre e figlio, alle loro memorie complementari e sovrapposte che fondono l’insonnia, gli incubi, le opzioni, le strategie e i ripensamenti per sfuggire alla morte. Ora stanno parlando di quando scapparono da casa, ma parlano tra di loro, non più a me; io osservo lo schermo del computer e penso che se il portone del palazzo avesse dato sulla strada principale invece che sul retro un cecchino li avrebbe sterminati uno ad uno, quando scapparono. Penso a Sarajevo, che è stata la mia prima guerra e il mio primo assedio. Penso che nella guerra conta tutto, ci vuole abilità, arguzia e tanta fortuna. Ci vuole coraggio. Ma nessuno di questi ingredienti è in grado di garantirti la vita.
Rania e Lana si annoiano, scalpitano come si scalpita prima di una partenza come questa: è giunto il momento dei regali. Le porgo i braccialetti che ho portato mentre con la coda dell’occhio vedo Salim che dice a Khafif di portarmi qualcosa. Arriva con un backgammon di legno e mi dice, ci tengo a questo, portatelo in Italia. Le separazioni sono sempre dolorose, dico a Rania e Lana prima di abbracciarle. Poi dico loro che quando ci vedremo le porterò a Venezia, sono tutte contente.

La mia amica mi ha mandato un messaggio, la Grecia è bella, le piace un sacco, quando sarà finita tutta questa storia ci ritornerà in vacanza. I greci mi piacciono scrive. Sono come noi: strillano per ogni cosa. Il mare è bello anche se non so nuotare, lo guardo. Non l’avevo mai guardato così, in Siria. Ora è un valore. Le faccio un’infinità di domande, sono curiosissimo. Ma non risponde più. Riappare dopo qualche giorno, mi racconta parte del viaggio, ancora via sms: è arrivata a Bodrum e da lì si è imbarcata per Kalimnos. L’hanno portata al campo ma era pieno, ora sta in un hotel. È contenta. Poi scompare di nuovo. Ancora qualche giorno e un numero olandese mi dice che è arrivata dal fratello. Sono felicissimo. Mi dice ti posso chiamare, le dico certo. Ha la voce che brilla. Adesso si riposerà per qualche giorno e poi andrà dalle autorità. La metteranno in un campo, mi dice. Mi ci terranno spero non più di una quindicina di giorni e poi mi sposteranno in un altro. È un passaggio obbligato, se voglio la residenza. Fanno tutti cosi. Dovranno intervistarmi per l’asilo. Dopo qualche giorno mi scrive dal campo: è affollato di gente che viene da ogni dove, si sente fuori posto, è molto sola, ma si è fatta un amico. Mi invia una foto di lei che sorride con un bimbo nigeriano. Gli occhi tristi, ma hanno la bellezza di chi sta vivendo la propria storia.

Siedo in un piccolo caffè in Libano, in Turchia, in Giordania, non ne sono più cosi sicuro.
Il giardino interno è in stile aleppino, pavimentato di pietre fresche, alberi di agrumi, un pozzo, tavolini bassi dove non so mai come infilarmi. Fumo profumato di narghilè e il rumore delle pedine del backgammon. Il caffè è frequentato da molti ragazzi siriani. Discutono vivaci e aspettano. Scrivono e aspettano. Si guardano, sorridono e aspettano. Molti di loro hanno partecipato ai primi fermenti della rivoluzione, quando si andava per le strade e la polizia cominciava a torturare e a sparare. Hanno visto il sangue dei primi caduti e hanno strillato in faccia agli aguzzini in divisa. Sono tornati in strada più arrabbiati e più numerosi. Finché la rivoluzione è cambiata. Finché abbiamo cominciato a odiare la parola “rivoluzione”, mi ha detto una giovane archeologa siriana, un giorno, come a marcare “il punto di non ritorno”.
Kapuściński mi ricorda che quel momento è uno dei massimi enigmi della storia. E dell’
umanità mi verrebbe da aggiungere. Questi ragazzi sono “quell’uomo della folla che ha smesso di avere paura” di cui narra il reporter polacco. Il poliziotto incontra il dimostrante in mezzo alla strada, lo minaccia, ma lui rimane impassibile. Non c’è più quella terza persona tra poliziotto e ribelle: la paura. L’uomo rimane, la folla rimane. Il poliziotto torna indietro e dà ordine di sparare. Il potere, tronfio e pieno di sé esagera in arroganza e perisce. Il despota è convinto che l’uomo sia una creatura vile perché è circondato da persone vili. Ma morire per un dittatore o morire per la libertà non è la stessa cosa.
Forse è dentro questa frase che cerco di districare quei fili che prima mi strangolavano. Si dice spesso (in Europa) che la rivoluzione siriana – e quelle arabe in generale – siano primavere tradite, fallite, trasformatesi in qualcos’altro. La violenza, la brutalità, le bombe barile, l’estremismo islamico e via dicendo. E lo si dice con quel fatalismo che non si cura nemmeno di nascondere la spocchia (tutta occidentale) da cui è generato.
Quello di cui non si parla mai invece è il tradimento della democrazia, di questa Europa tronfia e piena di sé, che ha dimenticato le sponde natie di Tiro, e che guarda il mediterraneo – non da nord verso sud – ma dall’alto verso il basso. Stati di emergenza che vengono prolungati da governi di transizione: è un Unione che si stringe intorno al proprio deficit di libertà e di identità, che non sa più a quale paese vicino riempire le tasche, a chi fare capacity building sulla sicurezza. E di nuovo quella
sinistra tolleranza verso i fascismi che aumentano le proprie leve, masturbandosi nella paura sociale..

Forse per alcuni moralisti delicati, cinici dell’intelletto, anche questo è fisiologico. Ché in fondo la Storia umana non è che guerra, interrotta da brevi periodi di pace. Ma io dico, con Primo Levi, che nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana sia un processo deterministico. Se ne discuterà tra pochi anni, quando i giovani rifugiati parleranno la nostra lingua. Sarà una bella prova, allora, trovare l’ordine del discorso. E non sarebbe male cominciare adesso.

  • l’autore scrive sotto pseudonimo

Tutto il nostro sangue

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di Licia Ambu

Tutto il nostro sangue è un atlante della sopravvivenza.
Narra il punto più profondo della gestazione.
Ti spoglia.
E alla fine ti abita.

Spiegare potrebbe non rendere l’idea, mi rendo conto. Si dovrebbero dare le coordinate complesse per orientarsi: dire che è un noir, un po’ fiaba, ma anche gotico, però fantastico, un romanzo pieno, con punte di mistero e colpi di scena, esoterismo anche. Per poi aggiungere che i piani temporali sono diversi e si alternano lungo tutto l’arco del libro: parliamo di una narrazione che mette radici nell’ottocento e produce rami fino ai quaranta passati del duemila. Si potrebbe uscirne confusi, sulla carta. Gli alberi genealogici, poi, sono una scommessa pericolosissima, per il fatto che coinvolgono epoche diverse, intrecci, sono stipati di nomi e date che sono molte cose tutte insieme a cui stare dietro. Apocalittico e distopico, dal canto loro, sono il genere di parola che fa un certo effetto, descrivibile lungo una scala che va da acquisto immediato a diniego assoluto. Tutto questo è qui e rende il libro fuori categoria.

Protagonisti indiscussi sono l’albero genealogico e la macchia geografica a largo delle coste della Virginia nota come isole Shore. Abitanti e abitate. Le abitate sono fisse in spazio e tempo e devono sopperire e reagire, al modo in cui la specie di turno decide di occuparle; gli abitanti hanno un rapporto di amore e odio con la “loro” terra e tutto ciò che ospita, loro compresi. Luoghi e persone convivono, luoghi e persone cercano di sopravviversi. La sopravvivenza è un fatto. Si può sopravvivere vivendo una vita tranquilla, con un nonno che ti insegna il giro del vento, oppure ci si può trovare in situazioni al limite, ad esempio se tuo padre è un uomo pericoloso, se la pistola è l’unica cosa che hai per difenderti nell’ora in cui sarebbe tuo diritto pieno invece giocare alle principesse, o se lo sballato di turno decide che sei l’oggetto sessuale di una serata tra amici. In casi del genere si cerca di salvarsi la pelle.

C’è sempre qualcuno di cui preoccuparsi. Qualcuno che sa che siamo qui da sole, tanto per cominciare.

A pagina sei è disegnato l’albero genealogico (scommessa vinta). Una sorta di mappa della narrazione dove i racconti sono le singole tappe, i luoghi temporali della storia. Narrazioni naturalmente dislocate nel tempo, riconducibili una all’altra per il tramite di dettagli, particolari, una specie di mi ricordo quella casa, siamo già passati di qua. Ma anche racconti come singoli sintagmi basati su un efficacissimo “qui ed ora” che se ne fregano delle coordinate spazio temporali, risultando molto evocativi e perfettamente connotati. Ad esempio, scrivere che di notte le facevano male le braccia tanto aveva voglia di stringere i suoi bambini, rende più di un’idea. Un’altra cosa degli alberi genealogici è che si leggono per ruoli, o parentele. Se non sai già cose di tuo sono praticamente muti, parlano solo di connessioni inizialmente insignificanti. Poi leggi, e più leggi più cerchi i legami come indirizzi sulla mappa. Si incontra gente ammaliante, sottolineo. Personaggi che compiono azioni, con o senza motivi, fanno cose (sì, vedono gente, è il caso di dirlo) e al tempo stesso sono isole. Esattamente come le Shore, isole che con richiamo potente trattengono tutti gli abitanti, creando con loro un legame anche contro la loro volontà. La gestazione estrema. Quella che non taglia il cordone e si appiccica addosso i figli. Così l’isola possiede tutte le creature che ha generato, così gli uni gli altri si possiedono attraverso parentele, magie, colpe, segreti anche quando non si vogliono. La terra e i suoi abitanti sono speculari e il fatto che si tratti di un’isola rende tutto ancora più viscerale perché l’isola ha quel potere di attrazione magico e fatale. Se sei figlio di un’isola non sarai mai orfano. L’isola qui è madre: genera, ospita, trattiene miserie e miracoli. Una maternità infettiva che si tramanda dal sangue delle sue donne in termini di protezione, generazione, desiderio o colpa. Il sangue scorre nelle vene e rimane lì. È un patrimonio condiviso che può essere una possibilità o una condanna, ma in ogni caso è innegabile: timbro indelebile, marchio della discendenza.

Non sono poi così sorpresa che tu sia tornata, ormai tutti sono fissati con gli alberi genealogici. Per quanto mi riguarda, è solo un’inutile perdita di tempo. Scoprire di discendere da un principe serve solo a darsi delle arie. Ti va un caffè?

Sara Taylor poi elimina tutte le cose che non sono importanti o degne di considerazione, e sposta la luce sui dettagli di senso. I dettagli sono un’essenza, indispensabili per un comportamento o una connessione. I suoi personaggi sono vuoti di stereotipi, nessun manichino da vetrina ma più chiaroscuri da retrobottega, facce nascoste dalle tende del soggiorno, e un soggiorno può essere un antro oscuro molto capace. Vengono scovati nei loro istinti più primordiali, nella loro aggressività, nelle loro paure; e nessuna spiegazione, solo collane di fatti. Sono nudi. In questo libro c’è quella parte umana che è feroce o trema quando ha paura, che scappa da un prima o un dove (o entrambe le cose); un richiamo all’atavico, qualcosa che parla al profondo del nostro sistema e ci spoglia. Ci becca il legame anche a noi, e ci spoglia.

Infine, si vede. Così bene che prima o poi chiederò all’esponente del mio albero genealogico, sul divano accanto a me: ti ricordi quella scena pazzesca con le due ragazzine, nel momento in cui la grande dice quella frase? Dai, quel film col sentiero stipato di gusci d’ostrica che fa sobbalzare la bicicletta e alzare la polvere da terra.

Sara Taylor, Tutto il nostro sangue (Minimum fax, 2016)

Le lettere e il volgare

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di Giorgio Mascitelli

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La lettera dei 600 docenti universitari al governo sulla crisi della conoscenza dell’italiano nelle giovani generazioni apparsa nelle scorse settimane ha avuto il merito indubbio di porre l’attenzione generale sul problema delle competenze linguistiche nazionali, argomento che di solito non occupa esattamente la prima pagina dei giornali; anzi tradizionalmente questioni del genere sulla stampa vengono affrontate a ridosso di ferragosto quando tutti sono in vacanza e le redazioni sono più libere nella scelta dei temi. Fatto il doveroso tributo al merito di aver debalnearizzato una questione cruciale, penso che proprio per la sua rilevanza il dibattito vada liberato da tutta un’aura moralisticheggiante.

Con questo non alludo soltanto alla lettera dei professori che quanto meno fanno proposte operative, ma a una certa ricezione dell’opinione pubblica. Per dirla tutta, se si vuole una scolarità di massa anche a livelli superiori, cosa a mio avviso auspicabile se non altro perché l’alternativa sarebbe allontanare precocemente dalla scuola chi ne ha più necessità, bisogna anche sapere accettare che alcune competenze siano più precarie: quando all’università tutti scrivevano senza errori, la frequenza a quella venerabile istituzione non era esattamente un fenomeno di massa. Ciò non significa che non si possa far nulla, ma che le proposte debbano tenere conto del contesto storico  in cui viviamo.

Per restare alla lettera dei 600, può essere utile ridare alle elementari qualche spazio in più all’educazione linguistica rispetto a quello previsto dai nuovi programmi, mentre l’idea di spedire come presidente di commissione per gli esami conclusivi dei vari ordini di scuola un docente dell’ordine superiore mi sembra più essere l’espressione di una  fiducia metafisica nella gerarchia che avere un’effettiva funzione nella risoluzione dei problemi sollevati.

In generale, tuttavia, gli errori più spettacolari nell’uso della lingua, quelli ortografici o certi sintattici come per esempio l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo, quelli che in qualche modo tutti riconoscono, salvo i diretti interessati, e hanno un’eco giornalistica e social, non sono necessariamente i più pericolosi per una fruizione piena e autonoma dell’italiano. La povertà lessicale, l’incertezza sulle varie sfumature semantiche della parola e, a livello più alto, l’incomprensione di certi meccanismi retorici del linguaggio quotidiano e l’inconsapevolezza degli aspetti connotativi ed emotivi della comunicazione costituiscono il più serio pericolo in questo senso. Ora per acquisire e sviluppare  questo tipo di conoscenze e competenze a scuola, non è importante solo  un’attività didattica  specifica, ma  offrire una serie di stimoli culturali che ne consentano l’apprendimento e l’applicazione  spontaneamente. In questo senso la tendenza dominante negli ultimi anni, di cui le prove INVALSI e PISA  sono le punte di diamante, a considerare la capacità e la preparazione linguistica una facoltà in sé completamente scissa da un processo di acquisizione culturale pare assolutamente inadeguata a prevenire queste forme di insufficiente capacità linguistica. Un esempio dei rischi di questa impostazione ce l’ha offerto Girolamo De Michele (http://www.carmillaonline.com/2012/05/08/salvate-il-soldato-rigoni-stern/) analizzando un brano tratto da un racconto di Rigoni Stern e impiegato per le prove INVALSI alle superiori,  in cui il tentativo di valutare  il testo avulso dal suo contesto storicoculturale specifico come strumento di riconoscimento di una pura competenza linguistica conduceva gli autori della prova stessa, nel formulare le domande, a commettere errori anche marchiani.

L’educazione linguistica, specie nel ciclo delle scuole medie inferiori e superiori, è in qualche misura in mano non solo ai docenti di italiano, ma anche agli altri; penso per esempio al ruolo degli insegnanti di materie scientifiche nella definizione rigorosa dei concetti chiave delle loro discipline e, soprattutto, nell’evidenziare come termini d’uso nella lingua comune assumano significati particolari in determinati ambiti. Ovviamente il peso maggiore di questo lavoro spetta comunque a quelli di materie letterarie ed è allora importante seguire il suggerimento di Rossi Doria, che propone di inserire nel curriculum universitario  per accedere all’insegnamento un esame di grammatica e uno di linguistica; inoltre la conoscenza basilare della lingua latina ( essere in grado di fare traduzioni di media difficoltà) e di almeno una lingua straniera è un elemento imprescindibile nella formazione di un docente di italiano di tutto il ciclo medio; bisognerebbe anche favorire e valorizzare nel periodo universitario e in quello di apprendistato esperienze, anche brevi, di insegnamento dell’italiano a stranieri.

Nei dibattiti seguiti alla pubblicazione della lettera dei 600 molti hanno citato il fatto che in Italia il 70% della popolazione sarebbe costituita da analfabeti funzionali, un paio di volte qualcuno addirittura è arrivato a parlare di analfabeti tout court. Credo che l’origine di questi dati sia determinato dal rapporto PIAAC, un’indagine internazionale del 2013 sul livello di uso nella popolazione adulta dei paesi OCSE della lingua, delle competenze matematiche e di altre ancora, per accostarsi alle informazioni  e usarle efficacemente ‘al fine di partecipare in modo efficace nella società’. Caratteristica di questa indagine è di suddividere in sei fasce la popolazione cosicché ‘gli individui sono considerati abili, in maggiore o minor misura nella competenza in questione, invece di essere o solo “abili” o “solo non abili”. In altre parole, non esiste una soglia che separa coloro che hanno la competenza in questione da quelli che non l’hanno’ ( Rapporto Nazionale PIAAC 2014 p.23). La fascia inferiore al livello 1 è quella ai limiti dell’analfabetismo, la 4 e 5 rappresentano la piena padronanza, la fascia 3 è quella che indica il raggiungimento di competenze considerate  fondamentali per gli obiettivi sopra esposti.  Ora in Italia il 70% della popolazione raggiunge la fascia 2 o quelle inferiori, mentre in paesi come la Germania è il 52% e in Danimarca il 50% e la media OCSE è del 49%. Questo significa che il campione italiano, selezionato al 53% tra persone prive del diploma di scuola superiore, non ha problemi di analfabetismo, ma di insufficienti abilità complesse, che diventano nella società moderna fondamentali. Preciso questo fatto perché un certo gusto per il sensazionalismo pregiudica la comprensione del problema.

