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L’anima delle cose: dalla spada alla bacchetta

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di Dario De Pasquale

Dal Furukotofumi agli shōnen, passando attraverso la classe militare dei samurai e ai film di Kurosawa, la spada ha sempre avuto un ruolo di primo piano nella storia culturale giapponese. Come accade anche nelle culture europee e in quelle del Vicino Oriente, ad un certo punto della sua storia la spada giunge ad un duplice punto di svolta: assurge a simbolo di potere e diventa un’entità dotata di anima. Il momento in cui in Giappone inizia questa “ontogenesi simbolica” è descritto nel Kojiki, opera scritta nei primi anni dell’VIII sec d.C e vede coinvolto Susano-ō, il dio della tempesta della religione shintoista. Esiliato sulla terra per non aver adempiuto al volere del padre, Susano-ō affronta Ya-mata-orochi, un drago dalle otto teste in procinto di divorare la figlia superstite di una coppia di anziani. Il dio, dopo aver ubriacato il mostro, riesce a decapitarlo integralmente. Infierendo sul cadavere ecco che:

mentre tagliava la coda di mezzo del mostro, la spada di Susano-ō si spezzò in due. Incuriosito, Susano-ō usò
la punta della sua spada per squarciare quella grande coda e all’interno di essa trovò la più bella spada che
avesse mai visto: la spada detta Ame-no-mura-kumo che mandò in cielo in dono a sua sorella Amaterasu.

La dea del sole Amaterasu divenne così padrona della Spada del Paradiso. In seguito, la dea affidò l’arma, insieme alla gemma e allo specchio in suo possesso , al nipote Ninigi che disceso sulla terra fondò la dinastia degli imperatori. Tutt’oggi i tre sacri tesori vengono donati all’imperatore durante la cerimonia d’insediamento e solo a lui, e a pochissimi sacerdoti, è concessa la possibilità di mirarli.
È curioso notare come sia la divinità, nella fattispecie la divinità femminile, a concedere il potere all’imperatore poiché egli stesso, essendo discendente del nipote di Amaterasu, è un essere in parte divino.

È questo uno dei tanti punti di contatto tra la cultura nipponica e quella europea: l’essere ultraterreno che dona la spada all’eletto. Pensiamo a Durendal, che fu consegnata a Carlo Magno da un messo celeste; a Szczerbiec, la spada del re polacco che, esattamente come Durendal, fu affidata al futuro re da un angelo; o, per restare in ambito asiatico, le leggende vietnamite raccontano della spada magica che Lê Lîi ricevette dagli dei con l’obiettivo gli scacciare gli invasori. L’altro elemento sul quale reputo sia opportuno soffermarsi è relativo alla personalità della katana.
In Giappone la testimonianza che dimostra come la spada venisse intesa come un essere vivente ce la concede la cerimonia della “firma della spada”. Nei mesi di Settembre e di Maggio le lame venivano forgiate presso i templi shintoisti. Qui, i fabbri indossavano abiti sacerdotali bianchi e, nei giorni antecedenti la forgiatura, dovevano aver purificato lo spirito e il corpo pregando presso un santuario e chiedendo la tutela delle divinità. Avendo seguito questi precetti, gli artigiani erano in grado di donare alla spada un’anima attraverso delle invocazioni. Capiamo bene come il fabbro divenga a tutti gli effetti non solo un sacerdote, ma quasi un dio terreno poiché plasma il corpo di un oggetto e concede ad esso un’anima attraverso il verbo, generando un essere vivente a tutti gli effetti. Nel momento della forgiatura, la fucina diveniva un luogo di culto in cui appendere i shimenawa e il cui ingresso veniva vietato agli estranei e alle donne. L’arte della produzione della spada era ed è tutt’oggi una vera e propria cerimonia religiosa e ‹‹il ritmo del martellare è scansione liturgica››

Alimentato anche da questo rituale, il topos della spada dotata di carattere è sfociato sul piano folklorico e leggendario. In Giappone è nota la leggenda di Muramasa, un fabbro vissuto nel periodo Sengoku (1467-1603). Durante la forgiatura di una spada, nel momento di temprare la lama, Muramasa le augurò una grande potenza distruttrice. La preghiera fu accolta dalle divinità le quali liberarono uno spirito di estrema ferocia che s’impadronì dell’arma. Da quel momento essa divenne avida di sangue caldo, richiedeva di esserne imbevuta entro un tempo limite che se superato costringeva il suo possessore al suicidio. Non solo questa, ma tutte le spade forgiate da Muramasa furono in seguito giudicate maledette in quanto artefici della morte di Kiyoyasu e Hirotada, rispettivamente nonno e padre di Tokugawa Ieyasu, shogun dal 1603 al 1605. Oltre a ciò lo stesso Ieyasu fu ferito da una Muramasa e quando suo figlio Nobuyasu fece seppuku, l’arma che pose fine alla sua vita era, ancora una volta, una Muramasa. Le storie relative a queste lame si incrociano con quelle narranti le armi prodotte da colui che viene considerato il più grande fabbro di sempre: Masamune. Una leggenda narra che, a differenza di Muramasa, Masamune aveva invocato gli dei affinché la sua arma divenisse una gran protettrice. I due artigiani s’incontrarono un giorno per stabilire chi fosse il fabbro migliore. Portarono con sé le loro creazioni e le conficcarono nel letto di un fiume. Subito notarono come alcune foglie che vi galleggiavano furono attratte dalla spada di Muramasa e da questa tagliate; al contrario, altre foglie passarono incolumi attorno alla lama di Masamune il quale così si rivolse al rivale: “you behold the superiority of my sword in that it does no wanton damage”.
Questo retaggio culturale, che vede l’importanza della spada sia come arma sia come oggetto espositivo e pertanto esteticamente bello, è molto forte e sopravvive nel Giappone odierno.
Faccio riferimento non solo alla spada come oggetto sacro e consueto ma, in maniera specifica, all’idea che la spada disponga di un’anima. È una concezione che si è radicata nella cultura giapponese tant’è che negli shōnen e negli anime ne troviamo ampio riferimento. Prendo come esempio due casi che ritengo rilevanti per motivi diversi: il primo è il bellissimo cortometraggio diretto da Osamu Tezuka intitolato Muramase, del 1987. Questa breve opera riprende la leggenda della spada maledetta di Muramase: un uomo trova in un bosco un fantoccio con una spada conficcata nel petto. Recupera l’arma ma una volta divenutone proprietario, intraprende una serie di uccisioni che la spada esige. Di fronte a un bambino però, con estrema fatica, l’uomo trattiene lo spirito dell’arma la quale, bramosa di sangue, pretende ugualmente il suo tributo di morte costringendo l’uomo al suicidio.
Il secondo caso riguarda il manga più venduto della storia, estremamente popolare anche in Occidente. In un capitolo di questa vastissima opera il pirata spadaccino Zoro decide di acquistare una katana che il venditore si rifiuta di cedergli in quanto maledetta. Noncurante dell’avvertimento, il pirata sfida la maledizione lanciando la katana in aria e ponendo il braccio parallelo al terreno,
lungo la traiettoria della lama, ma questa, miracolosamente, non lo ferisce. Lo spadaccino ha così raggiunto il suo intento: dimostrare come la sua ambizione sia superiore alla volontà della spada e di meritarne il possesso.) Ritengo che fare riferimento ad opere così popolari sia necessario oltreché importante. Il tema della spada in possesso di un’anima, antico più di milletrecento anni , viene riproposto all’interno di un genere “giovanissimo” e popolare come il manga. È la dimostrazione di come fatti, situazioni, personaggi possono diventare topoi, entrare nell’essenza culturale dell’uomo e partendo dal IV sec a.C sopravvivere, innovandosi e duplicandosi, sino al XXI secolo all’interno di opere diversissime tra loro. Da parte dell’autore potrebbe anche non esserci la consapevolezza del riutilizzo di una tematica così antica, tuttavia proprio questa ignoranza ci fa capire quanto radicate siano certe storie, come se queste fossero creature vere e proprie, indipendenti dall’uomo che funge solo da mediatore. Ora, per quanto possa sembrare inappropriato, vorrei fare riferimento ad Harry Potter. Anche nella celebre saga della Rowling viene messo con grande evidenza l’esistenza di oggetti possessori di anima. Pensiamo agli Horcrux, che contengono frammenti dell’anima del loro creatore o, caso ancora più specifico e pertinente, alle bacchette. Le bacchette, come le katane per i samurai , sono armi identitarie, indicano la natura sociale, o in questo caso magica, del possessore. Come nelle leggende che descrivono il carattere delle nippon-tô, anche in Harry Potter vi sono numerosi passi in cui si fa riferimento all’anima della verga. Nel primo libro, il venditore magico Olivander si rivolge ad Harry affermando: ‹‹ […] ma in realtà, è la bacchetta a scegliere il mago, naturalmente›› .
La bacchetta ha qui un’identità, è un oggetto che vive poiché dimostra una sua volontà, nello specifico quello di scegliere il proprio possessore. Nel settimo libro il protagonista viene attaccato da Voldemort e proprio quando sta per essere ucciso ecco che ‹‹la sua bacchetta agì di propria iniziativa. [Harry Potter] Si sentì tirare la mano come da un enorme magnete, intravide uno schizzo di fuoco dorato attraverso le palpebre socchiuse, udì un crac e un grido di rabbia›› . Anche in questo caso si ha la dimostrazione di come la bacchetta abbia un carattere, agisca di propria iniziativa e il motivo per il quale ciò accade lo spiega Albus Silente alla fine del libro: ‹‹la tua bacchetta riconobbe un uomo che era insieme fratello e nemico mortale, e rigurgitò parte della sua stessa magia contro di lui›› .
Sempre in Harry Potter, ma qui non approfondiremo la questione, la spada di Grifondoro appare solo a coloro che ne sono degni; anche in questo caso un oggetto, una spada, dimostra di avere una volontà. La leggenda della spada di Muramase, o quelle ancora più antiche presenti nel Wu Yüeh ch’un ch’iu, sono intimamente legate a questi libri tramite tematiche che posseggono una longevità che fanno parte del nostro retaggio culturale, una longevità difficile da spiegare e di cui non sembriamo renderci conto appieno. Se volessimo usare un’espressione scientifica potremmo dire che certi temi sono dei “geni letterari” costituenti unità ereditarie che si trasmettono attraverso le storie nel corso dei secoli e che sopravvivono sino ai giorni nostri. L’esempio sopra riportato è la testimonianza di come questa sopravvivenza non si protrae solo attraverso lo studio delle culture passate ma si rinnovi, anche involontariamente, tramite opere del presente, innovandosi. La “mitogenìa” dell’arma detentrice dell’anima, antica da secoli, e proprio per questo assorbita dalla coscienza dell’uomo, viene mantenuta viva nella cultura contemporanea anche mediante una trasmigrazione oggettuale del topos: dalla spada alla bacchetta.

1 http://bifrost.it/Sintesi/Kojiki.html
2 Credo sia opportuno, per spirito di completezza, citare anche il brano narrante la storia di questi due oggetti. A seguito delle azioni riprovevoli intraprese da Susano-ō ai suoi danni, la dea del sole Amaterasu si nascose all’interno di una grotta facendo sprofondare il mondo nell’oscurità. Nel tentativo di scovarla ‹‹il dio fabbro Ama-tsu-mara forgiò un enorme specchio metallico, che fu disposto dinanzi all’ingresso della grotta. Poi giunse Ame-no Uzume, la dea della
danza, che rovesciò un calderone di legno accanto alla grotta, vi salì sopra, e dopo essersi fatta una ghirlanda d’edera, cominciò a danzare. Sotto i suoi piedi il calderone rimbombava e tutti gli dèi battevano il tempo. L’atmosfera cominciò
a riscaldarsi. Travolta dalla frenesia della sua stessa danza, Ame-no-Uzume prese a spogliarsi: dapprima scoprì i seni, poi abbassò il perizoma lungo le cosce. Le ottantamila divinità risero tanto da far traballare la Pianura dell’Ampio Cielo.
Le risate giunsero all’interno della caverna e Amaterasu levò il capo furibonda. Il cielo e la terra erano immersi nelle tenebre: perché le ottantamila divinità ridevano, invece di piangere e disperarsi? Si avvicinò alle porte della caverna e ne aprì un sottilissimo spiraglio per sincerarsi dell’accaduto. Allora gli dèi Ame-no-koyane e Futo-tama tesero lo specchio verso la fessura, cosicché gli occhi di Amaterasu incontrarono la sua stessa immagine riflessa e la dea credette per un istante che una nuova dea del sole stesse illuminando il mondo. Amaterasu aprì ancora di più lo spiraglio e il dio Taji-kawa-ō, che era particolarmente forzuto, la afferrò e la trasse fuori dalla caverna. Allora la luce del giorno si distese nuovamente sulla Pianura dell’Alto Cielo.››
http://bifrost.it/Sintesi/Kojiki.html
3 I mesi di Settembre e Maggio erano ideali per le operazioni di forgiatura visto la stabilità della temperatura atmosferica
4 G. Fino, La spada giapponese, Edizione Sannô-kai, Padova, 1998, p. 14
5 The Japanese Sword. Katana wa Bushi no tamashii (The Sword Is the Soul of the Samurai), in Museum of Fine Arts Bulletin, Vol. 4, No. 21 (Aug., 1906), p. 30
6 A riprova di questa tesi riporto alcuni dati presentati da Natsuo Hattori e Tomohiro Nakamori in La spada giapponese: dimora degli dei, Nuinui, Chermignon, 2019. Al momento sono circa 110 le katane considerate Tesoro Nazionale
7 https://www.youtube.com/watch?v=f1ZkgPdJWtg
8 https://newsgeek.com.br/wp-content/uploads/2023/01/Sandai-Kitetsu-Zoro-1536×864.jpg.webp (la lettura delle pagine è alla giapponese, pertanto da destra verso sinistra)
9 Il tema dell’anima della spada è stato analizzato da Carlo Donà nel suo L’anima della spada, pubblicato ne HOMO INTERIOR, Presenze dell’anima nelle letterature nel Medioevo – Atti delle V Giornate Internazionali Interdisciplinari
di Studio sul Medievo (Torino, 10-12 Febbraio 2015). Tra i brani riportati si evidenzia un frammento del Wu Yüeh ch’un ch’iu, un corpus di leggende cinesi sulle spade dei regni di Yüeh e di Wu, redatti intorno al VI sec a.C. Nel suddetto brano vi è scritto come la spada Zhanlu abbandona il sovrano nel caso in cui egli abbia offeso il Principio. Successivamente va alla ricerca di un nuovo signore che segue la Via.
10 Per quanto riguarda la katana come oggetto identitario dei samurai, rimando al capolavoro di Akira Kurosawa, I sette samurai; nella parte conclusiva del film appare, a mio modo di vedere, uno dei fotogrammi più belli della storia del
cinema. Ai piedi di una collinetta sono presenti tre samurai che osservano sulla cima del rilievo quattro tumuli in cui sono confitte delle katane. Appare chiaro, anche senza aver visto il film, come l’arma rappresenti il samurai.
11 J.K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale, Salani Editore, Milano, pag. 82
12 J.K Rowling, Harry Potter e i doni della morte, Salani Editore, Milano, 2008, pag. 63
13 Ivi, pag. 653

BIBLIOGRAFIA

  • G. Fino, La spada giapponese, Edizioni Sannô-kai, Padova, 1998
  • N. Hattori – T. Nakamori, La spada giapponese: dimora degli dei, Nuinui, Chermignon, 2019
  • The Japanese Sword. Katana wa Bushi no tamashii (The Sword Is the Soul of the Samurai),
    in Museum of Fine Arts Bulletin, Vol. 4, No. 21 (Aug., 1906), p. 30

Post in translation: Shakespeare

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Nota del traduttore

di

Massimiliano Palmese

 

Faccio la guerra al tempo per tuo amore,

e più ti strappa, più ripianto il fiore.

Sonetto 15

C’è questa foto che ho in casa. Sullo sfondo Napoli 1944 da poco liberata e al centro una bambina con i capelli tenuti in cima alla testa da un nastro fermato in un gran fiocco bianco. Ha un abito a quadretti con le manicucce lunghe e corto sulle ginocchia, e ai piedi scarpette con gli occhielli. Ha una mano sul fianco in una posa sfidante, ma forse le è stata semplicemente suggerita dal fotografo.

La bambina è nata nel 1940 da un veloce matrimonio, e il padre, subito richiamato alle armi, tornerà a casa una volta a guerra finita soltanto per prendersi la valigia e scomparire. Lei, che per mancanza di mezzi non ha potuto finire la scuola, a quindici anni inizierà a lavorare in fabbrica per poi imparare a usare la macchina da scrivere e guadagnarsi occupazioni migliori. A vent’anni ha già un buon lavoro e un proprio appartamento e, sia per amore della lettura che per rivalsa, riempie la casa di libri. Romanzi, saggi. E poesia, tanta poesia. Sono nato in una casa piena di poesia. E la bambina nella foto è mia madre.

Molto piccolo mi sono avvicinato a questi strani libri dalle pagine bianchissime semivuote, con poche parole appoggiate su brevi righe e queste l’una sotto l’altra a formare quadrati o rettangoli di lettere. Che enigmi certe parole desuete, che fascino quelle combinazioni di sostantivi e di verbi. E di aggettivi e di avverbi. E poi gli explicit, questi fuochi d’artificio con cui sempre si chiude una festa.

Una festa di parole, di sensi e suoni, questo è stata da subito la poesia per me. E oggi, dopo aver scritto versi per molti anni, è ancora in una festa di parole che mi sono ritrovato traducendo i 154 Sonetti di William Shakespeare per le edizioni Marcos y Marcos. Questa bibbia dell’amore. Questo vangelo in 154 atti.

Ordinati per dedicatari – un giovane nobile di grande bellezza, il fair youth, e una misteriosa (o)scura donna, la dark lady – sistemati in gruppi tematici e pubblicati nel 1609, probabilmente senza il consenso dell’autore, i Sonetti di Shakespeare sono considerati a ragione tra le vette più alte della poesia lirica di tutti i tempi.

È, infatti, in uno stupefacente ventaglio di immagini che si dispiega la grazia di un amore omosessuale che, pur arroventato, sa riconoscere le necessità della natura e mettersi in attesa e in secondo piano davanti alla primaria esigenza che il ciclo della vita non venga interrotto: nei primi diciassette sonetti cosiddetti ‘matrimoniali’, Will, io poetante e probabile alter ego dell’autore, declina in vari modi la richiesta al fair youth, di sposarsi e fare un figlio, per non sprecare quel seme che dalla natura ha avuto in dono (o meglio, in affitto) come lo stampo stesso della bellezza. E quello stampo – modello, stampiglio, sigillo – non va usato egoisticamente ma per produrre eredi “perché rosa bellezza mai non muoia / e quando il fiore sarà declinato / un bocciolo ne porti la memoria”.

E già dal primo sonetto, nell’invito a procreare come a fiorire e rifiorire, entriamo nel rigoglioso mondo naturale che il poeta coltiva per noi come un raffinato giardiniere, tra boccioli, viole in fiore, alberi perfetti, semi e primizie; un mondo contadino dove le ragazze sono terre vergini in attesa dell’aratura; un mondo scaldato dal giovane amante come il grazioso sole sopra i colli ripidi del cielo, lui che ha negli occhi altre due stelle fisse, da cui possono trarsi ispirazioni e sapere.

La causa della procreazione è portata avanti sfogliando ogni buon argomento: s’invoca l’amore materno, per cui ogni madre in tarda età sarà consolata rivedendosi in un figlio come in uno specchio; si ricorda l’inesorabile cammino del tempo facendo balenare al ragazzo pericolose immagini invernali, tra fiori sfatti, alberi spogli e fasci di grano portati via sui carri insieme ai buoi, mentre il severo orologio segna il giorno spento nella notte scura ricordandogli che se non lascia un erede anche lui andrà a finire tra i rifiuti del tempo.

Il tempo, questa divinità nemica della giovinezza. Questa necessità che corre in direzione contraria alla vita. Questa disgrazia e questa maledizione. Occorre dunque restituire i doni di natura prima che quaranta inverni possano scavare trincee profonde sul viso della bellezza. E che cos’è un figlio se non un’estate distillata, la spremitura del meglio, sapore e profumo dei giorni che furono?

Nel sonetto 15 Will s’innalza filosofico: “Se penso che ogni cosa di natura / resta perfetta solo brevi istanti, / che sulla scena siamo figuranti / a cui le stelle fanno una fattura”; e se pensa che le creature siano come erbe, che si fanno marce ed erano superbe; se pensa che il tempo e la morte complottino perché anche il bello invecchi e si perda; se pensa che in questa finitudine non resti alcun senso per l’esistenza umana; se, insomma, l’amante vede l’amato sottoposto anche lui come chiunque alla severa legge dell’universo, Will si inquieta e si angoscia; ma l’angoscia, invece che abbatterlo, lo elettrizza, indicandogli la missione: “Faccio la guerra al tempo per tuo amore, / e più ti strappa, più ripianto il fiore”.

La guerra al tempo. A me pare il tema principale del canzoniere scespiriano e il senso più profondo della sua poetica. Ma, se il fair youth può combattere l’inverno disseminandosi in giardini e terre vergini, quale è la possibile guerra al tempo di Will?

Se il primo gruppo di sonetti suggerisce nella procreazione la modalità di sopravvivenza a disposizione del ragazzo, nel più ampio corpus di testi che arriva al sonetto 126 Will ci dice che al pari di un figlio solo l’arte – nel suo caso la poesia – ha lo stesso potere di distillare il meglio di un’anima e di sbancare l’eternità. “Dovrei dire che sei un giorno d’estate? / Tu sei molto più amabile e più lieve”, scrive nell’indimenticabile sonetto 18. L’estate è breve e col tempo ogni gemma si sciupa e la bellezza perde il suo smalto: non così per il fair youth, la cui eterna estate non sarà oscurata all’ombra della morte, ma difesa da Will in un’inespugnabile fortezza di parole: “E finché esisteranno occhi e sospiro, / tu vivo in questi versi avrai respiro”.

Perché la poesia, alchimia di emozione e linguaggio, ha conoscenze esoteriche: l’arte della distillazione. E se una rosa selvatica ha bellezza e colori, diverso è il destino della rosa più fragrante del giardino: la sua stessa morte sarà solo apparente, perché ne sarà estratta l’essenza. Se prima si trattava di un distillato genetico, un figlio – “Ma un fiore distillato non va in fumo / si disfa al freddo e poi vive in profumo” –, ora il distillato è tutto artistico e sono i versi a sfidare la morte: “Così sarà per te, giovane amato: / tu vivrai nei miei versi distillato”. Il perché resta l’enigma e la potenza della poesia: “Questo dà la mia penna quando tocca: / vita ad ogni respiro, ad ogni bocca”.

“Come le onde a una pietrosa riva / corrono alla deriva i nostri istanti, / scacciano i precedenti nella fila / e con affanno spingono in avanti”, così all’alta marea non sopravvivono né il marmo né i dorati monumenti: le statue vengono buttate giù con le guerre e i muri crollano ai colpi della Storia. Ma l’amore no. L’amato può vivere tranquillo perché regnerà eterno, custodito “qui”, in un castello di rime: “Qui c’è il tuo monumento per domani, / persi il bronzo e corone di sovrani”.

Figli e arte. Due vie di fuga dal tempo che a ben vedere sono una soltanto: in entrambi i casi l’arma in mano agli umani sembra essere quella di tramandare se stessi, sporgendosi come corpo biologico o come patrimonio culturale oltre il burrone del tempo, per provare a vincere l’orologio e l’incessante flusso delle stagioni.

E se da un lato è tutta filosofica questa visione tragica dell’esistenza come un’ìmpari guerra al tempo, sul rovescio della moneta Will fa comparire altri personaggi che completano il lato romanzesco di una complicata, spesso triangolare, storia d’amore, con i drammi della gelosia, la parte di commedia costruita da tradimenti e pentimenti, con la farsa di fughe e di subitanei ritorni (“viaggio ma torno poi tutte le volte”, “con l’acqua che mi lavi dalle colpe”), fino all’apparizione di comprimari, il poeta rivale e la dark lady.

