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Tu se sai dire dillo 2016. V edizione

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di Biagio Cepollaro

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Tu se sai dire dillo

V edizione

21, 22 e 23 ottobre 2016

Spazio Ostrakon e Bioforme

Rassegna ideata e curata da Biagio Cepollaro in memoria dell’amico e poeta Giuliano Mesa

La V edizione di Tu se sai dire dillo si svolgerà nei locali del centro Bioforme, via Aosta 2, Milano (MM 5 Cenisio) e si articolerà essenzialmente intorno ai temi: la poesia di Giuliano Mesa, l’emergenza poetica di questi ultimi anni a Napoli, la riscoperta critica del Gruppo 93 a ventitré anni dallo scioglimento del sodalizio, la nascita della collana Autoriale e il primo volume dedicato a Francesco Tomada, la festa del blog Perigeion e la poetica del lutto di Amelia Rosselli.

VENERDI’   21 ottobre

ore 18.00

Biagio Cepollaro e Giorgio Mascitelli leggono Giuliano Mesa

Proiezioni dantesche di Paola Nasti

ore 18,30

Fabio Orecchini : Installazione e performance dedicate a Giuliano Mesa

ore 19,00

Conversazione sulla poetica emergenza a Napoli.

a cura di Bernardo De Luca

Viola Amarelli, Biagio Cepollaro, Antonio Devicienti, Tommaso Di Dio, Giusi Drago, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Carmen Gallo, Nino Iacovella, Eugenio Lucrezi, Giorgio Mascitelli, Luigi Metropoli, Gianni Montieri, Paola Nasti, Angelo Petrella, Christian Tito, Ferdinando Tricarico e Daniele Ventre

ore 20.00

Intervallo

ore 20.30

La poetica emergenza: la poesia a Napoli

Viola Amarelli

Francesco Filia

Carmen Gallo

Eugenio Lucrezi

Giovanna Marmo

Angelo Petrella,

Ferdinando Tricarico

Daniele Ventre

SABATO   22  ottobre

ore 18.00

Alla fine del 900: il Gruppo 93

a cura di Angelo  Petrella

Angelo Petrella in dialogo con Adriano Padua

Intervengono:

Mariano Baino, Marco Berisso

Guido Caserza, Biagio Cepollaro, Marcello Frixione, Paolo Gentiluomo, Costanzo Ioni

ore 19,30

Nicola Sisci e il cortometraggio

ore 20.00

Intervallo

ore 20.30

La collana Autoriale e Francesco Tomada

Edizioni Dot.Com Press

a cura di Fabrizio Bianchi e Biagio Cepollaro

ore 21.00

Festa di Perigeion

Roberto R. Corsi, Guido Cupani. Giusi Drago, Nino Iacovella, Amara Miao Rossi, Christian Tito

DOMENICA  23  Ottobre

ore 18.00

Psiche e materia

Jung e Pauli

a cura di Antonio Sparzani

ore 18.30

Rivoluzioni dimenticate

a cura di Pino Tripodi

con Francesco Forlani

ore 19,30

Kafka, La colonia penale. Una traduzione

a cura di Davide Racca

ore 20.00

Intervallo

ore 20.30

Amelia rosselli e Bologna in lettere 2016

a cura di Enzo Campi

Il programma della serata comprende il video “Stratificazioni”, montato con immagini della IV° edizione del Festival; il recital “Erba nera che cresci segno nero tu vivi”, con Martina Campi, Francesca Del Moro, Mario SboarinaAlessandro Brusa, Sonia Lambertini, Enea Roversi; e la presentazione del volume “Il colpo di coda. Amelia Rosselli e la poetica del lutto” (Marco Saya Edizioni)

 

Philippe Muray c’è!

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di

Lakis Proguidis*

traduzione di Francesco Forlani

(Saluto con estrema gioia la pubblicazione da parte delle coraggiose Edizioni Miraggi, (Tamizdat) di Cari jihadisti di Philippe Muray. Una gioia che ha due ragioni ben precise: la prima è che si tratta della prima in Italia di una delle voci più contre- courant del dibattito politico e letterario francese; la seconda è che questo è avvenuto grazie all’Atelier du Roman che ce lo ha fatto conoscere e amare, e a Nazione Indiana che in questi anni per mio tramite ha proposto delle traduzioni tamizdat di alcuni suoi testi. Ho chiesto ai ragazzi di Miraggi di pubblicare la Postface al libro sperando di fare cosa a voi gradita. Sempre a proposito di Cari jihadisti… segnaliamo  la pubblicazione in contemporanea del testo di Olivier Maillart, traduttore con Francesca Lorandini dell’opera di Muray, sul sito diretto da Giacomo Verri. effeffe)

 

 

Cari jihadisti… non è un pamphlet, né una beffa mediatica, né tantomeno una provocazione di quelle a cui hanno preso gusto in questi ultimi anni intellettuali e pubblico, non è neppure un ciclostilato militante di quelli che fanno la felicità dei blogger e ingrossano i ranghi degli eterni ottimisti. È un libro che fa appello al buon senso. È una profonda riflessione sulla morte della nostra civiltà occidentale, preparata, programmata e infine messa in opera da un’altra civiltà detta anche quella occidentale. Non sono giochi di parole. Muray parla dell’Occidente vampirizzato. Della civiltà che è riuscita in mezzo secolo ad autoconsumarsi, a fagocitare la propria forza vitale, a sbarazzarsi di qualsiasi cosa avesse in avversione, a disertare totalmente i propri valori, ovvero «lo spirito critico, la conflittualità, la capacità di assorbire il Male o il demoniaco e di comprenderli per combatterli».

Che ci siano voluti quindici anni per tradurre e togliere dal francese questo saggio di Philippe Muray, nonostante la sua attualità, come dire, scottante, mette in luce la carenza essenziale delle nostre società sovrainformate. Gli opinionisti che si agitano senza sosta ai quattro angoli del pianeta per i diritti dell’uomo e per la sovrabbondante letteratura che ne consegue, sono apparentemente poco inclini alla facoltà umana più elementare: riflettere. Ma può succedere, eccone la prova. Per goderselo, bisogna prendersi la parentesi del tempo della lettura e isolarsi dal chiacchiericcio mediatico, concentrandosi sull’attualità dello sguardo di Muray sulla nostra civiltà.
Di tutta questa storia, lunga tre millenni, non si è saputo mantenere, o, per meglio dire, non si è voluto mantenere che un’etichetta: Occidente. Cari jihadisti… spiega questa transustanziazione diabolica, questa negazione di se stessi senza essere stati costretti da un nemico esterno, da una forza ostile. E ora è questo Occidente per così dire post occidentale che si propaga dappertutto, che conduce l’umanità intera verso la globalizzazione, se necessario col fuoco e col sangue. Ma – si potrebbe pensare con cognizione di causa – l’Occidente non doveva a detta di tutti essere sul punto di esalare l’ultimo respiro, privato delle sue qualità intrinseche, di queste armi immateriali? Ricrediamoci, e ricredetevi «cari jihadisti», colui che si è rivelato capace di succhiare il proprio sangue è imbattibile. Muray dixit.

Ovviamente Cari jihadisti… non è il solo libro di Philippe Muray a non essere stato tradotto. L’insieme della sua opera, infatti, romanzesca, saggistica, poetica e critica, già mantenuta ai margini in Francia, attende il giorno in cui gli editori degli altri paesi d’Europa (nel senso geografico del termine) si sovverranno del fatto che il loro mestiere non consiste preminentemente nel riprendere e diffondere le opere degli autori di ampio consenso e dei sovversivi di servizio. La voce di Philippe Muray è unica, inimitabile. Nei decenni che sono seguiti in Francia ai «trenta gloriosi» (1945-75), Muray è stato uno dei rari scrittori a non partecipare, consapevolmente, alla grande carnevalata della commercializzazione dell’arte e dello spirito, annunciata a suon di tromba come imprescindibile. Si è battuto fino alla sua morte prematura nel 2006 per non diventare come gli altri, per non soccombere alla seduzione della vita mediatica – televisione, presentazioni, cocktail di lancio e compagnia bella –, per non scrivere una parola senza essere in prima analisi convinto che quella parola sarebbe servita alla sua impresa demistificatrice, al suo sforzo di guardare concretamente il nostro mondo.