Questa ricerca offre anche un altro dato significativo e cioè che le prestazioni migliori sono quelle della fasce di età più giovani: sembra di capire, aldilà dei pur comprensibili fattori biologici e storici, che man mano che ci si allontana dal periodo scolastico queste abilità diminuiscono. E’ chiaro che il tipo di esperienza sociale, sia nel mondo lavorativo sia nei consumi culturali, di molti connazionali non favorisce il mantenimento e lo sviluppo delle abilità raggiunte nel periodo scolastico.  Tra le ragioni, verosimilmente,  una struttura produttiva e quindi occupazionale incentrata su attività poco qualificate o tradizionali che non abbisognano di particolari abilità complesse e dunque poco stimolanti su questo piano e  e un modello di consumi culturali in cui la televisione continua a fare la parte del leone, affiancata di recente dagli smartphone che rendono difficile la lettura in rete di testi minimamente complessi. In particolare l’avvento della televisione commerciale ha cancellato qualsiasi funzione educativa di questo medium, che in qualche misura aveva avuto  nella prima fase della sua esistenza ( si pensi a trasmissioni come Non è mai troppo tardi), e ha promosso un italiano sciatto e al tempo stesso stereotipato, privo cioè di quell’inventiva che la vecchia lingua popolare ancora intrisa di dialetto talvolta aveva.

In questo contesto è evidente che la scuola si trova a operare in condizioni di sostanziale assenza di altre agenzie formative che possano condividerne gli sforzi e anzi ha di fronte un assetto sociale che va in tutt’altra direzione.  Così la questione dell’italiano diventa la questione italiana ossia di un paese, che pur avendo potenzialità enormi, coltiva quasi programmaticamente un’obsolescenza e un arretramento delle proprie forme di vita, ivi comprese anche quelle del settore produttivo. In tutto ciò la saggezza di Bertoldo dei nostri ceti dirigenti, intesi non solo come politici ma anche come imprenditori, banchieri e tecnici,  secondo la quale con la cultura non si mangia,  gioca un ruolo non secondario.

 

 

Biagio Cepollaro, Al centro dell’inverno (prologo)

6

Biagio Cepollaro,Icona-49,2015.Coll. privata,Milano

di Biagio Cepollaro

Da Al centro dell’inverno, inedito.

Prologo

Dal collasso della storia

1.

il corpo ogni giorno si accende come si avvia un terminale

a lui fanno capo i messaggi in arrivo e ogni input che suona

è richiesta di attenzione e risposta. è pioggia che batte

sui vetri la chat che moltiplica i gruppi divisi per tema

 

2.

il corpo al centro dell’inverno può anche coprire con un respiro

lo spazio della stanza: desiderio e gioia ripetono la loro danza

ma è come stare su di una zattera o dentro un cerchio di luce

che scivola sulla terra. è tutto intorno che non si vede o peggio

è questo mondo prossimo che anche visto non si può toccare: sono

i corpi tutti nell’acquario che “postano” di cibi gatti e grandi imprese

 

3.

il corpo ogni giorno si connette attraverso un fascio di luce

ad altri corpi e le teste si annodano con onde invisibili

che muovono e smuovono anche di notte senza sudare

ciò che prima era solitaria fantasticheria ora è fantasma

di gruppo che si solleva dai cuscini e plana attraverso le porte

se il corpo tagliasse questo filo che lo lega agli altri

si sentirebbe immediatamente respirare ma l’incertezza

della strada sarebbe più grande e anche assordante

sarebbe l’immediato silenzio sceso nella stanza

 

4.

il corpo si tuffa nella piscina riempita da parole

che scorrono incessanti attraverso tubi invisibili

e lo connettono al mondo da ogni lato. sono continue

trasfusioni di senso che nella quotidiana insensatezza

affollano psiche fino a farla sola e febbricitante

 

5.

il corpo anche nel sonno avverte il sussulto del terminale

che dice il messaggio in arrivo o la battuta di qualcuno

a proposito di qualcosa ad una certa ora della notte: il silenzio

non c’è. in suo luogo una modalità silenziosa che piano

sovverte la calma del corpo e la sua greve indifferenza

 

6.

il corpo al centro dell’inverno è un vuoto che non si risolve

è un punto interrogativo che attende il tempo che lo prende

e lo solleva come quando è dentro al suo dire e non c’è differenza

col suo fare. affacciato sull’istante luminoso che non viene si sporge

oltre la minaccia di morte e malattia: ripassa a memoria i volti

pochi dell’incanto che lo salvano forse dal collasso della storia

 

7.

il corpo che si disconnette sguscia via dall’involucro

d’onde che lo stringe. fuori torna ad essere assenza

di linguaggio: ora è soltanto pelle e patina tempo

e postura mentre l’aria della primavera profuma

 

8.

il corpo al centro dell’inverno vede ancora più buie

le strade che portano fuori dalla città verso un’ecologia

di confine tra periferie sfigurate e il grigio negli occhi

molte vite si sbranano qui senza neanche un racconto

basta la rabbia e la tristezza basta per ogni giorno

l’abitudine e per ognuno la morte è la fine del mondo

 

[ Al centro dell’inverno, attualmente in lavorazione, costituisce il terzo libro della trilogia Il poema delle qualità. Il primo libro, Le qualità, è uscito nel 2012 presso La camera verde di Roma; il secondo, La curva del giorno, è apparso per i tipi de L’arcolaio di Forlì nel 2014. Il pdf de Le qualità si può scaricare qui, e alcune conversazioni sul libro qui; la registrazione audio della lettura del prologo realizzata al festival di Bologna in lettere nel maggio del 2016 è ascoltabile qui. L’immagine si riferisce ad un mio quadro  del 2015, Icona-49.B.C.]

Jean Baudrillard e il delitto imperfetto

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di Davide Gatto 

CSA2

(seconda parte)

Il delitto non è mai perfetto, ovvero “l’illusione indistruttibile”[1]

Il processo è irreversibile? Abbiamo perduto per sempre il desiderio, la passione, la curiosità per l’Altro/altro, per il misterioso mondo reale delle apparenze? Tanto è lontano Baudrillard dal credere questo – coerentemente con quel nichilismo “creativo” cui si faceva cenno all’inizio – che arriva a considerare il trionfo attuale della scienza e della tecnologia una sorta di inspiegabile strategia del mondo e delle cose per tenere in vita l’illusione, per trattenere l’uomo sulla soglia della sua scomparsa (come sempre metaforica: di lui resterebbe l’immagine o, futuribilmente, l’ologramma).

L’argomentazione è come sempre ricca e complessa, ma muove essenzialmente dalla considerazione che le cose continuano a sfuggire davanti alla scienza che le bracca, come l’elettrone che talvolta interagisce con i rivelatori come corpuscolo, talaltra come onda, o di cui secondo il principio di indeterminazione formulato da Heisenberg non è possibile stabilire contemporaneamente, per esempio, la velocità e la posizione. Se il mondo e le cose sanno sempre svincolarsi dall’abbraccio mortale – per noi uomini mortale – del pensiero produttore di senso e di perfezione, allora l’illusione è salva e la realtà continua ad apparirci misteriosa ed attraente.

Il ragionamento più interessante però è quello per cui secondo Baudrillard l’impiego della nostra intelligenza per costruire un mondo virtuale e ipertecnologico in sé perfetto, dotato del senso che ab origine cerchiamo, deve essere interpretato come un “acting out”, locuzione con cui la psicanalisi indica la proiezione all’esterno in comportamenti e atteggiamenti del materiale inconscio responsabile della nevrosi, a scopo terapeutico.

Insomma la nostra realtà virtuale sarebbe il tentativo terapeutico definitivo per guarire dal disagio esistenziale che ci è connaturato: l’Altro che tanto ci angoscia con la sua indecifrabilità scomparirebbe, il mondo trasformato in un congegno compatto e automatico ci esimerebbe dal prendere decisioni e dall’assumerci responsabilità, la marginalità così ottenuta – la “scomparsa”, usando le parole di Baudrillard – risolverebbe anche le incertezze tutte novecentesche circa la nostra effettiva esistenza, dato che “in nessun luogo possiamo dar prova della nostra esistenza e della sua autenticità”[2] se non nel mondo virtuale che ha “ucciso” la nostra presenza, perché solo ciò che esiste può essere ucciso.[3]

Se questo però è il progetto inconscio di un uomo fiaccato dalla nevrosi, è certo che la sua realizzazione risulta ancora una volta fallimentare. Paradossalmente e misteriosamente, infatti, la tecnica riproporrebbe inalterato il mistero del mondo, nel contempo però affrancandosi completamente dal controllo dell’uomo e divenendo strumento delle cose che continuano a restare sfuggenti: “Attraverso le finissime procedure che dispieghiamo per captarlo (scil. “l’oggetto della scienza”), non è forse esso a prendersi gioco di noi e a ridersela della nostra pretesa oggettiva di analizzarlo? Gli stessi scienziati non sarebbero lungi dall’ammetterlo.”[4]

Abbiamo affidato alla tecnica il compito di rendere del tutto trasparente il mondo, di cancellare la sua ombra segreta, ma tutto quello che abbiamo ottenuto è la nostra marginalità, la nostra scomparsa (non alienazione, che ancora presupponeva una presa di posizione dialettica, critica rispetto al reale non ancora assoluto come il nostro virtuale), mentre le cose stesse, la tecnica stessa ci ripresentano intatto lo stesso mistero di sempre: “Alla funzione critica del soggetto è succeduta la funzione ironica dell’oggetto”[5], quasi come se l’oggetto stesso se la ridesse della nostra ingenua pretesa di cancellare “la parte maledetta”, l’imprevedibilità, il destino e con essi l’insopprimibile “gioco” dell’illusione.

 

Lo spazio residuo di intervento dell’uomo

L’avvento del Virtuale, la nuova realtà artificiale a cui la scienza e la tecnica lavorano indefessamente, ha segnato un vero spartiacque nella storia del pensiero: se prima le ipotesi di spiegazione del mondo ingaggiavano scontri quotidiani con il pensiero critico in un agone propriamente dialettico, oggi la realtà, compiuta e dispiegata, non ammette alcun pensiero critico semplicemente perché la certificazione tecnico-scientifica l’ha resa totale, indiscutibile, senza ombre.[6]

Sembrerebbe quindi raggiunto l’obiettivo a cui l’umanità ha mirato fin dalle sue origini, quello di un mondo trasparente, pienamente comprensibile e governabile; eppure – osserva Baudrillard – “siamo arrivati a un tale grado di realtà e di oggettività da poter addirittura parlare di un eccesso di realtà che ci lascia molto più ansiosi e sconcertati della mancanza di realtà, la quale poteva per lo meno essere compensata con l’utopia e con l’immaginario.”[7]

Venuto meno quindi il pensiero critico, e con esso la stessa esistenza del tipico procedimento con cui l’intelligenza si confrontava con il mistero del mondo, ovvero la dialettica, all’uomo secondo il filosofo francese non resta che portare all’eccesso con il pensiero questa presunta positività compiuta, “moltiplicare il positivo con il positivo”, perché “Niente ha lo stesso senso appena è confrontato non con la sua forma incompiuta, ma con la sua forma compiuta, o addirittura eccessiva.”[8]

Il ragionamento filosofico trova la sua chiara e piena esplicazione in un capitolo[9],dedicato all’arte e alla figura di Andy Warhol, che potrebbe essere a pieno titolo considerato un piccolo saggio storico-artistico nella più ampia cornice del saggio filosofico.

A differenza di “Duchamp, Dada, i surrealisti”, intenti a isolare e a destrutturare criticamente l’oggetto della loro rappresentazione “per esaltare la soggettività creatrice dell’artista”[10], il suo punto di vista altro rispetto al reale ritratto, Warhol sceglie di sopprimere la sua interpretazione e di riprodurre come una vera e propria macchina solo l’immagine di un oggetto, senza alcun collegamento con il suo referente naturale: l’immagine pura, tecnica ed eventualmente seriale.

Al di là delle polemiche e delle incomprensioni che alcune sue opere suscitarono per la loro apparente celebrazione di alcuni miti della società capitalista e consumista, basta guardare la serie dei barattoli della “Campbell’s tomato soup”, o la riproduzione del manifesto pubblicitario della Coca Cola, o ancora la moltiplicazione di volti e pose di Marilyn Monroe – modulate secondo variazioni cromatiche che fanno pensare più alle prove di un laboratorio di grafica che non alla raffigurazione realistica della persona – per comprendere che centro dell’opera di Warhol non sono le cose reali e sempre problematiche che ci circondano, ma i loro “simulacri” semplificati, artificiali, piatti e insignificanti che la tecnica ha reso possibili e che ha presto diffuso e globalizzato: il mondo vero ed enigmatico è scomparso, soppiantato da vuote immagini senza senso, riproducibili all’infinito.[11]

Ecco dunque che Warhol, in questo mondo totalmente “positivo” a cui non è più possibile opporre una critica, data la scomparsa di ogni polarità dialettica, non fa che potenziare “macchinalmente” questo nostro nuovo mondo virtuale, in cui persone e cose si moltiplicano senza anima nella forma dei cartelloni pubblicitari, delle icone alla moda o delle elaborazioni grafiche di foto di riconoscimento.

E se da una parte – e coerentemente – questa operazione ha comportato la scomparsa dell’artista come soggetto interpretante del mondo, e con esso dell’arte stessa come suo strumento privilegiato[12], dall’altra essa rivela con la massima intensità possibile il vuoto e l’assenza di significato della nostra realtà fatta di immagini e di rappresentazioni, non più di cose e di persone.

A ben vedere questo modo di combattere il positivo con il positivo, questo disvelamento del vuoto che traspare dietro il pieno delle immagini riaprirebbe lo spazio perduto dell’illusione, che anzi diverrebbe finalmente radicale, perché il simulacro del mondo (nichilisticamente il mondo non può che essere simulacro, dato che non esiste se non in quanto apparenza) sarebbe nuovamente “incondizionato” come ai tempi delle “fantasmagorie inumane di tutte le culture precedenti la nostra”[13]: ognuno può vedere nel vuoto delle cose ciò che vuole, anche oltre la dialettica condizionante della religione, della ideologia o della morale, può “prendere il mondo per il mondo, e non per il suo modello”[14].

Paradossalmente – e significativamente – questo straordinario risultato di “rendere il mondo ancora più illusorio di prima” sarebbe decretato proprio dal trionfo delle tecniche, come Baudrillard afferma esplicitamente: “È proprio questo (…) il destino di tutte le nostre tecniche: rendere il mondo ancora più illusorio”.[15]

 

“L’altro versante”, ovvero gli effetti della scomparsa dell’Altro nel nostro quotidiano

L’affermazione di questo nostro mondo totale e indiscutibile costruito a tavolino dalla scienza e dalla tecnica ha determinato – come Baudrillard si è speso a spiegare nella prima parte del libro – l’annullamento degli spazi vuoti della distanza, e quindi della pre-condizione necessaria per l’esercizio dell’intelligenza speculativa, della critica, da ultimo dell’arte intesa come estetica dell’interpretazione: in una parola è scomparso l’Altro/altro, in tutte le sue forme.[16]

La prima forma fattuale di alterità annullata su cui il filosofo francese si sofferma è quella a suo giudizio incomparabile tra il maschile e il femminile.[17] Se caratteristica fondamentale del Virtuale è la costruzione razionale, misurabile, totale di un mondo senza mistero e senza imprevisti (senza destino), è inevitabile che tutte le cose – anche quelle che appartengono a categorie tra loro incomparabili come, appunto, il Femminile e il Maschile – debbano essere ricondotte ad un unico paradigma, a una matrice comune che permetta di metterle a confronto e di rivelarne semmai le differenze. Quale che sia la ragione dello sterminio dell’alterità – semplicemente la temiamo, o la nostra individualità è diventata così preponderante da pretendere di vedersi specchiata nelle cose? -, “Fatto sta che l’alterità viene a mancare, e che bisogna assolutamente produrre l’Altro come differenza, al posto di vivere l’alterità come destino.”[18]

Mentre però la percezione del sesso opposto come incomparabilmente Altro suscita il desiderio, la passione, l’ebbrezza vitale e un po’ spericolata della seduzione, la riduzione di uomo e donna a un catalogo di differenze anatomiche, biologiche, psicologiche etc. finisce per rendere i due sessi sostanzialmente uguali e quindi indifferenti l’uno all’altro. Anzi, spiega Baudrillard, i connotati superficialmente distintivi di uomo e donna, una volta cancellato il fondo oscuro e inafferrabile dell’alterità, possono facilmente passare dall’uno all’altro, facendo dei giorni nostri “l’era del Transessuale”.[19]

“L’utopia della differenza sessuale” – ragiona ancora il filosofo francese –, subentrata allo sterminio dell’Altro, opera attraverso un meccanismo di proiezione, per cui l’uomo non desidera più la donna reale, ma quella ideale modellata a immagine e somiglianza della sua propria parte femminile, e così, viceversa, la donna: di fatto non si desidera più l’Altro, che al contrario si teme, ma in un certo senso il Medesimo, in un corto circuito che porta inesorabilmente ad una società asessuata.