Questa misteriosa donna è la dedicataria dei sonetti che dal 127 giungono al termine della raccolta. Oggetto d’amore e d’odio, di ammirazione e di lirici insulti (“Ti pensai bella e ti ho giurato pura: / sei nero inferno, sei la notte oscura”), la dark lady è la protagonista di una passione seconda ma intrecciata alla prima, storia di un amore meno ideale e più carnale ma non meno mareggiata di quella per il ragazzo. Ma è un triangolo che trova Will ormai stanco, ingannato da un furbo amore che gli abbaglia la vista a forza di lacrime, e lì sul punto di arrendersi: “Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia, / finiscimi di sguardi e così sia”.

Ed è a un’immagine di donna che anch’io voglio tornare. Alla bambina che ha tramandato se stessa in biologia e in cultura, lanciandosi oltre il limite del tempo nell’impresa di offrire con un figlio ancora vita alla vita, e con una biblioteca l’amore per la poesia. È il tentativo sovrumano di guerreggiare il tempo che appartiene alle madri, la decisione di mettere al mondo un figlio e circondarlo di bellezza: gesto enorme, insieme necessario e incosciente, artistico e avventato, provocazione al Nulla e urlo di speranza.

Poi ai figli subentreranno figli e poi altri figli, fino alla fine del tempo.

Noi senza eredi, invece, altro non possiamo fare che recitare la parte che ci è toccata: lo sforzo di coltivare e tramandare una nostra biblioteca interiore, fatta di passioni e studi, letture e scritture e riscritture. La mia biblioteca interiore comprende questo omaggio all’arte di William Shakespeare, nel tentativo di tradurre i suoi intraducibili Sonetti, provando a offrire una musica italiana alla musica inglese e i miei versi ai loro, così come di un grande immortale spartito ogni musicista offre ai contemporanei una propria personale esecuzione.

In ricordo di Claudia Tarolo, cui sarò sempre grato di aver offerto una casa alle mie traduzioni scespiriane.

*

 

30

Quando in dolce silenzio io talora
chiamo il ricordo delle cose andate,
piangendo quelle che ho desiderate,
lo spreco della vita mi addolora.
E annego gli occhi, insoliti a inondarsi,
per amici in notte eterna seppelliti,
dolori per amori ormai finiti
e tutti gli orizzonti ormai scomparsi.
Bruciano le ferite che ho da tanto,
e di dolore in dolore sembro andato
al conto delle lacrime che ho pianto,
come se non l’avessi già pagato.
Ma se in un attimo ti penso, amico,
nulla è perduto, e il dolore è svanito.

34

Perché hai promesso gran bella giornata,
senza mantello poi m’hai fatto andare,
sorpreso dalle nuvole per strada
che hanno nascosto tutto il tuo brillare?
Poi irrompi tra le nubi e vuoi venire
la pioggia alla mia faccia ad asciugare,
ma un farmaco non solo può cucire
la mia ferita: sa guarire il male.
Vergognarti non cura il mio dolore
che se ti penti ancora resta atroce.
Fai le tue scuse, ma non ha valore
se resto appeso a tanta dura croce.
Però, che perle lacrima il tuo amore,
e, preziose, riscattano il dolore.

55

Né il marmo né i dorati monumenti
dei re vivranno oltre questa rima,
tu invece sarai qui in versi lucenti
più di una pietra che il tempo sfarina.
La guerra poi rovescerà ogni statua,
il muro crollerà sotto la Storia,
ma il fuoco o di Marte quella spada
non bruceranno mai la tua memoria.
Su morte e oblio tu vincerai sicuro
e la tua lode non avrà confine
agli occhi delle età che poi in futuro
consumeranno il mondo fino in fine.
Fino al Giudizio in cui sarai tra i santi
tu vivrai qui e negli occhi degli amanti.

 

 

 

 

 

Downstream, rassegna di poesia e prosa ultra-contemporanea

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«Prima» e «dopo» sono relativi.
Noi comunque lavoriamo tra loro.
(Giulia Niccolai)
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𝐃𝐨𝐰𝐧𝐬𝐭𝐫𝐞𝐚𝐦  è uno spazio dedicato a testi di poesia e prosa ultra-contemporanea: progettato per leggere, ragionare e dialogare, Downstream punta ad essere un luogo aperto e plurale nel confronto, nel lavoro culturale e nella discussione critica delle posizioni e visioni delle prassi dello scrivere.
Per i primi 4 incontri Downstream mette in relazione poesia e prosa, esordi e conferme, case editrici e autori e autrici di diverse città.
Dal 10 aprile, presso la Libreria Ubik Napoli (via Benedetto Croce, 28), a cura di Chiara De Caprio, Giorgia Esposito e Valeria Rocco di Torrepadula.
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Mattia Tarantino: «la coda dell’Ircocervo è una stella di cenere»

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di Mattia Tarantino

L’ircocervo di Mattia Tarantino è il nuovo titolo delle Lepri, collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcuni estratti in anteprima. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.

 

La testa

La testa dell’Ircocervo è un piccolo e caldo esagono. Ai lati, un tempo, era inciso qualcosa. Pare dopo la terza nascita l’incisione sia svanita e ancora, tuttavia, capita appaia e abbagli, brilli. La calotta cranica è tatuata: qualcosa è impresso come un codice fosforescente, o l’orma di un antico animale. Nella testa dell’Ircocervo si inscrive la Storia, la Storia come intermittenza. Scricchiola, il cranio, e striscia e traballa, come stretto da uno spago di fortuna. Ruota di pochi gradi, si arresta, poi svanisce. Si nasconde, oppure, come un indizio tra la fine del collo e l’inizio di qualcos’altro. Riappare accecando.

 

***

 

Le zampe anteriori

Le zampe anteriori dell’Ircocervo sono delle vagine colme di ventose. Risucchiano il terreno che dovrebbero calpestare, lo nascondono e rigettano come un’altra e inaccessibile dimensione, una fisica squassata. Capita si inumidiscano, e allora diventano mani.

 

***

Le zampe posteriori

Le zampe posteriori dell’Ircocervo sono una geometria rosa e gommosa. Non zoccoli, alle estremità, ma bocche: senza estensione, tuttavia profondissime, dentate ai bordi, si annidano, tra le arcate e le gengive, gli incubi dei primi uomini. Ogni cosa assume consistenza, si addensa, poi sprofonda e riemerge, bruciacchiata, vibrando tra la coda e il mondo. La coda La coda dell’Ircocervo è una stella di cenere lunga un mondo e mezzo. Pelosa, trema e fa la muta all’inizio dell’estate. Capita cada, e cadendo una costellazione lontana, impenetrabile, collassi fragorosamente. Diventa spesso un corno, più raramente una cometa

 

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La coda

La coda dell’Ircocervo è una stella di cenere lunga un mondo e mezzo. Pelosa, trema e fa la muta all’inizio dell’estate. Capita cada, e cadendo una costellazione lontana, impenetrabile, collassi fragorosamente. Diventa spesso un corno, più raramente una cometa.

 

The Sun Weeps for the Land And Calls from the Garden of Stones

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di Valentina Cabiale

“I colori sono eguali per tutti. Soltanto io, Blu di Prussia, sono parziale, spesso per puro amor di polemica; e non perdono quei mediocri che mi amano. Ma soffro egualmente”. Così faceva dire Ennio Flaiano al Blu di Prussia, protagonista di una “autobiografia” pubblicata postuma nel 2003 (Autobiografia del blu di Prussia, Adelphi, Milano). Un colore schietto, maleducato, figlio irredimibile dell’età moderna e della chimica dei colori. Un blu di una sbruffonaggine che subito si macchia di malinconia.
Non è un caso che sia il colore delle 730 repliche fotografiche cianotipiche della statua della dea Sekhmet realizzate dall’artista Sara Sallam per l’installazione The Sun Weeps for the Land And Calls from the Garden of Stones (2024), esposta dall’autunno scorso al Museo Egizio di Torino, a chiusura del percorso della rinnovata Galleria dei Re.
Sara Sallam è un’artista contemporanea egiziana, che vive nei Paesi Bassi, e che attraverso i suoi lavori riflette in modo estremamente critico sulle collezioni museali, in particolare archeologiche: non solo su come si sono formate e sono state composte dai regimi coloniali del XIX e primo XX secolo, ma anche sul significato del perdurare, nelle nostre società, di queste collezioni, pur in contesti ormai consapevoli (se non altro per political correctness) della necessità di assumere un approccio decolonialista e dove le pratiche museali e di acquisizione sono mutate. Ma i reperti, nella maggior parte dei casi, restano lì dove sono – e con essi, spesso, una buona dose della nostra inadeguatezza di fronte a un passato scomodo. In questo spazio quasi irrisolvibile, dove è difficile entrare con coscienza sincera, Sallam si muove con severa semplicità, come già ha fatto in precedenza in altre sue opere, anche nel Museo Egizio stesso.
Nell’ultima installazione, in una stanza interamente dedicata, utilizza la fotografia, il video e materiali d’archivio (fotografie e stampe) per metere in scena una critica fortissima alla decontestualizzazione museale dei manufatti.
The Sun Weeps for the Land and Calls from the Garden of Stones ha come soggetto le 730 statue della dea Sekhmet realizzate per il tempio funerario di Amenofi III, presso Tebe (circa 1350 a.C.). Sekhmet, divinità della guerra ma anche della medicina, temibile quanto necessaria, era rappresentata come una donna con la testa di leonessa. Oggi le statue colossali della dea, scolpita seduta o in piedi, sono sparse per le grandi collezioni egizie del mondo, dal British Museum al Louvre al Vaticano al Metropolitan Museum of Art, e ancora a Berlino, Tokyo, Liverpool. Il Museo Egizio di Torino ne ospita 21: nel 1824 furono vendute dal console francese, di origine italiana, Bernardino Drovetti, insieme al resto della sua collezione, al re Carlo Felice, andando a costituire il nucleo del museo torinese.
La narrazione di Sallam prende avvio dall’atto violento degli occidentali che hanno estratto le statue dalla sabbia e dalle rovine del tempio e le hanno deportate altrove. Una ferita mostrata in un collage fotografico (Shifting Sands, Carving Scars), dove gli europei, Drovetti in primis, e le loro mani avide, i loro corpi estranei, sono colorati di rosso, sullo sfondo bianco e nero dell’immagini d’epoca del sito.
La storia delle 21 statue, esposte nella Galleria dei Re, è raccontata come un mito, in un video che passa su due grandi schermi, A Broken Circle of Sisters. “C’erano una volta 21 sorelle”: sacre, con la funzione spirituale di proteggere il faraone. Oggi vivono la loro vita di angoscia nei musei, separate da tutto quello che sono state e dalle loro compagne.
Mentre le statue erano depositate temporaneamente nei deambulatori del cortile centrale del museo, durante le fasi di riallestimento della Galleria dei Re, Sallam ha messo in scena un rituale per ridare loro vita. Ha allestito un tavolo, con una attrezzatura degna di un alchimista, e ha prodotto 730 repliche fotografiche, cianotipiche, di un intenso blu di Prussia, delle statue, per ricomporre l’unità perduta delle “sorelle”. Poi, con l’antico rito egiziano dell’Apertura della Bocca, ha tentato di risvegliarle e di fare in modo che l’essenza divina della statua si trasferisse sull’immagine fotografica, così che la riproduzione potesse vivere una vita vicaria al posto del manufatto originale.
I due schermi riproducono un video molto simile ma non sono sincronizzati, e questo – insieme al fatto che il filmato è riprodotto a scatti, come una sequenza rapida di immagini sequenziali – esalta la ritualità della ripetizione e l’ossessività del rito, ricordando le preghiere e le litanie che tutte le religioni utilizzano per avvicinarsi al divino.
Le più di 700 riproduzioni cianotipiche sono esposte in due lunghe vetrine a tavolo che rimandano al processo ripetitivo della creazione delle statue (una produzione non del tutto terminata, come stanno dimostrando gli studi degli archeologi sulle sculture, dai dettagli e dalla lavorazione spesso non terminate).
Nell’ultimo atto del rituale, le 21 immagini che hanno assunto lo spirito delle statue vengono riportate in Egitto, alla cava di Assuan dalla quale è stata estratta la loro pietra, e infisse nella terra a riprodurre lo stato originario.
L’opera di Sara Sallam fa riflettere su cosa manca agli oggetti in un museo; quasi sempre, e soprattutto a quelli archeologici: sulla totale perdita della funzione originaria e sullo strappo violento dal contesto di origine.
Sulla scia di alcuni antropologi quali Alfred Gell e Arjun Appadurai si parla e scrive molto, tra gli archeologi, di biografia e vita sociale degli oggetti, della loro agency nei nostri confronti, ma spesso i musei ci mettono di fronte al contrario di una biografia: per quanto con le didascalie tentiamo di dire qualcosa sulla vita di quei manufatti, in realtà avremmo molto di più da raccontare – e forse dovremmo sforzarci di farlo, per comprendere il significato del patrimonio materiale che conserviamo – sulla loro morte. La nozione antropologica di biografia dell’oggetto è insita nella cultura e nell’ontologia del museo ed è criticabile come ha fato Dan Hicks, che la considera intrinseca a un approccio irrimediabilmente colonialista. È un concetto che blocca quei manufatti in una visione limitata, che trascura le storie di perdita e di morte dei reperti prelevati; le storie delle ruberie, dei prelievi (autorizzati e non), dello strappo dalla terra che per secoli li aveva sepolti, ovvero tutto ciò che Hicks ha definito la necrography di un oggetto.
Sara Sallam in un certo senso sembra fare questo, raccontando la perdita di senso delle statue e la lunga vita vacua all’interno di un museo. Un filone narrativo che manca, nella sua opera come nella narrazione di quasi tutti i musei, è quello relativo a cosa succede a partire dall’abbandono, dalla perdita di funzione, dal seppellimento delle stratigrafie e dei manufatti archeologici, sino alla loro riscoperta da parte degli archeologi. Il tempo dell’abbandono è generalmente ben più lungo di quello dell’esistenza e della rinascita archeologica, ma è la storia più difficile da raccontare. Quando gli occidentali estraggono le statue di Sekhmet dalla terra, il tempio era già stato in buona parte smantellato. Sallam non si interessa a questo aspetto ma cerca di rimettere in moto la storia di questi manufatti e con un gesto poetico, artistico e creativo, mete in atto delle pratiche per ridare ad essi un significato autonomo rispetto alla vetrina museale.
La critica all’etica museale è senza sconti. Eppure Sallam a ben vedere propone una alternativa, una possibilità altra, rispetto alla restituzione fisica dei manufatti, spesso intesa come l’unica via attraverso la quale un museo può decolonizzarsi, liberarsi del peccato originale e salvarsi l’anima. Ma la pratica della restituzione coinvolge fattori niente affatto scontata e spesso è strumentalizzata, inquinata dal politically correct, ammantata di pretese nazionaliste e sovraniste. Anche perché non ci si sofferma quasi mai sul “dove” della restituzione. Restituire significa nella stragrande maggioranza dei casi destinare i manufatti a un museo del paese di origine. Si restituisce al luogo di provenienza, quindi a una geografia, ma è impossibile restituire (questo è particolarmente evidente per l’Egitto, ma vale in molti altri casi) alle comunità originarie, alle culture o civiltà, per il semplice fato che non esistono più. Il legittimo proprietario, il contesto reale di provenienza (fisico culturale e antropologico) sono perduti o sono conservati in modo precario o parziale, senza contare che le atuali legislazioni di tutela impedirebbero quasi sempre la ricollocazione originaria dei manufatti.
Il lavoro rituale di Sara Sallam con delicatezza rimette a posto le cose, seppure in modo paradossale in quanto critico. Dà un colpo netto all’idea di “contesto” cara agli archeologi ma sovente tanto ristretta. Il contesto non è solo quello del ritrovamento (la tomba, l’abitazione, …) ma incorpora secoli e secoli di modificazione del paesaggio culturale difficilmente riducibili in una didascalia; come un buco nero, ha deformato lo spazio-tempo al quale siamo abituati. E la sua perdita, la sua incomprensione nel contemporaneo, è qualcosa – come Sallam ha dimostrato in altri lavori – che di solito non piangiamo. I perduti Egizi sono solo un oggetto di studio.
È una narrazione fortemente destabilizzante – ospitata dal Museo Egizio con coraggio e onestà critica – che non solo e non tanto biasima le modalità passate di acquisizione dei reperti archeologici, ma si interroga sui dilemmi e sulle fragilità delle atuali pratiche di conservazione ed esposizione.
La diversità del blu di Prussia informa di una storia altra, presente e futura, che disarma le narrazioni storiche rettilinee e consuete, le origini e i punti di arrivo, la stabilità di quello che è già accaduto.

Quaderni impossibili (o discorso attorno a un’opera apparentemente irrealizzabile)

2

di Sergio Oricci

Mio padre tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi anni 2000 ha riempito decine, se non centinaia, di quaderni. Nel 2002, ma potrebbe essere stato il 1999 come il 2005, me ne ha donati alcuni, circa una ventina. Nel 2024 ho deciso di realizzare un’opera intitolata “Esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre)”. Con questo testo proverò a spiegare per quale motivo non verrà pubblicata.

Le poche righe di cui sopra sono l’unica premessa che sento il bisogno di condividere, e nel testo che segue non entrerò nello specifico del contenuto dei quaderni di mio padre, contenuto che in ogni caso è assimilabile all’idea che chiunque potrebbe avere di ciò che è possibile o meglio probabile trovare sfogliando dei quaderni: testi e immagini, i primi scritti e le seconde disegnate interamente a mano. E, oltre a non parlare di quello che è stato scritto e disegnato su quelle pagine, non parlerò neanche di diagnosi.

Ricordo il giorno in cui mio padre mi ha donato i quaderni; mi ha detto magari riuscirai a tirarne fuori qualcosa, un giorno; lo ricordo nello stesso modo in cui Vitaliano Trevisan ricorda il luccio che afferra al volo la rondine al parco Querini[1] a Vicenza; Trevisan ne parla, attraverso il personaggio di Thomas, in Un mondo meraviglioso[2] e ne parla dichiarando di non essere sicuro, o meglio di non poter essere sicuro, che si tratti di un ricordo e non di qualcosa che è avvenuto solo nella sua testa, anche per via di un’illustrazione praticamente identica alla scena in questione – un luccio che afferra una rondine – che ricorda, in questo caso con certezza, di aver visto un certo numero di volte in un libro illustrato sugli animali[3]. Dunque ecco, anche io in effetti sono abbastanza sicuro di ricordare mio padre pronunciare proprio quelle parole mentre mi porge il faldone con i quaderni, quindici o venti: magari riuscirai a tirarne fuori qualcosa, un giorno; eppure anche io – pure in assenza di illustrazioni relative a un padre che passa un faldone per documenti a un figlio in un ipotetico ma in questo caso inesistente libro illustrato sugli esseri umani – mi trovo costretto a dubitare del mio essere abbastanza sicuro e quindi a dover rivalutare non tanto la mia sicurezza in quanto tale ma il fatto che sia una sicurezza sufficiente per farci affidamento. C’è un certo margine di dubbio soprattutto relativo alla possibilità che, a distanza di almeno vent’anni, abbia costruito questo ricordo – non il ricordo di mio padre che mi dona i quaderni, che non è in discussione, ma quello delle parole da lui pronunciate – per trovare una giustificazione al fatto che oggi voglia appropriarmi dei quaderni di mio padre e intervenire su di essi, e soprattutto per convincere prima me stesso e poi gli altri che questa opera, questa idea di opera, questa volontà di intervento che in parte si è già concretizzata in un intervento che a questo punto non credo vedrà mai la luce se non nell’oscurità della mia sporca coscienza e delle mie stanze, non abbia bisogno della firma di mio padre, non abbia bisogno della sua autorizzazione, non abbia bisogno del suo nome.

Come accennavo, non ho alcun interesse a parlare qui del contenuto dei quaderni, perché il mio intervento resterebbe esattamente lo stesso qualsiasi fossero le parole messe in fila e le immagini e i grafici e gli elenchi puntati eccetera eccetera; ma ho interesse a parlare invece della mia opera, quella che avrei voluto realizzare ma che non realizzerò per questioni che riguardano il muro su cui mi sono scontrato quando ho provato a mostrare il mio lavoro, o meglio parte di esso, a chi pensavo potesse capirlo, perfino per accoglierlo; e non mi sbagliavo, o meglio non mi sbagliavo al 50%: erano le persone giuste per capirlo, e infatti l’hanno capito, ma non le persone giuste per accoglierlo, e infatti non l’hanno accolto. Le questioni etiche che l’appropriazione del lavoro altrui apre sono diverse e sono complesse, e ho compreso le obiezioni che in fondo neanche ci sono state, le perplessità che in fondo neanche ho dato il tempo di esprimere fino in fondo, perché sono stato io il primo a fermarmi quando ho capito che il mio intervento era stato frainteso, e che era stato frainteso per colpa mia.

L’opera avrebbe dovuto o almeno potuto essere realizzata e fruita da due diverse prospettive: performativa e testuale. La dimensione performativa doveva consistere in una situazione in cui un soggetto (il figlio) chiuso per un certo numero di ore in uno spazio espositivo insieme all’oggetto (i quaderni del padre) si produceva in un esercizio di copiatura. Riga dopo riga, pagina dopo pagina, quaderno dopo quaderno, avrebbe dovuto copiare interamente tutto quello che era contenuto nei quaderni su altri, differenti, simili, perfino identici, supporti. Il soggetto e l’oggetto avrebbero dovuto essere in qualche modo isolati da un pubblico, qualora ce ne fosse stato uno, per esempio chiusi in un cubo di plexiglas all’interno di una delle stanze dello spazio espositivo, in modo da permettere a chiunque fosse entrato di avere una visione completa del gesto, dell’atto performativo in sé, ma una visione solo parziale degli oggetti (i quaderni del padre e le copie dei quaderni del padre realizzate dal figlio) e del loro contenuto. Gli oggetti quindi sarebbero rimasti a margine dell’azione, perché quello che al soggetto interessava mettere in movimento era la relazione tra soggetto e oggetti e magari la distanza tra soggetto-figlio e soggetto-padre, cioè il modo in cui l’assenza reciproca dell’uno per l’altro agiva sull’azione stessa. Questo per quanto riguarda la dimensione performativa, che di fatto è stato il punto di partenza da cui è scaturita l’idea dell’intervento, ma che comunque si sarebbe, se mai fosse stato possibile, concretizzata solo in un secondo momento, perché l’azione performativa si scontrava con una serie di difficoltà esterne al soggetto che sarebbe stato necessario prima affrontare e poi provare a risolvere ma che avrebbero potuto perfino mandare a monte l’intero progetto se il soggetto, cioè io, avesse deciso di andare prima in quella direzione e solo in un secondo momento in quella della realizzazione di un secondo oggetto testuale o meglio documentale. C’era questo rischio perché avrei dovuto trovare un luogo, uno spazio espositivo a cui interessasse ospitare l’azione di uno sconosciuto, senza nessuna esperienza pregressa nel campo della performance art; questo avrebbe richiesto del tempo, e mentre il tempo passava avrei potuto perdere contatto con l’idea, demoralizzarmi, cosa che avrebbe messo fine alla questione prima ancora di aver compiuto anche solo un piccolo passo. È per questo motivo dunque che ho scelto un approccio credo controintuitivo e, invece di documentare la performance con il risultato dell’esercizio di copiatura o con un lavoro di sintesi successivo all’esercizio di copiatura, ho scelto di realizzare prima la sintesi, prima il documento, o almeno una parte del o dei documenti, una parte necessaria intanto ad avere qualcosa tra le mani, che è sempre d’aiuto quando non si riesce a liberarsi di un’idea. Era importante spostarmi il prima possibile in un laboratorio, sperimentare, mettermi e mettere l’idea in movimento per poi in qualche modo fermarne almeno un segmento, una parte, in un determinato momento e in un’unità di spazio concettuale ma anche fisico, anzi direi più fisico che concettuale in quanto è lo spazio fisico (un foglio di carta, un file) che aiuta a mettere ordine al caos mentre lo spazio concettuale è tanto caotico quanto il numero di volte in cui è possibile immaginare qualcosa dandogli forma e sviluppi che sono certamente possibilità del linguaggio, della messa in scena, dell’espressione di una certa manualità che l’autore o chi per lui può avere o non avere quando si troverà a uscire dal pensiero e a entrare nell’azione. Il laboratorio e l’esperimento sono i luoghi in cui le cose accadono prima di accadere o perfino i luoghi in cui alla fine le cose accadono e basta. E quindi è proprio uscendo dal pensiero, dall’unità di spazio concettuale, ed entrando nell’agire e nell’unità di spazio fisico, che è possibile capire se un’idea sia o non sia realizzabile e se sia o non sia possibile metterla in atto come la si era pensata, e quali sono le reali possibilità e i limiti, propri e dell’idea stessa.