Dall’uscita del primo romanzo, Chant pluriel, nel 1973, fino al suo «lessico» Le portatif, uscito nel 2006, Philippe Muray ha pubblicato quattordici opere, di ogni genere letterario, e più di trecento articoli per riviste e giornali. Questi articoli, li ha raccolti in sei volumi di cui quattro intitolati Exorcismes spirituels e due Après l’Histoire. Non si può certo dire che una tale attività creativa ininterrotta durata trentatré anni, sorprendente, e sempre fuori dai sentieri battuti, sia passata così inosservata. Il suo primo grande saggio, Le XIX éme siècle à travers les âges (1984) – un affondo intellettuale formidabile a proposito dell’oscurantismo che generano lo scientismo e la razionalizzazione forzata della vita umana – è stato notato e accolto favorevolmente dalla critica alla sua pubblicazione. Però generalmente e in buona parte perché, come ho appena detto, non ha mai voluto stare al gioco, Muray è rimasto uno scrittore di nicchia, amato e difeso soltanto da alcuni scrittori anch’essi dotati dello stesso autentico spirito critico. Eppure va detto che il vero divorzio tra Muray e l’ambiente artistico e letterario francese è sopraggiunto nel 1991 con L’Empire du Bien, vera e propria matrice delle sue opere ulteriori, compresa Cari jihadisti…, pubblicata pochi mesi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Il 1991 non è un anno a caso. È il momento dell’insediamento di Eurodisney ottanta chilometri a est di Parigi. (Da allora, nelle guide turistiche vendute ai visitatori di questo gigantesco asilo nido, Parigi è segnalata come una tappa che merita davvero una sosta.) Ci sono in apparenza delle coincidenze che, viste da Marte, non lo sono affatto. Nel momento storico in cui l’Europa (per mano della Francia socialista) apriva il proprio cuore, geograficamente e metaforicamente, per accogliere in pompa magna l’industria infantilizzante americana, Muray pubblicava il suo Empire du Bien in cui scandagliava l’irresistibile ascesa dell’infantocrazia in tutti i campi della vita, pubblica e privata. La qual cosa non data certo da ieri. Tale culto dello stato infantile, di cui Eurodisney non è che il simbolo più esplicito, sopraggiunge per chiudere, probabilmente in modo trionfale, una lunga serie di tentativi che l’Occidente aveva intrapreso già da un secolo per liberarsi del patrimonio della propria civiltà: l’individuo libero, autonomo e creatore, altrimenti detto, l’uomo che cerca di evolversi. Vale la pena allora riportare un passaggio dell’opera citata in cui il lettore riconoscerà tra l’altro le origini di Cari jihadisti..:

Il telecollettivismo filantropico è l’erede perfetto e pacifico del dispotismo comunista, tutto un dispiegamento virtuoso di letteratura edificante, con tanto di pastorali alla Aragon e di idilli alla Éluard. I cervelli sono kolchoz. L’Impero del Bene attinge a piene mani da quell’antica utopia: burocrazia, delazione, esaltazione appassionata della giovinezza, smaterializzazione del pensiero, abolizione dello spirito critico, addestramento osceno delle masse, annientamento della Storia a forza di attualizzazioni, appello kitsch al sentimento contro la ragione, odio del passato, uniformazione degli stili di vita. È successo tutto in fretta, estremamente in fretta. La Milizia delle Immagini occupa il campo a suon di sorrisi e anchegli ultimi focolai di resistenza si stanno disperdendo. Sono stati abrogati i capitoli più risibili del programma delle grandi ideologie collettiviste (la dittatura del proletariato, in primis), ma il cuore del progetto rimane lì, gregario, nessun rischio che scompaia. Il trionfo dell’individualismo è un grande bluff, è una di quelle tante amene verità giornalistico sociologiche di consolazione, quelle che ci sciroppano quotidianamente in un mondo in cui ogni singolarità, ogni particolarità è in via di estinzione. Individuo dove? Individuo quando? In quale angolo recondito del nostro ridicolo globo trovarlo?

L’idea centrale intorno a cui si costruisce l’opera romanzesca e saggistica di Philippe Muray è che noi viviamo nel mondo dopo la Storia. Tale mondo somiglia del resto a tal punto al vero mondo storico d’un tempo che rischiamo di trascorrere la nostra vita lì dentro senza rendercene conto. Il che non esclude il fatto che un abisso incolmabile li separi. Il mondo storico include al suo interno il Male (il negativo, il granello che fa inceppare la macchina, il rifiuto dello stesso, lo spirito critico, il rovescio della medaglia ecc.). Il mondo poststorico si ostina a ignorarne l’esistenza. Il primo è costituito da una successione d’incarnazioni della lotta incessante tra il Bene e il Male, il secondo, si identifica solo nella lotta tra il Bene e il Bene. Sarà mai possibile? Sì, dice Muray.
Attraverso la festa non stop, il rumore di fondo mediatico, la diserotizzazione dei rapporti umani, la persecuzione implacabile dei piaceri individuali (supposti come nocivi alla salute), la svalorizzazione totale del passato e attraverso mille altre furbate dello stesso calibro, il mondo poststorico è riuscito ad ammazzare sul nascere qualunque idea secondo cui possa diventare esso stesso oggetto di critica e refutazione in blocco. Anime belle e malintenzionate hanno voluto accostare Philippe Muray a Francis Fukuyama che, negli stessi anni, parlava della «fine della storia».

È evidente che per i due scrittori il cuore dell’affaire è lo stesso: la Storia è finita. Confonderli sarebbe però davvero una mostruosità. Fukuyama è colui che danza intorno alla vittima, ben contento di essersene sbarazzato, ben lieto di vivere d’ora in poi nell’ultima era di un’umanità unificata (leggi: globalizzata) che non conoscerà più guerre nazionali (la nazione americana basta e avanza) néopposizioni ideologiche (il pragmatismo americano basta e avanza) né scarti di civiltà (il melting pot americano basta e avanza). Quanto a Muray, lui invece è lo sconfitto, al fianco della vittima. Si sente soffocare. Si batte con tutte le sue forze. Di questa nuova era dell’uomo sotto trasfusione «iperfestiva» e «ipersecuritaria» non ne vuole sapere, a nessun costo. Dieci anni sono trascorsi nell’euforia iperfestiva.

L’11 settembre 2001 l’Occidente (l’Impero del Bene) si risvegliava per scoprire sconvolto che il suo grandioso progetto di realizzare un mondo senza frontiere, lanciato l’indomani del crollo del blocco sovietico, in conclusione aveva ottenuto come unico risultato un terrorismo senza frontiere. Fuori discussione, per l’Impero del Bene, rimettere in causa le sue mire geostrategiche e culturali. Fuori discussione, ben inteso, riflettere anche solo per un istante sul legame profondo che esiste tra la trasformazione della terra tutta intera in supermercato e la follia assassina dei gruppi che si richiamano all’Islam. «Spiegare è giustificare» ha dichiarato il Primo Ministro francese subito dopo la recente carneficina del Bataclan, per sgombrare subito il campo da ogni idea d’un esame specifico di questo tipo di terrorismo, che imperversa sull’intero pianeta da almeno una trentina d’anni. Era fuori discussione perfino prendere in considerazione l’idea del Male come parte integrante dei nostri ideali e delle nostre opere. In compenso, si è optato per la guerra. Varrebbe la pena sapere, quantomeno, che senza una riflessione sulle cause principali di tale conflitto, quest’ultimo rischia di tramutarsi in rivalità mimetica, come direbbe René Girard, uno degli autori preferiti da Philippe Muray. Vincerà colui che sarà il più morto, ovvero noi, dice Muray. E mi preme sottolineare che non si tratta affatto d’una provocazione, di una di quelle trovate di spirito tipiche degli scrittori francesi.

È un aforisma che condensa una ricerca spirituale e artistica condotta per almeno tre decenni, un giudizio morale, maturato, ponderato in ogni suo dettaglio, analizzato in tutti i suoi aspetti, sulle sorti della nostra civiltà. In tal senso possiamo dire che Muray prolunga la messa in questione che Husserl e Valery avevano intrapreso tra le due guerre a proposito della crisi della civiltà europea. Inequivocabilmente.
Va tuttavia precisato che sia in Husserl che in Valery, si trattava di premonizioni, segnali d’allarme, segni che annunciavano la catastrofe in arrivo. In Muray la morte è sopraggiunta. Solo che il cadavere si crede più vivo che mai. Miracolo? Non direi proprio. L’elisir del Bene ci è stato fatto ingoiare a dosi massicce.
Eppure Muray non viene fuori dal nulla, non è senza precursori. Un anno prima della sua morte, nel 1947, Georges Bernanos aveva tenuto una serie di conferenze pubblicate postume e intitolate La libertà, per farne cosa? È la critica rigorosa di una civiltà che, al risveglio dall’incubo da lei stessa provocato su scala planetaria, rifiuta ostinatamente di trarne la benché minima lezione in vista di moderare i suoi immensi desideri di comfort e beni materiali.

Di qui le sue conclusioni: per ogni organismo la decomposizione comincia dopo la morte, per le civiltà da molto prima.
Philippe Muray ha fatto l’elogio di Georges Bernanos a più riprese in saggi e articoli. Come di Flannery O’Connor, Philip Roth, Milan Kundera e di tanti altri scrittori, soprattutto romanzieri, il cui sguardo obliquo sul mondo ha stimolato il suo. Eppure i suoi maestri, i veri maestri, rivendicati, ripresi ininterrottamente nei suoi scritti e commentati alla luce del presente, rimangono Balzac e Céline. Muray si richiama molto spesso alla loro eredità, alla loro arte di racchiudere in un abbraccio il mondo nella sua interezza. Nondimeno, mi preme sottolineare che supera i suoi maestri in un punto cruciale, esteticamente parlando. La sua risata tocca vette che farebbero sognare i suoi grandi modelli. Il che non significa che in tale campo sia stato solo e isolato, che tale risata prima di allora non sia risuonata. È risuonata eccome! È proprio con una risata che iniziano i tempi moderni. È la risata di Rabelais. Salvo che, nel caso di Philippe Muray, la risata non è soltanto l’elemento proprio dell’uomo come era stato per il suo nobile antenato. In un’epoca oscura come la nostra è d’obbligo servirsene come di uno strumento di tale finezza da permetterci di orientarci con la riflessione nella nebbia di tutte quelle idee che sembrano fatte con lo stampino e da cui siamo stretti in assedio.

* Lakis Proguidis scrittore e critico lettrario. Nel 1993 ha fondato e dirige la rivista L’Atelier du roman, con cui Philippe Muray ha collaborato in modo assiduo fino alla morte nel 2006.