Nel frattempo, però, questa sessualità proiettiva e ideale sarebbe la causa dei fenomeni attualmente sempre più diffusi della pornografia, approdo della sessualità maschile malata di differenza e di idealizzazione proiettiva, e della “molestia sessuale: caricatura fobica di ogni approccio sessuale, rifiuto incondizionato di sedurre e di essere sedotti.”[20]

Baudrillard non offre proposte concretamente operative per uscire da questa situazione. La soluzione, generale, è però un filo rosso che continuamente si immerge e riemerge tra le righe del libro: “Occorre tenere aperte l’alterità delle forme e la disparità dei termini, occorre tenere vive le forme dell’irriducibile.”[21]

La perlustrazione ragionata del nostro mondo attuale prosegue serrata nelle pagine successive. Se l’eliminazione dell’Altro come mistero e come destino si è compiuta negli ultimi decenni sotto i colpi della scienza e della tecnica e per l’avvento decisivo del Virtuale – di un reale cioè razionale e perfetto a coprire il Reale sempre sfuggente sottotraccia -, è un fatto però che noi senza l’Altro non sappiamo vivere. Ecco dunque che esso viene resuscitato nelle forme della differenza: la donna non è più altra, ma solo differente, lo straniero non è più altro, ma differente, in fondo anche l’individuo per me non è più altro, ma differente. Mentre però la dimensione dell’alterità, con la sua stranezza, genera passione e pienezza vitale[22], la differenziazione superficiale surrogata ci rende “indifferenti” “E segretamente disperati per questa indifferenza, e gelosi di ogni forma di passione, di originalità, di destino.”[23]

È a questo punto che il filosofo inserisce una sua riflessione – pertinente e assai convincente – sulla drammatica situazione balcanica di quegli anni (il 1994 è l’anno dell’assedio serbo di Sarajevo).[24]

L’annullamento dell’Altro e il conseguente paradigma assoluto della differenziazione sono forieri di “Tutte le forme di discriminazione maschilistica, razzistica, etnica o culturale”[25], così come di una fondamentale indifferenza. Questa indifferenza però può sfociare tanto nel razzismo (cerco l’Altro scomparso come diverso da odiare), quanto nella solidarietà umanitaria (cerco l’Altro scomparso come vittima di un destino che temo ma di cui ho una insopprimibile nostalgia).

Ribalta così Baudrillard la logica umanitaria che correva in quegli anni su tutti gli organi di informazione e in tutte le sedi della politica: non gli abitanti di Sarajevo, o i bosniaci in generale sarebbero state le vittime bisognose dell’intervento dell’Occidente, ma noi occidentali le vittime di un ordine ormai antropologico che avrebbe reso asettiche le nostre vite: sottratti all’imprevedibilità della “parte maledetta”, senza un destino, noi uomini della realtà patinata e assoluta del Virtuale avremmo la necessità assoluta di immergerci – davvero per interposta persona – nella realtà vera, drammatica, fatale di chi un destino ancora lo vive quotidianamente.[26]

Ma il passo dalla riflessione filosofica all’analisi storico-politica è breve. In fin dei conti se è logicamente fondato affermare che il nostro bisogno dell’Altro che abbiamo sterminato si traduce nello sforzo – conscio o inconscio – di determinare o cristallizzare situazioni in cui la parte maledetta imperversi senza che noi ne siamo direttamente toccati[27], è d’altra parte indubbio che chi è politicamente deputato a deliberare in conformità a questo assunto ne è anche pienamente responsabile: è “l’Europa reale, l’Europa bianca, imbiancata, integrata e pulita, moralmente come economicamente ed etnicamente.”[28]

Tirate le somme, la società del suo tempo (e profeticamente del nostro) che Baudrillard ritrae è caratterizzata da “passioni senza oggetto, passioni negative, nate tutte dall’indifferenza (…) e dunque destinate a cristallizzare preferibilmente su qualsiasi cosa.”[29]

Questa indifferenza, “che risponde all’indifferenza tecnica delle immagini” dell’informazione globale, d’altra parte, sfocia inevitabilmente nel “nervosismo”, che il filosofo francese definisce efficacemente come “una forma allergica senza un oggetto definito”, a sua volta destinato a trasformarsi in un odio senza oggetto definito, estremamente volubile: “All’odio nato dalla rivalità e dal conflitto si oppone quello nato dall’indifferenza accumulata, che può cristallizzare bruscamente, in un passaggio all’estremo.”[30]

Eppure – conclude Baudrillard – forse quest’odio è paradossalmente il segno auspicato di una reazione a un ordine (mentale, culturale, politico etc.) universale che pretende di “estirpare il male” – inteso al solito come la parte maledetta, misteriosa, irriducibile – dall’uomo “per farne un essere razionale”: “In questo senso l’odio, passione virale, è anche una passione vitale.”[31]

Sotto la patina di una realtà che ci sforziamo di costruire come un congegno integrale, razionale e interamente governabile, dunque, Qualcosa/qualcosa ancora si muove. Abbiamo fatto e facciamo di tutto per fare dell’Altro l’immagine specchiata di noi stessi, per spingere il mondo e le cose dentro lo specchio che ci riflette, che rimanda sempre l’immagine del Medesimo, ma – preconizza Baudrillard – “Questa schiavitù del medesimo e della somiglianza sarà un giorno spezzata dal riapparire violento dell’alterità”[32], senza peraltro che sia dato sapere con quali esiti concreti.

[1] J. Baudrillard, op. cit., pag. 67

[2] Ivi, pag. 44

[3] Cfr. ibidem: “Il delitto è all’origine di tutte le culture, come l’acting out per eccellenza. E in questo senso la stessa impresa tecnologica può passare per una proiezione criminale, per un acting out sacrificale, per un esorcismo, una di quelle forme eccentriche che eludono la gravità dell’esistenza.”

[4] J. Baudrillard, op. cit., pag. 78

[5] J. Baudrillard, op. cit., pag. 79

[6] Cfr. ivi, pag. 70: “Finora abbiamo pensato una realtà incompiuta, travagliata dal negativo; abbiamo pensato quel che mancava alla realtà. Oggi si tratta di pensare una realtà alla quale non manca niente, degli individui ai quali non manca potenzialmente niente, e che dunque non possono più sognare un’elevazione dialettica.”

[7] ivi, pag. 69

[8] ivi, p. 71, passim

[9] Il capitolo, intitolato Lo snobismo macchinale, è compreso nella prima sezione dell’opera (pp. 81-90).

[10] J. Baudrillard, op. cit., pp. 82-83, passim

[11]J. Baudrillard, op. cit., pag. 82: “Questo è Warhol e la sua ipostasi seriale dell’immagine, della forma pura e vuota dell’immagine, la sua serie di icone estatica e insignificante”

[12] Cfr. ivi, p. 86: “L’estetica restituisce un dominio del soggetto sull’ordine del mondo (…)”

[13] Ivi, p. 86

[14] Ivi, p. 94

[15] Ivi, pag. 89

[16] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 117 per una rapida sintesi di queste forme dell’altro: “(…) l’altro in tutte le sue forme (malattia, morte, negatività, violenza, stranezza), senza contare le differenze di razza e di lingua, (…) tutte le singolarità (…)”. Un elenco ancora più esaustivo, corredato di una bruciante spiegazione della sua scomparsa ad opera del Virtuale, è nella pagina introduttiva di questa seconda sezione (p. 113). Cito ad esempio l’alterità “della morte, che si scongiura con l’accanimento terapeutico”, o “Quella del volto e del corpo, che si perseguita con la chirurgia estetica”. La serie si conclude significativamente con l’attestazione che “Non vi è più destino”.

[17] Cfr. ivi, p. 126: “Il Femminile e il Maschile sono (…) due termini incomparabili.”

[18] Ivi, pag. 119

[19] Ivi, p. 121. Cfr. anche più sotto (pp. 121-122): “L’utopia della differenza sessuale termina nella commutazione dei poli sessuali e nello scambio interattivo. Al posto di una relazione duale, il sesso diventa una funzione reversibile.”

[20] J. Baudrillard, op. cit., p. 125

[21] Ivi, pag. 127. Cfr. anche p. 134:” Possiamo soltanto ricordarci che la seduzione consiste nella salvaguardia della stranezza, nella non riconciliazione. Non bisogna riconciliarsi con il proprio corpo, né con sé stessi, non bisogna riconciliarsi con l’altro, non bisogna riconciliarsi con la natura, non bisogna riconciliare il maschile e il femminile, né il bene e il male. In ciò risiede il segreto di una strana attrazione.”

[22] Anche nelle forme opposte della attrazione o della repulsione, precisa Baudrillard chiamando in causa i “resoconti antropologici fino al XVIII secolo, e persino (…) la fase del colonialismo” (p. 136)

[23] J. Baudrillard, op. cit., pag. 135

[24] Si tratta di una autocitazione, dato che viene riprodotto l’articolo originale apparso sulle pagine di Libération il 6 gennaio 1994, come spiega l’Autore in una nota (p. 136, nota 1)  

[25] Ibidem

[26] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 138: “Noi però sappiamo meglio di loro cos’è la realtà, poiché li abbiamo designati a incarnarla. O semplicemente perché si tratta di ciò di cui noi, e tutto l’Occidente, manchiamo maggiormente. Bisogna andare a rifarsi una realtà là dove c’è sangue”

[27] Alla pag 141 Baudrillard definisce la nostra una “società vittimale”, intesa “come la forma più facile e più banale di alterità. Resurrezione dell’Altro come sventura, come vittima, come alibi – e di noi stessi come coscienze infelici che ricavano da questo specchio necrologico un’identità a sua volta miserabile.”

[28] J. Baudrillard, op. cit., pag. 140. Pochi righi sotto, ad allargare il quadro di questa ghettizzazione dell’Altro, il filosofo spiega l’immobilismo europeo del tempo come “una fase logica e ascendente del Nuovo Ordine Europeo, filiale del Nuovo Ordine Mondiale, che è ovunque caratterizzato dall’integralismo bianco, dal protezionismo, dalla discriminazione e dal controllo.”

[29] Ivi, pag. 148

[30] Ivi, pagg. 150-151, passim

[31] Ivi, pag. 152. Acuta e lungimirante, poco sotto, l’estensione dell’analisi al campo della geopolitica: “È lo stesso sentimento che nutre, in tutti i popoli non occidentali, questa denegazione viscerale, profonda, di ciò che rappresentiamo e di ciò che siamo. Come se anche questi popoli avessero l’odio. Per quanto si prodighi loro tutta la carità universale di cui siamo capaci, vi è in essi una specie di alterità che non vuole essere compresa (…).”

[32] J. Baudrillard, op. cit., pag. 154

Last words

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di Gabriele Tinti

immagini di Andres Serrano

#

Ancora una volta ho mandato a puttane la mia vita
e questa volta non c’è rimedio. Non ho una casa,
non ho un lavoro, non ho un soldo. Ho due figlie meravigliose
che si meritano molto più di quanto io possa
offrir loro, dalla vita si meritano di meglio di quanto
io potrò mai dar loro (…) Sono così depresso e so che
non ne verrò fuori.

Vita di Alice/ 2

1

di Francesca Fiorletta

Alice non sentiva mai il suono della sveglia.
A notte fonda, faceva sempre sogni molto intensi, popolati per lo più da regnanti antichi col mantello rosso e feste danzanti in discoteca, api operose e cavalier serventi, lumachine bianche e magia nera; tornavano a trovarla strani volti del passato, amiche d’infanzia trasferite precocemente all’estero, fidanzati nerboruti che le avevano insegnato l’amore a vent’anni.

Strettoie

3

Marco Giovenale

Dopo un po’ di molto male
tutto manca
meglio: tutto
è dato, di quello che doveva.

Le mosche fanno i lobi
sul canale. Legano coi loro
gigli, globi. Ai gradi dove forza
la corrente, fa cappio. «A tratti
il corpo che la viaggia beve».
A tratti no.

 

 

///

 

 

così invece se vi è accordo farei ora in vostra presenza una
CRISI DELLE GRANDI IDEOLOGIE
per dimostrare – davanti ai nostri graditi – che questo genere di crisi non comporta nulla di

e si vive lo stesso

attenzione. (manciata di magnesio, candela)
pooof – ecco
la CRISI DELLE GRANDI IDEOLOGIE

qualche si copre gli occhi,
qualche starnutisce l’applauso.

non è successo niente

 

 

///

 

 

Finalmente un giorno i giorni
non varranno niente
niente il celestino tutti
i gradi prima, Starbucks, le 6
(di pomeriggio), una
volta ancora senza neve
europea.

Finalmente sarà in corsivo:
finito (è nello script,
perfino, staggato) e le dotcom
comparse scenderanno in righe
filanti dai torpedissimi
torbidi vesuviani
pensando ecco Parigi.

Sarà finita un’altra campagna
elettorale o bellica o le due, più
la letterale che ci sarà un discorso
tra tutti
nei caffè
a varie ore
a capo
a seconda dei fusi.

Ma non ci saranno
i caffè (leggi: i locali)
sostituiti da stabbie stalli
per i morelli degli psicopatici
che però corrono, vincono,
diventano ricchi e
vi danno lavoro – a quelli come voi

 

 

///

 

 

il cameriere coi denti sul guscio
dice la vita è fatta con la morte
bella scoperta ai margini delle
fosse o dei fossili o portando
in tavola qualcosa che poi piace

 

 

///

 

 

O che sintesi fólgo-, vólgo,
all’ultima tacca alcalina del suono…,
un je-toi (getto gettato, gettone memento),
un me metro di pensiero, chassis chiuso
nell’alberghino Oltrarno
sotto le pale est, estive.
Verbigerans. (Flumen)
Cèdesi per mòdica.
Cosa qualsiasi.
Fisica, metafisica, po
litica

 

 

///

 

Marco Giovenale, Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017)

 

 

Minchia di mare – Arturo Belluardo

3

  Anteprima del secondo romanzo di Arturo Belluardo

MINCHIA DI MARE_Layout 1

 

MIO CUGINO

(in cui Buscemi Davide ha prima anni otto e mesi due, poi anni quattordici e mesi cinque e, per finire, anni diciannove e mesi sei)

C’erano tre motivi per cui mi scassavo la minchia ad andare d’estate in campagna dai miei zii.

In primisi, perché non c’era nenti che fare, solo un gran cauru e zanzare e mi annoiavo come mai nella vita. In secundisi, perché ogni volta, al ritorno a casa nella 600 bianca, mio padre e mia madre si sciarriavano: mio padre diceva a mia madre che gli aveva rovinato la vita, l’aveva fatto finire nelle case popolari della Borgata, che sa suoru sì che aveva fatto fortuna maritandosi un questore pieno di picciuli.

Una volta che la 600 si fermò in mezzo alla campagna di Avola, con il fumo che le nisceva dal radiatore, mio padre aveva fatto scendere mia madre ad ammuttare, dicendo che era tutta colpa sua.

Infine e soprattutto, mio cugino Uccio. Mio cugino era più grande di me di un anno e si chiamava Davide com’ammìa, epperò mentre ammìa mi chiamavano intero, per lui usavano il diminutivo. Forse perché era babbu, scimunito, ma scimunito vero. D’estate in campagna dai miei zii, con i miei genitori che non si parlavano, con quel gran cauru, l’unica cosa da fare era andarsene a caccia di grilli per i campi di grano con quel babbu di mio cugino Uccio.

Giravamo sotto il sole, armati di paletta e secchiello, tra le spighe appena mietute che ci fiddiavano i piedi, lasciandoci vesciche e papole a tinchitè. Camminando, sbattevamo forte i sandali del dottore Sciolt, raccussì i grilli si scantavano e saltavano via. Il gioco era di schiacciarli con la paletta non appena atterravano, prima che saltassero un’altra volta. Poi li mettevamo nel secchiello per darli da mangiare ai pesci russi nella gebbia di pietra.

I grilli avevano le ali di colore diverso, russe e verdi di solito, raramente viola. «Chiddi viola sono i più buoni» mi disse un giorno mio cugino Uccio, portandosene uno alla bocca. «Tiè ccà, assaggia» bofonchiò, con una zampina che gli nisceva dalle labbra. E mi spinse un grillo verso la faccia.

«Mangia! Mangia, ti ho detto» iniziò a schigghiare Uccio vista la mia riluttanza. «Non sei masculu se non mangi!». Nuddu doveva dubitare della mia virilità e mi infilai l’insetto in bocca; il grillo, però, era ancora vivo e mi abbastò sentirmelo muovere sulla lingua per mettermi a sputare e a rovesciare.

«Sei proprio una minchia di mare» commentò Uccio. Il papà di Uccio fu trasferito a Genova e raccussì per alcuni anni li vedemmo picca e nenti. Poi suo padre fu nominato questore e ci ritrovammo insieme al liceo. Uccio, crescendo, era diventato ancora più babbu. Ora arrinisceva a pigghiare al volo pure le mosche e a mangiarsele con gran piacere. Abbastò poco e Uccio diventò il protagonista passivo di tutte le pigghiate

pu’ culu, di tutti gli sgherzi, di tutti i gavettoni di pisciazza del liceo Gargallo. Io, che mi vergognavo ad avercelo come cugino, ero tra i suoi aguzzini più feroci.

Ma a Uccio sembrava non importare, gli piaceva essere al centro dell’attenzione dei compagni, quasi fosse un eroe; a ogni scherzo, anche violento, rideva: «Amicu! Amicu mio!».

Accadde che i poliziotti pestarono a sangue rinnanzi a scuola Ciancio Carmelo, uno di Lotta Continua, perché dicevano che si fumava gli spinelli.

Il giorno dopo scioperammo e andammo a manifestare alla questura contro i poliziotti assassini, agitando le mani nel segno della P38. Uccio pareva ’mpazzuto.

 


 

ARTURO BELLUARDO
È nato e cresciuto a Siracusa, ma vive a Roma con due donne e due gatti. Il suo romanzo Il ballo del debuttante è stato segnalato al Premio Calvino 2016. Le sue storie sono state pubblicate su «Lo Straniero», «Buduàr», «Succedeoggi» e «Mag O» e in antologie edite da Nottetempo e dal Goethe Institut.