Ho allora iniziato con uno dei quaderni, il mio preferito se così si può dire, e ho scelto di copiarne il contenuto mettendo tra me e l’oggetto degli strumenti formali e tecnologici, dove per strumenti formali intendo le mie decisioni in merito a cosa trascrivere e cosa non trascrivere, a quali immagini copiare e quali non copiare; li chiamo strumenti formali perché le scelte dovevano riguardare l’oggetto di partenza e quello di arrivo in termini di struttura e di quanto la sintesi fosse formalmente aderente alla fonte da cui veniva estratta, e fare una sintesi era un passaggio assolutamente necessario in questa fase perché per capire se il progetto potesse essere portato avanti avevo bisogno, ripeto, di avere qualcosa tra le mani, qualcosa che però fosse significativo e non una selezione casuale di testi e immagini: una sintesi appunto che avesse una forte corrispondenza formale e strutturale con ciò che alla sintesi aveva dato origine; mentre per strumenti tecnologici intendo il computer che ho utilizzato per l’esercizio di copiatura, lo scanner che ho utilizzato per digitalizzare alcune delle immagini, la connessione Internet e lo spazio di archiviazione in cloud che ho utilizzato per assicurarmi che il lavoro non andasse perso, i software di ritocco fotografico che ho utilizzato per capire se fosse il caso di lavorare sulle immagini acquisite per fare in modo che anche quelle scansioni non fossero solo digitalizzazioni delle immagini originali ma miei interventi sulle digitalizzazioni delle immagini originali eccetera eccetera. La necessità di avere qualcosa tra le mani non era, in ogni caso, l’unico motivo per cui ho deciso di fare una sintesi, una selezione: a differenza del momento performativo, durante il quale il pubblico non avrebbe avuto accesso, se non in maniera parziale, al contenuto dei quaderni di mio padre e al contenuto del mio esercizio di copiatura, nel momento in cui avessi terminato la realizzazione del mio oggetto, del mio testo, del mio esercizio di copiatura, e lo avessi fatto non durante la dimensione performativa in cui la distanza tra me e il pubblico, tra il pubblico e l’oggetto, consisteva nella gabbia di plexiglas o in tutto ciò che avrebbe impedito al pubblico di leggere nel dettaglio i quaderni, ma nella solitudine del dialogo tra me e mio padre o meglio tra la mia assenza per lui e la sua assenza per me, ecco in quel caso era indispensabile mettere una distanza tra me e i suoi quaderni e in un certo senso tradurre i suoi quaderni nella mia lingua, che non significava dover modificare la lingua di mio padre ma fare in modo che la lingua di mio padre, nella quale comunque trovavo e trovo una corrispondenza con la mia lingua adulta (la lingua dei miei anni più recenti, in altre parole) in termini di sintassi, di costruzioni ipotattiche e anche per alcuni tic linguistici che sembrano essere passati da lui a me attraverso il materiale ereditario, attraverso la genetica, cosa che peraltro appare del tutto probabile, ecco volevo fare in modo che questa lingua fosse filtrata in qualche modo da me, da me che leggevo e da me che copiavo non copiando tutto ma scegliendo cosa copiare (sì, sì, no, ancora sì eccetera) e come farlo (testo barrato, apice, pedice, corrispondenza nei colori, nei grassetti, e poi ancora copiare a mano, con uno scanner, ridisegnare i suoi disegni, digitalizzarli eccetera). C’era poi un’altra questione, rimasta in effetti irrisolta fino al confronto con, per così dire, il mondo esterno, che riguardava il modo in cui mio padre si avvicinava ai suoi quaderni quando non erano ancora stati riempiti, durante la sua azione di scrittura insomma, e allo spazio fisico e concettuale da loro delimitato. Sì, perché mio padre sovente iniziava a scrivere dalla prima pagina di un quaderno e continuava fino ad arrivare a metà, per poi girare il quaderno e riprendere a scrivere da quella che in teoria sarebbe dovuta essere l’ultima pagina, quindi ruotando l’orientamento del testo di 180 gradi; non riesco a essere certo della sequenza delle sue azioni perché a lavoro finito, a quaderno riempito, il testo dell’ultima pagina orientata in modo X (dall’alto verso il basso) andava a toccarsi con il testo dell’ultima pagina orientata in modo Y (dal basso verso l’alto) e – contrariamente a quanto si potrebbe immaginare – l’ultimo frammento di testo iniziava nelle ultime righe dell’ultima pagina Y e terminava, a testa in giù per così dire, a testa in giù rispetto al suo inizio, nell’ultima pagina X; quindi il modo in cui mio padre metteva in sequenza il ribaltamento doveva essere insomma un modo tutto suo che forse riuscirò a risolvere leggendo e rileggendo tutti i quindici o venti quaderni in mio possesso. Questo testo però si concentra sulla sintesi del primo quaderno e si limita a raccontare del perché l’esercizio di copiatura dei quaderni di mio padre, se pure potrà essere realizzato in modo clandestino e per uso privato, non vedrà mai la luce fuori da me, almeno fino a quando la situazione sarà questa e non cambierà in modo tanto drastico da non rendere neanche più necessario ragionare intorno alla o continuare a lavorare sulla opera in questione, e a quel punto, il peso di questo intervento, la gravità di questa azione, si alleggerirà così tanto da mettere questa idea, questa possibilità del linguaggio, sullo sfondo di qualcos’altro che allora apparirà urgente come adesso appare urgente l’esercizio di copiatura che non potrò realizzare, almeno non come l’avevo pensato, ma che dovrò limitarmi a rinchiudere in questo blocco di testo in cui la mia sintassi e quella di mio padre forse si sfiorano, ma in cui poi tutto si riduce all’impossibilità di toccarsi davvero. La questione dell’orientamento del testo, dicevo, non si è risolta perché dopo alcuni tentativi e alcune prove ho deciso di creare due file differenti: da una parte un file Word in cui il testo, per questioni di leggibilità, sarebbe stato organizzato in modo normale, tutto orientato dall’alto verso il basso e messo in una sequenza che più o meno mi sembrava fosse quella voluta da chi aveva scritto e disegnato, quindi da mio padre; dall’altra un PDF con lo stesso orientamento del quaderno originale, quindi con la necessità, per chi lo avesse letto – se mai qualcuno lo avesse fatto –, di ruotare di 180 gradi il file una volta arrivato a metà, a meno che non si fosse trattato di qualcuno in grado di leggere anche un testo capovolto; in quel caso avrebbe tranquillamente potuto continuare senza ruotare ma sarebbe comunque dovuto andare all’ultima pagina e tornare indietro di pagina in pagina fino a raggiungere di nuovo il centro; il modo più naturale per avvicinarsi a un testo del genere comunque è di farlo così come ci si è avvicinato chi lo ha scritto, dunque ruotando il PDF così come mio padre si era girato il quaderno tra le mani per riprendere a scrivere, presumibilmente, dal fondo.

Una volta terminata la sintesi del quaderno, di cui ero piuttosto anche se non del tutto soddisfatto, ho iniziato a pensare a chi potessi inviarlo per un parere, per un confronto, anche con, magari, l’idea di pubblicarla. Le prime persone a cui ho mandato i due file, capovolto e non capovolto, sono state Nicoletta De Rosa e Roberto Cuoghi, artisti visuali con cui da qualche tempo intrattenevo una sporadica ma intensa corrispondenza e con cui avevo avuto occasione di pranzare, tempo addietro, nel loro studio di Milano un volta, o forse ancora, chiamato Retrobalera, occasione che mi aveva permesso di incontrare anche Alessandra Sofia, altra artista visuale con cui Cuoghi e De Rosa lavorano. Nicoletta De Rosa ha definito la lettura delle pagine faticosissima, cosa che mi è sembrata molto positiva, anche perché secondo lei era proprio la fatica richiesta, anzi imposta, dal testo a essere il suo principale motivo di interesse. Ho poi inviato gli stessi file, Word e PDF alla redazione di GAMMM[4], la rivista di letteratura, critica, installazioni, post-poesia, scrittura asemica e di ricerca, fondata nel 2006 da Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano, tutti autori – ad eccezione di Massimo Sannelli – che al momento dell’invio già conoscevo piuttosto bene, non personalmente ma attraverso i loro testi e i libri da loro scritti e pubblicati. L’invio a GAMMM mi sembrava in effetti l’unica possibilità sensata per il mio intervento, che a quel punto aveva un titolo, Esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre) – a cura di Sergio Oricci, e una sua forma più o meno definitiva seppur duplice, almeno per quello che riguardava la sintesi del primo tra i quaderni. Inviare a GAMMM mi sembrava l’unica soluzione sensata per tre motivi: il primo era che avevo già pubblicato, con l’eteronimo Emanuela Gatti, su GAMMM, una installazione testuale, che di fatto poteva considerarsi un altro esercizio di copiatura, intitolata Una nota su Autoritratto automatico di Umberto Fiori (Garzanti, 2023)[5], che non era solo una nota su Autoritratto automatico di Umberto Fiori[6] pur potendo in effetti essere letta anche come tale: si trattava di un testo installativo in cui avevo usato il pretesto del titolo di un’opera di Umberto Fiori e che consisteva nell’esercizio di copiatura di una serie di indicazioni apposte su una macchina automatica per fotografie in cui mi ero imbattuto a Roma; avevo copiato i testi e sostituito alle immagini dei falsi tag  <IMG>  </IMG>, e l’idea era quella di far parlare tra loro le macchine automatiche per ritratti che ancora si trovano in giro con una certa frequenza con gli autoritratti automatici di Fiori, facendo forse perfino intuire al lettore quanto poco avessi apprezzato l’opera di Fiori; quindi insomma in qualche modo GAMMM mi aveva già capito e già accolto. Il secondo motivo era che i fondatori di GAMMM erano e sono persone con cui mi faceva e mi fa piacere confrontarmi e dialogare, perché apprezzo le cose che scrivono e perché riconosco quello che fanno e hanno fatto per tutto il grande insieme di scritture definite di ricerca, che è secondo me la zona in cui la scrittura è riuscita a frammentarsi e a espandere sé stessa quanto l’arte visuale. C’è infine un terzo possibile motivo per cui poteva avere senso pubblicare quel testo su GAMMM: Arthur Danto, critico d’arte statunitense, parlando delle Brillo Box di Andy Warhol (a loro volta un esercizio di copiatura), sosteneva che la differenza tra una Brillo Box che chiunque poteva trovare al supermercato e una di Andy Warhol era una certa teoria dell’arte che definiva il significato delle Brillo Box di Warhol al di là del loro aspetto, e che fosse proprio la teoria dell’arte a impedire che l’opera collassasse nell’oggetto che sembrava essere[7]. C’è però un modo per riconoscere un’opera d’arte senza conoscere la teoria dell’arte su cui l’oggetto si poggia? Una risposta, ma non la risposta, si può trovare in una frase attribuita a Marcel Duchamp (ma secondo qualcuno di André Breton), presente alla voce Ready-Made del Dictionnaire abrégé du Surréalisme, curato da André Breton e Paul Éluard[8], secondo la quale un oggetto di uso comune può diventare un’opera d’arte anche soltanto grazie alla scelta dell’artista, cosa che può portare alla possibilità, per il pubblico, di demandare la conoscenza della teoria dell’arte a chi gestisce gli spazi in cui l’arte avviene. E dunque se una Brillo Box si trova in un supermercato, tra asciugamani e casse di birra, probabilmente sarà soltanto un bene di consumo, mentre se si trova alla Stable Gallery di New York, dove l’opera di Warhol è stata esposta per la prima volta nel 1964, allora è probabile che, oltre a quello che è possibile vedere a un primo sguardo, possa esserci qualcos’altro. Non è importante capire cosa ci sia al di là di quel primo sguardo, non è importante sapere quale sia la teoria dell’arte che impedisce all’opera di collassare nell’oggetto che sembra essere, questi dettagli in fondo non ci interessano; la cosa importante è sapere che qualcosa c’è, che una teoria dell’arte può o almeno potrebbe esserci. Non sono completamente d’accordo né con l’affermazione di Danto – le Brillo Box di Warhol differivano da quelle che si trovavano al supermercato anche per materiale e peso, per esempio – né con quella attribuibile a Duchamp – credo che un’opera abbia un valore estetico e una capacità di mettere l’osservatore in relazione con l’oggetto che vanno al di là del contesto in cui viene posizionata e al di là della persona che l’ha realizzata – e sono comunque questioni su cui varrebbe la pena riflettere ancora un po’, ma prendendole per un attimo per vere e lasciando da parte le sfumature, un esercizio di copiatura che resta in un cassetto ha quindi un certo significato, mentre lo stesso esercizio di copiatura pubblicato su GAMMM ne ha un altro, o quantomeno insinua il dubbio in chi lo guarda o in chi lo legge che un altro significato possa esserci, cosa già più che sufficiente per decretare la riuscita, o perfino il successo, di un intervento di questo tipo.

Nel mandare il testo alla redazione di GAMMM però commetto quasi subito il primo errore. Non nella prima mail, in cui spiego brevemente che l’opera è un esercizio di copiatura dei quaderni di mio padre e che è un lavoro che apre per me una serie di riflessioni sia personali sia sulla questione dell’appropriazione dell’altrui frammentazione del pensiero, ma nella seconda in cui, dopo una risposta positiva della redazione in cui mi viene detto che il testo è stato ritenuto molto interessante e dunque meritevole di pubblicazione, in coda al mio messaggio dico che questa volta – a differenza di quando ho usato l’eteronimo Emanuela Gatti per pubblicare Una nota ad Autoritratto automatico di Umberto Fiori (Garzanti, 2023) – se si dovesse pubblicare l’esercizio di copiatura dovrei usare il mio vero nome, per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Con questa mia richiesta, anche se non me ne rendo ancora conto, sto già alimentando il o perfino dando vita al fraintendimento che da questo momento in avanti avrà luogo: il mio esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre) da adesso in avanti inizierà a essere l’opera di qualcun altro o un’opera realizzata in collaborazione con qualcun altro. Un qualcun altro che però è assente. Assente e vivente? Mi viene chiesto. Assente e vivente, rispondo. E che l’errore abbia generato un fraintendimento o meglio il fraintendimento, quel fraintendimento definitivo che non è e non sarà possibile risolvere e da cui non è e non sarà possibile tornare indietro, non a uno stato precedente al fraintendimento se non altro, perché il fraintendimento ormai c’è stato ed è irrimediabile, qualunque cosa io dica o faccia o provi a spiegare, insomma che il fraintendimento ci sia e sia gigantesco e finale è chiaro quando Marco Giovenale di GAMMM mi chiede il nome di battesimo di mio padre e io rispondo scrivendo il suo nome di battesimo e dando quindi a mio padre, assente e vivente o perfino assente ma vivente, una sorta di diritto di firma su un’opera che non è sua ma che adesso non è più neanche mia o che, se anche fosse ancora mia almeno in parte, è altrettanto almeno in parte anche sua e questo significa, così mi dice Marco Giovenale, che avremo bisogno di una sua autorizzazione per pubblicare la mia opera, di un suo consenso per pubblicare queste pagine, che davvero meritano di uscire, mi dice. Io a questo punto non posso fare altro che prendere atto degli errori madornali che ho commesso: avrei dovuto presentare l’opera sì come un esercizio di copiatura, sì come un esercizio di copiatura dai quaderni del padre, ma non come un esercizio di copiatura dai quaderni di mio padre in cui fosse il contenuto dei quaderni a fare l’opera; avrei dovuto presentare il mio lavoro spiegando come l’opera fosse la copiatura in sé e nient’altro, e avrei dovuto subito mettere in chiaro che qualunque cosa avessi copiato, che fossero i quaderni di mio padre, le istruzioni di una macchina fotografica automatica, gli ingredienti di qualche merendina industriale, erano l’esercizio di copiatura e il modo in cui avevo deciso di realizzarlo a contare, molto più dell’oggetto della copiatura. Nel caso specifico, certo, non direi però che si possa completamente ignorare l’oggetto dell’esercizio, perché qualcosa racconta, ma questo semmai è un altro motivo per il quale non c’era, secondo me, bisogno di nessun consenso, di nessuna autorizzazione; provo a spiegarlo così come l’ho spiegato nella mia ultima mail a GAMMM, mail inviata non per convincere Marco Giovenale e il resto della redazione che il testo si dovesse o si potesse pubblicare – quella ormai per me era già una questione chiusa per via degli errori di cui sopra da cui non avrei potuto in nessun modo, ma se è per questo neanche avrei voluto, tornare indietro – ma solo per iniziare a ragionare attorno a un’altra possibile opera, non all’esercizio di copiatura ma all’opera che sto scrivendo adesso, a questo testo: nel momento in cui avessi chiesto il consenso, l’autorizzazione, a mio padre, al massimo lo avrei fatto per aiutarlo a pubblicare i suoi testi magari lavorando con lui, una cosa che certamente potrebbe anche essere interessante e potrei anche voler fare, ma che al momento non posso, o non voglio, ancora fare e che comunque non potrebbe essere fatta in relazione a questo esercizio di copiatura che alla fine non si farà, che non farò. Perché nel momento in cui dovessi chiedere un’autorizzazione e lavorare con lui alla pubblicazione dei suoi testi, si tratterebbe appunto dei suoi testi e non del mio esercizio di copiatura; non esisterebbe più nessun esercizio di copiatura, nessuna necessità di un esercizio di copiatura, perché ci sarebbero già i testi e potremmo pubblicare direttamente quelli, e perché quindi copiare dei testi e pubblicare un esercizio di copiatura di testi e immagini quando si hanno a disposizione già i testi e le immagini originali e c’è perfino il consenso dell’autore a pubblicare quelli? Inoltre non esisterebbe neanche più il tentativo da parte mia di parlare della reciproca assenza di me per mio padre e di mio padre per me, in quanto nel momento in cui dovessi riuscire a parlare con mio padre per chiedergli il consenso alla pubblicazione, perfino ottenendolo, non ci sarebbe più nessuna assenza reciproca ma invece ci sarebbe una presenza, per quanto breve, per quanto più o meno significativa, ma certamente non sarebbe più un’assenza reciproca, ecco, ma ci sarebbero invece due persone che collaborano per rendere dei testi e delle immagini un’opera, che è forse l’opposto di un’assenza reciproca, o se non  è l’opposto è comunque qualcosa di lontanissimo da un’assenza reciproca e non credo ci siano dubbi in proposito. Sarebbe come aver preteso che Richard Prince, fotografo statunitense nato a Panama nel 1949, chiedesse l’autorizzazione agli autori delle fotografie che lui ha fotografato nel suo personale esercizio di copiatura; non l’ha fatto, non ha chiesto nessun consenso, perché, proprio come nel caso del mio esercizio di copiatura, se lo avesse fatto, il suo esercizio di copiatura non avrebbe avuto più nessun significato. E, ma è solo una nota a margine, nel 2008 qualcuno (il fotografo francese Patrick Cariou) ha provato a denunciare Prince per violazione del copyright, ma il processo si è concluso con l’assoluzione di Prince perché la corte d’appello ha riconosciuto il rispetto da parte di Prince del fair use[9]. Al di là dei precedenti e delle questioni legali, in ogni caso, Esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre) – a cura di Sergio Oricci, che sarei io, consisteva nell’appropriazione da parte mia dei quaderni che mio padre mi ha donato venti anni fa e che sono oggi, almeno per quella che è la mia percezione, diventati dei documenti di archivio che testimoniano la nostra reciproca assenza, e che io avevo deciso di copiare mettendo tra me e loro, tra me e mio padre, degli strumenti formali e tecnologici. Ci ho provato ma non è stato possibile, un po’ per gli errori di cui ho già detto, un po’ per la natura stessa dell’intervento, che è forse irrealizzabile almeno così come l’avevo concepito, e penso a questo punto di aver detto tutto, che non ci sia altro da aggiungere, e adesso dovrò soltanto fare pace con questa impossibilità e farmene prima o poi una ragione.

[1]     “il luccio uscì dall’acqua improvvisamente, senza alcun preavviso, nessuna increspatura, nessun rumore, niente, uscì semplicemente dall’acqua e si contorse nell’aria per poi distendersi in tutta la sua spaventosa e luccicante lunghezza, le fauci spalancate, a ghermire una rondine che, incautamente, si era abbassata un po’ troppo sul pelo dell’acqua.” Un mondo meraviglioso, Vitaliano Trevisan (da Trilogia di Thomas, Einaudi, 2024; pag. 36)

[2]     Theoria, 1997; Einaudi, 2003; infine inserito in Trilogia di Thomas, Einaudi, 2024

[3]     “Una delle mie illustrazioni preferite era appunto l’illustrazione riguardante il luccio, e tante volte l’avevo guardata e ci avevo fantasticato sopra, che ora non sono affatto sicuro di questo ricordo, non sono affatto certo che questo ricordo, che è comunque un ricordo, sia il ricordo di qualcosa di reale, di un fatto successo, o piuttosto il ricordo di una fantasticheria.” Un mondo meraviglioso, Vitaliano Trevisan (da Trilogia di Thomas, Einaudi, 2024; pp. 36-37)

[4]     https://gammm.org/

[5]     https://gammm.org/2024/02/22/una-nota-su-autoritratto-automatico-di-umberto-fiori-garzanti-2023-emanuela-gatti-2024/

[6]     Garzanti, 2023

[7]     “Quello che alla fine fa la differenza tra una Brillo Box e un’opera d’arte costituita da una Brillo Box è una certa teoria dell’arte. È la teoria che la porta nel mondo dell’arte e le impedisce di collassare nell’oggetto reale che è.” The Artworld, Arthur C. Danto, 1964

[8]     Domaine français, 1938

[9] “Il fair use (in italiano, uso o utilizzo lealeequo o corretto) è una disposizione legislativa dell’ordinamento giuridico degli Stati Uniti d’America che regolamenta, sotto alcune condizioni, la facoltà di utilizzare materiale protetto da copyright per scopi d’informazione, critica o insegnamento, senza chiedere l’autorizzazione scritta a chi detiene i diritti.” Wikipedia

Vivere per sottrazione. Su “L’anniversario” di Andrea Bajani

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ph. Luigi Ghirri, Viva il 25 aprile ! (Modena, 1978)

di Valeria Merante

Nel libro La fine degli amori di Claire Marin, l’autrice scrive: «Certe lealtà non sono più legami, ma un cappio che si stringe attorno al collo». La costanza nelle relazioni, dice Marin, quando certi assetti per forza di cose saltano a causa degli eventi della vita, diventa una costruzione artificiale e non l’effetto di un desiderio intimo. Più avanti ancora scrive che se essere fedeli a sé stessi – dove per sé stessi qui intendiamo l’io, non l’es – ci costa troppa fatica, allora bisogna darsela a gambe e venire meno agli impegni presi. Qui la fuga non si considera mancanza di responsabilità, bensì il gesto estremo di chi la propria vita se la prende finalmente in mano.