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Paesaggio e convenzioni figurative nella poesia italiana contemporanea

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[Questo saggio è incluso nel volume Nuovi realismi. Il caso italiano, uscito per Transeuropa quest’anno, a cura di Silvia Contarini, Maria Pia De Paulis, Ada Tosatti. Raccoglie dei contributi realizzati in occasione del convegno internazionale «I nuovi realismi nella cultura italiana all’alba del nuovo millennio» (Parigi, 2014).]

di Andrea Inglese

 

Premessa teorica

Se c’è una questione rilevante, in ambito di teoria letteraria, che riguardi il realismo, e non da oggi, essa è associata alla possibilità di una “critica dell’ideologia”.

È vietato

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di Fabio Pusterla

È vietato lordare le acque.
È vietato pescare di frodo.
È vietato portare di là
chi di là non deve andare:
mendicanti, malati, paure,
disperati di sventura.

Paghino alle dogane
pedaggio ai nostri ponti,
facciano i loro conti o
crepino a casa loro.
Son venuti da terre lontane
son venuti senza invito.

È vietato portare al dito
l’anello della pietà.

***

L’anello della pietà
lo abbiamo gettato nell’onda
è andato subito a fondo
un pesce se lo mangiò.

Il pesce che se lo è mangiato
fino al mare lo porta
lo porta fino alla morte
del mondo che abbiamo avuto.

Lo pesca un pescatore
sulla riva dell’altro mondo
fa un respiro profondo
e intanto ci guarda annegare.

Non ci sarà pietà
per chi pietà ha negato
l’acqua si chiuderà
tutto sarà sparito.

da: Ultimi cenni del custode delle acque (Carteggi Letterari, 2016)

Hommage al poeta da camera (Zimmerman)

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di

Francesco Forlani

Lo vedi arrivare, Davide contro i Golia piazzati sulle aste, un arco tra le braccia con molte corde, la voce impastata di fumo buono e la marca di cartine per titolo di gala. Così immagino i poeti scavalcare il filo spinato dell’attenzione, così  ho sentito migliaia di persone ripetere a memoria ogni verso, il vero sogno di ogni poeta, della domenica e del lunedì. Esegeti delle lettere e decifratori dei generi, lettori accigliati, professori che pretendete l’amore dei vostri alunni per i vostri amori d’antan, poeti che rimpiangete la natura dei classici forzati purché rechino la ceralacca sulle catene, tra le righe del Canone e sfoggiate eterna giovinezza a ogni colpo di tosse, sappiate almeno per un attimo relegare i vostri distinguo lirici – perché senza lira non si canta nemmeno una messa- nella celletta delle vostre prestazioni pensionabili, antologie autoreferenziali. Inchinatevi al passo, togliete il cappello, al passaggio del poeta da camera, Zimmerman. Oggi, ieri, è stato un grande giorno perfino per voi.

Canto del rivolgimento

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di Federico Scaramuccia

colui che nel sonno consuma
colpito diretto alla nuca
si sveglia che è un’altra persona
ribatte ogni volta lo slogan

 

nel fosso che pare di merda
si attuffano come in un’orgia
puttane e papponi a merenda
si leccano il culo a vicenda

“Ritmo sopra tutto”, una mostra al MA*GA di Gallarate

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MUSEO MA*GA, GALLARATE (VA) DAL 15 OTTOBRE 2016 AL 5 FEBBRAIO 2017

IL MA*GA FESTEGGIA I SUOI PRIMI 50 ANNI

CON LA MOSTRA RITMO SOPRA A TUTTO

Cinquant’anni di storia e di arte al MA*GA

a cura di Franco Buffoni

Giovanni Accardo sulla formazione degli insegnanti (il piano triennale)

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Pinuccia Di Gesaro intervista Giovanni Accardo

La ministra alla Pubblica Istruzione ha emanato recentemente il piano triennale contenente le priorità nazionali di formazione per gli insegnanti in servizio. Qual è la Sua opinione su questo Piano di formazione? Secondo Lei come dovrebbe funzionare la formazione dei docenti in servizio?

La scuola italiana, a differenza della gran parte di quelle europee, si caratterizza per un grande numero di discipline studiate, mediamente 12 nelle scuole superiori, e per il fatto che i programmi ministeriali prevedono che di ogni disciplina si studi tutto, dalle origini a oggi. Però nello stesso tempo si pretende di fare quello che fanno gli altri paesi europei, senza minimamente rivedere i programmi scolastici, riducendone i contenuti e magari riducendo il numero delle materie insegnate. Ogni riforma, al contrario, invece che togliere, aggiunge competenze e soprattutto pretende che gli insegnanti, normalmente formati per insegnare le proprie discipline (così funziona a tutt’oggi la formazione universitaria), siano in grado di fare mille altre cose. Va esattamente in questa direzione la recentissima proposta di un piano di formazione triennale obbligatorio per tutti i docenti. Tra l’altro secondo la logica del marketing che ormai detta le regole della comunicazione politica, ovvero annunci roboanti che spesso nella sostanza racchiudono il vuoto. E nella logica degli effetti speciali si avvale esperti che arrivano da luoghi esotici, ad esempio da Singapore. Come a dire che la scuola italiana, che ha una nobilissima tradizione di risultati e studiosi, da sola non è in grado di provvedere alla formazione degli insegnanti. In quale scuola si sono formati i numerosi cervelli che quotidianamente fuggono all’estero, spesso accolti da prestigiose università e centri di ricerca? Arrivano forse da Singapore o dalla celebrata scuola finlandese? Esiste un solo modello valido per tutti i luoghi del pianeta, indipendentemente dalle loro peculiarità? E allora ecco un po’ di formule in inglese, che non guastano mai perché, esattamente come il latinorum di manzoniana memoria, stupiscono e persino incutono soggezione. Secondo le ultimissime linee guida il docente dovrà formarsi sul disagio giovanile e sulla coesione sociale, sull’inclusione e la disabilità, persino sulla cittadinanza globale, che chissà cos’è esattamente. E poi naturalmente bisogna conoscere il mondo del lavoro. Nessuna parola sulle conoscenze disciplinari e in generale sulle competenze culturali. Ad erogare tale formazione saranno gli enti accreditati dal ministero e abbiamo già visto come funziona, molta inutile formazione on-line a spese del docente, con l’unico obiettivo di arricchire tali enti, spesso assolutamente privi di titoli. Io sono assolutamente favorevole all’aggiornamento continuo degli insegnanti, tant’è che nella mia esperienza li organizzo tutti gli anni e li frequento, però vorrei che fossero le scuole, i collegi docenti, mettendosi magari in rete con altre scuole, a proporre i corsi di cui sentono la necessità, sulla base della loro esperienza didattica quotidiana e non dei fumosi astrattismi ministeriali stabiliti da funzionari che non hanno mai messo un piede in un’aula. Non che gli insegnanti sappiano tutto e non abbiano bisogno di imparare anche da chi vive fuori dalla scuola, come ad esempio gli studiosi di didattica e di pedagogia, però sulla base di percorsi progettati dai collegi docenti, ovvero a partire da esigenze concrete. Ci sono tanti insegnanti che hanno competenze da insegnare ai loro colleghi sulla base della loro esperienza, dei loro studi, del loro sapere e che andrebbero valorizzati, coinvolgendoli nell’aggiornamento. In questo modo la formazione non sarebbe sentita come un obbligo che arriva dall’alto, ma come una necessità condivisa che, al contrario, nasce dal basso. Ogni insegnante sa che l’apprendimento funziona solo se è significativo, non basta l’imposizione, l’obbligo, ma questo forse viene ignorato dai funzionari del MIUR.

La nuova idea, secondo la quale gli studenti nel triennio devono fare 200 ore di alternanza scuola-lavoro, è una buona idea a Suo parere?

Ho l’impressione che ci sia un equivoco, che si creda, cioè, che la disoccupazione sia colpa della scuola che non forma adeguatamente gli studenti per entrare nel mondo del lavoro. Ma è questo il compito della scuola? Lo sarà certamente per gli istituti tecnici e professionali, focalizzati su un mestiere o una professione. Ma i licei, quali professioni formano? Quale vantaggio avranno gli studenti a perdere 200 ore di scuola a vantaggio di uno stage in un luogo di lavoro? Qual è l’obiettivo, far conoscere come funziona il mondo del lavoro? Allora si chieda agli studenti del quarto anno di scuola superiore di farsi un’esperienza lavorativa di almeno 15 giorni durante l’estate, in cambio di una simbolica retribuzione, magari offrendo a chi li ospita qualche sgravio fiscale. Nei licei si progettino dei percorsi che siano al contempo di educazione alla cittadinanza, di orientamento universitario, di creatività, facendoli svolgere in quinta, tra l’ultima settimana di agosto e la prima di settembre, senza sottrarre ore alla scuola. Mi pare che in un momento di grave crisi economica, in cui l’intero mondo del lavoro è in profonda trasformazione e molti lavori scompaiono, ci sia bisogno di molto sapere, di creatività e immaginazione, di capacità di collegare, confrontare, argomentare, ideare, stimolando l’intelletto, naturalmente in relazione al presente, non certo facendo vivere gli studenti in un mondo astratto. Anche a proposito di alternanza scuola-lavoro, bisogna fare attività che abbiano senso e non le solite cose all’italiana, ad esempio parcheggiando gli studenti in un ufficio a far fotocopie. Gli studenti del triennio sono migliaia e specie nelle aree depresse del Sud vorrei sapere dove si può trovare spazio per fargli svolgere un’esperienza veramente formativa. Molte scuole, infatti, sono in difficoltà, si stanno inventando di tutto e spesso solo per poter dire che è stato fatto. Addirittura, nella prospettiva del nuovo esame di maturità, sembra che tale alternanza sarà determinante per attribuire il credito scolastico agli studenti, dunque le scuole si troveranno a dover valutare qualcosa che esula dalle loro competenze. Cioè sempre di più la valutazione complessiva dello studente viene sottratta al lavoro degli insegnanti, in una sorta di vera e propria schizofrenia. Peraltro sovrapponendo quello che non può essere sovrapposto, ovvero competenze culturali e competenze professionali.