La notte che viene

1

di Tristan Kron

IMG_20170205_122318Sono dentro.
Resto in piedi al centro della stanza, in ascolto. Mi accordo al rumore di fondo degli elettrodomestici in standby e del vento sottile tra le siepi e i rami degli alberi nel giardino sul retro.
Tutto è perfetto, è sempre perfetto.
Respiro e cerco un posto per poggiare la mia piccola valigia, che apro evitando il minimo rumore. Mi muovo con gesti esattamente calibrati, i sensi che vibrano di un’acutezza felina allenata in anni di vita da ospite invisibile e inatteso.
Questa notte trovo una stufa ancora accesa, una fiamma viva dietro lo schermo di vetro incrostato di fuliggine; fuori la neve continua a scendere, ma nella stanza la temperatura rimane tiepida e per una volta spogliarmi diventa confortevole. Lo faccio con lentezza, prendendomi più del tempo necessario mentre mi oriento nel nuovo spazio al chiarore pallido e danzante che il fuoco produce.
Intravedo delle scale, ci sono quasi sempre nelle case che scelgo. Intuisco i contorni di un bel divano chiaro, un tavolo moderno di metallo, due lampadari ovali di dimensioni troppo diverse che dal mio punto di osservazione sembrano compenetrarsi, come se il più piccolo fosse una tumefazione del maggiore.
E poi c’è l’odore, questo ambiente profuma di ordine asettico e di mani guantate che sistemano, strofinano, dispongono; mani precise e maniacali che contrastano la pressione uniforme del caos, che si appigliano salde alla certezza del metodo.
E’ tutto così evidente ai miei occhi. Perché io ho dovuto imparare ad osservare, so come farlo. E so che i nodi emozionali dei coinquilini, le tensioni, i rapporti di affetto, rabbia o indifferenza, le increspature dell’armonia familiare si condensano in forme strutturate che regolano l’assetto degli oggetti e degli arredi. Con la perizia di un morboso cabalista leggo verità occulte attraverso l’analisi delle altezze a cui sono appesi i quadri e le fotografie, studiando la posizione relativa dei cuscini sul divano, che statisticamente sono tre, l’orientamento delle piante agli angoli dei muri, fino alla sistemazione combinata delle scarpe nei ripostigli, che formano fasci di vettori spesso non troppo divergenti ma niente affatto casuali.
E non mi sbaglio mai.
Se qualcuno potesse frugare nella mia valigia troverebbe solo poche cose necessarie per la notte, un pigiama lungo, una maglietta bianca e una grigia, un paio di calzini, oltre agli innocenti souvenir che ho preso in prestito in altre case, in altre notti. Tra questi, inestimabili, il dentino che sapevo di trovare sotto il cuscino nella camera di un bimbo e un pettine di madreperla, un oggetto che racconta una storia triste di affetti e conflitti armati.
Ma è ora di dormire. Ho camminato a lungo, è molto tardi. Stanotte scelgo la maglietta grigia, la indosso e a piedi nudi scivolo sul pavimento di marmo lucido e su per le scale nel buio compatto, fino al corridoio che si allunga tra i vani, che sento essere tre. Anche questa è una cosa che si impara: nell’oscurità più completa, il vuoto denso delle stanze si percepisce distintamente, ha una qualità ben diversa da quello che striscia lungo i bordi dei muri all’esterno.
Alla mia sinistra una camera ampia, l’istinto mi dice che ci dorme una bambina, a destra uno spazio più stretto che è con certezza il bagno.
Poco più avanti si apre la camera matrimoniale, la mia camera di stanotte. Sulla porta una superficie umida che posso quasi toccare con le mani, la consueta barriera anti intrusione che la gente nel sonno tesse all’ingresso dei propri spazi sicuri, per bisogno di protezione. Sottile ma estremamente solida, devo frantumarla con pazienza, in silenzio.
E poi seguo con le dita il perimetro del letto, che come immaginavo è vuoto per metà, portandomi dalla parte che mi spetta. Mi distendo e tiro le coperte fin sotto al mento, libero infine il mio corpo dall’inquietudine. Mi chiedo sempre se sia questa la felicità. O l’appagamento. O una qualsiasi delle sensazioni di completezza alla cui ricerca disperata ho indirizzato il mio modo di vivere. E resto lì, immobile e leggero, in ascolto dell’unico rumore della stanza che viene dalla figura alla mia sinistra, quello di un respiro regolare e consolante, un ritmo lento frammentato a volte da un borbottio indistinto.
La donna al mio fianco è delicata, ne intuisco le forme lievemente abbondanti ma proporzionate e beneficio del suo calore, una radiazione che emana dal suo corpo rovente e massaggia il mio, a distanza. Mi avvolgo nell’odore inconfondibile della pelle nel sonno e dei capelli sventagliati sul cuscino, come antenne a dissipare le fatiche del giorno.
Sono allenato a perdere consistenza, divento una presenza impalpabile e non tocco mai per primo la persona che ho accanto; a volte accade che sia lei ad avvicinarsi, ad allungare i piedi o stendere un braccio arrivando al contatto e allora divento il ricordo di qualcuno che in quel letto c’è stato, e forse si rivorrebbe indietro anche per una sola notte. E il sonno prosegue sereno.
Nessuno si è mai svegliato, nessuno si è mai accorto della mia presenza così vicina, dall’altra parte del letto. Una volta, non ricordo dove, venni abbracciato stretto e mi fu sussurrato all’orecchio qualcosa di sconnesso che somigliava a una preghiera; altre volte qualcuno adatta il suo corpo alla mia postura, la ricalca, e non di rado mi sembra che pianga chiedendo la mia consolazione, che non nego mai. Perché tutte le persone addormentate sono indifese, come lo sono io.
Stanotte, mentre sto per cedere al sonno, la donna ha una specie di scossa e mormora qualcosa. E’ caduto un pianeta, dice. E’ caduto un pianeta, ancora una volta. Io non so cosa rispondere, rimango immobile dalla mia parte. Lei dopo poco si volta, allunga la mano e mi stringe il braccio. E’ caduto un pianeta, non lo trovano più dice con voce più asciutta, disperata. Le accarezzo il viso e bisbiglio frasi che sappiano di conforto, la lascio calmare. Il suo respiro ritrova il tempo e lo scandisce con lunghe inspirazioni nasali. Il suo sogno si perde nello spazio e indietro nel tempo, a distanze siderali, nell’orbita di stelle appena nate.
E ora chiudo gli occhi. Penso alla casa in cui dormirò domani, l’ho già scelta. Una villetta marrone non lontano da un mare agitato, il giardino arruffato sul davanti e una vecchia statua accanto alla porta, una statua consumata di una donna seduta senza braccia e senza lineamenti, che guarda lontano. Una dea mutilata. Penso a chi troverò nel letto, ai sogni che arriveranno, a cosa potrò tenere per me. E il sonno, a poco a poco, mi scioglie.
Nella mia vita, da tempi di cui non ho più ricordo, ho visitato innumerevoli case, tutte le notti, dappertutto, e i corpi che ho sfiorato non sono altro che versioni più reali del mio. Nel sonno tutte le persone sono buone, come docili mammiferi addormentati nel profondo delle loro tane calde, appagati e protetti, i cuccioli nascosti nel folto della pelliccia a rivivere avventure e sognarne di nuove. Fuori l’inverno non finisce più. Nelle paludi ghiacciate, tra le nevi nei boschi gli esemplari più forti mi danno la caccia, da soli o in piccoli branchi di loro simili, fiutano le mie tracce ma non possono trovarmi e non torneranno nei rifugi prima di aver concluso la battuta. Lasciano uno spazio per me che posso sostare nei loro nascondigli, al sicuro. Una notte dopo l‘altra, una notte per volta.
Non faccio del male a nessuno, in fondo. Ho solo tanta paura, soprattutto al buio e il buio può essere interminabile. Non voglio dormire da solo. Non sono un pericolo. Prima che qualcuno in casa si svegli, me ne sono già andato.

Jean Baudrillard e il delitto perfetto

6

di Davide Gatto

[prima parte]CharlieS
Un esergo  adatto a presentare questo libro di Baudrillard – Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? – cronologicamente un po’ datato (1995, Èditions Galilèe, Paris; 1996, Raffaello Cortina Editore, Milano), ma di fatto così attuale da apparire ora profetico – potrebbe essere rappresentato da alcuni celebri versi di Leopardi:

Ahi ahi, ma conosciuto il mondo

non cresce, anzi si scema (…).

(…) e figurato è il mondo in breve carta;

ecco tutto è simile, e discoprendo,

solo il nulla si accresce.

(Ad Angelo Mai, vv. 87-88; 98-100)

Il saggio del filosofo e sociologo francese (1929 – 2007) si compone di due distinte sezioni: la prima, che ripete il titolo dell’opera (Il delitto perfetto), occupa i due terzi del libro ed è di carattere speculativo, mentre la seconda (L’altro versante del delitto) ragiona sulle evidenze del ragionamento teoretico in alcuni aspetti emblematici – psicologici, sociologici, politici – del mondo contemporaneo.

 

Il delitto originale e lo spazio vitale dell’illusione

L’assunto di base che Baudrillard si preoccupa di motivare preventivamente è di chiara ascendenza nietzschiana: fin dalle sue origini l’uomo ha cercato di cogliere un senso definitivo, “vero” del mondo e delle cose, che però il mondo e le cose non hanno. La riflessione si colloca quindi nell’alveo di quel nichilismo “disincantato e creativo, capace di distruggere i valori tradizionali per portarli alla loro “transvalutazione”, accettando il “gioco” della verità sui sentieri infiniti dell’apparenza”[1] , che fu proprio di Nietzsche e della cosiddetta “Nietzsche-Renaissance francese, con G. Bataille”[2] (e altri), pensatori – i due nominati – direttamente o indirettamente citati nell’opera.

Dietro le apparenze che si dispiegano dinanzi ai nostri sensi – ragiona Baudrillard – non c’è alcun senso riposto, nonostante i perentori tentativi di rivelarlo o di definirlo messi in atto nel tempo dai promotori di istanze metafisiche, religiose, ideologiche, scadute tutte, una dopo l’altra, al rango di illusioni.

Questa esperienza fallimentare circa l’esistenza di un senso delle cose e del mondo basterebbe da sola a inibire nell’uomo qualsiasi ulteriore ricerca di senso, eppure – constata Baudrillard – antropologicamente noi “desideriamo volere – è questo il segreto – come desideriamo credere, come desideriamo potere, perché l’idea di un mondo senza volontà, senza fede e senza potere ci è insopportabile”.[3]

È innegabile infatti che la ricerca di un senso che dia conto, razionalmente conto (anche nel caso delle soluzioni metafisiche e religiose, in definitiva), delle evidenze del mondo è espressione del nostro desiderio innato di governare le cose, di controllare la loro imprevedibilità invece che subirla come un destino.

E tuttavia, che questa nostra pretesa di verità sia pienamente e definitivamente illusoria, tramontate le stagioni delle religioni e delle ideologie, è dimostrato anche dal percorso accidentato compiuto sulla medesima strada dalla fisica – la regina delle scienze degli ultimi centocinquanta anni -, che ha svelato con la meccanica quantistica un mondo dell’infinitamente piccolo “radicalmente strano e misterioso”[4] rispetto a verità fino ad allora ritenute assiomatiche.

Perché allora cercare delle verità che non esistono, perché inseguire questa illusione? Perché non possiamo farne a meno? È come se – ragiona Baudrillard nel modo metaforico che gli è più congeniale – noi (la storia, il caso, dio) avessimo ucciso ab origine (è “il delitto” originale del titolo) il senso delle apparenze che si affollano nella nostra coscienza, e percepissimo quelle stesse apparenze come tracce di questo assassinio primordiale: come cercare una persona scomparsa i cui effetti personali siano stati rinvenuti lungo le sponde di un fiume. Se ci sono degli effetti personali, quella persona deve essere esistita e deve essere cercata, così come se ci sono le apparenze del mondo e delle cose Qualcuno/Qualcosa che le ha lasciate deve essere esistito e deve essere quindi cercato.

Il fatto è che per Baudrillard mettersi sulle piste di questo Qualcosa che in realtà non esiste, illudersi di poterlo presto o tardi raggiungere e conoscere coincide con la pienezza vitale, con la passione e il desiderio che, loro sì, danno senso alla vita. Dopo aver osservato che le cose continuano a sfuggirci, banalmente per la distanza fisica che ci separa da esse, cosicché anche nei tempi infinitesimali della scienza l’oggetto percepito è sempre temporalmente dislocato rispetto all’oggetto in sé, Baudrillard benedice questo stato di inviolabile segretezza del mondo: “Fortunatamente, viviamo in base a un’illusione vitale, a un’assenza, a un’irrealtà, a una non immediatezza delle cose”.[5]

Questa distanza, che per un verso tanto più ci angoscia quanto più è grande, fino alla nevrosi, per l’altro è spazio vitale per l’intelligenza speculativa, alle prese con le infinite possibilità – irriducibili in fondo, dato il presupposto della inconoscibilità del mondo – che le apparenze hanno di trasformarsi in realtà, in una qualsiasi realtà solida come una verità. Anzi, è bene che il pensiero sia “radicale”, cioè diffidi sempre della perentorietà definitoria dell’altro pensiero suo concorrente, quello che “si crede fondato sulla garanzia di un mondo oggettivo e decifrabile”[6]: il pensiero radicale “È illusione, capacità d’illudere, ossia un gioco con la realtà, come la seduzione è un gioco con il desiderio, come la metafora è un gioco con la verità”.[7]

Poche pagine più avanti il filosofo francese polemizza con “La critica ideologica e moralista, ossessionata dal senso e dal contenuto” e raffronta il pensiero radicale con “l’atto della scrittura”, con la “forza poetica, ironica, allusiva, del linguaggio”.[8] Ciò che davvero conta non è inseguire una realtà-verità che non esiste, ma il gioco del pensiero e della scrittura che ricamano sul Niente travestito da realtà, che smontano e destrutturano – anche ironicamente – il presunto reale, che generano allusioni e illusioni: “La regola assoluta del pensiero è quella di rendere il mondo quale ci è stato dato – inintelligibile – e, se possibile, un po’ più inintelligibile”.[9]

 

Il delitto (quasi) perfetto: la realtà totale della scienza e della tecnologia

Se per Baudrillard le apparenze per l’uomo sono destinate a restare apparenze dietro alle quali non c’è nulla, egli è pure consapevole – nonostante il suo elogio dell’illusione cui lega il fervore e la bellezza del pensiero e del linguaggio, la pienezza della vita – che la storia dell’uomo si è svolta paradossalmente all’insegna della ricerca inesausta di un senso del mondo e delle cose: date le premesse, la storia dell’uomo è a suo giudizio la storia della creazione graduale ma caparbia della realtà, della trasformazione delle apparenze in realtà certificata e indiscutibile.

Realtà peraltro ormai unica, totale, omologata, dotata com’è del crisma veritativo per eccellenza della nostra epoca: quello della scienza e della tecnologia, il vero bersaglio polemico di questo saggio di Baudrillard, che vede in esse e nel loro attuale trionfo la causa prima della morte dell’illusione radicale e vitale.

Se nell’uomo è insopprimibile il desiderio di svelare il segreto del mondo, di conoscerlo per governarlo – pena l’angoscia e la nevrosi di chi è esposto a un destino per definizione cieco -, oggi tecnica e scienza soddisfanno appieno questo suo impulso caratteristico semplicemente prendendo per reali le apparenze, dotandole cioè di un senso non riposto ma esplicito e univoco: questo mondo è reale, le cose sono reali perché rispondono alle teorie e agli esperimenti degli scienziati, la dimensione misteriosa dell’Altro (per Baudrillard naturalmente il Niente, ma poco importa ai fini degli effetti sulla vita dell’uomo), che induce alla ricerca e alla pienezza vitale, è scomparsa.

È una sorta di appiattimento quello che rappresenta il filosofo francese, che non soltanto imputa alla scienza lo sterminio dell’illusione e la sua sostituzione con una presunta realtà-verità assoluta, del tutto trasparente, ma anche il riempimento di ogni spazio della coscienza con la riproduzione virtuale di queste cose ormai senza mistero: “La tecnica è l’alternativa micidiale all’illusione del mondo”, per un verso, per l’altro “con la simulazione tecnica, e con la profusione di immagini in cui non c’è niente da vedere”[10] non siamo più capaci di rincorrere con il pensiero il Qualcosa (il Niente) che si nasconde dietro le apparenze.

È proprio questo il delitto “perfetto” cui allude il titolo del libro: viviamo in un mondo di apparenze che interpretiamo naturaliter come tracce di Qualcuno/Qualcosa che si nasconde – o che forse nichilisticamente non esiste affatto pur producendo con la sua stessa assenza il benefico effetto di farci pensare, di farci indagare, di spingerci alla ricerca e alla conoscenza dell’Altro/altro -, ma se gli oggetti che presumiamo gli siano appartenuti diventano reali in sé, perdono lo status subordinato di indizi dell’esistenza di Altro, allora l’Altro/altro scompare definitivamente dalla scena e il suo “cadavere” non può più neanche essere pensato.

Al di là della finezza simbolica del ragionamento filosofico, Baudrillard ha cura di soffermarsi sulle conseguenze di questo scenario unificato, dominante, verrebbe da dire totalitario del trionfo delle scienze, dei dispositivi tecnologici e tra essi, soprattutto, di quelli di riproduzione del supposto reale (per Baudrillard nient’altro che costruzione artificiale e simulazione), del Virtuale.

Intanto la sostituzione dell’illusione con la realtà-verità totale implica necessariamente la reductio ad unum di tutte le possibilità di significato che il mondo e le cose conservano in potenza a beneficio di una sola, di fatto decretando la scomparsa del mondo, che per Baudrillard esiste solo in quanto enigma.[11]

Scomparso il mondo come enigma, in cui ogni cosa aveva la sua ombra misteriosa, resta una realtà totale senza ombre e senza mistero, una realtà costruita a fil di ragione in cui gli incastri tra le cose – noi compresi – sono così stretti da non lasciare più alcuno spazio: il mondo del Virtuale è un mondo perfetto – ad Alta Definizione[12] dice Baudrillard -, la cui caratteristica principale è la soppressione della distanza “vitale”[13] tra le cose.