Il protagonista della storia narrata ne L’anniversario di Andrea Bajani risponde a questo impulso compiendo un gesto “scandaloso”, che è quello della fuga e della postuma dissezione della propria famiglia.

Per alcuni la fuga è un nascondiglio, ma per altri è una presa di coscienza, soprattutto quando è l’inizio di un lavoro di scavo interiore finalizzato all’individuazione: mi distacco da te per essere me. Chiunque decida, a un certo punto, di grattare via la patina superficiale che fa da involucro alle nostre esistenze deve attraversare l’oscurità che deriva dal passare al vaglio la propria famiglia di origine (dove per famiglia si intende anche, in senso lato, affetti), colta in alcune movenze o posture, e si trova costretto a osservare certi terribili fotogrammi della memoria che si credevano rimossi, e che a un tratto assumono un senso diverso, epifanico, a tal punto che la nuova luce mette a nudo un groviglio prima non visto. Non sempre è possibile scioglierlo, ma nel tentativo di venirne a capo si ripercorre un pezzo di strada che accresce la consapevolezza con cui ci muoviamo nel mondo. Il qui ed ora, posto e assodato che esista, ha un prima e un dopo. E la nostra vita, per usare la metafora della matassa, si dipanerebbe svelando a un certo punto una qualche interruzione, un nodo. Lì dove si annodano i fili è il segreto di ognuno di noi. Il groviglio è l’interruzione, il momento in cui lungo la strada priva di ostacoli dell’infanzia si impongono le figure di riferimento – in questo caso i genitori – con le loro personalità e le loro necessità egoiche, interrompendo la libera espressione di innocue creature alla scoperta del mondo.

Per un pezzo lungo il percorso ambiguo del mondo adulto si procede a tentoni, spesso in preda a  lesivi automatismi ma del tutto inconsapevoli: particelle senza attrito. Vorremmo essere noi stessi, ma siamo ancora intrappolati nel desiderio di soddisfare le aspettative, subdole o dichiarate, di qualcun altro, quindi continuiamo a orbitare attorno al nucleo, senza apparente conflitto.

Certe domande, oggi più che mai, sorgono spontanee: perché mettere al mondo un figlio se poi bisogna addestrarlo, reprimerlo, contenerlo, terrorizzarlo, inibirlo? Perché arrestare l’infanzia, ancora prima che un bambino possa sentirla nel corpo e goderne, e allevare futuri adulti interrotti, il cui meccanismo a un certo punto – a volte presto, a volte tardi – si inceppa? Quale genitore, davanti alla paternità o alla maternità, si interroga con coscienza su come ha intenzione di esercitare il proprio ruolo? Quale genitore, davanti al proprio figlio, è pienamente consapevole di essere davanti a una persona che è altro da sé, di non possederlo?

L’anniversario si inserisce nella falla aperta da queste domande. Pur non parlando esplicitamente di infanzia, si intuisce la ferita inferta al protagonista, un tempo anche lui bambino e poi adolescente, dai suoi caregivers, due personalità ipertrofiche a modo proprio: da un lato il padre patriarca, dall’altro una madre granitica che resiste all’abuso.

Le due citazioni in esergo rimandano al trauma e a quello che Tove Ditlevsen ha abilmente messo a fuoco e scritto nel primo volume della sua Trilogia di Copenaghen: «Io so che ogni persona ha una propria verità, allo stesso modo in cui ogni bambino ha una propria infanzia». La ferita dell’infanzia altera la nostra percezione del mondo, diventa il nostro occhio; il protagonista del libro di Bajani è uno dei tanti adulti interrotti, figlio di un sistema malato la cui morsa stringe ancora oggi molte coppie, anche se certa violenza strisciante, fisica e psicologica, non si vede mai a occhio nudo, mai per strada e in pubblico. Per vederla devi entrare in casa e chiuderti la porta alle spalle, perché è lì che si consuma. È lì che l’infrastruttura del nostro carattere, formatasi in risposta al trauma, incontra il suo palcoscenico migliore.

Tra le mura domestiche del condominio piemontese, sotto lo sguardo attento di un figlio che si mette in disparte e osserva, si muovono due figure, due carnefici: un uomo traumatizzato e privo di autoregolazione emotiva – un uomo che sta lì a rappresentarne molti – e una donna che avrebbe potuto vivere un’altra vita e invece si ritrova al confine con un paese straniero con due armi potentissime in mano: il silenzio e una certa forma di tenacia. E che tenacia, che determinazione a proteggere quegli uomini – «emotivamente automutilati e sconnessi», per dirla con le parole di bell hooks – dal male che loro stessi provocavano. Del resto, un uomo traumatizzato e affamato d’amore non può che traumatizzare e far morire i propri cari – i figli, più di tutto – di fame emotiva. La donna complice che ha di fianco aggrava soltanto il dramma già in essere. Perché, tornando a bell hooks, «l’accettazione collettiva da parte delle donne della violenza maschile nei rapporti di coppia, anche se maschera la rabbia, la paura […] rende difficile mettere in discussione e fermare quella violenza». Davanti alla violenza dei padri, e al silenzio complice delle madri, i bambini traumatizzati si interrompono; il tumulto interiore impossibile da decifrare diventa un cappio con cui strangolare i bisogni. Possiamo immaginare che al protagonista de L’anniversario sia successo proprio questo, e che per questo si sia fatto osservatore, facendosi da parte. In perfetto accordo con quello che ipotizziamo sia stato il suo meccanismo di difesa, ha lasciato la scena a sua madre e a suo padre. Ipotizziamo che abbia controllato le emozioni durante gli accessi di ira del padre (lo si intuisce quando rientra a casa dopo l’episodio di violenza), ha comunque lasciato che fosse la madre a decidere di restare a rimettere in ordine: un mansueto (forse schivo?) aiutante di una madre ferma sulle sue posizioni. Il perché non è dato saperlo, né al figlio né a noi lettori.

Ci sono misteri della coppia che rimangono occulti e che nella maggior parte dei casi non coinvolgono i figli. E il senso di tradimento che proviamo quando ci accorgiamo che i nostri genitori non sono adeguatamente venuti incontro ai nostri bisogni, perché impreparati, e perché noi non avevamo ancora la parola, è un altro colpo inferto. Il colpo che spinge il protagonista del romanzo a dileguarsi. A darsi, appunto, alla famosa fuga elogiata da Claire Marin.

Restiamo legati alla famiglia perché, come dice lo stesso Bajani in un’intervista, è il sangue a imporcelo. Ma il sangue dev’essere ridimensionato. Se è possibile lasciare amanti e amici, perché non sentirsi liberi di lasciare un familiare, o un genitore, o entrambi? Molti genitori lasciano i figli non solo materialmente, bensì sottraendosi al coinvolgimento emotivo. La domanda che dovremmo porci, oggi più che mai, è: perché non può succedere il contrario?

Può succedere. Se prima i condizionamenti bastavano a tenere saldi i legami senza discuterli, oggi non è più possibile. Per decenni, secoli, l’impossibilità o l’incapacità di stabilire confini faceva sì che la famiglia strabordasse, e noi strabordassimo in lei, in un invischiamento simbiotico spesso patologico. Oggi un’inversione di tendenza è possibile, e dopo aver letto il romanzo di Andrea Bajani si ha la sensazione che lo sia ancora di più.

Non ci è dato sapere se il protagonista abbia risolto o meno il garbuglio della sua vita. La sua vita privata è a margine di questa storia. Verso la fine si sente il pianto di un bimbo, suo figlio, come l’eco di un dolore antico. Grida “mamma” cinque o sei volte, dice chi scrive. Cinque o sei volte vuol dire che ha proprio bisogno di essere visto e riconosciuto, che ha paura e ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a scoprire che non c’è alcun pericolo. Se è vero che il protagonista ha rinunciato all’eredità paterna e patriarcale, ha aderito a quella materna sottraendosi a sua volta. Il “bambino interiore” che chiama la mamma alla fine, così come le immagini tenere di un padre che tiene il figlio in braccio mentre prepara da mangiare e mostra la cartina dell’Italia, riportano all’origine di tutto, la famiglia, come in un cerchio che si chiude. La speranza che resta, a fine lettura, è che il protagonista non si sia sottratto al suo, di ménage, rimanendo un introverso osservatore ma, avendo imparato a riconoscere i propri bisogni, si sia messo in gioco andando incontro a quelli del figlio, restando sempre a guardia del bandolo della matassa.

Per Gianni Sassi, fiancheggiatore di artisti

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di Biagio Cepollaro

È da poco uscito Gianni Sassi fuorigabbia. Pubblicità, grafica, editoria, musica, ecc., curato da Filippo Pennacchio per Mimesis (collana Ricerche IULM; Milano, 2024, euro 26). Attraverso saggi, testimonianze, fotografie, il volume ricostruisce il percorso creativo di Gianni Sassi, figura poliedrica che fra anni Sessanta e Novanta del Novecento si è mossa fra gli ambiti creativi più diversi, collaborando con decine di artisti e intellettuali. In molti, ancora oggi, ricordano la Cramps Records, “Alfabeta” e MilanoPoesia, ma insieme a questi progetti ce ne sono moltissimi altri, spesso poco conosciuti, di cui il volume cerca di dare conto. Quella che segue è una delle testimonianze incluse fra le sue pagine. A firmarla è Biagio Cepollaro, il quale lavorò a stretto contatto con Sassi nei suoi ultimi anni di vita. (f.p.)

 

Gianni mi diceva: il mio compito è promuovere la cultura. La sua cooperativa si definiva “di promozione culturale” e si nominava Intrapresa. Con l’allusione all’impresa vi era tutta la scommessa “socialista” degli anni Ottanta: la possibilità di coniugare l’impresa con la cultura, le ragioni del mercato con le ragioni della ricerca e della sperimentazione. Questa scommessa era persa in partenza perché non esiste né potrà mai esistere un capitalismo dal volto umano, ma decenni di socialdemocrazia avevano illuso, la caduta del muro di Berlino era stata salutata (anche nelle sale della Cooperativa Intrapresa in quei giorni, in diretta, da una collaboratrice in Germania) come fine della guerra fredda. E poi è facile oggi per noi dopo quarant’anni di devastante neoliberismo irridere a quella sfida troppo spericolata.

Questa scommessa, intanto, aveva come effetto collaterale la ridefinizione dell’intellettuale così come si andava precisando dalla fine della guerra. Per promozione (titanica e donchisciottesca) secondo Gianni si doveva intendere lo sperimentare il proprio specifico in contaminazioni con il “fuori” dell’accademia, il “fuori” del partito, il “fuori” delle logiche tradizionali dell’editoria e delle case discografiche. La sua promozione riguardava in particolare la grafica, la musica, la poesia, la danza, le riviste, la cultura materiale. Lui era sempre in ombra, dietro la scena che montava per gli altri, per gli artisti, ma consapevole della sua vera forza che era la capacità di intuire immediatamente la qualità (la freschezza, la sincerità, la futuribilità) di un talento. Il “fuori” dell’arte per lui credo sia stata la partecipazione a momenti significativi dell’ultima avanguardia, di Fluxus, la cui logica per statuto cancellava le gerarchie consolidate e le relative istituzioni. In tale direzione andava anche il suo amore per la performance come forma d’arte e il principio del fluire costante dalla vita quotidiana all’arte, fino all’indistinzione.

Gianni al Lucky Bar mi spronava: “Cepollaro esagera!” insegnandomi a bere le diverse qualità di superalcolici… Ma cosa insegnava, lui cinquantenne a me allora trentenne? Il principio fondamentale dell’avanguardia storica: la trasformazione della vita, il coraggio dell’invenzione, della contaminazione, dell’irrisione e del rischio. La prima volta che lessi le mie poesie a MilanoPoesia nel 1989 ero molto teso e commosso, insicuro sul “come era andata”, e lui mi fece capire brusco che l’importante era che la lettura fosse piaciuta a me, che non doveva importarmi del pubblico. Quasi ogni giorno andavo in Cooperativa perché abitavo nei pressi e mi stupivo sempre del fatto che Gianni non si soffermasse sulle cose fatte ma era sempre su un nuovo progetto. A parte le ore al Lucky Bar non prendeva mai pause, neanche in estate, quando si trasferiva nelle Marche dagli amici Bucci e continuava a progettare. Non si concedeva neanche un attimo di compiacimento, era sempre dentro un nuovo problema da risolvere.

L’incontro con Gianni Sassi per me è stato decisivo. Coincide con l’edizione del 1989 di MilanoPoesia, con la nascita del Gruppo 93 nel suo ambito, con l’edizione della rivista “Baldus” per alcuni suoi numeri. Devo sempre all’incontro con Gianni l’esperienza di consulenza per la poesia italiana per le edizioni successive di MilanoPoesia, fino all’ultima del 1992. Grazie a questo straordinario art director, come amava definirsi, ho avuto la possibilità di incontrare a Ginevra John Cage nell’ambito di un festival di poesia sonora, così come, grazie alla frequentazione quotidiana del Lucky Bar, quel misto di intellettuali e imprenditori che animavano le notti della Milano socialista prossima alla fine che ha ispirato il mio romanzo La notte dei botti, scritto fra il 1993 e il 1997 e pubblicato solo nel 2018. Direttamente o indirettamente devo a lui la possibilità della mia amicizia con Amelia Rosselli, l’incontro con Paolo Volponi, Nanni Balestrini, l’amicizia con Giulia Niccolai e quindi l’esperienza del buddismo tibetano, i reading a New York, a Los Angeles, a Parigi e a Marsiglia. In generale devo a MilanoPoesia, e quindi a Gianni, la frequentazione di me trentenne, da poco trasferito da Napoli, dell’ambiente letterario della sperimentazione milanese e non solo.

Ciò che più mi impressionava era la sua capacità di valutare senza essere esperto del campo in cui si lanciava in giudizi. Si chiama intuizione, ma con questa parola non si dice molto. Quell’intuizione era probabilmente la stessa che ha un pittore quando sceglie un colore: non sa esattamente cosa accadrà ma sa che quel colore andrà bene per la mescola che sta per fare. L’intuizione riguardava la possibilità che quell’ingrediente desse vita a un nuovo piatto, mai cucinato prima. Era questo l’importante: la possibilità intuita di una novità finale. Si potrebbe pensare che questo sia propriamente il lavoro dell’art director e in un certo senso è vero. Ma in Gianni c’era qualcosa di inusuale: come azzardo grafico e ideativo non aveva rivali, così come nel valutare le persone, la loro reale motivazione, il livello di passione militante, lo spessore formale, la verità dei contenuti. Implacabile il suo giudizio, veloce, perentorio, insindacabile. A molti faceva paura con quel suo cappello nero e la figura massiccia e imponente: era capace di esplosioni rabbiose che risuonavano per tutti i locali dell’Intrapresa. La mancanza di puntualità nelle consegne, di fedeltà alle promesse, di sincerità lo facevano immediatamente imbestialire. Aveva dei criteri etici di conduzione del lavoro intellettuale, e tali criteri coincidevano ai suoi occhi con l’ossatura morale della persona. Gli piaceva la mia svizzera puntualità (io, napoletano) perché gli ricordava il padre operaio, il rigore spartano dell’industria. A pochi non sfuggiva invece la sua timidezza, il suo sorriso pronto a sparirgli dalla faccia e la sua tristezza da Frankenstein, suo pseudonimo per le incursioni musicali.

Per me c’erano almeno tre Gianni: quello burbero e intimidente della Cooperativa Intrapresa (accoglieva chiunque solo su appuntamento), quello che insegnava con i racconti e gli aneddoti di vita e di arte e infine l’amico personale di bevute e non solo. Mi trasferii a casa sua per una settimana quando provai la prima volta a separarmi da mia moglie. Fu affettuoso come un fratello maggiore.

Il Gianni della Cooperativa era irascibile al massimo grado, bastava una parola meno che umile da parte del suo interlocutore per muoverlo all’irrisione impietosa. Ciò che non sopportava era la presunzione, il darsi delle arie, la chiusura moralistica degli intellettuali, la mancanza di pudore degli artisti. La presunta torre d’avorio, la presunta nobiltà del lavoro intellettuale rispetto alle altre dimensioni del lavoro lo esasperavano. La sciocca vanagloria degli intellettuali gli era intollerabile. Ciò che al contrario apprezzava era la schiettezza, la semplicità, la “realtà” della presenza. E la puntualità, va ripetuto, in massimo grado. Il Gianni della Cooperativa mi affidava degli incarichi che mi stimolavano sempre perché erano fuori dal mio ambito di competenze. Dovevo stiracchiarle quelle competenze e questo mi imponeva delle ricerche, mi obbligava al nuovo, al nuovo per me. Oppure gli incarichi erano facili ma da svolgere in tempi strettissimi. Mi telefonava, per esempio, e mi chiedeva di trovare dei versi di Pascoli che andassero bene per un’etichetta di vino. E gli dovevo la risposta in mezz’ora. Ma poi collocava me trentenne in tavole rotonde di MilanoPoesia con degli intellettuali affermati perché diceva che in qualche modo garantivo la presenza dello spirito della manifestazione in quelle situazioni, una sorta di garanzia di fedeltà allo spirito di MilanoPoesia, che considerava la sua creatura. Il pomeriggio, la sera e talvolta la notte al Lucky Bar mi ripagava di questo e di altri miei lavori offrendomi da bere (Vodkatini, Martini cocktail, Old fashioned, Manhattan con cinque gocce di angostura) e con le cene preparate dal mitico Carlo Bozzoni.

Il Gianni insegnante raccontava le sue imprese giovanili come pioniere della pubblicità degli anni Sessanta, la sua militanza politico-culturale sempre fuori dagli schemi di partito. Insegnava a osare e a seguire il proprio spirito di rivolta. Quando mi trasferii a casa sua per quella settimana di cui scrivevo prima, trovai all’ingresso i pacchi della sua ex compagna, pacchi che dovevano essere lì da molto tempo… Un dolore per quella separazione di cui non parlava mai ma che la sua casa, poco o nulla abitata, diceva in ogni angolo. Quel dolore personale, intimo, restava senza parole ma credo che intensamente lo lavorasse dall’interno, nel profondo.

Poi la malattia, la vicinanza in quel breve percorso di scarse speranze, la sua forza d’animo (e ostinazione a fumare, rassegnato e indifferente), la sua morte e i pochissimi amici presenti nella sala mortuaria del Policlinico. Poi il funerale, invece, con tanta gente, una folla composita proveniente dai vari ambiti del suo lavoro, dalla musica alla grafica, alle riviste, alla poesia, alla danza e al teatro. Io accompagnai la bara leggendo una poesia che gli avevo dedicato, leggendo rivolto alla bara, accompagnando il mio amico così mentre la mia gratitudine si mescolava alla gratitudine di tutti i presenti. La sera in pochi amici andammo a bere al Lucky Bar sapendo che non era finito solo Gianni, era finita la Milano della cultura aperta alle differenze, mentre la Lega aveva preso il potere e tolto i finanziamenti a iniziative culturali come MilanoPoesia. Nel 2002 dedicai a lui e a mio figlio Carlo Fabrica, il libro scritto fra la sua morte e la nascita del mio bimbo.

Gli hanno dedicato da poco una strada a Milano. A lui che si definiva un “fiancheggiatore” di artisti. E me lo vedo che ride a mezza bocca scalpitando per andare a fare qualcosa di urgente.

La vecchiaia del bambino Matteo

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di Romano A. Fiocchi

Il titolo è un ossimoro affascinante: La vecchiaia del bambino Matteo. Non basta, il libro si apre con un’immagine che non poteva essere concepita se non da un poeta, qual era Angelo Lumelli: un vagone merci fermo in mezzo alle risaie, da solo, sulla linea ferroviaria Mortara-Pavia, appena prima di Casoni di Sant’Albino. Che fa lì? Rappresenta la vecchiaia. Quella di Matteo, di Ernestino, di Gustavo, del quarto misterioso amico, che è poi la voce narrante. Si tratta di un’immagine-simbolo che accompagnerà il lettore per tutto il romanzo. Che è circolare, pertanto il vagone merci tornerà nell’ultimo capitolo. E il tempo si chiuderà su se stesso. Intanto subentreranno altre storie e altri personaggi. Li riassume la stessa voce narrante nella terzultima pagina del libro:

«Matteo che scopre gli occhi di sua madre Evelina, la macchia d’inchiostro il primo giorno di scuola, l’arte delle lettere maiuscole con il pennino lungo, il filo d’erba sul maglione di Ernestino, la volata di Rosalba e Matteo, i bombardamenti per scoprire la verità, la sera delle torte guarnite il 28 di agosto, la pesca matura sotto la luna, il grande volo dei tacchini, Ernestino tra gli affreschi di Nostra Signora delle Vigne, Gustavo la notte dei due cieli, Diodato nel recinto dei nomi, Sabatino che appoggia la mano sulla coscia della bella signora sconosciuta, le mandrie dei bovini in fuga e le grida dell’uomo degli occhiali rotti».

Credo che questo sia già sufficiente per dare un’idea della complessa bellezza di questo romanzo. Che ho letto, devo dirlo, con un rimpianto sin dalla prima pagina: Angelo Lumelli è morto il 4 novembre scorso, a ottantuno anni. Ho comprato questo suo libro, uscito per le edizioni Qed, pochi giorni prima della sua scomparsa. Quando ho appreso la notizia non ne avevo ancora iniziato la lettura, mi sono quindi ritrovato a penetrare nel suo mondo con la sensazione di profanarlo. Tanto più che Lumelli, da quel mago della parola che era, vi ha messo dei trabocchetti per limitarne l’accesso: ho dovuto rileggere le prime pagine almeno tre volte prima di capirlo. La sua scrittura non è né un flusso di coscienza alla Joyce, né un susseguirsi di frasi sospese alla Céline (quello di Morte a credito). È piuttosto una corrente musicale di parole, ininterrotte, come una partitura wagneriana. Le parole creano dapprima immagini sfocate, poi sempre più nitide, la narrazione oscilla come se fosse composta da onde sonore che si inseguono, finché solidifica in una serie di storie che appartengono a un passato mitico, che non tornerà più. Le nuove generazioni non conosceranno mai le bestie nelle stalle, tanto meno «gli attrezzi agricoli antichi, i gioghi dei buoi, i falcetti da grano, perfino le verghe per battere i ceci, le fave sottratti da chissà chi, chissà perché, per comparire, decenni dopo, nei mercatini dell’antiquariato, insieme alle padelle stagnate, ai calderoni rappezzati». Tutte cose estinte che evocano il periodo più ‘vivo’ dei protagonisti, ossia la vita dei bambini Matteo, Ernestino, Gustavo e del loro amico: la fantomatica voce narrante. Che sia lo stesso Lumelli?

È dunque un’infanzia speciale, la loro, arricchita di un’amicizia altrettanto speciale. Ripercorrendola attraversiamo l’ultimo dopoguerra, gli anni Cinquanta, i cambiamenti inarrestabili di un piccolo paese del Piemonte, per poi inseguire le vite degli ex bambini tra Genova, Torino e Milano. Attenzione, niente a che vedere con il neorealismo: qua e là crepitano esplosioni di fantasticherie e visioni surreali. Ci sono descrizioni minuziosamente nostalgiche, come quella dei vecchi calamai nei banchi di scuola, ma anche magistrali ‘sequenze cinematografiche’ impregnate di parole onomatopeiche, come nel grande bar milanese con specchi, marmi, radica di noce e predella di legno. Merita di riportarne un passo:

«Per reggere l’ora di punta dei caffè la tecnica migliore è il ritmo. Per primi vanno giù i piattini uno due tre quattro via via come volando dalle cataste impilate verso il banco – avanti con i cucchiaini messi per il verso giusto basta farci la mano – dietro front davanti alla macchina multipla sotto con sei tazzine quindi tre beccucci doppi – estrarre con mezzo giro la presa battere due volte toc toc sulla cassetta del caffè usato – avanti sotto il dosatore clac clac rimettere la presa tirare mezzo giro schiacciare il pulsante blo blo blo via i primi due avanti gli altri – cappuccino? piattino grande sul banco cucchiaino dietro front toc toc clac clac schiacciare il pulsante pronti gli altri due caffè – provare il beccuccio del vapore un fischio una nuvola su e giù con il bricco d’acciaio del latte per fare la schiuma niente schiuma signore? – trattenere la schiuma con il cucchiaino versare il latte cacao? no grazie via gli altri due caffè – ritirare le prime due tazzine buttarle dentro al lavello attento alla bustina dello zucchero! – o perdi il ritmo accidenti! è lui che ti porta alla meta – lui è il tuo pensiero centrale! – in quel casino di mani di visi che appaiono sulla scena davanti al banco un campionario di mani di dita con anelli senza anelli unghie con la lacca data di fresco, unghie scheggiate – risalire al viso mentre sorride interamente con gli orecchini le mani – una fine peluria sul labbro ecco l’orlo della tazzina si avvicina al labbro inferiore adesso si apre appena appena si vedono i denti bianchi si tira indietro i capelli – uno tiene la tazzina da sotto come le scodelle in campagna chissà da dove viene? – io sono contento al confine dell’entrata del mondo – fuori la città è piena di esterni che sono pieni di interni».