Valutazione degli insegnanti. Gli insegnanti hanno paura di essere valutati?

Sì, la valutazione fa paura, inutile negarlo. Ma fa paura perché è stata presentata come una mannaia che pende sul capo degli insegnanti, e questo sempre nella logica della politica marketing. Con l’ultima riforma ai genitori si è lanciato il seguente messaggio: adesso licenzieremo i docenti incapaci, i lavativi, gli psicopatici. Cosa giustissima, peraltro, solo che è impossibile farlo, perché il docente, avendo vinto un concorso pubblico, è tutelato dal diritto pubblico e può essere licenziato solo per gravissimi motivi, non certo perché non sa insegnare. Però, proprio mentre si tentava di far passare questo messaggio di severità e autorevolezza, con un meccanismo farraginoso e a tratti incomprensibile, sono stati immessi in ruolo migliaia di insegnanti senza alcuna selezione, persino insegnanti iscritti in graduatoria e che non avevano fatto neppure un giorno di supplenza. Se si vuole una scuola di qualità, serve puntare sulla formazione e sulla selezione degli insegnanti. L’attuale legge di riforma non fa nulla di tutto ciò, anzi, nel continuo parlare di competenze è stato bandito un concorso che ha sottoposto gli insegnanti ad una verifica di conoscenze enciclopediche. C’è anche da capire chi dovrebbe valutare e con quali obiettivi, perché al MIUR sembrano ignorare che la valutazione non è un’attività sanzionatoria ma un processo formativo, cioè per individuare eventuali lacune, per indicare cosa l’allievo deve migliorare, ma anche per evidenziare i punti di forza, perché esiste anche la motivazione, l’incoraggiamento, la gratificazione. Ma se non si mette mai un piede in classe, questo forse non lo si sa. Io contesto nel modo più assoluto che a valutare gli insegnanti siano i genitori, e lo dico da genitore: io non vorrei valutare gli insegnanti di mia figlia, perché temo che non avrei la sufficiente obiettività. Sia perché implicato emotivamente nei risultati che mia figlia ottiene, sia perché dovrei fidarmi di quello che lei riporta a casa, non essendo in classe ad osservare. Capita talvolta che un insegnante entri in conflitto con un genitore e capita che sia il figlio, cioè lo studente, a prendere le difese dell’insegnante, a dire all’insegnante di lasciar perdere il genitore. Perché alla fine i ragazzi sanno di non poter mentire. Allora si stabilisca cosa si vuole valutare e come, dopo ne riparliamo. Un’ultima cosa va detta sui test Invalsi, che da strumento di misurazione degli apprendimenti degli studenti in italiano e matematica, sta diventando sempre di più e impropriamente strumento di valutazione dei docenti prima e dell’intero istituto scolastico poi. Anche qui sovrapponendo ciò che non può essere sovrapposto. Tali test, soprattutto per l’italiano, misurano una porzione minima dell’apprendimento, inoltre parliamo di due materie misurate, nel caso delle scuole superiori, al secondo anno. E con questo si può valutare un intero collegio docenti? Eppure questo chiede il rapporto di autovalutazione previsto dall’ultima riforma scolastica e da cui dipenderanno le risorse. Da un po’ di anni si sta affermando l’idea di sostenere economicamente le scuole che hanno risultati, cioè quelle che funzionano, magari perché inserite in un territorio e in un contesto sociale di ricchezza economica e culturale, penalizzando quelle in difficoltà. Alla faccia dell’eguaglianza!

La burocrazia ha invaso anche il mondo della scuola. C’è modo di salvarsi, ed eventualmente come?

Stamattina, con gli studenti di quarta, abbiamo lavorato per tre ore sulla scrittura del saggio breve e mentre gli studenti sudavano e faticavano, ho pensato che tutto quel lavoro magari è stato fatto per nulla, perché ogni anno si parla di modificare l’esame di maturità. Quindi io insegno agli studenti come si svolge una delle più impegnative tipologie d’esame e loro tra un anno si potrebbero trovare a svolgere un esame completamente diverso. Le sembra normale? Gli insegnanti sono sfiniti dalle continue riforme. Credo non esista altra professione così pervicacemente sottoposta a continui cambiamenti, e spesso ogni riforma va in direzione opposta alla precedente. Il risultato sono infinite procedure burocratiche, inutili adeguamenti di norme e delibere, carte da compilare, circolari da leggere e inviare, sottraendo tempo prezioso allo studio, alla preparazione delle lezioni, alla correzione dei compiti. Tutto ciò è capace di annientare anche il più volenteroso degli insegnanti. Incontro ogni giorno insegnanti che vorrebbero cambiar mestiere. La scrittrice Mariapia Veladiano, dirigente scolastica a Vicenza, qualche mese fa, dalle colonne di “Repubblica” ha scritto una lettera al ministro, chiedendo di smetterla di inondare quotidianamente le scuole con circolari, che spesso prescrivono obblighi inutili, impossibili da assolvere o estranee alla nostra professione, come quello dello scorso febbraio (poi ritirato), secondo il quale il docente che accompagna una classe in gita avrebbe dovuto controllare lo stato di manutenzione del pullman e se l’autista fa uso di psicofarmaci. Devo dire che anch’io in questi ultimi mesi ho pensato di cambiare lavoro, per l’insensatezza delle norme che regolano e mutano ad ogni passo il nostro lavoro, scritte con quella che Claudio Giunta, su Internazionale del 23 dicembre, ha definito lingua disonesta [“è la lingua disonesta di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud, cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.”]

L’ufficio, scrive Kafka in una lettera a Milena, non è un’istituzione stupida, piuttosto appartiene al mondo del fantastico. Ecco cos’è la burocrazia: un mondo irreale, abitato dal non senso e amministrato da solerti funzionari che obbediscono ciecamente agli ordini superiori e non si pongono domande. E tutti noi siamo dei Josef K. in cerca di un giudice che ci spieghi quale sia la nostra colpa.

 

(questa intervista è apparsa l’11 ottobre sul quotidiano online “Buongiorno Südtirol”)

 

Giovanni Accardo è nato in Sicilia nel 1962, sì è laureato all’Università di Padova e vive a Bolzano, dove insegna materie letterarie al Liceo delle Scienze Umane/Artistico “Pascoli”. Dirige la scuola di scrittura creativa “Le scimmie”, organizza attività culturali con biblioteche e associazioni, cura progetti per il Comune di Bolzano, l’Assessorato provinciale alla cultura e altre istituzioni.

Suoi racconti, articoli e saggi critici sono apparsi su riviste e antologie (Studi Novecenteschi, Fata Morgana, Forum Italicum, Tempo Presente, Il Cristallo, Micromega). Fa parte della redazione della rivista online “Fillide”, collabora con la pagina culturale del quotidiano “Alto Adige” e fa parte del comitato scientifico del Seminario Internazionale sul Romanzo (Dipartimento di Lettere e Filosofia – Università di Trento). Nel 2006 ha pubblicato il romanzo Un anno di corsa (Sironi Editore) e nel 2015 Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico (Ediesse, prefazione di Eraldo Affinati). È uno dei collaboratori del manuale di letteratura italiana curato da Claudio Giunta, Cuori intelligenti (De Agostini/Garzanti Scuola 2016).

 

Sono solo pochi spiccioli

3

di Fabio Franzin

A mesodì, parchejà ‘a machina,
me invie verso casa, pochi passi
drento el vìcoeo strent a lastre
de marmo ciaro. Davanti de mì
tre tosiòe che torna daa scuòea,
seconda terza media, i zainéti
‘carezhàdhi dae code bionde.
Tut un trato a una ghe casca
‘na scasseàdha de monédha
che ‘a se sparpàgna par tèra.

Le ciame, ‘lora, pensando che
no’e s’in èpie nianca incòrt
– i ‘à senpre ‘e cufiète fracàdhe
tee rece ,’sti tosàti! -: “ragazze,
hei, avete perso dei soldi”,
senza voltarse, continuando
a ‘ndar verso ‘a piazha, ‘e code
bèe che ghe bàea tee spàe,
“sono solo pochi spiccioli”.
‘A ‘na ociàdha sguelta i par
inmanco do, tre euro, e ‘lora
le ‘torne ciamàr, me par un vero
disprèzho. Senpre quea pì alta,
gins e Converse rosa, ‘a sbufa,
“li raccolga lei allora”.

Cussì me son caeà mì, co’a mé schena
rota da quaranta àni de fabrica; vintìn
dopo zhinquantìn, ‘ò contà squasi tre
euro. Lore za sparìe, voltra ‘e coeòne.

Varàe vussù dirghe che mì bisogna
che sgòbe mèdha ora pa’ ciapàr chii
schèi. Che da altre bande del mondo,
par tose come lore, costrete a lavoràr
o dar via ‘a só fresca beézha, l’é ‘a paga
de un dì da sfrutàdhe o vioentàdhe.