Ora, è il pensiero innanzitutto che ha bisogno di distanza, per poter misurare quello che appare rispetto a qualcos’altro, rispetto a una delle infinite possibilità dell’Altro. Nel tempo questo Altro si è manifestato nelle forme delle religioni, delle ideologie, persino – tramontate queste – della riflessione critica. Ora invece, nel mondo perfetto, totale, immediato del Virtuale neppure il pensiero ha più lo spazio per pensare: da speculativo diventa “uno stato d’intelligenza operativa pura”, che incarna semmai “uno stato di disillusione radicale del pensiero”.[14]

Tanto radicale è questa resa del pensiero che oggi non è più la macchina a rispondere ai comandi dell’uomo, ma è l’uomo ad essere chiamato dalla macchina a scegliere un comando tra le opzioni determinate (miei entrambi i corsivi) che essa gli offre (anche a me che sto scrivendo – di fatto sotto tutela “macchinale” – questi righi al computer).[15]

Che dire poi del linguaggio – incalza il filosofo francese – in questa realtà totale, compatta e perfetta (ancorché artificiale) che, cancellando la distanza tra la parola e il suo significato, ha propriamente sancito la morte dell’interpretazione, il gioco infinito e “felice” della parola sulle piste di un senso sempre sfuggente e perciò stesso vitale?[16]

E se nella realtà pienamente dispiegata e compiutamente definita, immobile, della scienza e della tecnica l’intelligenza da un canto è diventata puramente ragionieristica e organizzativa, dall’altra il linguaggio ha perduto la pluralità delle sue forme (lingue e dialetti…) e la poliedricità dei suoi significati possibili per scadere in una sorta di “forma universale di trascrizione che annulla il testo originale”[17], anche la storia ci è stata strappata di mano dal Virtuale, che l’ha ingabbiata in un sistema di riproduzione infinita di cose già viste: “Storia senza desiderio, senza passione, senza veri eventi (…).[18]

Infine, in questa realtà totale, programmata e ormai anche autoprogrammata, data la capacità autonoma assunta dai dispositivi tecnologici di modellarla e di generarla, la scomparsa dell’Altro ha inevitabilmente promosso l’affermazione di un unico paradigma anche a livello antropologico, la definizione esatta, “perfetta” di un modello umano unico che si offre come termine di paragone, che rende comparabile l’incomparabile, che permette di marcare le differenze ma non più di avventurarsi pieni di curiosità nel mistero dell’alterità radicale: si è persa anche la nozione propria di “individuo”, di essere radicalmente e incomparabilmente altro rispetto a tutti gli altri esseri.[19]

 

Le spinte contraddittorie dell’animo umano

Lo scenario disegnato da Baudrillard, dal sapore dichiaratamente apocalittico[20], non può che essere frutto di una disposizione originaria dell’uomo, è figlio di una precisa antropologia.

Si diceva sopra che l’uomo è animato dal desiderio di volere, dal desiderio di credere, da quello di potere, dal desiderio – in definitiva – di conoscere a fondo il mondo e le cose per poterli governare a proprio piacimento. Siamo ab origine alla ricerca di un senso che per Baudrillard non esiste (dato che noi non siamo altro che apparenze tra apparenze che si accampano su un fondale vuoto, sul Niente), ma che tuttavia tiene vive quelle illusioni che sono tutt’uno con il desiderio, con la passione, con la pienezza vitale.

D’altra parte la percezione di una realtà che nasconde un senso, un senso che è rimasto impenetrabile alle religioni, alle ideologie, ai valori morali, coincide con un destino imperscrutabile che genera angoscia e ormai – per una sorta di stratificazione storica – una nevrosi individuale e globale dell’umanità.[21]

Ecco allora che il pensiero scientifico e tecnologico sarebbe intervenuto a creare, letteralmente creare secondo Baudrillard, un mondo virtuale da cui la componente misteriosa e ansiogena sarebbe stata eliminata, insieme però all’illusione vitale di cui a lungo si è detto.

Le parole del filosofo sono a questo proposito nette: “In un mondo virtuale (…) facciamo a meno della nascita e della morte, e al tempo stesso facciamo a meno di una responsabilità talmente diffusa e opprimente da non poter essere assunta. Probabilmente, siamo pronti a pagare questo prezzo per non dover più assolvere l’enorme compito di distinguere il vero dal falso, il bene dal male ecc. Forse la specie è collettivamente pronta a rifiutare l’angoscia morale e metafisica che ne deriva, che ha finito per accumularsi fino alla nevrosi, ed è al tempo stesso pronta a rifiutare il privilegio della coscienza critica, a beneficio di una liquidazione delle differenze, delle categorie e dei valori? (…) Non vi è più polarità, alterità, antagonismo.”[22]

È evidente che il mondo virtuale provoca la scomparsa di tutto il mondo reale, in esso compreso l’uomo, con il suo tratto tipicamente perturbante, appunto l’alterità.

(fine prima parte)

CSA1

 

[1] Vd. AA.VV., L’enciclopedia della filosofia e delle scienze umane, De Agostini Editore, Novara, 1996, s.v. “nichilismo” (curata da Guido Boffi)

[2] Ibidem

[3] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p. 17.

[4] Ivi, pag. 19. Baudrillard cita il fisico Bruno Jarrosson, che conclude significativamente il suo ragionamento ribaltando la prospettiva consueta: “Il mondo microscopico dev’essere (…) considerato così com’è. (…) Dobbiamo quindi pensare che la cosa più strana non è la stranezza del mondo microscopico, ma la non stranezza del mondo macroscopico. Perché i concetti d’identità, di terzo escluso, di tempo e di spazio sono operativi nel mondo macroscopico? Ecco quanto dobbiamo spiegare” (Dal micro al macro – il mistero delle evidenze).

[5] Ivi, pag. 11; cfr. anche pag. 58: “A causa della dispersione e della velocità relativa della luce, tutte le cose non esistono che in differita, in un disordine inesprimibile delle temporalità, a una distanza ineluttabile l’una dall’altra. Esse quindi non sono mai veramente presenti le une alle altre, né “reali” l’una per l’altra. (…) tutto ciò è il fondamento insuperabile, la definizione per così dire materiale dell’illusione”.

[6] J. Baudrillard, op. cit., pag. 103

[7] Ivi, pag. 101

[8] Ivi, pag. 108

[9] Ivi, pag. 110. Che il “gioco” con la vita e con le apparenze sia alla fine più importante del preteso raggiungimento di un obiettivo definito, di un punto d’arrivo che tanto sa di morte, lo scrive d’altronde anche Italo Calvino (di cui è nota la prossimità con gli intellettuali francesi) negli stessi anni, quando ragiona del destino prefissato di Rinaldo: “(…) ci resta il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto di arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che danno forma all’esistenza” (Italo Calvino, Italo Calvino racconta l’Orlando Furioso, Einaudi, Torino, 1995, p. 20)

[10] J. Baudrillard, op. cit., pagg. 8-9, passim

[11] Ivi, pp. 62-64. In fin dei conti – ragiona Baudrillard – noi preferiamo pensare a una nascita del mondo improvvisa, quasi magica, capace di scatenare “l’immaginazione poetica” e quindi l’illusione: “l’illusione è costituita da questa parte magica, da questa parte maledetta (corsivo mio)”. Impossibile non cogliere qui un riferimento diretto a Georges Bataille e al suo La parte maledetta (Parigi, 1967): la parte maledetta è quella che viene sottratta al consumo utilitaristico e quindi, secondo Bataille, servile (come le vittime, anche umane, dei sacrifici), e restituita pertanto all’ordine del sacro, dell’”intimità perduta”, della “libertà interiore” (Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 106), un mondo del tutto precluso al pensiero raziocinante e definitorio della scienza e della tecnica.

[12] Ivi, p. 35: “Il concetto chiave di questa Virtualità è l’Alta Definizione. Quella dell’immagine, ma certamente anche quella del tempo (il Tempo Reale), della musica (l’Alta Fedeltà), del sesso (la pornografia), del pensiero (l’Intelligenza Artificiale), del linguaggio (i linguaggi numerici), del corpo (il codice genetico e il genoma”.

[13] Ivi, pp. 58-59: “Questa distanza è vitale, poiché senza di essa non percepiremmo proprio niente. (…) Questa distanza, questa assenza sono oggi minacciate. (…) La minaccia teleinformatica è quella di una soppressione del buio, della preziosa differenza tra notte e giorno, mediante un’illuminazione totale di tutti gli istanti.”

[14] J. Baudrillard, op. cit., pag. 23

[15] Ivi, p. 38: “il sistema del pensiero si allineerebbe rapidamente a quello della macchina. Esso finirebbe per captare e trattare soltanto quello che la macchina può captare e trattare, o comunque su sollecitazione della macchina. È già così con i computer e con l’informatica.”

[16] È sempre Baudrillard che qualche pagina più avanti (p. 108), riguadagnato un ottimismo filosoficamente fondato, afferma risolutamente che “la lingua e la scrittura invece illudono sempre – esse sono l’illusione vivente del senso, la risoluzione dell’infelicità del senso mediante la felicità della lingua.” È del tutto evidente che il senso è (paradossalmente) infelice perché inafferrabile, mentre la lingua è felice perché vive intensamente, appassionatamente l’esperienza vitale dell’indagine e della ricerca del senso (che esso ci sia o – meglio – non ci sia affatto).

[17] J. Baudrillard, op. cit., p. 95. Si pensi solamente alla diffusione dei traduttori automatici di Google etc.

[18] Ivi, pag. 53.

[19] Ivi, pag. 130: L’individuazione apparteneva all’epoca d’oro di una dinamica del soggetto e dell’oggetto. (…) non si può più parlare di individuo, ma solamente del Medesimo e dell’ipostasi del Medesimo”.

[20] Il filosofo non esita a intravedere nei contenuti della sua analisi “la soluzione finale, la risoluzione anticipata del mondo tramite la clonazione della realtà e lo sterminio del reale col suo doppio.” (J. Baudrillard, op. cit., p. 31). Si intende che i termini “realtà” e “reale” sono in questo senso le apparenze misteriose di cui si nutre la “sacra illusione”.

[21] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 43: “Infatti, il concetto di realtà, se rinforza l’esistenza e la felicità, rende ancora più sicuramente reali il male e la sventura. In un mondo reale anche la morte diventa reale, e secerne un terrore che ha la sua stessa forza.” Naturalmente la “realtà” a cui qui il filosofo si riferisce non ha nulla a che vedere con quella piatta e artificiale del Virtuale, che ha sterminato l’Altro: la “parte maledetta” che Baudrillard ha mutuato verosimilmente da Bataille.

[22] Ibidem.

 

 

 

 

 

Salon de coiffure

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di Kika Bohr
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A volte di sabato mattina mia zia Monique andava al “Salon de coiffure” e mi piaceva accompagnarla.

C’erano due negozi, negli anni 60, a Ginevra, che formavano un angolo arrotondato in una piazza alberata chiamata “Plateau de Champel”, a circa 400 m da dove abitava il nonno, Grand-Papa Paul.  Il più frequentato era la Boulangerie, ci si andava quasi tutti i giorni. La domenica, uscendo dalla messa, se il nonno era di buon umore, oltre al pane dalla crosta dorata e croccante si comprava anche o una “treccia” o qualche tarte. (Queste erano talmente buone che Grand-Papa Paul affermava a voce alta che per un’altra di quelle “sarebbe andato fino là in ginocchio!”) La boulangerie aveva un campanello sulla porta e si scendevano un paio di gradini per entrarvi.

Per entrare nel  Salon de coiffure invece, si salivano tre gradini.

da “Poesie criminali”

1

di Gaia Formenti

 

LORIS

 

Il cacciatore ha munizioni da guerra

i suoi baffi graffiano la tua guancia

appena nata

affollano luminescenti telecamere

si riga la sua seccata dal vino

lui di cuccioli non ne ha uccisi mai

In soffitta, con Binet

3

di Danilo Laccetti

La voglia di far sapere che sappiamo
ci brucia la lingua – nel mio caso la penna
Alberto Savinio, Alcesti di Samuele

1. Nell’Ars amatoria Ovidio sollecita le belle e giovani ragazze ad uscire di casa per trovare marito, postillando così (III, vv.397-8): «Ciò che sta nascosto, rimane ignoto; nessuno desidera l’ignoto; /quando una bella faccia manca di testimone, i frutti ritardano». Come già accaduto in altri luoghi di quest’opera, tanto insinuante quanto eversiva, imprevista la deviazione: se sei un poeta d’eccezione e non lo manifesti, nessuno lo saprà. Cosa cerca il venerabile nomen dei vati se non la gloria? È bello vegliare le notti, consumarle a scrivere, ma Omero esiste grazie all’Iliade: un’opera che si è fatta conoscere fino a noi.

Decenni più tardi Persio, un giovane poeta ritroso come dettava la dottrina stoica, muore a nemmeno trent’anni lasciando una manciata di satire, sei per la precisione; in quella d’apertura irride i poeti alla moda, tutti azzimati, le guance gonfie per le letture delle loro poesie in pubblico, una smania in corpo di vedersi riconosciuti grazie al ritratto delle loro facce, mostrati a dito, dettati a “cento ricciutelli” sui banchi di scuola. In una Roma turbida quel fermentum poetico che inglobi va di necessità espresso, come un fico selvatico capace di spaccare il fegato se non lo assecondi. Ma allora, commenta, “quello che sai non vale niente se un altro non sa ciò che tu sai?” (I, v.27).

A Roma Marziale visse quasi trent’anni. Grandi speranze all’esordio, ma quante petizioni andate a vuoto; poi da capo nella rozza e provinciale Bilbis per quel ritiro malinconico, prossimo alla morte. Fu autore di grido, finché durò; nei suoi epigrammi un binomio torna con ossessione significativa: la fama (chiamiamolo pure “successo letterario”) e la gloria. La prima sapeva di averla, se ne vantava perciò; la seconda appartiene ai morti. Ecco un esempio, fra gli altri (I.25):

Dai, Faustino, editto pubblico ai libri
tuoi, spremi dal cuore dotta opera
(di Cecrope le rocche e di Pandione,
e i vecchi nostri tacciano ogni ammenda).
La fama lasci dubbioso alla porta,
premiare la fatica ti rincresce?
Vivano adesso le carte, vivranno
dopo te: la gloria ti bacia morto.

Giovenale nella sua settima satira dispiega il penoso quadro degli intellettuali, in particolare la miserevole vita dei poeti (vv. 28-52): tu che scrivi versi chiuso in una stanzetta, hai voglia a sperare in un patrono che paghi le presentazioni delle tue opere. Sì, un po’ di sgabelli presi a noleggio te li dà, qualche suo amico claqueur; non sei mica Stazio, un poeta vezzeggiato da chi conta, dall’imperatore in persona. Puoi solo arare la sabbia, rivoltando l’aratro su una spiaggia deserta, ma anche tu, non negarlo, sei tenuto al laccio dalla consuetudo ambitiosi mali: la pratica malsana dell’ambizione non ti lascia andare. Anzi, una volta che il “cancro della scrittura, inguaribile ti possiede”, invecchierà nel tuo “cuore malato”.

Distinzione: processo grazie al quale si riconosce un’identità chiara, separata dalla massa omogenea; da quel volgus “senza riconoscimento, senza autorità” (Sallustio refert) da cui, nell’agonia della repubblica, Catilina volle distinguersi con i mezzi che gli erano propri. Letterariamente parlando, Ovidio, al pari di Marziale, ha ragione da vendere: scrivere non basta; scrivere bene, benissimo, neppure. L’opera non esiste se non è trasmessa; o meglio, si deve fare di tutto perché lasci una traccia riconoscibile nei contemporanei. Quel cancro, di cui parla Giovenale, ti costringe; prova pure ad allontanarti, a tentare il sentiero oscuro di un Persio. Quel laccio è una catena corta, molto. Opporsi alla distinzione significa immergersi nel volgus, confondersi, senza più un’identità riconoscibile, senza nome; senza ammalare il tuo cuore stanco fino alla morte.

Dunque: l’anonimato in letteratura è bestemmia impronunciabile, sogno che ha del miracoloso oppure semplice astuzia da marketing editoriale? Oggi più di ieri, oggi che, attraverso l’automatismo della “condivisione”, esibire in modo istantaneo ciò che sai, leggi, scrivi, pubblichi, chi frequenti e quando e dove, diventa comandamento irrefutabile per esistere (anche se unicamente nella virtualità di un’accensione di monitor), oggi più che mai risuona penetrante, vigoroso interroga, quell’unico verso, filosoficamente astratto e spiccio quanto si vuole: “quello che sai non vale niente se un altro non sa ciò che tu sai?”.

2. Nelle ottave iniziali dell’ultimo canto dell’Orlando Furioso Ariosto paragona il viaggio del suo poema, pericoloso come ogni sacrosanto viaggio letterario che si rispetti, ad una barca che riuscì ad approdare in porto il “legno intero”, scampato il rischio di smarrirsi o fare naufragio, giungendo “a fin di così lunga via”. La novità non sta nella metafora quanto in quel festoso rallegrarsi degli amici, sparsi nelle corti dei diversi stati italiani, degna cornice di una letteratura cortigianesca e aristocratica, scritta da pochi autori per pochi lettori; il sostegno di un’attesa così solidale e affettuosa, però, deriva da un progetto e un universo intellettuale condivisi, tali da incarnarsi nella leggerezza sfrenata e pensosa di molte pagine ariostesche, autentico documento umano di un’intera epoca. Qualche secolo dopo, fino a toccare il nostro tempo, l’habitat letterario si andrà progressivamente, in modo inesorabile, polverizzando: dalla nobile marginalità di pochi all’atomizzazione sonora e impalpabile di molti, dall’antagonismo profetico degli eletti al tritacarne digitalizzato e plurivoco degli indistinti.