La parola, le parole, al centro dell’idea di scrittura di Lumelli ci sono loro. La parola non è uno strumento di comunicazione ma è un oggetto, solido, musicale. Un concetto da poeta che entra nel narratore. Proprio come Diodato altro personaggio singolare entra nei nomi come se fossero un luogo. Non solo, Diodato, che ha ritirato l’intera biblioteca dismessa della Casa dell’Operaia di Cusano Milanino, apre i libri ma non li legge: attende l’arrivo delle parole. La sua cosa più straordinaria, quella per cui gli viene dedicato il titolo di un intero capitolo (Il correttore di romanzi), è la sua mania di contestare le trame dei libri inserendo tra le pagine una strisciolina di carta con le annotazioni più strampalate, ad esempio: «I fatti non sono andati come segue», oppure con esclamazioni di ogni tipo, a volte ai limiti del turpiloquio, come «Meglio se vai a cagare!» Tutto questo porterà Diodato a uscire di casa accompagnato dalla folla indistinta e litigiosa dei personaggi scappati dalla sua biblioteca.

Non dirò come invecchierà il bambino Matteo né come finiranno quelli che nell’accurato risvolto di copertina vengono chiamati ‘ragazzi di un poema perduto’. Dirò solo che le suggestive pagine finali del libro, con l’atmosfera sconvolta e il cielo che si nasconde dietro il nostro cielo, gli astri enormi dai colori magnifici ed esagerati, sembrano evocare un nuovo Viaggiatore del Tempo che non si perde nel futuro – come quello di Wells – ma nel passato. Nel tramonto di un’era che, con la scomparsa fisica di Angelo Lumelli, ci sembrerà ancora più lontana.

* * *

Articoli su Angelo Lumelli già apparsi su Nazione Indiana:

Lumelli: (tutte) Le poesie, con breve introduzione di Andrea Inglese;

Dalla scatola di scarpe a via Vigevano: andata e ritorno di Marina Massenz.

Da “Materia madre”

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[Per la collana “Manufatti poetici” di Zacinto edizioni, presentiamo degli estratti di materia madre (versione minima), uscito all’inizio del 2025.]

 

di Barbara Giuliani

 

Da rizoma:

 

non esiste una nota a margine.

questo è il margine:
una operazione geometrica
in cui calcoliamo l’aria di un cilindro
trenta per cinque.

c’è un uomo in un sito on line
che cerca di comprare uno spargifoglie e
non ha un giardino.

non sappiamo dove siamo, forse
in un paese a bassa densità demografica,
con un tasso di natalità allo zerovirgolatrepercento.

quando sei in un cilindro
il mondo diventa chiave e porta,
tessera sanitaria e cup,
biglietto per lo stadio e curva,
tutto nello stesso punto idrogeografico.

le stagioni si confondono,
si prestano le temperature,
si scambiano favori idraulici e
non hai paura che un raccolto possa andare a male.

il sole e la luna sono:
onnipresenti;
vengono vessati e idolatrati,
simboli di una religione extracorporea.

il giorno e la notte sono:
miscelati;
abbiamo creato un grigio perenne,
unica ambientazione per vivere o morire,
non ci si reincarna.

 

*

Da cartilagine:

 

– scrivi un verso erotico –

spalanca la mia fica, per vedere cosa sia rimasto di me,
oltre le piccole scorie degli uomini passati sul mio ventre.
lecca i margini del mio scrivere per rendere potabile
la carne che corre dentro il mio essere mostrato
al mondo nella forma più comune a cui siamo abituati:
un essere umano.

– il cameraman si è bendato gli occhi –

il rumore è diventato un suono continuo e sottile,
a settantanove metri dalla mia postazione di vita.
una trota sta morendo in un fiume a
ottocentocinquantacinque metri di altitudine.
la signora elena è arrivata al cimitero
sulla tomba di suo marito.

– il cameraman non riesce a inquadrare
nitidamente la lapide –

lo chiameremo mario, per comodità,
a noi non interessa, ma sembra doveroso saperlo.
a syracuse sono le undici di mattina del diciotto luglio,
non specificheremo l’anno, per avere queste informazioni
riproponibili ogni volta in cui ne avremo bisogno.
ci sono cose che non hanno data di scadenza, tu
qui vuoi degli esempi:
l’amore di un criceto per la sua compagna.
una zolla di terra dell’irpinia e
un cornicione di un tempio buddista.

l’insalata mista va condita con l’aceto,
non si discute.

*

Da pigmento:

 

appendice.

preghiera contro la madre.

non chiedere di venire al mondo
a un figlio sconosciuto,
a un corpo ipotizzato negli strati,
a un agglomerato non urbano
di vendicare la tua terra.

lascia cadere in rovina il tuo grembo,
gettalo in un campo di ortiche in cancro,
rovinalo con relazioni violente, livide e sbottonate.

non perdere tempo nella tua giovinezza e
nella tua vecchiaia a cercare un nome
memorabile da poter piangere.

termina madre la ricerca di un dolore,
eliminato dal mio non esserci.

non ti affaticare a trovare
una soluzione nascente,
qui tutto è morto,
già diagnosticato e nessuno ti chiede
perdono, per esserci o non
stata.

smettila di sistemare la tua vita,
per accoglierne un’altra
che non vuole condividere con te
nemmeno lo spazio di una tregua.

arrenditi madre,
al danno epocale
che siamo stati capaci di creare,
ma non di debellare,
siamo una malattia atavica.

accomodati, ti lascio del rancore.

 

Carol Ann Duffy: «sono molto vicini a noi, i morti»

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di Carol Ann Duffy

È uscito per Crocetti Elegie di Carol Ann Duffy. Ospito qui alcuni estratti dal libro.

***

E poi cosa

Poi con le loro mani spezzavano il pane

salutavano soffocavano telefonavano colpivano cucivano

 

Poi con le loro mani stanche si lasciavano cadere

su un tavolo tenendosi la testa

 

Poi con mani gioiose ne afferravano altre

o fugaci accarezzavano la carne in un letto accogliente

 

Poi con le loro mani sulla vanga

seppellivano i morti.

 

***

 

Racconto d’inverno

Racconta di come lei stia bene tra queste braccia;

il battito del suo cuore sul mio, sinonimo;

il mondo un piccolo spazio; lenito

ogni dolore; inspira, espira,

l’amore al posto della morte, speranza,

al dolore carne al posto della pietra; il mio verso – Oh

è calda! – incantesimo, benedizione, preghiera,

sortilegio; fuori dal sogno, fuori dal tempo;

presagio di incantesimi detti, giardino al posto della tomba

per farle una ghirlanda sopra questi vermi,

violette, primule, aquilegie;

si sveglia, si muove, sollecitata dal suo nome.

 

***

 

I morti

Sono molto vicini a noi, i morti;

noi nei tassì, loro nei carri funebri,

aspettando il cambio di luce.

Gli diamo la precedenza.

 

Così vicini a noi, sconosciuti in televisione;

morti di inedia, terremoto, guerra,

kamikaze, tsunami. Ne contiamo parecchi.

 

I morti famosi – doppio glamour –

compriamo la loro musica, i film, le memorie.

Oh! Elizabeth Taylor nel ruolo di Cleopatra

splendido technicolor.

 

A Venezia, vediamo i morti

trasportati verso l’isola del cimitero al di là della laguna.

Fluttuiamo con le gondole lungo i canali verdi ù

e non moriamo.

Photomaton: Carla Fracci

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di

Augusto De Luca

“Sono passati diversi anni, ma il ricordo di quell’incontro, la memoria di quel momento magico resterà per sempre. Erano i primi anni novanta, per essere precisi il 1991 e da poco era uscito in tutte le librerie il libro “Napoli Donna”, con i miei ritratti di trentasette importanti donne napoletane, accompagnati dalle interviste della giornalista Giuliana Gargiulo. Avendo avuto un notevole riscontro, io e Giuliana decidemmo di realizzare un altro libro, stavolta sulle donne di Milano, libro che però per vari motivi non fu mai pubblicato. Preparammo allora una scaletta di nomi illustri e la prima della lista era Carla Fracci. Il caso volle che dopo neanche un mese la stupenda ballerina insieme al marito Beppe Menegatti venissero a Napoli proprio da Giuliana che li ospitò. Ricordo bene infatti che la conobbi ad una cena in casa sua. Le proposi di partecipare al progetto e lei ne fu subito entusiasta. Era andato tutto bene… però la Fracci sarebbe rimasta a Napoli pochi giorni, io dovevo subito trovare una location e soprattutto decidere come fotografarla. Cominciai allora a documentarmi e a cercare…. leggendo la sua biografia capii dalla data di nascita che il suo segno zodiacale era il leone, un segno che le calza a pennello; infatti io l’ avevo sempre considerata una donna molto forte,una vera guerriera, caratterialmente e professionalmente. Mi ricordai allora che a casa della mia amica Valeria Carità, in un antico palazzo a Monte di Dio, quartiere San Ferdinando, avevo visto un grande leone di pietra. Immediatamente organizzai tutto e il giorno dopo io e la Fracci ci recammo in quella lussuosa casa. Lei era bellissima, delicata ed eterea come una porcellana cinese e indossò lo stupendo vestito merlettato che si vede nella foto. Dopo qualche prova e pochi scatti capii che avevo la foto giusta. Finalmente potevo rilassarmi. Passammo un po’ di tempo a chiacchierare e poi la riaccompagnai. La rividi a Milano perché venne ad una mia mostra fotografica al “Diaframma” in via Brera. Le diedi il suo ritratto e lei subito mi disse: ” Bella…..e poi il leone è il mio segno zodiacale”, capii di aver fatto centro.”

Augusto De Luca, (Napoli, 1 luglio 1955) è un fotografo e performer. Ha ritratto molti personaggi celebri. Studi classici, laureato in giurisprudenza. E’ diventato fotografo professionista nella metà degli anni ’70. Si è dedicato alla fotografia tradizionale e alla sperimentazione utilizzando diversi materiali fotografici . Il suo stile è caratterizzato da un’attenzione particolare per le inquadrature e per le minime unità espressive dell’oggetto inquadrato. Immagini di netto realismo sono affiancate da altre nelle quali forme e segni correlandosi ricordano la lezione della metafisica. E’ conosciuto a livello internazionale, ha esposto in molte gallerie italiane ed estere. Le sue fotografie compaiono in collezioni pubbliche e private come quelle della International Polaroid Collection (USA), della Biblioteca Nazionale di Parigi, dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma, della Galleria Nazionale delle Arti Estetiche della Cina (Pechino), del Museo de la Photographie di Charleroi (Belgio).

 

Due domande che avrei voluto fare a Mathias Énard

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Mathias Énard, foto di ©Pierre Marquès

di Davide Orecchio

Sabato 22 marzo, al festival romano Libri Come, lo scrittore francese Mathias Énard (uno dei migliori che abbiamo nei nostri anni) ha presentato il suo ultimo romanzo, Disertare (E/O 2025). Ero lì ad ascoltarlo, in una fila laterale, e mentre parlava (in italiano!) del suo libro, di Europa, di guerra, di storia e di letteratura, mi sono venute in mente un paio di domande che avrei voluto rivolgergli. Domande che non gli ho fatto. Non ho avuto né il tempo né la faccia tosta di porle quando si è aperto uno spazio di confronto con il pubblico. Allora provo a scriverle qui.

La prima domanda riguarda l’identità europea di Énard. Ho letto molti suoi libri e, quando apro una pagina di Mathias Énard, l’ultima cosa che penso è di essere al cospetto di un autore francese (ma, certo, chi magari ha in mente Il banchetto annuale della confraternita dei becchini potrebbe non essere d’accordo). Cioè, il fatto che Énard sia francese sembra davvero secondario, e dal momento che lo leggo tradotto lo sembra ancora di più. Emerge con forza, invece, un’identità cosmopolitica ed europea (oltre al talento e all’onniscienza di Énard).

Mathias Énard, foto di ©Pierre Marquès

Dai romanzi di Énard, dai luoghi narrati nei suoi libri, si potrebbe, per gioco, ricavare una sorta di mappa che espone molte città e territori: ad esempio Venezia, Barcellona, Vienna, Berlino, e poi i Balcani, Istanbul (Costantinopoli), il Vicino e Medio Oriente, l’Africa Settentrionale. Una mappa narrativa che si estende ben oltre i confini dell’Europa e dell’Unione Europea, e lambisce e illustra una grande area nella quale, con Fernand Braudel, potremmo individuare quanto resta della civiltà mediterranea.

Questa mi sembra la geografia letteraria di Énard. Ma questa è, purtroppo, una digressione rispetto a quanto scrivevo sopra, ossia al trovarci di fronte a uno “scrittore europeo” come pochi ce ne sono (un altro è Gospodinov, ad esempio). Uno scrittore transnazionale, col passaporto francese.

Allora, cerco di tornare a quella domanda. Ma devo perdermi in un’altra digressione.

Pochi giorni fa, proprio a Roma, si è tenuta una manifestazione per l’Europa che ha avuto un’eco straordinaria. Molti ne hanno parlato, molti vi hanno partecipato, in numero persino superiore alle aspettative degli organizzatori. Ci è andata un sacco di gente. Altri invece non ci sono andati, perché non si fidavano di chi l’aveva convocata e delle sue motivazioni.

Ma anche chi vi ha preso parte (io c’ero) lo ha fatto per motivi diversi. C’erano persone con le bandiere della pace, c’erano le bandiere dell’Ucraina, c’era gente (pochi per fortuna) che si aggirava con l’elmetto in testa. C’erano le bandiere della UE. Mancava però una parola d’ordine, un denominatore comune, una piattaforma condivisa. Si era lì per l’Europa, perché ci si sente e si è europei. Ma rispondere alla domanda “qual è la ragione per cui ti senti europeo?” sarebbe stato complicato per molti, e le risposte della piazza sarebbero risultate eterogenee.

La stessa Europa a 27 non sa rispondere a questa domanda. Sei europeo perché credi nella pace dopo un millennio di carneficine che i tuoi antenati hanno imposto al mondo intero e a sé stessi? Sei europeo perché tieni alle radici antifasciste sulle quali è stata costruita questa Comunità transnazionale? Sei europeo perché tieni all’antimperialismo delle popolazioni orientali, che non vogliono tornare nella disponibilità dei russi? Sei europeo perché credi in una forma di governo che vada oltre gli Stati nazionali? Sei europeo perché sei democratico? E cosa è per te, esattamente, la democrazia? In cosa identifichi le società, le culture, le democrazie europee per le quali scendi in piazza? Sei europeo perché non sei Trump, non sei Musk e non sei Putin? Un’identità si può definire anche per negazione…

E, a rifletterci un po’ sopra, questa Europa federativa e transnazionale che adesso ci sta a cuore (e che le destre europee post-fasciste invece detestano) nasce più da una negazione che da un’affermazione. Nasce dal desiderio istituzionale di farla finita con una identità militarista che, dopo mezzo secolo di guerra civile europea, restituì al mondo le macerie della WW2 e di Auschwitz. Con un tale passato alle spalle, è molto difficile riconoscersi in quanto europei senza ammettere di avere paura. Paura della Storia. Paura della violenza non sopita nelle braci di questo continente.

Ecco (alla fine è arrivata), la domanda che avrei voluto porre a Mathias Énard è:

“Se dovesse completare la frase Io sono europeo perché…, cosa aggiungerebbe? Qual è la prima cosa che le viene in mente quando ragiona sulla sua identità di europeo?”.

Poi c’è un’altra domanda, più rapida. Buona parte del romanzo Disertare è dedicata al racconto di un Paese che non esiste più, la Germania Est. Ultimamente la Ddr sta godendo di una buona fortuna letteraria. Mi sono chiesto allora se Énard abbia letto Kairos di Jenny Erpenbeck. E, se sì, che idea se ne sarà fatto?

Vedi quanta roba ti viene in mente quando ascolti uno scrittore?

La bestiola di Esenin. Dialettica di tecnica e linguaggio

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di Ezio Partesana 

So ascoltare un intero giorno, senza fare una versta,

la corsa del vento e il passo d’una creatura,

perché nel mio petto, come in una tana,

si voltola la calda bestiola dell’anima.

                                                  (Esenin, Pugačēv)

La linguistica degli ultimi cinquanta anni è ossessionata dalle frasi semplici: “Maria mangia una mela”. Come atomi, le parti del discorso si compongono all’infinito (e ricorsivamente) per dare vita a quel che chiamiamo Linguaggio e, nelle nostre lingue, frase, poema, legge, testamento.

La calda bestiola che si agita in noi traduce in effetti con disarmante semplicità quel che vogliamo dire in parole e l’ascolto in significati, come se altro non facesse da una vita. Possiamo ignorare un nome, se è difficile, o non sapere cosa vuol dire un termine tecnico come “epodo”, ma l’ordine generale è chiaro, resta solo una casella da riempire con il giusto contenuto. Il gioco è fatto, insomma, e tutti sanno le regole, anche se non sono scritte da nessuna parte.

Con gli atomi linguistici possiamo costruire tutte le infinite frasi possibili, e riflettere anche su di esse, duplicando il mondo in realtà e segni, e segni dei segni. Mentire, sia detto semplice, è un buon esempio della riluttanza, ora dell’universo ora nostra, all’accordo tra segno e cosa; “Di tutti i basalti quello era l’unico che avesse le pulci” è una proposizione senza senso ma grammaticalmente perfetta.

Però la bestiola, il demone, che si arrotola su di sé nella tana è, appunto, una anima e come tale tende a essere irrequieta più che scientifica, sentimentale piuttosto che ingenua. La Grammatica Universale rende conto della chiarezza e distinzione del linguaggio, non della sua confusione; sappiamo quali siano le competenze per far funzionare la macchina e che esse sono ereditate da chiunque senza scelta o desiderio, ma ignoriamo come mai la stessa cosa possa essere detta a fin di bene, o per vendetta.

Platone risolve il problema eliminando i poeti: dire quel che non è o rappresentare il non accaduto equivale a non dire nulla e a non raffigurare nulla. Le relazioni tra angoli alterni esterni si possono calcolare, insomma, le bugie no. Il sapere tecnico diventa un modello per la conoscenza teoretica tramite le interrogazioni socratiche sull’essenza del “saper fare” – vasai, architetti, ginnici, timonieri e quanto altro – che è, appunto, l’idea perfetta della scienza utile, di quella che dà prova di sé. E tuttavia, la Repubblica ideale, quella dei filosofi, non è la repubblica reale; il nobile ateniese scrive di cose che ancora non sono ma che dovrebbero essere, per il bene di tutti.

La contraddizione si sposta  – come fanno sempre tutte le contraddizioni – dall’imitazione alla verità e sono proprio le téchnai a rendere evidente come senza una qualche forma di negazione neanche il migliore artigiano potrebbe trasformare quel che è per sé in una cosa buona e giusta, il legno deve essere colpito d’ascia, la cera modellata a mano.

L’atomismo dei linguisti è perfettamente compatibile con le macchine da calcolo, la Repubblica di Platone no. L’intelligenza tecnica si fonda sulla raccolta dei dati, è il sogno di una induzione perfetta, quando la quantità di evidenze empiriche supera in ordini di grandezza qualunque probabilità e solo i miracoli restano esclusi dalla statistica. Socrate continua a chiedere ai suoi interlocutori: “Non dovremmo forse noi prendere a esempio il suonatore di cetra, che sa come usare lo strumento?”, e gli interrogati, in imbarazzo:  “Socrate, dipende da quale modello tu voglia proporre… Se si tratta di comporre canti in omaggio agli dèi, certo, ma quando si viene a cosa sia il linguaggio e perché la sapienza abbia a che fare con esso, le cose risultano più oscure”.

Omero gioca con le parole: la scaltro Ulisse inganna il saggio Polifemo che ancora crede all’identità di nome e cosa: “Nessuno è stato” e gli amici se ne vanno. L’accecamento del ciclope è letterale, così come l’inganno, e dal punto di vista scientifico non c’è altro da dire. La lingua ingenua è stata sconfitta dalla lingua smaliziata, nominalista, tecnologica.

Come certi organi o facoltà degli organismi viventi possono sopravvivere in una forma oramai inutile ma chiaramente visibile pur non servendo più a alcuno scopo, così il regno delle variazioni si aggira come uno spettro pensoso intorno alle roccaforti di memoria incalcolabile e velocità di computo. Il problema è che la buona Maria che mangia la mela è più facilmente assimilabile rispetto alle fantasiose divagazioni di Padre Ubu. Non si tratta solo di riduzionismo, le interminabili catene binarie non hanno alcun problema con la quantità, bensì di innaturale selezione delle frasi adatte alla sopravvivenza. Non basta un punto di domanda a esprimere un pensiero dubbioso, e non è sufficiente tradurre un “forse” in una espressione probabilistica per renderne il senso. Se la tecnologia tratta il mondo come dato – e non può essere altrimenti – il non dato diventa l’inconscio di ogni macchina, e di ogni dire in forma meccanica.

Non si tratta solo di aggiungere uno scaffale ai prodotti in mostra, e ancora meno di salvaguardare le emozioni dalla massa delle informazioni: i sentimenti sono oggi tra le merci più pregiate e diffuse, dai romanzi alla televisione, alla pubblicità e alla politica. Piuttosto è quel che non è chiaro, che non è evidente, a essere mal digerito dalla tecnica; la parola detta troppo presto non ha una quantità misurabile, come la vendetta del Servo non ha statuto di cittadinanza in alcun ordinamento telematico, e il pendolo non può essere persuaso.

I greci avevano una parola per questo (i greci avevano quasi sempre una parola per ogni cosa), la chiamavano Aletheia, “non-più nascosto”, in contrasto con l’idea, spontanea, del vero come rappresentazione di quel che è, e negazione di quel che non è. Ma la forma merce della letteratura – dall’intervento politico in un acceso dibattito virtuale alle sillogi poetiche della moltitudine esodante – non è strutturalmente compatibile con il lavoro nascosto, instabile e contraddittorio.

Quello che la comunicazione efficace elimina, nel suo bell’andare, è quanto non è registrabile in un codice a barre; la pubblicità chiede immagini di accompagnamento di uso immediato, e in letteratura consumo e scambio invertono i ruoli. Se a Francoforte il valore di un testo si misurava su quanto era stato da esso tolto, oggi a New York, e nelle altre periferie dell’Impero, si gorgheggia sulla partitura dell’immediato soddisfacimento di qualunque pulsione, purché paghi.

Avere otto frasi per dire esattamente la stessa cosa non è un lusso barocco che gli smisurati banchi di memoria informatici non possono permettersi, né un trastullo da filologi in cattedra, è, più semplicemente, una non-merce, un feticcio che recita la parte della cosa stessa, una perdita di tempo non ripagata da inserzioni e seguaci, un quasi nulla, o meglio, un opprimente nascosto, una sorta di dovere.

Se di quel che non si può dire chiaramente è meglio tacere, la logistica del contemporaneo si è portata avanti svuotando i magazzini degli invenduti, tagliando i tempi morti della consegna, e garantendo il diritto di resa; l’onore delle armi insomma.