Ma ‘e ièra za sparìe, drio ‘e coeòne
de ‘sta era senpia, persa. Oh poesia!

***

“Sono solo pochi spiccioli”

A mezzogiorno, parcheggiata l’auto, mi avvio verso casa, pochi passi / entro il vicolo angusto lastricato in marmo chiaro. Davanti a me / tre ragazzine che tornano da scuola, / seconda terza media, gli zainetti / accarezzati dalle code bionde. / All’improvviso a una di esse cade dalle tasche / una manciata di monetine / che si spargono in terra. // Le richiamo, allora, pensando che non se ne siano neanche accorte / – hanno sempre gli auricolari schiacciati dentro / le orecchie questi giovani! -: “ragazze, / hei, avete perso dei soldi”, / senza voltarsi, continuando / a proseguire verso la piazza, le code / belle che le danzano sulle spalle, / “sono solo pochi spiccioli”. / A una rapida occhiata mi paiono / almeno due tre euro, allora / le chiamo di nuovo, mi sembra un vero / disprezzo. Sempre quella più slanciata, / jeans e Converse rosa, sbuffa, / “li raccolga lei allora”. // Così mi sono accucciato io, con la mia schiena usurata / da quarant’anni di fabbrica; ventino / dopo cinquantino ho contato quasi tre / euro. Loro ormai scomparse oltre il colonnato. // Avrei voluto dirle che io devo / sgobbare mezz’ora per guadagnare quei / soldi. Che da altre parti del mondo, per ragazze della stessa età, costrette a lavorare / o svendere la loro acerba bellezza, è la paga / di un giorno da sfruttate o violentate. // Ma erano ormai scomparse oltre il colonnato / di quest’era empia, persa. Oh poesia.

Unico viaggio

2

di Danilo Laccetti

perché le cose che succedono non succedono
con un principio e una fine, si diramano in tutti i sensi
e vicino a una cosa ne succede sempre un’altra e un’altra ancora,
così le cose succedono in tutti i sensi e in tutte le direzioni
e non puoi tenergli dietro con la scrittura
e un mezzo per tenere dietro alle cose che succedono
gli uomini non l’hanno ancora inventato.

Luigi Malerba, Il serpente

Un estratto da
ARIOSO CON LENTEZZA – Armonia della notte

Fra noi quattro, gli unici rimasti dopo l’esodo dell’intera cittadinanza, l’unico con cui parlano sono io. Perché sono l’unico a parlare. Gli altri, chissà perché, fanno altro. Ma non per questo accennano a volersene andare, non demordono.
Uno di loro non fa altro che sniffare libri, tutto il tempo. Ha vegliato per una settimana, prima che gliela strappassero, la moglie, morta subito dopo quello che accadde un anno fa. Hanno tentato i parenti di trascinarlo via, anche a costo di sequestrargli la sua copiosa biblioteca, ma lui continua a sfilare i libri, a far scorrere le pagine, odorando le storie che ci stanno rinchiuse dentro. Saranno qualche migliaio, dicono, e di ognuno conosce la forma, l’odore della carta, il peso, tutto quello che contiene. Li ripone ogni volta dopo averli soppesati e annusati a dovere, e da tutto questo deve ricavare un segreto piacere che altrimenti non avrebbe.

Franco Cordelli – Una sostanza sottile

7

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di Domenico Pinto

 

Dopo La marea umana (2010), Franco Cordelli torna a pubblicare un’opera narrativa, e lo fa con quel che appare il suo romanzo più assorto, vertiginoso, consuntivo: Una sostanza sottile (Einaudi).

Un padre e una figlia si incontrano, compiono un viaggio senza meta in Provenza, l’uno per parlare, l’altra per ascoltare e scrivere. Scrivere o trascrivere cosa? Dell’ospedale, dell’attraversamento d’una malattia, di una ipotesi di felicità scaturita nel ’64 per l’assenza di mali, del ritorno della malattia nel 2009, del sentimento del tempo, inafferrabile e perturbato, insediato nel solo oggetto pensato per racchiuderlo, il romanzo.

Al suo fondo la vita, costituita da frantumi, torsi di ricordo, come non vi fosse il bisogno di terminarli, quasi non fosse possibile, come se ciascun ricordo fosse in certo senso illimitato. Come senza limite sono le voci del libro, del padre François e della figlia Irène, le quali stabiliscono una forma di identità, di scivolamento perpetuo dell’uno nell’altra, da chi racconta in chi scrive, da chi pensa in chi scrive, in un movimento che attrae le voci dentro l’occhio della narrazione, limatura di ferro verso una calamita. L’«io scrivo» appare così lungamente più problematico e indecidibile che l’«io mento» del paradosso cretese, garantendo un mistero non mai sciolto nel corso del romanzo, perché la parola dei due non viaggia nell’aria, ma solo nel pensiero, ci ricorda che il dialogo è il fantasma della persona, e che ha come argomento ogni cosa, la perdita definitiva di tutto.

Eppure, dice Irène, «non c’è nulla che non abbia possibilità di resurrezione, quale che sia la forma in cui si manifesta. Se ne deve dare l’opportunità, in specie il desiderio»; tanto che il romanzo, richiamando gli eventi, certamente creandoli, si dimostra il campo di una speciale metafisica, in cui il passato torna compresente, benché questo sia appunto lo spazio del fantasma, una diapositiva che ribolle, bruciando agli angoli prima di cancellarsi.
Nel dialogo a due vengono rischiarati, con andamento interrogativo, concessivo, dubitativo fin dentro la costruzione della frase, e contrappuntato invece da una spaventosa simmetria architettonica – recedendo dal ritmo ternario del libro rare volte: capitoli di tre pagine, con tre oggetti nel titolo, 81 capitoli complessivi come il Tao –, dicevamo vengono rischiarati nel dialogo le donne amate o non amate, le cliniche, i medici, i genitori, la molteplicità del desiderio, gli autori letti (ammirati come il Durrell del Quartetto di Alessandria, e quelli con cui si attua un confronto de lonh, come Petrarca), ogni cosa insomma che può essere trasfigurata da quella superstizione che è la letteratura e che compone la rete incostante, la «sostanza sottile» della vita. È senza che il racconto abbia le ambizioni della memoria, pure senza nostalgia, piuttosto come il pretesto per un’ispezione, una messa in rapporto, che si svolge il vagabondaggio in Provenza: entro le mura bianche di Avignone, dilatandosi poi a Saint-Remy – dov’è l’ospedale in cui un grande pittore trascorse cinquantatré settimane prima di uccidersi –, nei caffè di Sommiers, Aigues-Mortes, Les Baux. È forse il pensiero che la coscienza, l’acuirsi di essa, possa salvarci, che produce suo mal grado episodi luminosi e struggenti come quelli della morte del padre Piero, l’abbraccio dato alla traduttrice Manon, l’apparizione della scarna stanza di Van Gogh, la presenza solitaria e laterale di Adele (giovane donna amata da François, ferma al suo capezzale quando egli si trova per tre mesi fra la vita e la morte), o ancora gli inservienti che portano via i cadaveri dalla sala rianimazione, uscieri dell’oltremondo.
Una sostanza sottile, una materia di sogno, collega di lontano le precedenti stagioni della nostra esistenza, o ci avvicina, andando avanti e indietro lungo la linea del tempo, rafforzandosi per una corrente sotterranea, invariabile, informata dal desiderio, da tutti i desideri rimasti inespressi – la «jouissance è quello che non esiste», ancora una volta è Irène a parlare. Sarà senza dubbio un caso, allora, nel tavolo da baccarat che sono i romanzi di Cordelli, se l’espressione che presta il nome al romanzo appare in un unico punto, dove padre e figlia discutono del desiderio, e che il luogo rammenti fatalmente il Romeo e Giulietta: «È vero, io parlo di sogni,/ che sono i figli di un cervello ozioso,/ generati da nient’altro che una vana fantasia/ la quale è di una sostanza sottile come l’aria/ e più incostante del vento». È il momento in cui Mercutio, mentre declama le gesta della Regina Mab – divinità delle turbolenze erotiche, dei desideri negati e rimossi – viene bruscamente posto a tacere da un Romeo inorridito.

Ma in questa che potrebbe essere una biografia, un memoir, un «tristo documento», un diario, in qualunque modo si voglia chiamarlo, in questo romanzo si pone o non si pone il vecchio problema della verità? Oppure occorrerebbe dirsi, svolgendo una riflessione sulla scrittura e la vita che è sempre di Irène «Come non fossero precisamente la medesima forza: che poi vinca l’una o l’altra, che differenza fa?» Detto in altre parole è un quaderno di interrogazioni e traduzioni, al cui interno è scritta, nella forma mutata del romanzo, quel che si può trattenere, o immaginare, di una vita («per il poco che raccoglieva di un passato che si può giudicare noioso, non interessante, comune, ma esso erano le briciole che gliene rimanevano.») Ed è commovente come nelle incomprensibili distanze del tempo si precisi un continuo dialogo a due, che a questa voce eternamente domandante, dubitante, al nulla del pensiero risponda un contralto femminile, una voce umana.