3.1 Perché Olga e Stolz si dedicano con tanto accanimento alla “salvezza” di Oblomov? Per una fraterna amicizia lui, per un’acerba infatuazione, non esente dal capriccio della seduzione, lei. Non a caso il loro matrimonio “normale” sugella l’anormalità irresolvibile rappresentata dal dilemma Oblomov, resistente anche al potente virus della passione amorosa, che Olga ha in lui disperatamente inoculato. Tutto questo possiede la sua dose di verità; eppure qualcosa di più profondo causa il loro fatale operato, motore di tutto il romanzo. Certamente Oblomov va letto come opera di scanzonata denuncia sociale; c’è, poi, un Oblomov deliziosamente psicanalitico, quello, per intenderci, prediletto dalla lettura filmica di Nikita Michalkov: la vita letargica della tenuta di Oblomovka, una pervicace narcosi delle emozioni fa del divano un’isola autarchica. Eppure la condotta del mite Oblomov, che alterna stasi paludose e asfissianti a momenti di fervida smania, risoltesi in un ampio e retorico falso movimento, è il risultato di qualcos’altro. Quando Stolz lo trascina a feste e balli, cerca di coinvolgerlo nei suoi viaggi, la repulsione di Oblomov non è soltanto legata alla scipita prosopopea di queste situazioni; Oblomov non capisce e non individua la ragione e il senso profondo del desiderio e dell’azione che rappresentano l’elementare binomio causa-effetto alla base del meccanismo della vita. In alcune pagine di intensa suggestione emotiva Oblomov con disarmante candore offre a Stolz la sua analisi del mondo: desiderare e agire per soddisfare quel desiderio e quelli che seguiranno (che sia amore, famiglia, successo, carriera, denaro), quale senso ha tutto questo quando viene vanificato dalla precarietà irrimediabilmente transitoria della vita? Qual è la ragione ultima che ci dovrebbe motivare ad esistere partecipando all’inarrestabile giostra in cui siamo immersi? Domande grandi, ultime, da adolescenti, si direbbe. In verità palesano un limpido nichilismo, energico e dirompente, proprio di chi è andato fino sul fondale per raccogliere con coraggio l’essenza profonda della vita e trovandosi davanti a un muro bianco, a un vuoto di risposte, decide di non agire, di non partecipare e quindi esiliarsi; farsi indistinto, anonimo in ultima istanza. E il sigillo di questo volontario esonero viene apposto dalla scelta di “escludersi” in quel sobborgo di Pietroburgo, Vyborg, dove vivrà sino alla morte accanto alla vedova e massaia Agaf’ja. Questa identica percezione della vita, da notare, si ritrova nelle parole di Stolz a Olga, divenuta sua moglie, quando lei gli confessa un’insoddisfazione senza ragione, e lui le spiega di cosa si tratti: «la ricerca di un intelletto vivo, attivo varca talvolta i confini stessi dell’esistenza, non trova naturalmente risposta e così viene la tristezza (…) È la tristezza dell’anima che domanda alla vita il suo segreto» (IV,8 – trad. Ettore Lo Gatto). Per fronteggiare questa inquietudine, Stolz suggerisce a Olga l’unico antidoto possibile: vivere. Proprio quella cura ripetutamente somministrata ad Oblomov senza successo; di fronte a quel vuoto di risposte egli non ha trovato nella vita stessa l’unica risposta sufficiente a giustificarla. Oblomov appartiene a una singolare stirpe di visionari: non capisce il senso e la ragione che fonda il gioco della vita, non capisce perché vivere agendo, cumulando compulsivamente, come criceti in una ruota, desideri e obiettivi da raggiungere. Tutti lo fanno, così è da sempre; lui, però, decide di rimuovere il binario desiderio-azione piuttosto che viaggiare su un treno il cui solo incedere gli appare insensato. Declina l’amore passionale per Olga e termina i suoi giorni confortato dall’amore sommesso della vedova Agaf’ja; alla passione divorante preferisce la tranquillità dell’affetto. Due anime gemelle unite dalla stessa visione delle cose, Oblomov e Agaf’ja: nulla pretendere dalla vita, nulla aspettarsi da lei. Oblomov rinuncia a vivere per una sorta di nichilismo nitido e ingenuo insieme; a guardarla bene la sua scelta non ha nulla a che fare con il motivo ricorrente che sbriga Oblomov come un sognatore stonato. Convertirlo alla vita, per Olga e Stolz, strapparlo all’anonimato in quel sobborgo squallido di Vyborg è un atto squisitamente egoistico, difesa di sé e del proprio modello di vita che Oblomov con la sua mitezza apatica mette in discussione dalle fondamenta e scardina, terremotandolo. Ma normalizzare la sua “imperfezione” diventa un atto necessario quanto fallimentare, perché è il risultato della fatale incomunicabilità fra due mondi paralleli dentro il medesimo perimetro dell’esistenza: gli oblomoviani, i non-desideranti, remissivi e inattivi, gli anonimi, e i desideranti, gli attivi, quelli che consacrano la vita alla continua ricerca di una distinzione. Talvolta la condotta di un uomo accoglie dentro di sé, con gradazioni e ricorrenze diverse, sia l’una sia l’altra spinta.

3.2 Agaf’ja possiede il segreto della vita senza saperlo. Lo possiede in quei gomiti che tanto sfaccendano in cucina; perché manda avanti l’intera famiglia a testa bassa, nemmeno una lacrima; amando Vyborg, non nutrendo il desiderio di vedere o conoscere altro. È allegoria della pazienza muta di tante vite, un’allegoria materna; effigie della terra che soffre le carestie, le cattive stagioni, l’incuria degli uomini. Qualche decennio più tardi qualcosa di assai simile a lei tornerà in Praskov’ja Michajlovna, detta Pašen’ka. Ci troviamo alla fine del racconto Padre Sergio di Tolstoj. L’anziano eremita, un santone guaritore dalla reputazione illustre, travestito da mugico fugge per aver ceduto nottetempo alle profferte della figlia nevrotica di un mercante, che avrebbe dovuto “guarire”; la sua vita a precipizio, medita il suicidio. Poi, chissà perché, rievoca il ricordo di una bambina, la piccola Pašen’ka appunto, sua antica compagna di giochi; non la vede da trent’anni, sa che ha avuto un matrimonio infelice, un marito dilapidatore e manesco. Interpreta questa “illuminazione” come un messaggio divino: lei saprà dirgli cosa deve fare. Durante l’incontro le rivolge una domanda, carica di valore: “come vivi, come hai passato la tua vita?”. Pašen’ka, caduta in disgrazia, con le ripetizioni di musica mantiene la figlia, il genero nullafacente e i nipoti; in silenzio, con il coraggio della sopportazione, guidata dal sentimento naturale di dover resistere, senza lagnanze, senza recriminazioni (la medesima, umile fermezza di quel “Vivremo una lunga, lunga fila di giorni” che Sonja sussurra a Vojnickij nel finale di Zio Vanja). Padre Sergio, dopo essere stato, al secolo, l’iracondo principe Kasatskij, destinato a diventare aiutante di campo dello zar Nicola I, nella vita religiosa ha replicato la stessa ansia di vanagloria; con il cammino di perfezionamento spirituale, da monaco a santo, ha cercato di distinguersi. Finito il colloquio con Pašen’ka, padre Sergio capisce cosa gli resta da fare; annullarsi e scomparire. Diventare anonimo. Buttandosi alle spalle le sue due vite precedenti, umile vagabondo finirà in Siberia a curare l’orto di un ricco contadino. Qualche anno dopo la stesura di questo racconto Tolstoj, scrittore, un po’ guru anche, di chiarissima fama, tenterà con la fuga da Jàsnaja Poljàna il suo oblio in vita; dalla distinzione all’anonimato.

4.1. Il trentacinquenne Flaubert, pubblicato nell’aprile 1857 il suo romanzo d’esordio, Madame Bovary, tra febbraio e marzo aveva letto in francese un passo di Polibio; si fa cenno alla rivolta dei mercenari al servizio dei cartaginesi dopo la fine della prima guerra punica. In biblioteca saccheggia tutto lo scibile su Cartagine; tra maggio e luglio un centinaio di volumi compulsati voracemente, a novembre il suo nuovo romanzo, un romanzo storico, ha un titolo e il primo capitolo: si chiama Salambò.

Quando, a fine novembre del 1862, la tanto attesa seconda prova del nuovo autore vede la luce, l’approvazione del pubblico è entusiastica; nel primo mese quattromila copie e due edizioni. La critica, invece, è più tiepida. Fra gli altri si segnala la disapprovazione del temuto Sainte-Beuve, che pure apprezzò il suo esordio. In alcuni famosi “lunedì” disamina le pecche di quest’opera, la cui sostanza gli appare artificiale, fredda; rivela anche un qualche pregiudizio, in particolare quando accusa Flaubert d’essersi piegato ad un romanzo “archeologico” per l’umiliazione d’essere stato troppo letto al suo debutto. Nelle conclusioni il critico auspica che lo scrittore riprenda la strada interrotta, non si faccia attendere e offra presto un’opera “forte, potente, di osservazione, viva”. Torna utile leggerne una sequenza (trad. Piero Toffano): «Pochi anni di fecondità sono concessi agli uomini, e anche ai più autentici talenti: bisogna saperne usare per trovare un posto e ancorarsi nel cuore e nella memoria dei propri contemporanei: questa è ancora la via più sicura per arrivare alla posterità».

Distinguersi: lasciare un’impronta chiara, non delebile dal tempo; risuona vicina la sagacia dei versi di Ovidio, la mordacità di Marziale.

4.2 Nelle ultime ore di vita Emma Rouault, maritata Bovary, disperata va in cerca di qualcuno che possa sanare l’enorme debito, evitandole il pubblico discredito e le penose spiegazioni all’ignaro consorte. Vortichiamo assieme a lei mentre si umilia con il notaio, con l’ex-amante Rodolphe, per poi precipitare dal garzone del farmacista Homais, il giovane Justin, davanti al quale “mangia” imperterrita un pugno di arsenico. Suicidio assai poco romanzesco per chi, donchisciottescamente, aveva perseguito in vita l’immaginario di romanzi tarlati da amori vissuti fino all’ultimo spasimo, in compagnia di languori non riferibili. Prima, però, strapiomba con tutta la furia che ha in corpo dentro la soffitta di Binet, misantropo esattore delle tasse; qui, separato dal mondo, egli lavora al tornio vari oggetti: con una dedizione maniacale, tipica dell’artigiano devoto, crea meraviglie di carta, legno, avorio, manufatti di nessuna utilità, che gli altri neppure conoscono. Utili e necessari solamente per lui. Proiezione flaubertiana, forse, dell’artista che in solitudine monacale plasma le sue bellezze; modello di chiara ascendenza romantica.

Va immaginato quest’uomo; gioisce solitario, nel silenzio ritmato unicamente dal ronzare meccanico del tornio, s’appaga di una passione clandestina così intensa, così scontrosa e ignora quale tempesta infiammi la donna che s’accinge a bussare alla sua porta: il tormento di una vita segnata dal contatto con la pochezza di molta realtà. Binet crea senza bisogno di dare nome alle sue creature; le destina all’anonimato come anonimo è il corso della sua vita, non rivendica alcuna distinzione né per lui né per loro. Se non fosse per quel mestiere, esattore delle tasse, figurerebbe al meglio come maestro stoico dello sventurato Persio. Giusto un attimo prima che Emma lo interpelli, eccolo (III parte, cap. VII – trad. Maria Luisa Spaziani): «Nel chiaroscuro del laboratorio la polvere bionda sprizzava dal tornio come un getto di faville sotto i ferri di un cavallo al galoppo; le due ruote giravano, ronfavano; Binet sorrideva, a mento chino, a narici dilatate, e pareva insomma perduto in una di quelle felicità perfette che forse soltanto le imprese mediocri sanno dispensare, intrattenendo la mente con difficoltà facili e appagandola in una realizzazione oltre la quale non c’è nessun sogno». Lo sprigionarsi delle faville cadenza il galoppo della fantasia per quest’uomo oscuro, impenetrabile. La sua vita ordinaria dissimula una violenta bellezza; in quell’ostinato ripudio del mondo, del plauso come dell’inevitabile biasimo, c’è la stupefacente e terribile rilevanza di un animo padrone di sé, interamente sovrano. Piccole e tangibili sono le gioie di cui si contenta, costruite e consumate in segreto; il piacere prorompe dal suo mancato differimento nelle fattezze del sogno, crudelmente tirannico come l’imponenza dispettosa dei sogni prevede. È proprio l’amaro sentire di Giovenale: mentre lasci che marcisca il tuo cuore malato per colpa del cancro inguaribile della scrittura, tutti gli appetiti, le rimostranze, gli assilli, che reclama per alimentarsi, giorno dopo giorno ti dissanguano.

Avercela, la felicità perfetta di Binet.

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Essendo il dentro un fuori infinito #11

5

di Mariasole Ariot

Il signor guantini ha una sedia al posto del corpo, si muove piano, la lentezza delle lumache con il guscio. Le mani ricoperte di cotone bianco, i piedi fasciati, gli zoccoli color fumo : potrebbe incollarsi ovunque, negli ovunque dei territori, diventare territorio per gli altri : gli oggetti, le zampe, le cose scoperchiate dall’interno.
Porta a tavola un cuscino, il suo bicchiere anti colla, il cancellino per eliminare tutte le cose morte, com’è morto lui, da tempo, sotto la superficie terrestre. Il signor guantini mi chiama, ascolta Leonard Cohen da mattino a notte, urlano di addormentarsi, ma il letto è una trappola, potrebbe rimanerci attaccato, le ossa contro la tela bianca.
Qui, nei corridoi del cervello, si eliminano una ad una le ombre per poi riproporsi quando il silenzio si vota all’eterno, all’angolo inclinato del tempo.

“Vorrei una maschera per mascherare il volto, non posso baciare né toccare, posso solo distanziarmi dalle cose immobili, restare fermo, staccare un piede alla volta dalla membrana del pavimento : mi scollo dalla scena del mondo, mi preparo alle parole divise, mi divido”

Sluban-9

Il signor guantini danza lento fino alla sala da pranzo, appoggia una ad una le sue frattaglie, si piega a sinistra, leggermente inclinato per verificare l’inverificabile : che non ci sia colla sul piatto, che il cibo non faccia differenza. Ha suscitato vita nella vita, il punto di incontro tra due superfici : la sua, quella della terra, degli spazi aperti come ali di volatili impazziti. Ma qui dentro, tra la resa e la funzione di una scelta, tutto è già prestabilito. Pile di guanti bianchi nell’armadietto, la sua sopravvivenza. Non dicono niente, non dice niente se non il niente dell’esistenza, lo scarto che sappiamo percepito.

“Cos’è il percepito? Cosa fa metafora di questo rimasuglio di vita che non vive, di volti appesi alle pareti? Ho un foro nel torace da cui entrano serpenti, si dimenano fino a mordere la gola. Cos’è questo dolore che mi attacca alla vita, che mi distacca solo attraverso il bianco? Cos’è questa vita che dice parla e non parla, che dice vuoto e non svuota, che non dice nulla. Le mani bianche si allungano come animali per aggrapparsi ai piccoli cuccioli d’oggetti, le poso ferme, ho i miei orari, le mie torture fissate nella zona occipitale”.

Poi il pavimento si fa muto, ricorda il grado zero per richiamare all’ordine. Ma l’insopportabile è questo sentire, questo sentimento che urla : se il grado è più basso, la vera sofferenza è accorgersi che non c’è alcuno zero, che lo sprofondo è sprofondato, che le mescolanze non sono possibili. E il signor guantini non si mescola, resta confinato in un muro di cotone, avvolto nelle garze, identificato con l’Essere che l’ha disperato.
I dispersi siamo noi che cerchiamo un contatto, che quando lo cerchiamo siamo già nel tattile, nell’agalma denso delle cose.

Sluban10

Sotto terra, i piccoli bagliori del giorno attraggono per forza di gravità i piedi di G. La condanna di essere ancorati per forza grave alla crosta terrestre, come un mollusco allo scoglio, e non c’è ragione, non c’è alcuna via d’uscita o d’entrata : tutto spinge verso il basso, il suo corpo si muove lento, affaticato da millenni. A volte, nei ritagli di tempo del cervello, si apre una buca, cadono dentro piccoli astri, lumini in forma sonora – e lui li raccoglie con i suoi guanti bianchi, li posa uno a uno sulle teste degli altri, li rovescia nell’incomprensione.
Cos’è dato sapere della notte? Cosa la notte dice della notte?

Il signor guantini allunga e dilata gli spazi come i tempi, ogni movimento, ogni spasmo vagale potrebbe incollarlo agli oggetti come al tempo, come ai territori percorsi dall’immobilità. E dunque non c’è speranza, non c’è sperabile, c’è solo attesa. Che arrivi il giorno, che il giorno sia vestito da giorno, che sia protetto, che arrivi il pasto, che sia risucchiato con la cannuccia perché le labbra non facciano presa col bicchiere, che ci sia vuoto, una zona concava in cui attendersi.

Siamo tutti qui, lo guardiamo, gli scostiamo la sedia perché possa passare il passato, lo cibiamo. Leonard canta un canto d’amore, e il signor Guantini qui dentro è l’unico a saperlo : incollato alle note com’è incollato alla vita. Resta perché è impossibile non restare, perché andare scivola nel deleterio. L’immobilità che siamo, quando ci accorgiamo di essere vivi, sono i guanti di G. La metafora di un non poter partecipare all’esistere, di esistere solo per ancoraggio.

La stanza è piena di cimici, montano sulle teste, scavano piccoli forellini sulle tempie e lì si annidano. Il ronzio è questo nostro mondo che non smette di parlare anche quando tace, che smette quando la parola si fa oggetto e si scolla dalle pareti per entrare nei corpi e farsi corpo. Una ad una cadono,
una ad una restono, resistono il tremare, restituiscono ombra all’ombra.

Sluban11

“Dove tutto questo immobile è sollievo, dove crolla, dove dice, dove mastica, dove preme, dove angoscia, dove turba, dove grida, dove piange, dove arranca, dove strappa, dove preme, dove si attacca, dove accade, dove non accade, dove mangia, dove impreca, dove morde, dove dice, dove indietreggia, dove fa male, dove fa uno, dove è doppio, dove è stanza, dove è niente, dove ride, dove stride, dove nei mondi del dove. L’imperativo è assoluto : io guido le ripercussioni del passato attraverso i tubicini infilzati a forza. Resta una sanguisuga appoggiata sul ventre. Sotto ipnosi dice : poggiatene sedici : è qui che duole”.

Ma non duole, la disperazione è il grado zero che scende al di sotto, che ribadisce una verità non assoluta. Che lo zero non esiste. Che siamo sottozero, che non siamo.