La neutralità della Tecnica vale sino a quando si costruiscono armi, già lo studio della composizione del valore è mal visto negli ambienti che di quel valore si appropriano. Va bene parlare di guerra e di sfruttamento se si strappa una lacrima alla fine, e se c’è un modo di farla pagare, ma il meccanismo interessa poco; sotto il velo non è nascosto niente, perché mai dovremmo guardare?

La forma della merce è la forma della tecnica, astratto e concreto in un solo corpo; la tecnica è immateriale fino a quando non riceve una applicazione reale e la merce non è nulla se non viene scambiata. Ma ben concreti sono i processi di produzione e consumo dell’una e dell’altra. Ogni volta che un algoritmo riduce le variazioni linguistiche possibili a una alternativa chiara e comprensibile, quel che viene venduto e consumato non è il contenuto delle frasi, bensì proprio la loro chiarezza alternativa. E naturalmente la chiarezza e la polemica – ma non la contraddizione – divengono il modello mentale di ciò che vale la pena di fare e dire e quanto invece genera solo confusione e incertezza.

In ogni scambio – dalla stretta di mano al certificato di nascita – è necessario che “qualcosa stia al posto di qualcosa”, se l’equivalenza viene calcolata al centesimo si ha la certezza di non essere stati imbrogliati. Il prezzo assoluto da pagare è l’equivalenza stessa, una funzione universale che può tenere il segno per ogni esistente. Ma il “verde melograno”, a dispetto di tutte le antologie, non può scambiarsi di posto con un generoso fico o un cipresso alto e schietto, la bestiola avrebbe altro da dire.

ANCHE NAZIONE INDIANA ESCE DA X

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Anche Nazione Indiana lascia X, come già numerose realtà istituzionali e associative hanno fatto in tempi recenti in tutto il mondo. Il nostro sito ha sempre difeso la propria autonomia in rete, garantendo una massima accessibilità ai propri lettori. Ma Nazione Indiana, pur essendo un blog letterario, ha anche sempre rivendicato i principi dell’antifascismo e di un progetto democratico di società. Dopo l’acquisto di X da parte di Elon Musk, e dopo che, con la vittoria di Trump, X è diventato un organo di propaganda dell’offensiva reazionaria del nuovo governo statunitense e dei colossi economici che lo sostengono, ci pare insensato nutrire di nostri contenuti quella piattaforma. Come molti di voi prendiamo atto della necessità di animare nuovi ambienti di comunicazione e condivisione, che rispettino una concezione democratica, ossia egualitaria e libera, della società.

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MILIA

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di Velio Abati

– Finalmente sei venuto.

Oppresso da oscure angosce, come quando la notte di colpo ti svegli soffocato e balzi seduto, spalancando la bocca, ho girato per le strade in cerca di respiro.

Non ho visto persone, ma figure frettolose, fragori di macchine.

Alle svolte, là dove il groviglio di traffico e viuzze si decide verso gli slarghi del cimitero, ho sofferto l’affaccio imprevisto dell’azzurro della macchia lontana. Stordito dall’odore di terra, accecato dalla brina, in quel silenzio ho chinato il capo non so quanto tempo, per riprendere forze.

Sono tornato indietro di furia, contro le sferzate gelide all’improvviso levate di tramontana ad affaticare il respiro. Anche i resti di cielo liberati tra i tetti e il taglio dei muri sono segnati da brandelli pallidi di nuvole stirate dalla rabbia del vento.

Chiusa la porta, ripiglio fiato nella penombra delle stanze. Mi butto subito sulla sedia.

– Finalmente sei tornato.

Dunque è vero.

Guardo meglio. La figura seduta sul panchetto che babbo fece da un tronco di potatura d’olivo e ci regalò, dopo averlo piallato con cura. Non so perché, mi ricorda nonna, che però nonna non era, ma mamma del mio nonno vero. Petra, forse, si chiamava, o forse Zoraide. La vidi sotto la quercia, davanti casa: il podere su, nei colli, dove io nacqui e vissi, mi dicono, pochissimi mesi. Il caldo del primo meriggio, dopo che già i piatti erano stati lavati, poteva essere di un giorno di luglio. Dormiva piegata sulle ginocchia, il capo, avvolto nel fazzoletto nero, poggiato a terra sopra le mani aperte ad accoglierlo, come in preghiera verso il tronco della pianta o, chissà, di altro dio.

I ricordi non sono mai figure innocenti.

– Ti aspetto da tanto.

Seduta su quel panchetto basso, chiusa nei suoi panni neri da capo a piedi sembra anche più minuta e più fragile del vero, probabilmente. Sorprende la sua voce schietta, che, se tu chiudessi gli occhi, diresti giovanile.

– Dove sei ito, tutto questo tempo?

Come faccio a rispondere, se non so nemmeno chi sei…

M’interrompe il suo sguardo severo, accenna appena allo sbuffo dei capelli bianchi che scappa sotto il fazzoletto di lana nera, si guarda intorno, alle spalle.

Chi, abbasso la voce, siete, dico.

– Non hai sentito il grido degli scampati, scalzi e gnudi tra le macerie degli olivi, dei campi una volta lavorati? Dei paesi sbranati da cima a fondo?

Mi guarda fissa. Aspetta in ascolto profondo.

– Con i corpi svaniti, come il soffio d’un tizzo. O sprofondati, o schizzati in mezzo ai sassi, alla fame dei branchi di cani, ai gatti.

La tramontana sbatte sulle facciate, rimbalza senza direzione, stride tra le finestre forzate, al portone, che scuote sull’orlo delle scale.

– Dove, dove se’ ito, pel mondo?

Abbasso la fronte. Un crepito, un tonfo violenta le scale.

Vorrei, dovrei rispondere, perché questo è il mio dovere, il modo giusto dell’uomo.

Frugo per le parole.

La sua voce ha il tono di lunga pazienza.

– Dove se’ ito, fuggito dal tempo?

No, m’affretto, no, non credetelo.

Sì, ricordo.

La brocca di rame sull’acquaio e noi in bilico, tra quelle radici di terra oramai troppo costrette, lasciate alle spalle e un domani dai grandi strappato frusto a frusto.

La donna sbatte il piede sul pavimento, sembra ridere, poi tace. Il silenzio è pesante.

Sorride solo con le labbra, severa.

– Così, ti sei convinto, come i citti piccini, che la luce sia quella della tua giornata?

Mi sento aggredito, offeso. Come?! Qui, nella mia stanza. Chi siete?

– Non è il tuo, lo sai, quel tempo d’allotta.

Mi scruta con la calma di chi aspetta.

– Tutt’altra, e ringrazia chi te l’ha messa nelle mani, è stata la tua mattina.

È vero. So anche questo. Né, con tutta coscienza, mai l’ho dimenticato, riconoscente.

– Sei sordo, tra questi muri?

Questo mi sembra troppo. Chi siete?

– Non senti che già è tornato l’odio dei padroni del mondo?

Come vi chiamate?

Sospira. Balena un’ombra.

– Ancora…

Si guarda indietro.

– Il nostro nome non è ancora avvenuto.

Chiude gli occhi, come se qualcosa di più grande la chiamasse. Poi, dopo una lunga pausa, li riapre.

– Ancora aspetta.

Ferma attende, senza tregua, il mio silenzio.

– Dove se’ ito, fuggito da tutti? Non ti muovono le sciaure che già galoppano per le strade? Proprio le medesime, non le vedi?, che hanno straziato la carne della nostra carne, flagellato le nostre case, il nostro pane.

Con orrore, mi precipito, i fatti, ogni giorno più gravi, dall’Impero discendono in tutto l’Occidente. Branchi di armati a caccia di schiavi, vite umane che nella sevizia spremono oro dagli ultimi e altro oro dai padroni della Terra fruttano, quando alla fine le spingi alla morte oltre i confini.

Niente mai è stato risparmiato dal dominio di chi primo ha colonizzato il mondo. Ma mai come ora il signore irride gli allori e le fronde di prima, fregiandosi dell’odio davanti a tutti. Con vanto incrudisce su ogni materia vivente, sulla verità.

Con angoscia più grande guardo l’applauso e l’inganno approvato con convinzione, il silenzio sottomesso, la vastità del non voler sapere, non voler vedere.

Un altro colpo secco, assordante, forse un tuono abbattuto dalla finestra, scuote la rampa delle scale. Vorrei alzarmi, magari qualcuno è stato ferito, tramortito sugli scalini. Ma non ci riesco. Rimango immobile.

– Dove se’ ito, fuggito da te?

Vorrei risponderle, chiarire. Mi agito sulla sedia, ma non mi dà tregua.

– Eppure hai mangiato alla nostra tavola, pocciato il nostro latte, dormito nel nostro letto. Con cura ti s’è ogni cosa mentovato, che tu raccontassi. Com’hai fatto a scordarti?

No! Grido, mi alzo. No. Questo non è vero. È troppo ingiusto. I miei libri.

Cammino nella stanza per trovare un po’ di calma. Ne agguanto alcuni. Guardate.

La donna non porge la mano per prenderli. Rimane nella sua calma di lunghissimo viaggio.

Piego il capo. Dovrei chiederle scusa. Mi metto a sedere. Sul mio onore, pronuncio, sul mio onore, in queste pagine non c’è una parola, non c’è un silenzio, un riso o un pianto che di questo non parli.

– Io non dico a marzo che ho curato bene i miei fagioli, quando ho appena coperto il solco. Settembre me lo dice, se mi piena il paniere. Allora sì, tutti lo vedono e anche chi non sa tenere in mano la zappa loda la buona ortolana e dentro i piatti fuma la zuppa.

Da voi ho imparato per sempre, che non c’è seme interrato, uovo messo alla cova di cui la mano che ha agito possa arrogarsi d’averlo fatto da sola. Vasta, tanto da non essere per intero conosciuta, è la rete di altre mani e esseri e terra e cielo che, cooperando e contrastando, danno direzione e significato.

No, non credetelo. La siepe di fuoco, a cui le vostre mani e consiglio mi hanno condotto, l’ho attraversata, ma mai mi ha fatto dimenticare il vostro campo.

Proprio questa lima tagliente, che porto con me, più cara del mio braccio, più bella della mia mente è anche la fonte vivace della mia piaga.

Un fischio rabbioso s’avventa sulla finestra alle mie spalle, la spalanca di schianto, mi smorza il respiro.

A fatica la chiudo. Con occhi lagrimosi torno alla mia sedia.

Biasimate con ragione il numero ridicolo di chi ho raggiunto. E più d’uno mi ha detto poi delle pagine il vero della fatica della parola, del peso dei legami, che costringono alle soste, al ritorno, persino al dubbio sospeso.

Ma mai vi umilierò a far apparire, quindi far credere che il raccolto dipende da un filo diretto dalla vanga alla spiga. Solo per difetto di forze o peggio per ignoranza – questo alla fine il mio onore – sarò cattivo scolaro del duro testimone che mi accompagna.

L’infinito non basta

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di Saverio Simonelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

per gentile concessione dell’editore Città nuova pubblichiamo un capitolo di “L’infinito non basta”, romanzo di Saverio Simonelli, di recente pubblicazione

Già dalla sera Franz ha preparato il frac. Lo stesso che indossa per i concerti. Si adatta perfettamente alla snellezza del suo corpo. Lo accompagna. Suona assieme a lui. Il concerto, quando ha tutti gli sguardi su di sé. Stavolta invece sarà una spalla, un comprimario perché al centro, come vuole la tradizione, ci sarà la sposa anche se sarà un matrimonio semplice, privato, nascosto. Lui e lei di fronte a Dio, pensa, e quel bravo prete di San Carlo in via del Corso.

Come saranno stati belli i suoi genitori a suo tempo. Anna e Adam. I loro occhi che si cercano e per pudicizia si sfuggono. Le mani, fredde come il ghiaccio che alla fine si stringono, messaggere di emozioni al corpo. E tutto attorno una festa sicuramente sobria ma affollata, partecipe. Parenti, amici, bambini vestiti da paggetti, bimbe con le ghirlande di fiori tra i capelli. E magari il sacerdote sarà stato il vecchio amico di suo padre, quello del monastero di Malacka.

Gli torna in mente la prima volta che il padre lo ha portato lì per farglielo conoscere. Aveva appena nove anni ma ricorda un po’ tutto, ricorda il primo sguardo sulle guglie, la torre all’ingresso, solida e larga alla base, quella della chiesa, svettante, come le finestre, si chiamano bifore gli aveva detto il padre.

Si rivede all’angolo a destra della grata d’ingresso. Lo attraggono i fruscii davanti al cespuglio di felci. C’è un merlo che zampetta e due farfalle che si inseguono. Il padre gli prende dolcemente la mano e lo accompagna all’interno, per il cortiletto lastricato di mattonelle grigie scontornate da sottili inserti di marmo più chiaro.

Guarda verso l’alto e poi abbassa gli occhi verso suo figlio. E racconta. Franz un po’ ascolta e un po’ se ne va in giro col suo di sguardo che si sofferma sulle tegole spioventi. Alcune sbeccate, altre appena scolorite. E ancora il fregio in cima al portale. Poi arriva padre Joseph e quei due cominciano a parlare.

E però quei discorsi Franz non li vorrebbe sentire. Qui tuo padre ha vissuto per due anni assieme a Joseph e a molti altri amici. Vestito così da sacerdote, con quel lungo abito nero, la talare. È la prima volta che sente quel termine, un suono estraneo, fastidioso, che gli comunica una sensazione sgradevole, perché in quel momento non vuole immaginargliela indosso. Vestito da prete. Padre Adam, come suona male pure questo. E lui? Lui, piccolo Franz, un figlio che non sarebbe mai nato se il padre quella talare l’avesse mantenuta. Perché i preti non fanno figli.

E allora pensa che poteva non essere.

Al posto di Franz Liszt uno spazio vuoto, un vuoto che gira per il mondo al posto mio. E invece sono frutto di una scelta nella sua storia, nonostante quegli anni lì, il marmo della chiesa, l’abbraccio con l’amico ricambiato. E allora io non voglio più vederla questa chiesa, questo marmo e questo Joseph. Mi stacco da loro e torno davanti al cespuglio. Tocco le foglie ancora un po’ umide di rugiada, mi guardo intorno a cercare il merlo. Ma sento i passi affrettati di mio padre che mi rincorre. È qui, si è fermato qui, non vi preoccupate dice ad alta voce.

Non voglio voltarmi indietro. Proprio no. Meglio tenere fuori il mondo esterno e riempirsi la testa di note. Meglio stare con me stesso e basta. Solo così quella vista potrebbe essere sopportabile. L’idea per una musica, senza la realtà.

Senza la realtà. Eccola invece che arriva puntuale attraverso le imposte. Si annuncia in silenzio con la prima luce autunnale che filtra e disegna strisce chiare sul pavimento della stanza. Franz apre la finestra. La strada è ancora deserta. Oggi è il 22 ottobre 1861, il giorno in cui compie cinquant’anni, il giorno in cui sposa Carolina. Lui ora è in piedi davanti allo specchio. Si pettina i capelli, spolvera la manica sinistra dell’abito, controlla i gemelli, aggiusta il colletto e sistema meglio il cravattino. Di solito è l’ultimo gesto rituale che compie prima di entrare in sala e sedersi allo strumento.

Allora si avvicina alla piccola scrivania, la ruota di novanta gradi, allenta le cerniere, apre la ribaltina come un libretto in tutta la sua larghezza. Si siede, chiude gli occhi e comincia a pestare con le dita da sinistra a destra e viceversa. Lo fa una, due volte. E come scorrono veloci le sue dita, forti, duttili, sempre dominanti. Come scorrono. Non deve neanche comandarle, non si preoccupa di come debbano rispondere perché semplicemente sono su un pianoforte e sente anche la risposta del legno, sente come adesso quella superficie si anima, si anima e risuona. Poi la pressione si fa più lieve, una carezza, soprattutto con la destra, la sinistra invece riprende a premere forte, il basso deve risuonare profondo, colmo. Adesso incrocia le mani e sente nelle orecchie il gridolino di sorpresa di un ascoltatore. A lui piaceva così: devono assistere a un miracolo, convinti di quel miracolo. Non semplicemente la trovata di un virtuoso, ma la dimostrazione che lui la musica la può trattare come vuole, può farne quello che vuole.

Ma poi c’è questa cosa del matrimonio. Il matrimonio lo attende tra breve e lui, lui sta suonando? Suona il legno ma sente le sue note. Sta suonando lo sposalizio. Lo sposalizio della Vergine, il quadro visto a Brera, che l’ha ispirato ed è diventato musica, lui l’ha reso musica negli anni di pellegrinaggio. Sono passati quasi venticinque anni da quando l’ha visto la prima volta. Era il 1837, lui a Milano con Marie. La grazia di Raffaello appesa alla parete. Era immagine, ora è nel flusso degli elementi. Non più solo immobile e consegnato agli sguardi, grazie a lui riempie l’aria, la fa vibrare, la fa muovere. Vive. È una realtà, senza la realtà.

Sente bussare al portone. Poi una voce, che lo chiama per nome. Signor Liszt! Signor Liszt. Si alza, imbocca la porta, scende la scala e apre il portone. C’è un messo con un plico sigillato in mano. È del parroco, dice. Lui lo prende, fruga nelle tasche e gli porge due Paoli. Lo saluta e gira sui tacchi. Aspetta che si allontani e poi strappa il sigillo.

 

L’evangelizzatore

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Immagine generata da AI

di Marco Marra

Sogna. E nel sogno c’è un lago e nel lago abita il drago. Il drago è enorme e terribile e ha il corpo lercio squamoso rossastro che sbrilluccica d’una luce impossibile. Il drago sta fermo a mo’ di fenicottero rosa al centro del lago, la coda penzoloni che pare una mazza ferrata, e anch’esso – ch’è già frutto del sogno dell’evangelizzatore – in qualche maniera riesce a sognare di cose ch’a nessuno è dato conoscere. Nel sogno dell’evangelizzatore: l’evangelizzatore costeggia la riva del lago, il bastone a sostenere il suo peso di carne e spirito, e avanza ansante senza distogliere lo sguardo dal drago. D’un tratto il cielo, dapprima furente e quasi luminoso sebbene triste e tetro come solo nelle fantasticherie troppo simili alla realtà, si squarcia e dallo squarcio emerge una figura radiosissima e solenne di donna. La donna è vestita di sole e sotto i suoi piedi schiaccia la luna e il suo capo è inghirlandato da una corona di dodici stelle. La donna ha il volto di chi è santo e l’espressione triste tristissima di chi sta affrontando l’ultima battaglia, e mentre una delle sue mani stringe il fiore bianco l’altra si pietrifica nell’imposizione del pantocratore. Quando la donna vestita di sole inizia la discesa dal cielo, il drago si desta e scioglie il gomitolo che nascondeva le sue sette teste. Tre teste hanno due corna e quattro teste ne hanno una. Le teste che hanno quattro corna appartengono a Nabucodonosor e a Marcione e a Caiàfa, le teste che ne hanno una appartengono a Simon Mago e a Saladino e a Abu Isa Muhammad ibn Harun al-Warraq e a Guido di Lusignano. Su ogni testa spicca un diadema e ogni diadema più che un oggetto pare estensione delle squame del drago. Alla vista della donna vestita di sole il drago ruggisce d’un trimbulo acutissimo e stridulissimo e stonato e afono, giacché ogni testa emette un suono diverso e ogni suono diverso è bruttissimo e dolorosissimo. L’evangelizzatore capisce che sta per infuriare la battaglia e ha paura e si guarda attorno in cerca di un rifugio ma attorno a lui vede solo desolazione. S’acquatta in prossimità d’una roccia ch’emerge di sghimbescio dal terreno umido e chiude gli occhi e si mette a pregare.

Quando smette di pregare riapre gli occhi e vede la donna vestita di sole ch’ora è circondata da troni e da cherubini e da sette figure. Tre figure impugnano la spada e quattro figure impugnano lo scudo. Le figure che impugnano la spada sono quelle di Melchisedec e di Simon Pietro e di Costantino il Vincitore, le figure che impugnano lo scudo sono quelle di Febe di Cancrea e di Sant’Elena Imperatrice e di Giovanni il Battista e di Baldovino IV di Gerusalemme. Quando il drago ruggisce di nuovo allora scoppia la guerra e la guerra che scoppia è combattuta nel cielo. Il drago è fortissimo e ogni sua testa mostra poteri incredibili che taluni scambierebbero per miracoli, tant’è che l’asticella sembra pendere in favore del mostro quando le figure che impugnano la spada paiono soccombere e gli scudi delle figure che impugnano lo scudo paiono danneggiarsi. Allora la donna vestita di sole innalza la mano pietrificata nell’imposizione del pantocratore e benedice il drago e le sue teste e lascia che il fiore stretto nell’altra mano appassisca e che i suoi petali appassiti si posino sui diademi che ghermiscono le teste dannate e allora il drago brucia e si lamenta e si dimena e vomita. Vomita i corpi atrofizzati e semi-digeriti di tutti i miscredenti e pure dei credenti che hanno agito senza rispettare la nuova ed eterna alleanza e dopo affonda. Affonda nelle acque del lago insieme ai corpi rigurgitati. L’evangelizzatore, convinto d’esser ormai salvo, esce allo scoperto ma non appena lo fa al suo sguardo disappaiono le figure che impugnano la spada e le figure che impugnano lo scudo e pure i troni e i cherubini e finanche la donna vestita di sole, ascesa al cielo e seduta alla destra, ove solo le madri possono essere. Allora s’ode una gran voce e la gran voce dice: «È stato precipitato l’accusatore del Figlio dell’Uomo e i giusti, sia quelli armati di spada sia quelli armati di scudo, hanno avuto salva la vita per mezzo del sangue dell’Agnello, che ha imposto le sue mani sulla Madre e le ha permesso l’intercessione dei poteri dell’Onnipotente per mezzo di lei. Esultate dunque voi giusti, ma non abbassate la guardia, poiché è stato sconfitto il drago fuori di voi ma non quello dentro di voi. E pure il drago fuori di voi, ch’ora dorme senza vita sul fondo del lago, potrebbe essere un giorno destato dal drago che alberga dentro di voi.»

L’evangelizzatore si sveglia che non ha ancora fatto l’alba. Sta avvoltolato nella tunica e nel mantello, tutto rannicchiato ai piedi di un ulivo rinsecchito, in mezzo al nulla. L’ulivo è un tronco storzellato le cui radici si propagano a apparato arterioso prosciugato e le cui fronde ne paiono l’immagine specchiata. L’evangelizzatore si stiracchia, s’inginocchia, prega, ringrazia il Signore e poi l’ulivo e bacia il tronco ruvido e screpolato e poi si alza. Il cielo è un parapiglia di nubi che s’aggrumano e si squartano e da quegli squartamenti tralucono chiarori che l’evangelizzatore cerca di decifrare senza successo. Raggruppa le quattro cianfrusaglie che porta con sé, le aggomitola nella sacca di iuta, la solleva, se la carica in spalla, stringe il bastone, affanna, s’incammina. Al sorgere del sole attraversa un letto pietroso che era un lago o un fiume antichissimo – il lago che ho sognato? si domanda – e percorre una distesa vuota che nemmanco il deserto e solo dopo ore di cammino raggiunge la magra vena d’acqua che bagna quel vuoto. S’attarda per bere, e giacché lo fa con troppa foga tossisce, poi mugugna, biascica qualcosa, si massaggia la gola, beve, riprende il cammino. Passa davanti a un grande sepolcreto là dove anni prima s’era combattuta la battaglia tra gli uomini del luogo e gli invasori e che aveva visto, come troppo spesso accade, il massacro e la cacciata degli uomini del luogo e la vittoria degli invasori. Le ossa ammucchiate e i teschi fracassati e le armature rotte e le lance spezzate e i denti strappati agli sconfitti. Prosegue seguendo la corrente del fiumiciattolo e pian piano iniziano a spuntar fuori arbusti e piantacce paludose e qualche alberello – devo essere sulla strada giusta, pensa. Per ore sfila a moribondo o a pellegrino del deserto, senza perdere mai di vista i piedi sotto di sé e l’acqua accanto a sé e l’orizzonte innanzi. Un corvaccio l’accompagna per parte del tragitto svolazzando sopra di lui come fosse carogna ambulante poi si stufa o chissà che e se ne va lasciando che la sua sottile sagoma sia risucchiata dalla lontananza.