Sappiamo da Seneca che il passato è quella parte del tempo, sottratta alla fortuna, che non può più cadere sotto il dominio di nulla, un libro aperto e comprensibile, tanto da poter essere richiamato in qualunque momento. L’altro grande polo, La Recherche, dice invece che il tempo distrugge, nulla viene a salvarsi, che nel romanzo – la dimostrazione, come Proust la chiama – non si può richiamare la vita, essendo per l’appunto un romanzo, la più clamorosa delle finzioni, in questo caso immaginaria quanto il Chisciotte, un prova dell’oblio, non un saggio della memoria e delle cause. Qui una sostanza sottile organizza il tempo di una malattia, quella che conduce François alla quasi morte nel 2009. Il racconto esplora il nembo di cause che porta alla distruzione della persona, come fosse infine necessario tenere insieme il filo degli eventi. Ma sono poi veramente cause? Oppure queste cause non sono che il contrario della causa, la mancanza di causa, cioè il Caso? Il romanzo (seppure non certamente il romanzo ottocentesco, quello ha fiducia nell’origine, che confida in un reale tangibile) potrebbe allora essere lo strumento che esplora il Caso. Cordelli – il narratore, è uguale – sembra non fare alcun assegnamento sia sul reale sia sul romanzo, al pari di quei linguisti che creano una lingua artificiale, perfettamente funzionante, non parlata da nessuno. Un prodigio di ingegneria senza mondo. E allora perché si affaccia in molte pagine il sospetto che l’anamnesi possa offrire una sia pur recondita forma di salvezza? Forse Una sostanza sottile si colloca in una fessura tra impossibilità del racconto e metafisica della salvezza o della guarigione. Un frammento di Walter Benjamin osservava: «Ci chiediamo, a questo punto, se il racconto non possa costituire il giusto clima, la condizione piu favorevole per una guarigione. Ovvero ci chiediamo se ogni malattia non possa guarire, purché essa venga portata via, lontano abbastanza, sino alla foce, dal corso del racconto».

A noi, a loro stessi, François e Irène non danno responsi, al più offrono delle confutazioni, l’accorta perplessità del possibile, un ragionativo musicale che è il timbro più intimo della prosa di Cordelli: «Sempre si dice che ciò che conta è la domanda, le risposte sono occasionali, transitive; permanenti, intransitive sarebbero solo le domande».

 

(Pubblicato su La gazzetta del Mezzogiorno il 30 settembre 2016)

Dai diamanti non nasce niente

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testadi

Carlo Grande

* La cremazione è la scelta migliore. La cenere torna cenere.

Così ci si risparmia la decomposizione e i vermi.

Perché, sai, i vermi mi preoccupano abbastanza.

(M. Caine a Jack Nicholson in “Blood and Wine”)

Dunque, la notizia è che l’ultima frontiera della pseudo-immortalità è comprimere le ceneri del caro estinto e trasformarlo in diamante da tot carati (più è compresso e più carati ci sono, più il procedimento costa). Lo fanno in Svizzera e Giovanardi s’è inalberato, teorizzando il vilipendio di cadavere.

E’ tutto grottesco.

Va bene che un diamante è per sempre, ma portarsi al dito la nonna, il cane o chissà chi altro mi sembra l’ennesimo atto di “Hybris”, di protervia contemporanea, un tentativo di far trionfare (ma non siamo ancora stufi?) la materia, l’apparenza contro la sostanza.

La sostanza è che quando uno è morto è morto… e morta lì, non vi pare? E comunque quel che resta non è propriamente la persona con cui si parlava, si scherzava, ci si insultava, si faceva l’amore o ci si prendeva a sberle. Gone, andato. Game over. Abbiamo altri modi per coltivare la memoria.

E invece no. Un diamante è per sempre, ma è pur sempre un oggetto, il trionfo della “roba” verghiana, dell’oggettistica… Allora perché non farsi impagliare, mummificare? Cinque miliardi di mummie, dove le metteremo?

Siamo polvere, cosa organica che va restituita all’Universo, facciamocene una ragione.

E poi il mercato dei diamanti viene falsato, i caveau rischiano di diventare cimiteri e regalare monili può obbligarci a macabre scoperte in gioielleria.

Quanto a me non voglio farmi portare al dito, al collo, non voglio apparire, voglio sparire ordinatamente, disciplinatamente, coltivando fin d’ora il senso del limite, il mistero, il rifiuto di quantificare tutto.

Voglio disperdermi, non esistere, deporre la volontà, come consigliavano Cioran e Carmelo Bene. Secondo me, caro Nanni Moretti, mi si vede di più se non appaio per niente.

Voglio essere un geroglifico, come direbbe Ivano Fossati ne “Il battito”, un graffito inesplicabile perché del tutto inutile.

Non è nemmeno umiliante non apparire, anzi, è così riposante…

“Dopo tanto teatro dopo tante guerre/ Dopo tanti libri dopo tanto cammino/ Dopo tante bugie dopo tanto amore/ Dopo tanti secoli”…

 Voglio accettare che la memoria non passa attraverso gli oggetti, con buona pace di Ugo e delle sue urne de’ forti. Noi non abiteremo più lì. Se siamo solo materia, allora siamo qualcosa di troppo vile, meglio scomparire e fondersi con il tutto.

 Non trasformatemi in diamante, vi prego. Al momento del trapasso, avvolgetemi nella bandiera della mia squadra più odiata, come consiglia Eduardo Galeano, per poter dire al pari del tifoso del Boca Junior che indossa la sciarpa del River Plate: “Muere uno de ellos”, “Così muore uno di loro”.

Lasciate che gli atomi si mescolino, liberi. Rivendico il diritto all’oblio.

E poi dai diamanti non nasce niente, preferisco diventare pura memoria, seguire la sorte di una molecola borgesiana:

 “Questa pallottola è antica. Nel 1987 lo sparò contro il presidente dell’Uruguay un ragazzo di Montevideo, Arredondo, che aveva trascorso molto tempo senza vedere nessuno, perché si sapesse che non aveva complici. Trent’anni prima lo stesso proiettile uccise Lincoln, per opera criminale o magica di un attore che le parole di Shakespeare avevano trasformato in Marco Bruto, assassino di Cesare. Alla meta del secolo XVII, la vendetta se ne servì per assassinare Gustavo Adolfo di Svezia, nel mezzo della pubblica ecatombe di una battaglia. Prima la pallottola era stata altre cose, giacché la trasmigrazione pitagorica non è esclusiva degli uomini. Fu il cordone di seta che in Oriente ricevono i visir, fu la mannaia triangolare che tagliò il collo ad una regina, fu i chiodi oscuri che trafissero la carne del Redentore e il legno della Croce, fu il veleno che il capo cartaginese conservava in un anello, fu il sereno calice che un pomeriggio bevve Socrate . All’alba del tempo fu la pietra che Caino scagliò contro Abele e sarà molte altre cose che oggi neppure immaginiamo e che finiranno insieme agli uomini e al loro prodigioso e fragile destino. (J. L. Borges, “In memoriam J.F.K.”)

Gesti

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la-rocca

di Lella de Marchi

 

appendice per una supplica

omaggio a Ketty La Rocca

 

 

Ketty La Rocca non ha un corpo, Ketty La Rocca

ha tante mani. mani bianche che si muovono

su di uno schermo nero che si muovono in tutti i modi

possibili in tutte le direzioni. mani che cercano corpi

che presuppongono l’esistenza di altri corpi pronti

ad accogliere i loro gesti. mani che supplicano altri ipotetici

corpi di avvicinarle di riceverne i gesti. ipotetici corpi

che stanno al di fuori del suo corpo che stanno

al di fuori dello schermo nero.

si potrebbe supporre che esistano tanti corpi quanti sono

i movimenti delle sue mani tanti corpi che corrispondono

perfettamente ad ogni gesto compiuto dalle sue mani.

si potrebbe pensare a cosa accadrebbe se un gesto

compiuto dalle sue mani fosse raccolto da un ipotetico

corpo, non necessariamente predisposto ad accogliere

proprio e solo quel gesto.

 

 

Untitled 1975-80 Francesca Woodman 1958-1981 ARTIST ROOMS Acquired jointly with the National Galleries of Scotland through The d'Offay Donation with assistance from the National Heritage Memorial Fund and the Art Fund 2008 http://www.tate.org.uk/art/work/AR00357

fuori di me

omaggio a Francesca Woodman

 

il mio corpo esiste, ne sono sicura, nudo o vestito esiste.

lo posso toccare lo posso sentire. anche da fuori

del corpo mi arrivano informazioni vaghe, bisbigli

dell’esistenza del corpo.

ma è certo che non posso vederlo, il mio corpo, tanto meno

vederlo in azione, mentre si muove più o meno

spontaneamente. dovrei presupporre l’esistenza di un corpo

fuori di me,di un corpo fuori di sé. un corpo che è me

e che non è me. un corpo che è sé e che non è sé. un corpo

che non sono io.

ma è certo che non posso separarmi del tutto da me e non

potendo separarmi del tutto da me non posso far altro che restare

a guardarmi mentre sono fuori di me, mentre non sono io.

mentre sono fuori di me, mentre non sono io il mio corpo visto

da me è parte integrante del paesaggio fuori di me. è dentro

l’architettura che hanno le cose è dentro le cose è quelle cose.

il mio corpo è un camino il mio corpo è un catino il mio

corpo è un corpo sospeso ad un architrave il mio corpo

è un serpente dentro il catino il mio corpo è un altro corpo.

tutte cose che sono me in quanto le vedo tutte cose che

non possono essere me perché sono fuori di me.

il mio corpo è in tutte le cose che vedo, è vero, ma non tutto

intero, a pezzi, un po’ qua e un po’ là, in modo vago

e trascorrente.

persino lo specchio fallisce nel tentativo di rendermi il corpo

in azione. dovrei sorprenderlo quando non sa che ci sono

e mi sto specchiando. dovrei assumere in me inesistenti quanto

improbabili pose o movimenti.