 

  • fotografie di Klavdij Sluban

Chirù

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SVC_Murgia_Michela_Chiru.indddi Gianni Biondillo

Michela Murgia, Chirù, Einaudi, 2015, 191 pagine

Chirù è un giovane studente del conservatorio di Cagliari affamato della vita. Ma il talento, da solo, non basta per morderla. Chirù ha bisogno di un maestro – più che dentro fuori da scuola – che sappia dargli gli strumenti per decrittare il mondo. L’incontro casuale con Eleonora, più vecchia di lui di vent’anni, sembra il compiersi di un destino. Il rapporto fra i due è in teoria platonico e ideale. Ma l’erotismo continuamente represso fa scaturire, di pagina in pagina, piccole crudeltà reciproche. Discente e maestra sono i fattori matematici di una disequazione irrisolvibile: se lo scambio emotivo trovasse l’equilibrio il rapporto giungerebbe all’entropia. O all’insensatezza.

La scrittura di Michela Murgia è tutta in punta di penna, controllata al limite del vezzoso, la padronanza della lingua indubitabile, con dialoghi mai strabordanti o didascalici, anche quando appaiono certami di intelligenze.

Si crede di leggere un libro sulla generosità, si scopre di attraversare una storia di egoismi. Come, nei fatti, la maestra modelli il suo allievo non è mai descritto. Di Chirù, alla fine, non sappiamo nulla per davvero, non è lui il vero protagonista del romanzo, ma Eleonora, con un passato emotivo colmo di ferite e oggi attrice di successo assuefatta alla mondanità.

La borghesia alla fine si assomiglia tutta, e si sa riconoscere, che sia quella di Cagliari o di Stoccolma. Ciò permette a Michela Murgia di evitare derive esotico-localiste di una certa letteratura nazionale. E anche di mostrare il continuo gioco di finzioni di un mondo ridotto a teatrino frequentato da pupazzi, nel quale, all’apparenza, la protagonista troneggia. È un incontro di solitudini, quello raccontato in Chirù. E di piccole vendette meschine, prove della raggiunta, sconfortante, maturità.

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(pubblicato su Cooperazione numero 5 del 2 febbraio 2016)

Vita di Alice

7

di Francesca Fiorletta

Alice aveva quattro anni, e non sapeva ancora parlare.
I genitori erano molto preoccupati, perciò la portavano dal pediatra prima una volta al mese, poi una volta a settimana, e poi addirittura tutti i giorni.
La mamma andava a riprenderla da scuola alle quindici e trenta, puntuali, ogni pomeriggio; parcheggiava l’auto in doppia fila all’imbocco del vialetto, bussava con due nocche alla porta a vetri, e s’accertava con la maestra degli eventuali miglioramenti della figlia. Alice mangiava tutto, giocava con gli altri bambini, era attenta e ordinata, disegnava farfalle e le colorava d’azzurro, senza uscire dai bordi. Ma non parlava mai.

Erba e aria

1

di Fabio Franzin

Epùra, i ‘à paròe che ‘e sa
de erba stonfa i morti, co’
i vièn catàrne drento ‘l sòno;

‘e ghe sgorga dae man vèrte,
a fontanèa, opùra jozha dopo
jozha intant che i ne varda

fissi coi só òci de avorio;
i ne dise robe che romài no’
‘e ne interessa pì; i ‘é ripete,

sotvose, come se i fusse drio
confidarne un de chii secrèti
che i se ‘à portà co’ lori; mai

che sie un calcòssa che vèrde
‘na spièra, che cète ‘a spizha
de ‘na coriosità mai coeoràdha.

‘E paròe ‘e bate tel bianco
portal del sogno, fis.ciando
fra ‘e sbàre vèce dei cancèi

po’, cuzhoeón, come rùmoe,
i morti i se scava busi tel prà,
curidhòi che i córe sbièghi

drento ae cóine. Se sintìn
‘e palpebre pende fa scòrzhe
co’ se svejién: drento ‘l zhervèl

un bzz zheèsto; ‘e nostre man le
‘é ssute, ‘e paròe le ‘é qua e qua
‘e se scava ‘l só nido de fògo.

 

Eppure, hanno parole che sanno
d’erba bagnata, i morti, quando
nel sonno ci vengono a trovare;

gli escono dalle mani aperte,
a fiotti, oppure goccia dopo
goccia mentre ci guardano

fissi coi loro occhi d’avorio;
sussurrano cose che ormai non
ci interessano più; ce le ripetono,

sottovoce, come se stessero
confidandoci uno dei tanti segreti
che si sono portati nell’aldilà; raro

sia qualcosa che apra
un varco, che soddisfi
una mai sopita curiosità.

Le parole bussano al bianco
portale del sogno, sibilando
fra le sbarre arrugginite dei cancelli

poi, carponi, come talpe,
i morti scavano cunicoli nel prato,
corridoi che si snodano obliqui

dentro le colline. Sentiamo
le palpebre spesse come bucce
quando ci svegliamo: dentro la testa

un azzurro ronzio; le nostre mani
sono asciutte, le parole sono con noi e in noi
si scavano il loro nido di fuoco.

 

***

 

I segni verdi

Come chee care fojiéte de èdra
a scaeàr coeòne, curve de marmo
te un parco ribandonà; o i fii de erba
alta drio un stradhόn de campagna,
dopo ‘a piova: carézhe fresche che
sgrafa ‘l rosa, vèce vìrgoe tii polpàci
de bòce che core alègri incontro
al sό destìn; el mus.cio far viùdho
tee pière de ‘na casa coeònica; ‘a forma
invidàdha su intorno l’aria dei rizhi
dee vidhe, squasi sorèa de quea a elica
del d.n.a, te un microscopio a scansiόn;
el siénzhio sussurà te l’onbrìa tremante
de rame e frasche; ‘a lìnia che se incurva
dolzha, tee coìne, tii àrzeni speciàdhi
te l’aqua dei canài, l’inchino dee canèe.

Mì son cressù in fede de ‘ste scriture
qua, co‘ste paròe verde drento el cuòr;
cussì spere che ‘e mie sèpie copiarle,
che ‘sta poesia fae su un canp, un prà
fra l’ànema e ‘l ‘sfalto de chi le ‘scoltarà.

 

I segni verdi

Come quelle care foglioline d’edera
a scalare colonne, curve marmoree,
in un parco abbandonato; o fili d’erba
alta lungo un sentiero di campagna,
dopo il temporale: carezze fresche che
graffiano il rosa, antiche virgole nei polpacci
di bimbi che corrono allegri incontro
al proprio destino; il muschio farsi velluto
nelle pietre di una casa colonica; la forma
avvitata intorno all’aria dei viticci,
simile a quella elicoidale
del d.n.a., in un microscopio a scansione;
il silenzio sussurrato nell’ombra tremolante
di rami e fronde; la linea che si curva
dolce, nelle colline, negli argini riflessi
sull’acqua dei canali, l’inchino delle canne palustri.

Io sono cresciuto in fedeltà di queste scritture,
con queste parole verdi (e acerbe) dentro il cuore;
così spero che le mie sappiano copiarle,
che questa poesia componga un campo, un prato
fra l’animo e l’asfalto di chi le ascolterà.

 

***

 

L’é ‘ndo’ che ‘l Piave sparìsse

sot’a jèra dea grava, fra cassie
e saézhi. Sassi coeór dea sabia,
grisi, grossi come bigne de pan

sparìsse l’aqua longo ‘e falde,
el só mistero. Resta e cresse
piante basse, fojiéte che trema,
pólvera ciara e fina come talco

tel let ssut. L’é ‘ndo’ che l’aqua
se ‘sconde che ea ne fa ‘scoltàr
‘a só vose. Tel ‘tondo dei sassi
l’opra che fa dea pièra poema.

 

È dove il Piave scompare
sotto la ghiaia del greto, fra salici
e acacie. Sassi beige,
grigi, grossi come pagnotte

scompare l’acqua attraverso le falde,
il suo mistero. Restano e spuntano
bassi cespugli, foglioline tremolanti,
polvere chiara, impalpabile come talco

nel letto asciutto. È dove l’acqua
si cela che echeggia
la sua voce. Nella rotondità dei sassi
l’opera che fa della pietra poema.

*

Fabio Franzin, Erba e aria, Vydia editore, 2017 (introduzione di Fabio Pusterla)

La vita è un corpo

1

6665-3di Alessandro Garigliano

Non mi piace essere sentimentale, per cui mi è difficile recensire Una vita come tante, scritto da Hanya Yanagihara e tradotto da Luca Briasco (Sellerio 2016). Ma è stata una lettura, se non travolgente perché la storia non è incalzante, di certo appassionante, terribilmente appassionante. Sospendere la lettura, anche per poche ore, costava fatica e, mentre facevo altro, i personaggi e le trame del libro non mi abbandonavano mai, continuando a danzare nella mia immaginazione con una sensualità malinconica eppure conturbante.

Ifigenia – sequenza mancante

2

di Fabio Orecchini

32 (1)

Città dei porci. Una gita in campagna

1

cittadeiporci

di Davide Orecchio

[…] La foresta è curiosa. Sembra una rete. L’erba è un tappeto di antenne e gliele rivolge (al porco svenuto, sconfitto). Svenire non è come il sonno, quando non c’è coscienza. Il porco non appartiene più al mondo. È figlio del nero che per un po’ abita senza coscienza. Lo spettacolo cui assisteva dal viaggio adesso l’osserva. Le bestie nascoste o posate sui rami lo scrutano. Cespugli d’erica aspettano il risveglio di lui. Se prima era animata e simultanea, la foresta ora cresce in altezza, fa ombra, si ferma sul porco svenuto. Le foglie che gli cadono accanto sono agenti segreti. Ma il porco fatica a scalare le pareti della tomba che è svenire. Anzi non fa, non si sforza, non sogna. Assomiglia a un morto. Con nolontà il corpo di Felix è ospite della foresta. Una statua abbattuta. Prima aveva il muso nell’erba, ma rotolando è arrivato supino a liberare le frogie da cui cola un moccio leggero, e l’addome rotondo che pulsa – unico segno di vita finché con dettato (e coscienza, e lavoro) io vedo che le palpebre del porco gesticolano, e lì sotto le pupille devono smaniare, hanno ripreso a far parte del mondo.

Riapre gli occhi, massaggia la fronte dov’è stato l’urto. Cosa significa? Forse io sono morto, eppure si sente vivo col calpestare l’erba, la ghiaia, nel tastare il bernoccolo creato dalla pietra miliare, mentre scorge il volo di un bucero che si conclude sul comignolo di una fattoria a poche centinaia di metri. Un roseto ripara il casale. Qualcuno lo abita: da una canna sguscia del fumo. Qualcuno si riscalda o cucina. Per Felix è tempo di andare, di correre e saltare cespugli, inoltrarsi nella boscaglia, ferirsi con rovi e spine, suscitare schiamazzi nella natura nascosta, fughe e proteste ma nulla che lo dissuada dal raggiungere il posto (un tetto spiovente, un patio che scricchiola, un gallo di carta mosso dal vento, pareti di legno scrostato) e dal bussare – dove il suo battere non è solo una richiesta che aprano, ma che dicano pure: Tu esisti, ti vedo; una preghiera in forma di tonfo: che qualcuno viva là dentro e risponda –. E dopo: silenzio. Il silenzio che reagisce ai colpi coi quali un estraneo si annuncia. Il maiale trattiene il respiro in attesa che si rompa la quiete. E si rompe la quiete. Socchiudono la porta. Un’azione cauta. Si divarica uno spazio stretto tra il buio e la luce, un margine che si vede ma non identifica, largo quanto basta per la consegna di un messaggio dove il dentro con una voce maschile, prudente, chiede al fuori: Chi è?; e il fuori risponde: Mi sono perso. 

[…]

…e Felix ringrazia, prende fiato, si convince che l’incubo stia già finendo mentre l’uomo in silenzio lo ignora e gli volge le spalle, indaffarato nel riparare un’asse del patio, e per la prima volta il maiale si guarda attorno e solo ora vede il sentiero di ciottoli, tronchi caduti che ha percorso poco fa, e si rende conto di trovarsi in una fossa verde, profonda e remota, dove sono conficcati pini centenari ricoperti di muschio. C’è silenzio. Giusto il vento si consente di suonare i tralci. Gli alberi sono più alti di quanto in un pensiero si possa immaginare l’altezza di un albero. Tutto deborda, esagera in longevità spudorate. La vita trasuda in liquami e resine, infiorescenze, protuberanze, innesti che sembrano braccia.

E smontano dal patio e s’intromettono nel crepuscolo che alimenta le forme e le esulcera. La creatura più alta, che avanza, e la più bassa, che segue, infilzano il bosco e Felix già vede il capanno che sorge oltre la sagoma dell’uomo, come rilasciato dalla foresta in forma di scarto, di legno vile, basso per crescita interrotta o ambizione abortita di capanno, ma comunque alto per un porco straniero per giunta, abbandonato, stordito e che s’affida a uno sconosciuto che non gli parla più e il pagliaio cresce man mano che si avvicinano e un mescolo di foglie, rametti, humus crepita, s’ammolla sotto i loro passi.

L’uomo estrae un mazzo di chiavi e apre la grata e acconsente col gemito e non mostra quasi nulla, nessuna forma o apparenza nel casotto cieco ma appena un odore che non si comprende e il bifolco si volta e fa posto al verro perché passi e sbirci dentro, e indica un sacco di canapa nell’angolo, l’unico oggetto che s’intraveda: È pieno di ghiande e dietro c’è un pagliericcio – assicura –, entra pure, mangia e dormi, domattina ti vengo a svegliare; e Felix si sporge e riconosce il profilo di un sacco, ma dice Non si vede nulla, non avrebbe una torcia?, mi raffredderò?, non avrebbe una coperta per me?; mentre l’uomo lo spinge dentro, chiude la grata, lo rinserra. Poi il fischio del vento, lo sciabordio di uno stagno, un battito d’ali, il verso di un’allodola. La cornice prende vantaggio sulla debolezza del vuoto che colma, mentre il silenzio perde, il silenzio perde sempre e il porco lo ascolta turbato.

Nel capanno c’è buio e veste e spaventa il maiale che scuote il cardine della grata, ma da qui non si esce. Cosa farà? È legato da catene del buio che detto. Congettura che l’uomo l’abbia chiuso per proteggersi, anche l’uomo è solo nel bosco e indifeso e ha le sue ragioni, pensa Felix, e domani farà quanto ha promesso. Ma c’è il controcanto del panico (nel non visto, non saputo e temuto). Non sta ragionando. È immerso nel non visto, non saputo, temuto e pestifero. Sul terriccio la mente partorisce il controcanto del panico, che è il lutto di piccole larve per la vita perduta – con la libertà, con le memorie che affiorano – e strisciano ai suoi piedi sgravate dalla mente di porco che singhiozza nel non visto, non saputo, temuto, mai predetto e pestifero.

Un ambiente, la sua cella improvvisa, di spazi sottratti e senza forme ma colmo di afrore che inizia a schifarlo. Ma cos’è che puzza a questo modo?, si chiede e si alza, tasta la parete e comincia a cercare. Perché il desiderio di vivere vince sempre e il riscatto da dove s’avvia? → dal riconoscere, vedere, sapere. E cosa occorre per questo? → la luce. Il nitore per formare il nemico. Quanto basta di chiarezza per capire dove voltarsi e fuggire. E Felix certo è morbido, rammollito dall’inquietudine, ma ha deciso di farsi forza e io detto che ancora tasta e perlustra. Cerca un interruttore. Un vecchio congegno. Un meccanismo obsoleto che non obbedisca a comandi mentali, appropriato a un casolare di campagna, non diverso dall’impianto che Felix ha nel suo appartamento nella baia dei porci. Un pulsante per fare la luce.

Nel vapore che perde (i getti d’alito, la paura in forma di nebbia) saggia gli spigoli, accarezza capocchie di chiodo, spunzoni, sagome di oggetti che non comprende, buchi, schegge di legno, stoffe, pezze e s’incoraggia: devo trovare una luce. Mentre si sposta. Nel perimetro. Di parete in parete. Inciampa nel buio in un secchio che gli versa sulle zampe il liquido che conteneva. Così Felix scivola e cade. Sui pantaloni e la giubba si ritrova un’acqua unta, e che s’appiccica. La scopre anche sulle mani, che adesso sanno di sale. Le asciuga come può sulle cosce. Poi si rimette in piedi e ancora fruga. Questo non va bene, questo non so cosa sia, questo non accende nulla.

Frammette desideri alla perquisizione. Fuggire, respirare aria pura, finché trova un relais e si ferma, lo preme e torna la luce, fioca, e la prima cosa che vede è un bottale, e si avvicina al bottale che ha un odore aspro e gli pizzica il naso. Dev’essere formaldeide. O forse è acido tannico, mischiato a qualche solfuro alcalino. Sono sostanze che prudono, se le respiri. Galleggiano in quella vasca. Credo di sapere a che servono, ma non lo detto ora che Felix ha compiuto altri passi fino a scorgere un tavolo, anche appoggiato alla parete, sul cui ripiano traboccano lame, ombre di coltelli. La collezione di uno scannatoio. Cui ora Felix appoggia l’addome. E s’accerta di vedere lame. Affilate e di ogni forma, e per ogni uso. Cosa fa nella vita l’uomo che mi ha chiuso qui dentro?, si chiede e ha paura quando trova una roncola, due trincetti, uno scortichino, uno scarnitoio, due coltelli a serramanico e uno a scrocco, temperini, uncini, daghe, lo squartatoio, tre coltelli a lama liscia e, seppure non conosca nomi e usi di questi oggetti taglienti, si allarma.