All’imbrunire dello stesso giorno l’evangelizzatore avanza tra chiostri d’arenaria, sorpassando santabarbare di polvere del deserto e torrucole e castelletti messi in piedi dai turbini di vento. Attorno a lui elevazioni di marna e boschi di impossibile terracotta e montagne, montagne squagliatesi in scisti di zolfo e voragini di roccia sedimentaria. Decide di non fermarsi pure ch’è già notte ed è buio buissimo e inizia ad aver paura. Paura delle cose che non vede e paura delle cose che sognano nei suoi sogni. Altre ore di cammino e altri paesaggi contraddittori e il fiumiciattolo che mai s’arresta e gl’indica il percorso, poi finalmente vede il promontorio e ai piedi del promontorio la caldera fumante al cui centro s’erge in rovina la cattedrale detta Dei Padri del deserto. La cattedrale detta Dei Padri del deserto è una stalagmite costruita dall’uomo, è una protrusione di roccia levigata, è un ricettacolo pietroso di silenzi non-testimoniati, è antica – dicono alcuni – più dei Padri del deserto e più del deserto e più della fede e più del credo e più della parola. L’evangelizzatore s’appropinqua all’ingresso, lì dove la terra è macchiata e sembra ch’ogni macchia vada in direzione dell’ingresso come ombra impressa d’un preumano assedio. L’evangelizzatore varca la soglia, setaccia l’oscurità che invade la navata, annaspa, sente freddo e si domanda come sia possibile, il suo respiro forma delle nuvole bianche nell’aria che com’è possibile sia così fredda. Penetra la navata, è tutto nero nerissimo, compie passi a tentoni, calpesta sassi e mattonelle conflagrate, inciampa in cumuli di pietrisco, si rialza, prosegue. Alza lo sguardo verso l’alto e ora vede la luce trafiggere l’oscurità. La luce giunge dalla vetrata mastodontica che invade le mura alle spalle dell’altare. La vetrata mastodontica che invade le mura alle spalle dell’altare mostra scene che non dovrebbero essere mostrate, scene che non sono ammesse, scene che sono raccontate solo nei codici di Nag Hammadi. La luce batte sul crocefisso che s’innalza nella tenebra e il crocefisso brilla e vince contro la tenebra.

L’evangelizzatore s’arresta a pochi passi dall’altare, si prostra, bacia il suolo sacro, si segna, pispiglia preghiere. Ode tuonare e pensa che fuori sta per infuriare la tormenta. Fa dietrofront e raggiunge la soglia e scorge fuori. Fuori è tanto spaventoso che l’evangelizzatore si segna e invoca la protezione della Stella radiosa del mattino. E continua a osservare: turbini di vento che mulinano severi e che trasportano guazzabugli di cose del deserto: polvere e sabbia e serpenti e polvere e sabbia e serpenti. Quando la raffica aumenta d’intensità, l’evangelizzatore si ripara ancora nelle profondità della cattedrale detta Dei Padri del deserto. S’accoccola in un antro e si fa piccolo piccolo nella tunica e nel mantello e annaspa e fissa il crocefisso che brilla e pensa che non deve temere nulla. Pensa alla sua vita passata e trema per la paura. Pensa alla sua vita futura e trema per la paura. Pensa alla sua vita presente e trema per la paura. I denti che battono – da quando ho così paura? si domanda – e la pelle che si fa tesa e puntinosa e i piedi vecchi e stanchi e zeppi di calli ch’ora sono ghiacciati. Passa la notte – o il giorno? o le notti o i giorni? da quanto sono qui? si domanda – lì fino a quando non sa che la tormenta è finita e che il vento ha smesso d’infuriarsi e che i turbini hanno disperso polvere e sabbia e serpenti. L’evangelizzatore si tira su, si prostra, si segna, pispiglia le preghiere mattutine, si tira su, s’approssima alla soglia, smiccia fuori, fa su e giù col capo, s’incammina. Tira dritto molto a lungo, fermandosi di tanto in tanto per bere ripiegato sulle ginocchia e sui gomiti a mo’ di bestia, e quando gli è possibile attraversa il guado e prosegue. Sa d’esser vicino quando comincia a vedere campi grigi e senz’erba. S’infila nei campi grigi e senz’erba. E attorno nessuno e il suo corpo triste e curvo e stanco è l’unico taglio dell’orizzonte alle sue spalle: spettro d’un profeta, imperatore della polvere e della sabbia e dei serpenti, epigono dei patriarchi nell’arsura e nel paesaggio smerlettato. Solleva gli occhi al cielo sopra di lui e il cielo sopra di lui è un cielo duro, un cielo lastra di marmo. Poi aguzza lo sguardo sulla traccia che sta seguendo e osserva i campi sterminati e desidera scorgere finalmente i tetti e il campanile e la torre a baluginare sulla sponda di quel mare prosciugato che per miracolo ancora non se l’è divorato. Per giorni e giorni, o per minuti o ore che sembrano giorni, tira dritto e i campi grigi e senz’erba pian piano mutano nell’aspetto e divengono tappeti di fiori da campo disseccati, sepolcreti infiniti di radici sminuzzate da chissà quale apocalisse, teatri di malerbe fetide atte a parodiare calderuge e peloselle e ipomee blu. S’arresta per riprendere fiato e ode il silenzio, il silenzio lo assorda e lo spaventa che gli sembra d’udire un borbottamento squittente o una filastrocca con dentro un segreto come la data della sua morte o qualcosa del genere. Butta fuori il fiato. Il fiato sembra un’anima che esce per non entrare più. Sente freddissimo e pure caldissimo.

Riprende il viaggio. Ad un osservatore esterno sembrerebbe precario morente disordinato primitivo sventurato. Ma un osservatore esterno non c’è, che sia Dio o cielo o uomo o bestia, nessuno l’osserva o se lo fa lo fa distrattamente e senza badare a lui. L’evangelizzatore stringe i denti, sente d’essere un essere sorto dalla terra assoluta o un senza nome indistinguibile dal proprio miraggio o un antenato morto e dimenticato in un’era precedente a ogni nomenclatura e a ogni distinzione. Per troppo non scorge nulla e nulla cambia e quando proprio pensa d’aver sbagliato strada chissà come e d’esser perduto, ecco allora i tetti e il campanile e la torre a baluginare in lontananza. L’evangelizzatore avanza il passo e oltrepassa sia il giorno che la notte e gli alberi frantumati e la foce a delta del fiumiciattolo prosciugato e tutte le miriadi di fioriture di vulcanoli di melma color melma. Si trascina penosamente, le ginocchia scricchiolanti e schiena a uncino e la testa incassata tra le spalle, e raggiunge le coltivazioni che circondano l’abitato. Le coltivazioni che circondano l’abitato sono bugigattoli a cielo aperto o pietose imitazioni di vere piantagioni. S’estendono in ogni direzione, pugnalate da solchi acquitrinosi e stagnanti di non-acqua grigia e lattiginosa. Sono attraversate da carri e buoi e uomini: uomini glabri e bianchicci: uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. E se n’accorge l’evangelizzatore, che lo guardano come non fosse uomo. Li vede somigliare a comprimari di un sogno in attesa dell’inizio del sogno del sognatore, o a sonnambuli o ancora a spauracchi di carne. Li vede e avanza e mentre avanza loro esaminano il coltivo o parlano sottovoce o dormono su sacchi stesi a terra o per terra o mangiano. Qualcuno sorride d’un sorriso tetanico. Uno di loro sguscia dalle spalle di un altro, stringe l’impugnatura della ramazza e si mette a scopare in mezzo al campo. Spinge via la sabbiolina e il pietrisco e non fa altro che alzare polvere e s’innervosisce ma nessun altro gli dà retta e lui sfascia la ramazza e la lascia lì per terra e si spinge dove non dovrebbe spingersi e si mette spaparanzato sopra l’albero cavo caduto e secco che pare un sasso ma s’innervosisce ancora e torna a prendere la ramazza rotta e la frantuma contro l’albero cavo caduto e secco che pare un sasso. L’evangelizzatore l’osserva di sguincio e lo vede pure quando quello fa una mezza piroetta e si mette a scavare con una pala che strappa di mano a un altro che invece sta immobile come tutti gli altri: pietrificati in mezzo alla coltivazione che la coltivazione pare una coltivazione di uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. Uno di loro è esausto e tossisce e tossendo cade a terra e la terra è dura e lui si porta la mano al petto e al petto, dove dovrebbe esserci il cuore, c’è un foro e con la mano attraversa il foro e si gratta la scapola che dilacera dalla schiena tumefatta e incancrenita. Uno di loro smette di grattarsi e si tira su come fosse tirato su dal filo d’un burattinaio e stanco stanchissimo torna alle spalle dell’altro da cui era sgusciato e si rimette all’opera. Più avanti ce n’è un altro. Un altro sta curvo verso un abbeveratoio ch’è solo una pozzanghera e beve con la testa ficcata sott’acqua a mo’ di bue o di talpa e quando la solleva sputacchia ranuncoli di terriccio e solleva gli occhi al cielo.

Il cielo è un parapiglia di nuvolette che affiorano come bubboni e si scontrano e si dipanano e sembrano grattugiare la calotta celeste. Un altro smette di guardare il cielo e si mette a fissare l’evangelizzatore e lo fissa come solo è in grado di fissare un uomo: da uomo che guarda un altro uomo come fosse una cosa. Un altro si stringe le braccia attorno alla vita e si prende a cazzotti sui fianchi e sulle costole e il suo corpo si spreme e si dimena e si svuota di viscere e liquidi e di spirito. Lo spirito di cui si svuota è nero carbone e quand’esce dalla bocca spalancata di Un altro fiotta via scutrettolando tra i campi e tra gli altri uomini immobilizzati e che guardano gli altri uomini come fossero cose. Un altro ora è senza spirito e vomita sangue e piscia sangue e caca sangue e con le ultime forze afferra una pala e si scava una tomba in men che non si dica tant’è ch’è impossibile sapere come abbia fatto in così poco tempo e ci si accascia dentro e ricopre se stesso trascinando il terriccio e la sabbia e le radici sradicate verso il fossato. L’evangelizzatore avanza che i tetti e la torre e il campanile sembrano esser lontani come o più di prima e che la sequela di tristezza e nefandezza ch’è l’uomo non sembra finire. In là altri uomini tutti uguali glabri e bianchicci e che guardano gli altri uomini come fossero cose. In là il cielo è simile a uno smalto e non dà luce ma n’è zeppo. In là coltivazioni di grani inesistenti altrove e stormi di uccelli che non dovrebbero esistere o che non dovrebbero esser dove sono: gazze ladre e nittibi dagli occhi nero-diavolesco e fregatidi gonfi come testicoli di gibbone o nasi di nasica. Sciamano a banchi e si cimentano in evoluzioni e strane danze e quasi sembrano concertare incantesimi e fatture da scagliare ma poi si perdono oltre il promontorio e oltre ancora. In là, dove ora è l’evangelizzatore, gli uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini sono tantissimi. A fiotti nascono dalla terra come patate e alcuni sono piegati su se stessi come sacchi di patate bucherellati e altri stanno lì fermi e altri ancora fanno cose strane.

Uno di quelli che fanno cose strane fa una cosa strana stranissima: si nasconde dietro a un largo edificio ch’è stato una polveriera – com’è possibile se nemmanco è stata costruita la prima polveriera? – e di soppiatto si getta addosso a un gallinaccio e ci lotta com’Achille lottò con Ettore o come Eracle lottò con Cerbero o come un altro personaggio mai esistito lottò con un altro personaggio mai esistito. Uno di quelli che fanno cose strane schiatta a terra il gallinaccio e gli spappola il cranio a pugni e con un coltello che stringe tra i denti gli mozza la testa spappolata e la testa del gallinaccio muore ma il su corpo no e si mette a scorrazzare in lungo e in largo fiottando sangue nerastro che impregna il terreno. Il terreno che s’impregna del sangue nerastro avvizzisce o magicamente si fertilizza e ne escono funghi bubboidali e gramigna funestante. Il corpo del gallinaccio gira in tondo e quando ha perso troppo sangue s’accascia a terra morto anch’esso. Uno di quelli che fanno cose strane afferra il cadavere per la zampa scagliosa e lo trascina a pochi passi. A pochi passi Uno di quelli che fanno cose strane spiuma il gallinaccio e incide col coltello sotto la pancia e dilania la carne tenera ed estrae stomaco e intestino. Innalza stomaco e intestino verso il cielo, il cielo che manco più è simile a uno smalto ma che ora è un ginepraio di nevischio bollente fuligginoso. E invoca la protezione degli idoli ch’egli venera come dio. Uno di quelli che fanno cose strane venera come dio Astarte e Lammasu e Zababa e Eshmun e Ghilgamesc falso profeta. Uno di quelli che fanno cose strane rivolge parole lusinghiere a ognuno di questi idoli. Allora un fulmine colpisce Uno di quelli che fanno cose strane e Uno di quelli che fanno cose strane stramazza al suolo abbrustolito crepato.

L’evangelizzatore ora avanza – quant’è passato? Che sia notte? Che sia giorno? si domanda – e vede i tetti e la torre e il campanile più vicini ma più s’avvicina e più le sue visioni si deturpano e più la sua vita s’imbruttisce e più vede cose che sono un’idiosincrasia alla ragione. Vede uomini che lavorano la terra. Gli uomini che lavorano la terra zappano e estirpano e trascinano erpici o zavorre o aratri. Lo fanno tacendo, gli occhi assenti, e di tanto in tanto arrestandosi senza apparente motivo e lasciando gli attrezzi lì abbandonati e allontanandosi chissà dove fino a quando qualcun altro non li sostituisce e non eredita gli attrezzi. Gli attrezzi sono strani stranissimi: grovigli di spago e cordame spiluccato surclassati da tubolari di rame rugginoso che spiraleggiano in trapanazioni storzellate e oblique, ramaioli abnormi alti e larghi e porosi sostenuti a perno da mazze per fare a botte e zeppi di scopettoni ancorati al dorso come fossero la corazza di un istrice, aracnidi di ferraglia sostenuti da zampe che sono sarchiatori e foraterra e rastrelli e forconi e vanghe, innaffiatoi sminuzzati in pezzi senza logica agglomerati a cromlech attorno a gabbiette per uccelli in cui gli uccelli sono pinocchi di paioli in legno cinti in piume azzeccate alla meglio, e poi ancora erpici o zavorre o aratri e erpici o zavorre o aratri. Gli attrezzi sono strani stranissimi: tutti ricoperti da tele tese a mo’ di vela di vascello ma troppo elasticizzate e flessibili e di color ebano. Dalle tele sguizzano ogni tanto grumi di peli e denti e unghie e occhi e peni flosci e costole e vescicole e pure capelli, capelli d’uomo. Le tele puzzano di cadavere – Lo sono davvero? si domanda l’evangelizzatore – e c’è chi le pulisce con una spugna che quelle sembrano gorgogliare e che i peni flosci che ne fuoriescono s’ereggono e che quindi sembrano assurgere a imitazioni spiaccicate di uomini morti crepati ma che credono d’esser ancora vivi. E forse non sono altro che quello.

Gli uomini che lavorano la terra trascinano queste macchine anatomiche, questi teratomi da sforzo agricolo, queste scimmiottature d’apparato industriale rivestite da membrane epiteliali, e nel farlo sembrano pensare. Pensare a cose frivole, come gli imbecilli nelle tensioni dell’esistenza. Alcuni uomini che lavorano la terra s’accapigliano in uno scontro muto e insano. Girano intorno al perimetro della polveriera e sradicano dal terreno fiori e copertoni e radici e rocchetti e pianticelle e seghe arrugginite. Con lo sradicato si minacciano e fanno a spadaccino e i più deboli soccombono e vengono portati nella polveriera, lì dove chissà che succede. L’evangelizzatore osserva questo e quello e anche altro senza che gli uomini che lavorano la terra se n’accorgano, o così pensa lui, e pensa che ormai dev’essere prossimo ad arrivare. Gli ultimi passi sono difficilissimi. È rintronato e invecchiato, dopo troppi giorni e troppe notti altri troppi giorni e troppe notti, e c’ha la barba ch’è un velo da sposalizio annerito e ispido e c’ha gli occhi infossati nelle sclere e spalancati come un matusalemme senza memoria e c’ha le costole ch’affiorano all’inspiro come artigli fragili reclinati e retrattili. Lo separano dal limitare delle coltivazioni ancora quei pochi passi difficilissimi. Oltre ci sono i tetti e il campanile e la torre. L’evangelizzatore ha la gola secca. La raschia con uno spasimo. Si rincantuccia nella tunica e nel mantello e si sforza d’avanzare ancora. Avanti a lui sfiatatoi ch’eruttano sangue e bile e gli ultimi tra gli uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini raccolgono fiumane di sangue e bile e se ne vanno in là a abbeverare la terra. In cielo trottano nuvole disastrose e zeppe di assurde abrasioni causate, l’evangelizzatore lo sa senza sapere come, dalla luce del sole. Ma il sole non c’è giacché è notte e c’è solo la luna ma la luce del sole è esiziale furente sconvolgente disastrosa poderosa affilata sfolgorante fulgida brillante indomabile terribile e passa attraverso la luna e lo spazio cosmico. La luce del sole sbrilluccica sui tetti e sul campanile e sulla torre e ora l’evangelizzatore è ringalluzzito perché vede i tetti e il campanile e la torre vicinissimi. Poi s’arresta. S’arresta perché vede il lavacro e oltre il lavacro non può andare senza purificarsi. Se lo facesse: lo inseguirebbero lo prenderebbero lo tirerebbero lo dilanierebbero lo divorerebbero lo digerirebbero lo espellerebbero lo spargerebbero lo annaffierebbero lo eradicherebbero lo brucerebbero. Chi lo farebbe non può saperlo ma sa che lo farebbero. L’evangelizzatore s’approssima al lavacro. Il lavacro è una vasca di marmo costellata da strane incisioni raffiguranti fatti della storia umana non raccontati dei testamenti. L’acqua del lavacro è bellissima e balugina alla luce che s’è detta impossibile e l’evangelizzatore dapprima mette le mani a giumella e ne beve un po’ e dopo si lava il volto e le mani e gli avambracci sino ai gomiti e si passa le mani bagnate sulla fronte e la fronte scotta come può solo la fronte d’un febbricitante. Si passa le mani bagnate sui capelli e lungo la barba e sente le rughe distendersi come letti di fiumi in piena e dopo si mette a sedere e si purifica i piedi e le caviglie sino alle ginocchia e i piedi gli fanno male come possono solo i piedi del martire pellegrino. Completata l’abluzione prega. Prega nell’unico modo giusto ch’esiste per pregare: prega non per chiedere ma per ringraziare.

Ora avanza lungo il saliscendi che s’inerpica verso l’abitato. L’abitato è un conglomerato rovinoso addossato a una collina desertica. Non ci sono abitanti o forestieri o soldati o mercanti o preti o delinquenti o santi, solo strade vuote. E sulle strade vuote, pure ch’è già notte, scende un’altra notte ch’invece è scura scura e che persino sembra essere sconosciuta alla luna ch’è nei cieli. È per le strade vuote che cammina l’evangelizzatore. La piazzetta solitaria e gli alberelli prosciugati stecchiti e la campana che suona impossibile giacché a suonarla non c’è nessuno. La campana suona l’Ave e il suo suono accarezza le pene segrete che anche il più santo porta dentro. Uno stuolo di caprimulgi, è lì che si riuniscono una volta compiuto l’accompagnamento al trapassato, sferraglia smarrito e triste tra stelle appese e cadenti e mosse dall’alto tramite fili che solo da quel luogo possono essere visti. I caprimulgi disegnano parabole desolate e sbilenche e si vestono come d’ombra quando discendono tanto vicini da non esser più osservabili. L’evangelizzatore fiancheggia un muro crepato e una casa abbandonata e raggiunge la chiesa. La chiesa c’ha la faccia da centenaria, tutta grinze e pieghe e ricordi, e di fianco alla chiesa sta il campanile. Il campanile è diroccato e circondato d’edera e s’inabissa nel cielo tramite un tunnel che scoperchia l’inganno perpetrato dagli architetti del mondo sublunare. Ma l’evangelizzatore cerca né la chiesa né il campanile bensì la torre. Per questo setaccia i dintorni, esplora viuzze e piazze e in certi angoli trova un buio ch’è notte e in altri angoli trova luce ch’è alba dorata e passa tempo – quanto tempo è passato? si domanda – e altro tempo e non c’è più chi conta i giorni o le notti e chi c’è fa bene a non farlo giacché il tempo non ha valore e nemmanco scopo.

Frattanto invecchia ancora ch’ormai si sente addosso gli anni di Lamech o di chi come lui e respira a mo’ di vegetale e non prova dolore né si ammala e neppure si ricorda, e forse è per questo che prova dolore né si ammala. Gironzola smarrito lontanissimo dalla chiesa e dal campanile e quando fa notte, ormai fa notte mentre è giorno e giorno mentre è notte e a volte no e niente è chiaro o prestabilito, accende un fuoco per riscaldarsi e lo guarda fin quando non si spegne. Il fuoco col favore della notte mostra le cose per quello che sono: terra morta e alberi morti e tutto deserto e solo deserto. Lontanissimissime ci sono le montagne verdeggianti irraggiungibili dove il giorno è giorno e la notte è notte. L’evangelizzatore le coglie un istante poi le ombre s’allungano e inghiottiscono il paesaggio e le nuvole e finanche la luce e quindi ora l’evangelizzatore non vede che terra morta e alberi morti e deserto e solo deserto. Ma questa volta dal deserto emerge la torre: straripante mastodontica potente. Circumnaviga il perimetro in cerca dell’ingresso ma senza trovarlo e circumnaviga quello stesso perimetro ancora e ancora e ancora sino a quando non scorge lo spiraglio di luce e lo spiraglio di luce viene da una porta socchiusa. Quando entra è tutto oscuro e dominato da Oscuro e Oscuro decide ciò che l’evangelizzatore può vedere e ciò che l’evangelizzatore non può vedere. Vede le unghiate sulle mura e la croce dell’esecuzione conficcata nel terreno, le estremità pregne di sangue ma nessun condannato inchiodato al patibolo, e i vede i corpi ammassati in propaggini in un angolo angusto e immenso in un buio oltre il buio più inimmaginabile. I corpi sono gonfi o tesi o esplosi o smembrati o fatti a brani. E non trova il corpo del Signore ma nemmanco lo cerca giacché s’è dimenticato della sua missione. Perché sono qui? si domanda – e s’approssima al patibolo e s’aggrappa al legno e cerca d’arrampicarsi alla croce ma scivola. S’alza, ci riprova: s’avvinghia con gli artigli alla trave e l’avvolge pure con le gambe e s’issa a mo’ di antenato dell’uomo ma ancora scivola e si fa male. Riprova ancora e ancora e ancora ma non riesce a crocifiggersi e non ci riesce o perché è vecchio e debole o perché come si fa a crocifiggersi da soli o perché non è degno di morire della stessa morte del Signore. Scivola un’ultima volta e l’ultima volta che scivola viene inghiottito. Inghiottito da Oscuro.

Nei campi coltivati ci sono uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. Infestano i campi poiché sono segni dell’ultima piaga. Uno tra questi è stato un evangelizzatore e avrebbe dovuto essere latore d’una lettera. Se ne sta intabarrato nella tunica e nel mantello. Nella tasca del mantello la lettera destinata alla diaconessa. Sulla lettera sono scritte parole di luce, parole che profetizzano un ritorno. Nella torre, prigioniera di oscurità, c’è la diaconessa. La diaconessa non sa che il momento è giunto. Ma il momento giungerà ugualmente.