 

 

goldinTempo Umano Minore

omaggio a Nan Goldin

 

soltanto un mese fa il mio corpo era qualcosa d’intero

e giustificato, la mia pelle era liscia, la curva seguiva

la curva la retta seguiva la retta.

soltanto un mese fa il mio corpo era un insieme di segni

con sottoinsiemi era un sistema efficiente e ben collaudato.

soltanto un mese fa sul mio corpo c’erano spigoli angoli

rientranze fessure macchie rigonfiamenti.

soltanto un mese fa nel mio corpo tutto era dove

doveva, anche un’imperfezione era dove doveva, era

un tratto era un segno che lo distingueva.

non è solo il tempo a cambiare il volto

alle cose, non c’è solo il tempo cosmico e universale, il tempo

crudele che impone a tutti il nascere e il morire, c’è un tempo

umano e minore un tempo brutale che spacca il tessuto

del tempo cosmico e universale che spacca la fibra che spacca

la faccia, che impone un’aggiunta posticcia e assai

dolorosa di spigoli angoli rientranze fessure macchie

rigonfiamenti. un surplus di dolore un surplus d’imperfezione.

con altro tempo sopra quel tempo umano e minore fino

a raggiungere il tempo cosmico e universale il corpo, persino

il mio corpo, da fuori ritorna intero com’era.

con altro tempo sopra quel tempo umano e minore fino

a raggiungere il tempo cosmico e universale potrebbe

sembrare che il corpo, persino il mio corpo, sia sempre stato

sempre e solo intero com’era.

 

 

Lo schiavista

1

schiavista(Silvia Castoldi ha tradotto per Fazi Editore un libro davvero interessante, Lo schiavista, di Paul Beatty, appena entrato nella short list del Man Booker Prize.  L’editore ce ne regala un estratto, il volume è in libreria dal 6 ottobre scorso. L’autore sarà a Milano, per Bookcity, il 20 novembre)

di Paul Beatty

So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato, incurante delle regole del mercantilismo e delle prospettive di salario minimo. Non ho mai svaligiato una casa, né rapinato un negozio di alcolici. Non mi sono mai seduto in un posto riservato agli anziani su un autobus o su un vagone della metropolitana strapieni, per poi tirare fuori il mio pene gigantesco e masturbarmi fino all’orgasmo con un’espressione depravata e un po’ avvilita sul volto. Eppure eccomi qui, nelle cupe sale della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, con l’auto, quasi per ironia della sorte, parcheggiata in divieto di sosta su Constitution Avenue, le mani ammanettate dietro la schiena, il diritto di restare in silenzio che mi ha detto addio da un bel pezzo; seduto su una sedia dall’imbottitura spessa che, proprio come questo paese, non è affatto comoda come sembra.

Sono stato convocato tramite una busta dall’aria ufficiale col timbro «IMPORTANTE!» in grossi caratteri rossi, come l’avviso di una vincita alla lotteria, e da quando sono arrivato in questa città non ho mai smesso di stare sulle spine.

«Gentile signore», diceva la lettera.

«Congratulazioni, lei potrebbe aver già vinto! Il suo ricorso è stato selezionato tra centinaia di altri per un’udienza di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. Che grande onore! Le raccomandiamo caldamente di presentarsi con almeno due ore d’anticipo rispetto all’orario previsto per l’udienza, che si terrà alle ore dieci del mattino del 19 marzo, nell’anno del Signore…». Seguivano le istruzioni per raggiungere la Corte Suprema partendo dall’aeroporto, dalla stazione ferroviaria e dall’autostrada, e una serie di buoni da ritagliare per l’ingresso omaggio ad alcune attrazioni turistiche, ristoranti, bed and breakfast e simili. Non c’era firma. Solo una frase di commiato:

Cordiali saluti,


Il Popolo degli Stati Uniti d’America.

Il giudice capo presenta il caso. Il suo contegno spassionato da uomo del Midwest contribuisce parecchio ad allentare la tensione in aula. «Il primo dibattimento della mattinata riguarda il caso 09-2606…». Fa una pausa, si strofina gli occhi, poi si ricompone. «Il caso 09-2606, Me contro gli Stati Uniti d’America». Nessun subbuglio. Solo un po’ di risatine, qualcuno che alza gli occhi al cielo e qualcun altro che esclama, schioccando la lingua: «Ma chi si crede di essere quel bastardo?». Lo ammetto, «Me contro gli Stati Uniti d’America» suona un po’ come un’autoesaltazione, ma cosa posso farci? Io sono Me. Letteralmente. Un discendente non particolarmente orgoglioso dei Mee del Kentucky, tra le prime famiglie nere a stabilirsi a sud-ovest di Los Angeles. Posso far risalire il mio albero genealogico fino al primo bastimento che sfuggì alla repressione autorizzata dagli Stati del Sud: il Greyhound. Ma quando sono nato mio padre, seguendo la tradizione distorta degli intrattenitori ebrei che cambiano nome, e dei neri ansiosi con un impiego al di sotto delle proprie capacità che li invidiano, decise di abbreviare il nostro cognome, abbandonando quell’ultima e ingombrante come Jack Benny abbandonò Benjamin Kubelsky e Kirk Douglas Issur Danielovitch Demsky; come Jerry Lewis abbandonò Dean Martin, Max Baer mise al tappeto Schmeling, i 3RD Bass si convertirono ai brani impegnati e Sammy Davis Jr all’ebraismo. Non avrebbe permesso a quella vocale in più di ostacolarmi, come era successo a lui. Papà amava ripetere che non aveva anglicizzato né americanizzato il mio cognome, ma l’aveva attualizzato; che io ero nato avendo già realizzato pienamente il mio potenziale e potevo quindi saltare la piramide dei bisogni di Maslow, la terza classe e Gesù.

Consapevole che le stelle del cinema più brutte, i rapper più bianchi e gli intellettuali più stupidi sono spesso gli esponenti più rispettati della loro professione, Hamp, l’avvocato difensore che somiglia a un delinquente, posa con gesto sicuro lo stuzzicadenti sul leggio, passa la lingua sopra la capsula d’oro di un incisivo e si sistema il completo, un doppiopetto bianco come i denti da latte e cascante come un caftano, che gli pende dalla figura magra come una mongolfiera sgonfia e, a seconda dei vostri gusti musicali, si intona oppure fa a pugni con la permanente chimica nera come l’aspide di Cleopatra e la tinta scura della pelle da kappaò al primo round di Mike Tyson. Quasi mi aspetto che si rivolga alla Corte dicendo: «Cari amici magnaccia ambosessi, magari avrete sentito dire che il mio cliente è disonesto, ma è facile parlare così, perché in realtà il mio cliente è un criminale!». In un’epoca in cui gli attivisti sociali conducono spettacoli televisivi e guadagnano milioni di dollari, non ne sono rimasti molti come Hampton Fiske, fessi pro bono che credono nel sistema e nella Costituzione, ma rimangono consapevoli del divario tra la realtà e la retorica. E anche se non sono sicuro che lui creda davvero in me, ho la certezza che quando comincerà a difendere l’indifendibile non farà alcuna differenza, perché Hamp è un uomo che sul biglietto da visita ha scritto il motto: «Per i poveri ogni giorno è un casual Friday».

Fiske ha appena finito di dire: «Col permesso della Corte», quando il giudice nero avanza quasi impercettibilmente sul sedile. Nessuno se ne sarebbe accorto, ma il cigolio di una rotella della sedia girevole lo ha tradito. E a ogni richiamo a qualche oscura sezione del Civil Rights Act, o a un precedente legale, il giudice si agita con impazienza, e la sedia cigola sempre più forte mentre il peso di quel corpo irrequieto continua a spostarsi da una floscia chiappa diabetica all’altra. Si può integrare l’uomo, ma non la pressione sanguigna, e la vena che pulsa furibonda al centro della fronte lo tradisce. Mi sta rivolgendo quello sguardo folle, penetrante, arrossato, che a casa mia chiamiamo lo sguardo Wil- lowbrook Avenue, dove Willowbrook Avenue è il fiume Stige a quattro corsie che nella Dickens degli anni Sessanta divideva i quartieri bianchi da quelli neri. Ma ormai, in questi tempi post bianchi, post “chiunque abbia due centesimi in tasca se l’è svignata”, l’inferno si estende su entrambi i lati del viale. Le rive del fiume sono pericolose, e mentre sei fermo all’incrocio in attesa che cambi il semaforo anche la tua vita può cambiare. Qualche abitante di passaggio del quartiere, che rappresenta un determinato colore o una gang, o magari una qualsiasi delle cinque fasi del lutto, può sporgere lo shotgun fuori dal finestrino del passeggero di una coupé bicolore, lanciarti l’occhiata feroce da giudice negro della Corte Suprema e chiederti: «Da dove vieni, coglione?».

La risposta giusta, naturalmente, è: «Da nessuna parte», ma qualche volta non ti sentono in mezzo al baccano del motore senza marmitta, della rissosa udienza di conferma, dei media liberal che mettono in dubbio la tua credibilità, della subdola stronza nera che ti accusa di molestie sessuali. Qualche volta “Da nessuna parte” non è una risposta sufficiente. Non perché non ti credano, o perché “Chiunque viene da qualche parte”, ma perché non ti vogliono credere. E adesso, dopo aver perso la sua patina di civiltà aristocratica, questo giudice dal volto incazzato, seduto sulla sedia girevole dallo schienale alto, non è diverso dal gangster che scorrazza su e giù per Willowbrook Avenue, seduto sul sedile del passeggero solo perché ha uno shotgun in mano.