Mentre il dettato ipotizza che siano strumenti da concia, assieme alla vasca piena d’acido che s’è odorata prima → per uccidere animali, scuoiarli, ricavarne pellame dopo averne lavato e rinverdito la cotenna, e averla messa in calce e depilata, scarnata e macerata, e poi… ← ragiona il dettato sulla possibilità che il bifolco sia uno sbudellatore, un carnivoro e mercante di pelli che qui ha il suo laboratorio, ma allora Felix non ha nulla da temere, nemmeno il bifolco oserebbe scuoiare un maiale di città ← ragiona il dettato → l’uomo l’ha chiuso dentro, però, e Felix non vede una sola finestra e si allontana dal tavolo tre passi indietro fino a urtare un secondo banco, ma questo di forma diversa, tonda e larga, alto fino al petto di Felix, collocato nel centro del ripostiglio di crimini dov’è un’orchestra di imbuti e reti di budello, mucchi di carne tritata raccolti in recipienti di vetro, rotoli di spago, sacchi di sale, vasi per la salamoia.

Natura morta di oggetti biechi sparsi nella polvere del legno corroso dai tarli, poco illuminati ma quanto basta per averne paura, forme non solo di sé ma della vita che ogni giorno li adopera. Di fronte alla carne macinata, ossidata e inerte Felix si convince che non c’è via di scampo e si lamenta: Povero me, sono prigioniero di un bruto; intanto che alza gli occhi e vede una testa incagliata nell’alto del muro. È grossa, di animale. La tiene un collo possente, come un chiodo nel muro. Come se la bestia avesse volato distrattamente e si fosse incastrata nel muro. E se ne vedono solo le fauci, le labbra tumefatte che sporgono, gli occhi spenti nella paralisi, le narici fermate, il pelo avvizzito nel corso del tempo nel muro.

Qui. Felix. Identifica. Lui si costerna e non vuole crederci. Rifiuta di obbedire a quello che vede. Ma solo per poco. Già singhiozza, perché gli sembra che il cranio impagliato dica una parentela, d’essere stato fratello, un tempo, forse selvatico, fratello selvaggio e solo ora appeso. Il grugno, le zanne, le narici. C’è somiglianza. Credo si tratti di un cinghiale, anche se da qui non vedo bene, ma lo detto, ma non posso distrarmi ← un maiale si butta per terra: sono finito nella tana di un assassino, che domani verrà a triturarmi, domani io muoio, dopodomani mi mangia. Il verso gli ribocca dalla gola ed erompe. È un contenuto, un dolore, e poi canale per lacrime, catarro, il verso come una conduttura fognaria che non marcia verso il basso ma erutta dal basso ed erutta se stesso, una sostanza di spirito, carne, tessuto, memoria, rimpianto, speranza, tempo, cicatrici, fantasmi, idee, amore, dipendenza, cartilagine, midollo, sangue, acqua, adipe e succo che si chiama Felix.

Il lamento: capita di spargerne. Gli uni crepano, gli altri si lamentano. È così che va il mondo. A chi sopravvive tocca il contrappasso di portare i defunti. Ma qui c’è uno che sta per morire sotto un cinghiale appeso. L’androgino della sofferenza è condannato, il porco di città bassa. Era alto un metro e sessanta. Le braccia grasse. Le gambe pesanti. Le zampe rosa. Gli occhi di uomo. Le frogie timide, che si trattengono. I lobi mosci del candore. Oggi è il suo ultimo giorno di vita? Il lamento: prima il suono di un corno, convinto di durare e solcare boschi e montagne, poi un pigolio che srotola il tappeto delle deplorazioni. Si volta. Apre gli occhi, asciuga le lacrime. Svuota le narici come scolando via i suoi tormenti, e respira. Inala l’ossigeno, ossia la vita. Poi di nuovo un fiotto di lacrime, una crisi. Poi di nuovo calma, anzi sfinimento. Solo sfinimento. Le forze per disperarsi sono esaurite. Al verro non resta che lo sfinimento.

Disarmato, nella schiena, nelle scapole, guarda; supino, guarda all’insù. L’officina di crudeltà propone piccoli gusci di una carne lucida e rosea, ne colano a decine, appesi a ganci, legati con lo spago, di forme diverse, lunghi o come fagotti. Gli ricordano certi sacchi di cadavere normoarto nelle cerimonie, le prede dei ragni immobili e avvolte. Penzolano stalattiti di cibo osceno. Il soffitto ne è trapuntato. Sono loro che emanano l’odore brusco, il primo odore che Felix aveva avvertito.

Questo è il capanno. Del bifolco. È un fatto del mondo. Sempre meno perspicuo. Il mondo ha la capacità di dettarsi e ← mi → dice carne, grasso, muscoli di maiale tritati e insaccati. Ma com’è possibile? I normoarto non mangiano porco. I normoarto convivono. Col porco. Il bifolco dev’essere un bruto violento, come pensa Felix, per spingersi all’esercizio della scamosceria, della maialatura e dell’insaccatura, lui sta in relazione di pasto, l’esito sono salsicce pendenti. Anche senza sapere, si può intuire. Già basta annusare gli imbudellati e, sommandoli a secchi e coltelli, e al cinghiale incagliato nel muro, allarmarsi.

Ed ecco che Felix corre. Verso la grata. Gli si scaglia contro. Percuote il legno, poi lo graffia. Chiama il bifolco, lo implora. Ma non c’è risposta e, ora che torna a correre, Felix inciampa in tutto (le vasche, le botti, i tavoli) e al suo passaggio i coltelli cadono e rimbalzano sull’assito e sferragliano gli uni sugli altri. Urta una parete e la testa del cinghiale trema e qualche salame appeso inizia a oscillare. Anche la luce danza, intermittente. La creatura che si crede in punto di morte trasmette vita a cadaveri e cose, a bestie trasformate in sacchetti, poltiglia, trofei. E tutto si muove, rinasce o nasce. La banda è agitata da Felix, dal ritmo dell’unico vivo. Voglio vivere! → e c’è una stufa di ghisa ← non partecipa al chiasso, sta ferma in uno spigolo buio. È grande. Sembra spenta, tutt’al più ospita braci nel suo ceneraio. Dalla cima parte una canna fumaria di alluminio che sale fino al soffitto e lo buca. Felix la guarda e capisce. Afferra un coltello a serramanico e se l’infila nella tasca capiente, il fustagno. Accosta alla stufa uno sgabello dal quale s’aggrappa alla canna, e sale sul colmo della stufa di ghisa.

Ha destrezza, tristezza, senza via di scampo, meno smemorato di ieri, per questo confuso, con un bernoccolo creato dalla pietra miliare, il bernoccolo irradia ricordi piccoli non sincronizzati con la coscienza, Felix con destrezza, tristezza non inciampa, non perde equilibrio, non oscilla. S’arrampica. Per salire sfrutta giunzioni (la canna è una somma di anelli) ricavando l’appiglio dai bordi, millimetrici, per le unghie. Annaspa, ma con fiducia (e tristezza, e destrezza). Si dà coraggio grugnendo, che poi è anche il verso del suo sforzarsi. Piega le gambe e le inarca per spingersi in su. Abbraccia la canna per tirarsi da sotto. L’alluminio è appiccicoso di polvere e fuliggine attecchita nel calore, e questo disarma lo scivolo e aiuta la presa.

Il percorso sono due metri. Qui (ora) già sfiora il tetto. Ma viene il difficile. Deve staccare l’ultimo anello senza cadere e facendo in modo che l’intera tubatura non sfarini al suolo. Cava il coltello dalla tasca, lo apre, comincia a incidere tagli nell’imbocco del soffitto, lungo l’orma circolare dell’incastro. La segatura gli piove negli occhi. La canna scricchiola e si muove, non più fissata dentro al cerchio del fumaiolo. Zampillano schegge di stucco. Felix, preso alla canna, prosegue nel taglio. Poi, quando ritiene d’essere pronto, chiude il coltello, lo rimette in tasca e inizia a scuotere l’ultimo cinto, e quello cede e si stacca e cade giù con rumore, e a Felix appare attraverso il foro uno spicchio di cielo stellato.

Si aggrappa subito al lato esterno del tetto, così da non cadere con la canna fumaria ormai sganciata dalle commessure. Ora è lui che tiene dritto il tubo col bacino e le gambe, mentre mani e braccia fanno presa su quel che resta dell’apertura che riempiva il comignolo. Saluta il capanno, l’esercito sadico, gli avanzi di vittime, il cibo bestiale, si issa su per il foro, prende slancio col mulinello delle zampe che s’agitano nel vuoto mentre la canna già s’affloscia contro la parete, e Felix sale per il comignolo. Il varco non lo ostacola, è abbastanza largo perché il suo corpo ci passi. Il fumaiolo invece è di latta e stagno e viene via facilmente, basta tirare; e Felix tira, smuove e smonta, e poi lascia che il pezzo rotoli sotto nell’erba senza fare rumore.

Adesso è sul tetto, un meticcio orizzontale di legno e lamiera. Camminarci sopra non è difficile, e ci cammina. L’unico pensiero è non fare chiasso. Nella casa del bifolco è ancora accesa la luce, quindi bisogna che Felix si sbrighi se non vuole che quello s’accorga che fugge. Pattina verso la fine del tetto, dov’è il riparo fornito da un albero di balsa. Afferra il ramo più vicino e si cala, posando i talloni sul ramo di sotto. Poi si piega, china e ottiene che il ramo sul quale poggiava diventi quello al quale adesso s’aggrappa. E procede così anche col tralcio inferiore, come se scendesse le scale e tocca terra ed è tutto vero e riesce a fuggire e galoppa e le gambe vanno veloci e lo convincono che è tutto vero, ma è verso il buio che scappa (ed è nel buio che fila).

Cerca scampo in una foresta. Forse si muove da un’imboscata all’altra, dal pericolo vecchio al nuovo come le palline di ferro tra due calamite. Non vede il terreno sul quale si scaglia. Lo sente nelle pigne di mugo che gli feriscono i piedi. Si fionda nell’invisibile dei biancospini. La natura non è più ben disposta. Non si fa guardare, ma lo guarda e lo nomina: il fuggitivo. Le felci gli fanno sgambetti. Felix prova a calpestare la ramaglia il meno possibile, così scivola verso le radici di un cembro. Affonda il grugno nel muschio, si sporca di terra, avverte che una creatura, forse un aspide, gli striscia accanto ed eccolo di nuovo in piedi, maiale da corsa, gli cola sangue dal naso, ha le gambe escoriate, rotola nella foresta ruderale e la famiglia degli olmi e poi quella degli aceri non gli fanno spazio se non per il solito sentiero di trappole, si precipita in quello che non vede, l’abetaia, la fustaia, il percorso che sale, la curva, la discesa repentina, nell’arborescenza s’arrampicano bradipi, su di lui e attorno a lui: anche nottole, allocchi, barbastelli, ogni forma di vita un verso, un rumore, un movimento e Felix si scapicolla per prati, al fianco di ruscelli, si pensa, si scuote, ruzzola, capitombola, trasforma linee rette in capriole, non sa dove stia andando, s’è davvero allontanato dal capanno?, evita cose larghe e animate, scansa ombre, fugge dal nero nel nero, la piccola giungla è una sola macchia, una ferita, una violenza inferta al maiale che ci corre dentro come se fosse sua madre, il labirinto che lo mette al mondo, lo accoglie, non lo lascia andare via, radure, rocce, sassi, ghiaia, terriccio, fango, schegge, rami secchi, foglie secche, bacche divampate e in cancrena, petali, polvere, ortiche, il moto di Felix, Felix che si sente spiato, Felix che si sente inseguito, pietre, fossili, cardi, chiocciole, tane, grotte, tronchi crollati e cavi, pozze, pini severi.

Felix è sopra lo sterco degli esseri che abitano il bosco e nel suo odore, carogne, polline, frustrazione, trepidazione, non solo corsa ma balzi, guizzi, sussulti tra bronchi e grovigli di Felix che nonostante gli sforzi s’incunea, non si libera, entra più a fondo nella giungla che gli dà il benvenuto, ma lui fa cenno di no, ma non fugge via affatto ma circola, ruota attorno all’asse della propria illusione di fuga, si strema, la foresta ha ragione, cascano foglie dall’alto, liquami del bosco e poi ancora, dal basso, vengono spine, terra secca, ancora schegge, erba decomposta, erba resistente, cortecce, il marcio dei carrubi, salive, borre di allocco; gli insetti esplodono sotto le sue zampe nude, creature che non vede e maciulla ed è vero, la foresta ha ragione: non ce la fa più, ansima, rallenta, arriva in una chiarita, scorge un cespuglio, lo raggiunge, ci si nasconde, si ferma, si piega sulle ginocchia e crolla. Esausto. Al riparo di un albero sghembo.

[…]

È un sonno d’inerzia. Non ha colori. Ha coscienza del corpo, della terra, della foresta. Ma residua in paralisi. La paralisi ← elegge. Si trasforma in un mare dove affiorano sugheri, chele di granchio; e verso il ceruleo dell’alba (quando il cielo si specchia in un fiume, e ne è rispecchiato), la luce distoglie il maiale dal sonno e alcuni grugniti lo svegliano. Versi distanti, gutturali, aggressivi. Il maiale di città sa borbottare così, ma con maggiore ironia, con malizia. Felix ancora una volta apre gli occhi e si alza. Non vede il capanno né la fattoria del bifolco. Vede un prato tenue, il cespuglio che l’ha protetto, il grande albero sghembo. Non distante scorre il ruscello di… ← dove si trova?, chiedo prima di dettare, e poi mi convinco che potrebbe essere  → …un bosco ripariale lungo l’ansa di un fiume. Sabbia, ghiaia e depositi di argilla denunciano una valle fluviale.

Attirato dai grugniti, lascia il cespuglio. Percorre un sentiero contornato da pioppi bianchi, cerri, salici, roverelle, qualche albero di Giuda dalle fioriture violacee. Arriva a un corso d’acqua pigro ma rumoroso per via di salti e cascate. S’inoltra in un canneto mentre intorno sguazzano morette, alzani, fischioni. Quando esce dalle canne, e una garzetta lo sfiora, vede uno stabbio a cielo aperto nel recinto degli alberi, dove i maiali pascolano. Sono maiali-maiali. Vanno a quattro zampe. Litigano. S’ammucchiano sul trogolo, divorano ghiande e mangime, si azzuffano e strusciano i corpi, ergono i musi per respirare, poi li rituffano nella melma doppia di corpi e ancora di melma. Non hanno spazio, libertà, pulizia. Sono proprio maiali. Felix li vede immersi nel brago. Prigionieri. Intuisce qualcosa di sé nelle bestie. S’avvicina strisciando sull’erba. Non possono essere, maiali, io sono un maiale, loro non esistono più, pensa, ma accostandosi sono troppe le somiglianze che trova → le zampe, il verso, il grifo, le zanne, il carattere, l’aggressività, la cattività, l’ingordigia, la sporcizia, la calca, l’ostinazione, la remissività ← sembrano ritratti viventi degli antenati, altro che estinti: sono il presente. Sono vivaci nell’energia, nella foia, nel disgusto e nella schiavitù. Sono porci.

Forse si è perso in un’altra epoca. Forse questa foresta è un evo che non gli appartiene. Forse campagna e città non sono luoghi distanti, o almeno non solo quello, ma epoche diverse, il prima e il dopo separati da una strada dove non conviene perdersi. Mentre trova un mazzo di annurche sparpagliate al suo fianco e ricorda che non mangia da un giorno e addenta una mela e ne succhia la polpa acida e bianca, quelli si sono accorti di lui e s’agitano, scalpitano, rugliano. Quattro, dieci, venti: vengono tutti nella sua direzione e lo sfidano. Premono sul recinto coi musi e, adesso che li vede bene, Felix ricorda la notte appena trascorsa, il cinghiale sul muro, i coltelli, la carne, la fuga e capisce che questi sono gli animali che il bifolco uccide e macella e Il vostro padrone è un assassino – dice –, credo di averlo incontrato, se è lo stesso dal quale, questa notte, da un capanno pieno di morte, sono scappato, se era il suo, ma è sicuro che era il suo, e che voi gli appartenete, questa natura è un deserto, ho incontrato solo quell’uomo e voi, e adesso riprendo a scappare, ma non sapevo che voi esistevate ancora, dopo il Grande Salto Biologico, quando la mia specie si è evoluta da voi, e per questo cammina, parla meglio e lavora, o almeno credo che sia andata così, non ne so molto, fino a ieri non avevo ricordi neppure, vivevo i miei compiti nella città, senza riflettere, senza parlare dei compiti, della città, del lavoro, con nessuno, voi mi assomigliate, siete più grassi e camminate a quattro zampe, e il vostro muso è meno delicato e le setole e le unghie sono più spesse e affilate, ma siete, lo ammetto, e cosa significa?, di famiglia, e adesso ho paura; → che torni il bifolco e Felix corre via dai maiali-maiali, precipita tra tifa e cannuccia quando il sole fatica ad apparire in mezzo ai rami dei salici e fra le chiome della lenticchia d’acqua, un airone s’alza per il volo, un biacco striscia verso la siepe e Felix fuggendo si cala in un fosso lungo la sponda del fiume dove l’acqua è viva, agitata da creature alliscia i tronchi e le pietre, offre pesce e frescura alle anatre, sulla sua pellicola navigano vermi, tartarughe e rane, sull’ansa opposta c’è un bosco di noci e castagni e Felix ancora corre al fianco dell’acqua ed entra in un laureto, e poi nell’ombra di sofore, e su un letto di bacche perdute dalle carambole e correndo singhiozza.

(A dire questo sono io sono buoni tutti, ma spiegare perché io sono quello che sono è più complicato. La storia non è più la storia ma una sua versione, una storia che qualcuno racconta. Dov’è finita la storia vera, quella che accade, si testimonia e tramanda? Qual è la storia?) e affiora la polpa, sporgono le ossa, la consistenza dell’essere come fil di ferro; una stampella rimediata in tintoria. Moneta svalutata. Il nero delle carote marce. Il carbone delle banane putride. La crosta castagno del sangue avariato. Il livido che non passa, nero. L’unghia che cresce incarnita. L’insetto decomposto. Il guscio vuoto, poco più di una buccia. Frantumarsi in cocce. Chiedersi perché e vorrei solo tornare, non so dove, se al viaggio o alla città, perché non ho più risposte e sono stanco, e io cosa sono?

Parte 1: l’appartamento, la città
Parte 3: Il supermercato

(Foto di copertina: Pig slavesDoctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)