La primavera dei poeti: Lorenzo Pataro

1

Nota

di

Alida Airaghi

 

Lorenzo Pataro nato a Castrovillari nel 1998, viveva a Laino Borgo, un piccolo paese del Pollino calabrese; si era laureato in Lettere a Salerno e collaborava a quotidiani e riviste, impegnato a diffondere con passione la parola poetica tra i lettori. Alla sua prima raccolta di versi, Bruciare la sete pubblicata nel 2018, era seguita Amuletiarrivata tra le opere finaliste del Premio Strega Poesia nel 2023 e del Premio Pontedilegno Poesia 2024.

Se il libro d’esordio, da lui chiamato “il primo sogno”, raccontava di un amore “bruciante” tra due adolescenti in termini letterariamente ancora acerbi, è nella dedica iniziale e nei ringraziamenti finali del volume che possiamo intuire la scalfibile delicatezza e il candido entusiasmo di un ragazzo che scopre nella poesia la modalità espressiva capace di metterlo in contatto non solo con l’amata, ma con tutto il mondo che lo circonda, a cui si sente debitore di bellezza, in uno scambio di amicizia e appoggio ribadito nei cinque versi conclusivi della raccolta: “Siamo soli. / Per riflettere / dobbiamo rifletterci, / bruciare la sete / per dissetare l’altro”.

Decisamente più matura e formalmente meditata è la seconda prova di Lorenzo, che in pochi anni aveva saputo affinare la propria competenza critica, grazie anche all’intenso confronto e alla collaborazione con altri poeti, nella redazione di riviste settoriali e nell’avvicinamento a nuove esperienze di scrittura. Al punto che il prefatore Elio Pecora riconosce in Amuleti “un’opera mossa da una sua necessità ed espressa con strumenti saldi e affinati”.

Nelle quattro sezioni di cui si compone il libro, oggetto di esplorazione è di nuovo l’amore, ma qui con una chiara consapevolezza della sua temibilità: “Ancora ritorna lo sparviero / il nibbio a piantare l’urlo nella schiena / a percorrere il dolore come un dito / che tocca la ferita e la ripara // la stagione degli amori ritorna / e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia”. Ma si tratta di un amore scorporato, di un tu femminile che appare e scompare, a promettere rifugio e soccorso come un albero frondoso, come acqua nel deserto: “fammi semina e raccolto / fammi fungo che cresce sul tuo ceppo / fammi nascere germoglio e gemma pura / cadi dal mio stelo come fossi la rugiada”.

Tuttavia, più di qualsiasi presenza umana, nel prosieguo delle pagine risulta preziosa e rassicurante la scoperta della sacralità insita negli oggetti, negli animali (pecore, tassi, volpi, cani, e soprattutto uccelli: passeri, merli, rondoni, allodole, falchi…) e nella vegetazione (rovi, querce, muschi, fichi, meli, uva, pioppi…), in un ambiente caratterizzato dalla campagna, da stalle, fienili, masserizie rurali. Niente di urbano, nessun cosmopolitismo in queste poesie, ma il ritmo calmo che si adegua al trascorrere naturale delle stagioni, ed è il solo a proteggere dall’insonnia e dalla febbre, promettendo guarigione e salvezza: “Potremmo dirci salvi soltanto / tra il freddo delle mura nella casa / di campagna, nell’aperto grido dello spazio // salvi soltanto nel vecchio pagliaio”. L’aspirazione alla quiete che risana non si risolve però nell’idillio romantico di visioni bucoliche, in stereotipi paesaggistici di consolante retorica: è invece reale desiderio di liberazione e di grazia, simboleggiato dalla frequente metafora del volo, e insieme scampo dal male, dalle ferite che incidono corpo e anima. Ferite, crepe, tagli, aghi, schegge, oggetti puntuti che trafiggono, graffiano, squarciano: il poeta si aggrappa ad amuleti e talismani, ad antichi riti contadini, a salmi più pagani che cristiani, a voci e apparizioni che esorcizzano gli spettri seduttivi del nulla.

C’è la consapevolezza filosofica, heideggeriana, del destino feroce che condanna l’essere umano alla solitudine del Geworfenheit (“Siamo nati. / Gettati in un nome verso un nome”), ma anche la speranza che il recupero di tradizioni storiche non adulterate, della sapienza produttiva della terra, della ritualità di gesti antichi possa farci riacquistare “la miniera di ciò che abbiamo perso”. Tra i brani in prosa che inframezzano le poesie, non si legge la volontà di razionalizzare il sentimento, ma semmai un più convinto insistere sui motivi che innervano i versi: lo stupore per la bellezza, “il doloroso mistero glorioso” di una rivelazione, la cura per tutto ciò che è vivo e respira, l’attesa di una rinascita: “fuori avvampa / ogni vigilia e resta solo il desiderio / di chi ha visto la luce e la rivuole”.

Sono temi che rasentano una spiritualità laica, formulati – come scrive giustamente Elio Pecora – “in un ritmo denso e pacato con la tenerezza che è pura nostalgia di un esistere senza confini e strutture”. Ma in questo sconfinarsi era presente in Lorenzo Pataro sia un’idea di continua metamorfosi in altre strutture fisiche (“Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo / del riccio di castagna ad accogliere / il respiro dei dispersi nella luce, / le mani-radici nella terra, i palmi-catini / colmi d’acqua, la fronte che è un viale / in attesa delle foglie. Quanti corpi / attraversiamo, in quante forme migriamo / braccati come lupi nella notte”), sia il costante interrogarsi sulla morte, quella altrui (le tombe trascurate nel cimitero del paese, gli insepolti, i cancellati da ogni memoria), sia la propria: “Un giorno sarò terra concimata, solco da irrigare. Le mani avranno forma di scodella. E la pelle becchime per gli uccelli. Un giorno avrò dimora dove tutte le dimore hanno dimora. Il sangue sarà linfa per le querce, ossigeno degli olmi. Un giorno sarò vivo e sarò morto. L’anca sarà vaso per le rose. La lingua tappeto per i vermi. Un giorno sarò terra concimata”.

E questa ossessiva idea di trasformazione in altro da sé, fosse buio o sperabilmente luce, provocava in lui “Qualcosa di simile a un dolore. Forse meno lancinante di un dolore. Se ti volti senti solo la chiamata. E se ti chiami ogni cosa dice addio a ogni cosa”.

 

 

LORENZO PATARO, AMULETI – ENSEMBLE, ROMA 2022, p. 100

Prefazione di Elio Pecora

Avventure di uno scrittore affettivo

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di Mauro Baldrati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angelo Maria Pellegrino, attore, letterato, marito e curatore delle opere di Goliarda Sapienza, scriveva che sua moglie apparteneva – purtroppo – alla sfortunata categoria degli “scrittori affettivi”. Perché sfortunata? Pellegrino lo svela subito con un concetto lapidario: gli affettivi desiderano non solo essere pubblicati, ma anche amati dagli editori.
Amati. Gli editori sono aziende, si può desiderare di essere amati da un’azienda?
Infatti Goliarda, dal 1976 in poi, per quasi vent’anni, ha vissuto questa forma di dolore senza soluzione, fino alla morte, per il rifiuto reiterato della sua opera maggiore, L’arte della gioia. Il romanzo era fuori target. Fuori tempo. Lei stessa era riuscita a capirlo: “Troppo scomoda Modesta per gli anni Settanta Italiani”.
Gli editori non rifiutano i libri perché sono malvagi. E il loro rifiuto non si basa su questioni letterarie pure, ma su una mancata corrispondenza delle “cifre” dell’opera con le esigenze del mercato, sul quale si appoggiano le collane. L’autore può non essere d’accordo, può chiamarla dipendenza dai gusti del lettore-consumatore, rinuncia alle sfide e a qualunque viaggio verso l’ignoto, ma dovrebbe prenderne atto, tirare dritto e cercare altrove.
Ma non l’affettivo. Costui non riesce ad accettare il rifiuto dell’editore perché lo vive come un evento personale, un gelo che scende sul cuore e intorbida la mente. Continua a gettarsi contro il rifiuto come il caprone che si avventa su una rete fino a restarne impigliato.
Io, quando lessi queste parole di Pellegrino, sentii una spina che mi si conficcava in un fianco. Qualcosa era penetrato, una consapevolezza non consapevole che ero pronto. Pronto per sprofondare nel pozzo nero.
In quel tempo non me la passavo male dal punto di vista editoriale. Avevo pubblicato tre noir e un non-noir, tutti per editori maggiori. E un nuovo testo premeva. Ma esitavo perché qualcosa – qualcuno? – mi suggeriva che sarebbe stato di difficile pubblicazione. Chi avrebbe accettato un noir politico ambientato nella Bologna del ’77 con gli indiani metropolitani, gli autonomi, gli espropri, l’omicidio Lorusso e killer nazisti inviati da una sezione deviata del SID per assassinare il protagonista? Il tutto senza sensi di colpa né reducismo né autocondanne né autoassoluzioni e tanto meno pennellate didascaliche. Un testo sincero, preciso, scritto dall’interno perché c’ero, e sapevo. Ma forse proprio per questo, riflettevo, sarebbe stato difficile piazzarlo. Meglio occuparsi d’altro. Per esempio quel romanzo storico tardo antichista che…
Ma no. Niente da fare.
Quello scalpitava per essere scritto.
E lo scrissi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fu un viaggio faticoso ma bello e divertente. Ero tornato in quei luoghi, in quei giorni e la fantasia veleggiava leggera.
Una volta terminate le revisioni l’agente letterario Settimio Bruschettini lo inviò a tutti gli editori maggiori. Perché questo fanno gli agenti: puntano alle major, che pagano l’anticipo. E’ il loro lavoro.
Non arrivarono risposte. Ovvero il romanzo fu ignorato. Ma questo non era significativo. Anche il mio primo noir fu ignorato, fuorché dall’editore che poi stampò anche gli altri due. E anche il non-noir lo fu, meno che dal direttore editoriale della catena a cui piacque.
Io, per conto mio, lo inviai al direttore dei tre noir, ma questi rispose a giro di posta, senza leggerlo, che era stufo di pubblicare autori italiani che non vendevano, per cui aveva sospeso le loro pubblicazioni e cercava all’estero. Ci rimasi, ma non mi stupì più di tanto. Sapevo che questo era un trend attuale, infatti una famosa collana di thriller pubblicava alcuni italiani sotto pseudonimi esotici. Che fare. Che dire. Questo era.
Allora lo spedii direttamente al direttore editoriale della catena che aveva pubblicato il non-noir, Sirio Lombardini. Mi rispose quasi subito che aveva apprezzato la parte del movimento, molto vivace e verosimile, ma il noir andava potenziato. In ogni caso doveva occuparsene la responsabile di una collana più adatta a quel genere di testi, Gilda Tormentilla. Mi girò la sua mail invitandomi a spedirlo a lei.
Eseguii.
Dopo un’attesa altrettanto breve la Tormentilla rispose che il testo era squilibrato, troppo caratterizzato dalla parte ambientale, che pure era interessante, a scapito del noir, che trovava non abbastanza adrenalinico. Beh, perdio, era un’osservazione comune a entrambi. Rilessi il tutto, con calma, e conclusi che probabilmente era giusta. Così mi tuffai di nuovo nella storia e lavorai sull’aspetto muscolare adrenalinico, inserendo colpi di scena e varianti nerissime.
Lo rispedii a entrambi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo un’attesa di nuovo breve rispose la Tormentilla. Aveva apprezzato il lavoro ma i problemi non erano risolti. L’ambiente dominava e il noir partiva tardi.
Digrignai i denti. Il testo per me andava. E doveva andare perdio.
Tornai al lavoro, più concentrato che mai. Decisi anche di ridimensionare un po’ la parte ambientale e di potenziare ulteriormente il noir.
Spedii di nuovo, a Lombardini e Tormentilla.
Ma insomma, perché Lombardini taceva? L’aveva letto?
La risposta della Tormentilla arrivò nei soliti tempi ristretti. Ottimo lavoro, ma i problemi continuavano e sussistere.
E da Lombardini nessuna nuova.
Io, rifiutato.
Non mi sarei arreso. Mai. Sarei stato più ostinato di loro.
Mentre riprogettavo nuove modifiche e potenziamenti, una mattina all’alba, appena aprii gli occhi, ebbi un’idea. Potevo fare di Bologna cowboy un noir dentro un contenitore giallo.
Con la consueta energia e senso del dovere mi rimisi al lavoro e impostai una storia ambientata nel 2047, in una società in cui non vorremmo mai vivere. Il protagonista, un agente speciale dell’Agenzia per la Difesa dello Stato, durante un’indagine arriva a un vecchio signore di 94 anni che gli spedirà un manoscritto col titolo Bologna cowboy. La sua lettura gli cambierà la vita. Inoltre mi arrivò un’altra idea: la parte noir l’avrei illustrata con la mia documentazione sulle “bande giovanili” che avevo realizzato proprio in quel periodo. Foto in bianco nero dei punk, i dark, i mods, che erano già state raccolte in una mostra itinerante. Era una sequenza in linea estetica e stilistica con le suggestioni del romanzo.
Lavorai sodo, quando lo ritenni pronto spedii. Naturalmente a Lombardini e Tormentilla.
E da Lombardini, silenzio tombale.
Tormentilla scrisse che proprio non poteva rileggere il romanzo per la quarta volta (e aggiunse un emoticon sorridente). Le foto, soggiunse, erano spettacolari e magnifiche.
Io continuavo a sferrare cornate contro la rete con furia cieca.
Non potevo accettare quell’ennesimo rifiuto, impossibile. Dopo notti agitate mi svegliavo con gli occhi sbarrati e un peso che mi schiacciava. Non mi sarei rassegnato, avrei di nuovo revisionato, tagliato, potenziato.
Ma quando scese in me un attimo di calma l’occhio mi cadde sull’ultima frase di Gilda Tormentilla: non aveva senso accanirsi in quel modo. Se un testo non andava per un editore poteva interessare un altro. Il mio romanzo doveva trovare il suo editore.
Accanirsi.
Questa parola accese la lucina (La lucina diventò un capitolo del romanzo, quando il protagonista ha un’illuminazione). Fu una madeleine di grande intensità.
Entrai in una stanza polverosa della memoria, rividi quel papà che lavorava all’estero, che non c’era, e taceva. Riascoltai la voce della madre, quando passava 12-14 ore al giorno nel laboratorio di parrucchiera e non aveva tempo per il bambino bisognoso di attenzioni. Arrivava ad ammalarsi per averle, ma il rifiuto che riceveva per l’indisponibilità materiale di lei era più forte di qualunque insistenza, per quanto viscerale.
Ecco la trappola in cui ero caduto.
Per mezzo della parola accanirsi capii che Sirio Lombardini non impersonava quel padre assente, e Gilda Tormentilla non era il fantasma della madre che respingeva il bambino disperato e ostinato. Li avevo sovrapposti. Avevo ricreato il micidiale triangolo mamma, papà ed io, quel portatore di infelicità che Deleuze e Guattari avevano cercato di smantellare con la “schizoanalisi” de l’Antiedipo. Lombardini non era assente, mi aveva semplicemente indirizzato a Gilda Tormentilla, la quale continuava a ripetermi che il romanzo non rientrava nei canoni della collana.
Il suo editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A quel punto ripresi la prima versione di Bologna Cowboy (conservo sempre le prime stesure), la confrontai con l’ultima e, tenendo conto delle osservazione della Tormentilla, che trovai fondate, gli restituii parte della sua vocazione originaria di noir politico, che in un certo senso avevo violentato, mantenendo le vitamine ma togliendo gli steroidi.
Ora il libro era pronto.
E proprio perché lo era, chissà, arrivò la mail di uno scrittore che stimavo, Wladimiro Soavi, che era anche redattore del blog letterario d’avanguardia Scrittura Indie, a cui l’avevo spedito mesi prima. Mentre lo leggeva, disse, si rendeva conto che sarebbe stato adatto alla nuova collana di narrativa di Deriva Approdi, per cui l’aveva inoltrato al direttore editoriale. Il quale mi scrisse dopo una settimana: era entusiasta di pubblicarlo.
Così Bologna cowboy ha trovato il suo editore.
Ora spero che troverà anche i suoi lettori.

NdR “Bologna cowboy”, il testo di cui parla lo scrittore e fotografo Mauro Baldrati in questo pezzo, è stato pubblicato molto di recente da DeriveApprodi. Le tre fotografie, scelte tra le numerose inserite nel volume, sono dell’autore.

Dodici civette – Juliette Evola

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avvertenza introduttiva

Nel 2020 una pandemia globale si è abbattuta sul pianeta e, per dirla con lo Hegel, il mondo ha girato sui suoi cardini cambiando per sempre la propria direzione di marcia.

È stato subito ribattezzato “Great Reset”, una formula coniata al World Economic Forum che indica la volontà delle élite finanziarie e del cosiddetto capitalismo della sorveglianza di sfruttare la congiuntura pandemica e l’escalation bellica per aumentare, attraverso la paura e il conseguente disciplinamento sanitario e sociale, il controllo panottico e algoritmico delle coscienze per arrivare a instaurare un Nuovo Ordine Mondiale.

Gli episodi che mi accingo a riferire si sono svolti tra il 31 gennaio 2020 e le feste natalizie di quello stesso anno. Raccontano soprattutto una tremenda storia d’amore e una dolorosa vicenda personale, ma sono sicuro che avrebbero avuto un esito molto diverso se non fossero avvenuti in concomitanza con la pandemia da Covid-19, preludio e prova generale, come ormai dimostrato, della guerra mondiale che ha sconvolto e sconquassato il pianeta e le vite di molti esseri umani.

A distanza di dieci anni da quegli eventi, mandato in pensione l’anacronistico World Wide Web, i padroni del Metaverso hanno provveduto a cancellare tutto ciò che riguarda la FarcoTech e il brevetto dei polimeri eps-ubik12 a elevato isolamento termico necessari alla distribuzione dei vaccini nella prima inoculazione di massa della storia dell’umanità. Ogni riferimento al gruppo di satanisti ecologisti e vegetariani che si facevano chiamare la “Confraternita della Civetta”, al seicentesco processo inquisitoriale “dei dodici”, alla strega Ginevra Settembrini e a gran parte degli avvenimenti e dei personaggi che questo mio diario postumo intende documentare, è stato meticolosamente censurato. E, d’altra parte, l’obiezione che qualche prematuro lettore di queste mie note mi ha già privatamente avanzato, per la quale non posso provare quasi nulla di ciò che scrivo, non mi tocca più di tanto. L’obiettivo di questo libro non è certo quello di ricostruire fedelmente un’epoca storica, bensì di provare a restituire le emozioni di un’esperienza personale molto dolorosa e la realtà drammatica di episodi pubblici e privati che hanno cambiato radicalmente la mia parabola esistenziale e quella di diversi protagonisti di questa vicenda.

La storia della massoneria italiana è la storia di associazioni di persone legate tra loro da interessi che, dietro una superficie esoterica e filosofica, nascondono innanzitutto moventi di carattere economico e finanziario. È una vicenda intricata e complessa che va da Garibaldi a Cecchi Paone passando per Cuccia e Berlusconi, ma non andrebbe dimenticato che una loggia massonica è tanto più influente e pervasiva quanto più riesce a nascondersi e ad agire nell’ombra. Non a caso, a differenza delle province limitrofe, nei luoghi che hanno fatto da sfondo agli eventi che sto per raccontare, non risulta alcuna attestazione di organizzazioni segrete.

Si dice che il fisico Premio Nobel Niels Bohr, sopra il portone della sua casetta di campagna a Tisvilde in Danimarca, avesse appeso a un chiodo un ferro di cavallo per tenere a distanza le disgrazie come era uso fare nelle zone rurali del nord Europa. Un giorno un collega lo andò a trovare e rimase interdetto dalla presenza di quel segno di superstizione popolare, del tutto inaspettato nell’abitazione di uno dei paladini della scienza del Ventesimo secolo.

«Sono confuso… Un grande scienziato come te crede veramente che appendere un ferro di cavallo sull’uscio della sua casa tenga lontani gli spiriti maligni?» chiese esterrefatto il suo ospite. «No», rispose Bohr piccato, «certo che non credo in queste superstizioni! Ma sai com’è», aggiunse in tono scanzonato, «dicono che funzioni anche se non ci si crede!».

Come ha suggerito Slavoj Žižek questa storiella è la metafora perfetta dell’ideologia che, nella nostra disgraziata e pervertita epoca “post-ideologica”, anziché essersi estinta come qualcuno pretenderebbe, agisce sempre di più in fuoricampo, senza mai esplicitarsi completamente e senza che sia più necessario credere a essa. Quanto più è nascosta e sotterranea tanto più funziona; ne siamo tutti portatori, anche se quasi sempre inconsapevoli.

Anche per questa ragione, nel mio racconto ho cercato non soltanto di esporre i terribili e incredibili fatti di cui sono stato testimone nella maniera più precisa e circostanziata possibile, ma anche di evidenziare le mie convinzioni, il mio punto di vista e la mia visione ideologica del mondo, senza ipocriti infingimenti, omissioni o censure di sorta.

Perché, parafrasando l’antico adagio, non esistono fatti senza interpretazioni.

Samuele B*****

Ferrara, 30 aprile 2030

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(31 gennaio 2020)

«Alexa, suona della musica classica!».

Mi ero rivolto all’Echo Spot con voce stentorea mentre mi accendevo l’ennesima sigaretta continuando a fissare perplesso il monitor del computer. Dalla finestra aperta alle mie spalle proveniva un’arietta fredda che mi infastidiva non poco. Ma ero talmente svogliato che non avevo la forza neppure di alzarmi e richiudere i battenti, anche perché il mio piccolo studio puzzava di fumo in modo abbastanza indecente e un po’ di giro d’aria non avrebbe guastato.

Sono sempre stato un maniaco dell’ordine ma, da quando ero tornato single, alcune mie fissazioni avevano subito una sorta di allentamento. Le sigarette, ad esempio. Non mi sarei mai nemmeno immaginato di impestare una stanza di fumo quando ero sposato. E non certo perché mia moglie non lo voleva. Era proprio una mia esigenza. Forse stavo cercando di ottimizzare al massimo grado le libertà e le prerogative che derivavano dal fatto di vivere da solo, in modo da convincermi che quella configurazione esistenziale alla fine non era poi così malaccio.

L’Echo Spot aveva iniziato a diffondere una melodia gioiosa e spensierata. Doveva essere un divertimento di Mozart. Mi era andata bene perché per quelli di Amazon musica classica vuol dire innanzitutto Ludovico Einaudi che, per qualche strano contrappasso algoritmico, apre sempre questo genere di playlist e che io, a differenza di mia moglie, ho sempre trovato melenso e retorico. Ma non ci facevo grande attenzione. Stavo seduto ormai da alcune ore davanti alla scrivania di mogano, che costituiva l’unica mobilia di qualche valore del mio appartamento da neo-scapolo. Sullo scrittoio, oltre a un bizzarro portacenere di cristallo a forma di Torre Eiffel lasciatomi in eredità dal mio precedente inquilino, quella sera ricolmo di mozziconi, trovava spazio il mio MacBook Pro sul cui schermo campeggiava l’homepage un po’ retrò di antimonio.com.

Dallo scaffale dietro di me raccolsi il libretto della discordia dalla copertina ormai logora straripante di note e post-it. Lo aprii al primo capitolo dove viene riportato il dialogo con Cacciari e lo bloccai sotto al computer. L’articolo che stavo scrivendo era ancora a livello di bozza ma per errore avevo premuto il tasto invio pubblicandolo sulla pagina principale. Prima di riportarlo offline approfittai dell’occasione per ridare una letta a quanto ero riuscito a scrivere quella sera nella formattazione corretta:


Juliette Evola è una scrittrice e una regista italiana di vocazione mitteleuropea. Nata a Praga ma triestina d’adozione, ha pubblicato due raccolte di poesie, e un cortometraggio. Le 12 civette è il suo primo romanzo.