E per la prima volta durante il suo lungo mandato presso la Corte Suprema, il giudice nero ha una domanda da porre. Non è mai intervenuto prima d’ora, perciò non sa esattamente come fare. Lancia un’occhiata al giudice italiano come per chiedere il permesso, poi alza lentamente la mano paffuta, con le dita che sembrano sigari, ma è troppo infuriato per aspettare che gli diano la parola e sbotta: «Negro, sei pazzo?», con una voce sorprendentemente acuta per un nero della sua stazza. Ormai privo di obiettività ed equanimità, picchia sullo scanno il pugno grosso come un prosciutto con tale violenza che l’elegante, gigantesco orologio placcato d’oro appeso al soffitto proprio sopra la testa del giudice capo comincia a oscillare come un pendolo. Il giudice nero si avvicina troppo al microfono e inizia a urlare perché, anche se sono seduto a soli pochi metri di distanza dal suo scanno, le nostre differenze ci rendono lontani anni luce. Pretende di sapere com’è possibile che ai giorni nostri un nero possa violare i sacri principi del tredicesimo emendamento possedendo uno schiavo. Come ho potuto ignorare deliberatamente il quattordicesimo emendamento e sostenere che qualche volta la segregazione unisce le persone. Alla maniera di tutti coloro che credono nel sistema, vuole delle risposte. Vuole credere che Shakespeare abbia scritto davvero tutti quei libri, che Lincoln abbia combattuto la Guerra civile per liberare gli schiavi, che gli Stati Uniti abbiano partecipato alla seconda guerra mondiale per salvare gli ebrei e creare un mondo sicuro e democratico, e che Gesù e le proiezioni da due film al prezzo di uno stiano per tornare. Ma io non sono un panglossiano americano. E quando ho agito come ho agito non stavo pensando ai diritti inalienabili, all’orgogliosa storia del nostro popolo. Ho agito così perché funzionava, e da quando in qua un po’ di schiavitù e di segregazione hanno fatto male a qualcuno?, e anche se così fosse, chi cazzo se ne frega.

Qualche volta, quando uno è sballato come me in questo momento, il confine tra pensiero e parola si fa confuso. E a giudicare dalla bava alla bocca del giudice nero, evidentemente devo aver pronunciato l’ultima frase ad alta voce: «…chi cazzo se ne frega». Si alza in piedi come se volesse prendermi a pugni, con una bolla di saliva che gli sale dalle più remote profondità degli anni di studio alla Yale Law School sulla punta della lingua, pronta a partire. Il giudice capo urla il suo nome, e il giudice nero si trattiene e ricade sulla sedia, ingoiando la saliva, se non l’orgoglio. «Segregazione razziale? Schiavitù? Razza di bastardo senza palle, lo so benissimo che i tuoi genitori ti hanno educato meglio di così, cazzo! Avanti, andiamo a prendere la corda per impiccarlo!».

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I perfetti conosciuti de “L’amore e altre forme d’odio” di Luca Ricci

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© Stephan Schmitz
© Stephan Schmitz
© Stephan Schmitz

di Matteo Pelliti

Nel settembre del 2006 usciva un libro strambo, racconti urticanti su coppie in procinto di scoppiare, gioghi coniugali retti dall’esasperazione del silenzio, bambini dallo sguardo spietato affacciati sulle inadeguatezze di un mondo adulto costantemente in affanno nella gestione degli affetti, delle relazioni, delle emozioni. Il quotidiano portato al parossismo, ai limiti del fantastico. Sintassi chirurgica, per una anatomia patologia dei rapporti di coppia.

Salentitudini tondelliane – seconda parte

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Trent’anni dopo Ragazzi di piazza. Che cos’è diventato il Salento di Tondelli

Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI
Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI

SECONDA PUNTATA / Lecce. L’età dell’innocenza

qui la prima tappa

 di

Giorgia Salicandro

 

«Mi ricordo bene quando ne parlammo. Ci siamo incontrati per caso al Dada, un club teatro a Castelfranco Emilia, a metà strada tra Bologna e Modena. Doveva essere un concerto di Philippe Glass. Scrivevamo entrambi su Rockstar, io di musica, lui teneva la rubrica “Culture club”. Mi raccontò di questo suo reportage. A quel tempo collaboravo con Lei, che in seguito sarebbe divenuto Glamour, e lì avevo pubblicato un articolo – lo ricordo perché fui preso in giro dai miei amici leccesi – che si intitolava, un po’ provocatoriamente, Lecce come Berlino. Naturalmente, Berlino era molto di moda, Lecce invece non se la filava nessuno. Eppure non era uno scherzo, io ci credevo davvero nella creatività leccese, ecco perché consigliai a Pier di andarci. Gli diedi indicazioni, allertai le persone che lo avrebbero guidato. Sì, fui io a dirgli che avrebbe trovato a Lecce quello che stava cercando».

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

Pierfrancesco Pacoda è già al bar della Sala Borsa quando arrivo spettinata, reduce da una corsa in autobus e da una multa staccata all’ultima fermata. Lui sorride, nella sua t-shirt bianca con un logo che sembra disegnato a pennarello, non si scompone per il ritardo, ha sistemato un pezzo per Il Resto del Carlino, nel frattempo. Trasalisce solo quando, candidamente, gli confesso che io non lo conosco, il fumetto della t-shirt. Mi sento un’anziana di provincia a confronto con i suoi quarant’anni a Bologna. Fai un’altra scuola, quando cresci al Livello 57, al Link e tra le posse dell’Isola del kantiere, che hai visto nascere e hai trasformato in qualche migliaio di battute, decine di volte, per raccontarle. Se sei andato via dalla provincia ma a diciotto anni eri già abbastanza adulto da non barattare l’unicità di quella fame di voi ragazzi con un sogno rampante, seppure in salsa freack. Se sai fiutare i tuoi riferimenti dove le cose si fanno, e dove ancora non hanno un nome, perché sarai tu a darglielo. Se non ti senti provinciale. Esattamente come Pier. Lecce come Berlino, è partita così.

Alberto Giorgino e Toni Robertini furono i suoi agenti in zona. Non a caso: l’uno studiava a Pisa, l’altro s’era laureato in Filosofia a Urbino, e facevano parte del popolo che calava a casa una volta al mese per piazzarsi in assemblee e concerti all’Università di Lecce, importando long playing e programmi radio. Tra andate e ritorni, Toni aveva anche fondato i Band Aid, il gruppo che – narra il mito – si era inventato il primo album autoprodotto della storia della musica italiana.

Pier era arrivato in treno una mattina di inizio giugno.

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

«Non è che avesse un tema – racconta Alberto Giorgino congedandosi per un quarto d’ora dal bibliotecario che è oggi, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento – telefonò a casa mia che era già a Lecce. Chiesi a Toni: Dove portiamo Tondelli? Allora a chiunque venisse da fuori, si faceva fare il tour turistico-culturale-cazzone lungo la litoranea adriatico-jonica in un solo giorno, senza aria condizionata. Non c’era altro modo. L’idea era di andare a zonzo liberamente per i luoghi che frequentavamo, del resto non era questo il criterio di Pier? Il primo appuntamento fu piazza Mazzini. Ah, già, il “salotto sudamericano”».

Negli anni Sessanta, se compravi casa a Piazza Mazzini qualcuno avrebbe ghignato, stretto tra i denti, «sta costruendo tra le pecore». Non c’era che un fuori porta allo stato brado, quando il Piano regolatore del ’34 aprì il varco alla conquista di quel far west, ed esattamente come nelle steppe americane, virili costruttori a cavallo segnarono i confini di maschi palazzoni che divorarono il cielo pezzo a pezzo. E solo più tardi, molto più tardi, si pensò ad accudire la vita ordinata da quella sorta di eiaculazione costruttoria. Non c’erano bagni tra le pecore, gli alberi furono divelti per lasciare spazio agli appartamenti di bancari, avvocati e commercianti. Restarono una teoria desolata di palme e due aiuole.

«Un salotto sudamericano, così ci sembrava, tra quelle palme e le ombre lunghe dei palazzi. O una sequenza di Deserto rosso di Antonioni». Eppure anche i giovani leccesi, a proprio modo, fecero casa lì.

«C’erano i bar, era quello il riferimento. E due aiuole, fondamentali le aiuole». Pennarello e taccuino presi in prestito, Mauro Marino traccia la propria mappa con una precisione giapponese. Prima del Fondo Verri, che dirige da un ventennio, prima di entrare nella crew del Teatro Valdoca, e prima ancora di condividere con Toni Robertini la stagione dell’Università a Urbino, c’era stata piazza Mazzini.

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

«Questa è la piazza, questa via Trinchese, questa via Oberdan. Il Bar Poker era nell’angolo, qui c’era il Bar Roberto, e il Bar Prato, sotto la galleria. Il Raphael era figo, lo frequentavano i più grandi. Sì, c’era pure l’Arnolds, il ritrovo dei paninari, una sorta di Mac Donald ante litteram. È cominciato tutto intorno all’aiuola che dava su via Trinchese. Perché? Era un ottimo sgabello, ci si sedeva sul bordo e si stava. “Che facciamo stasera? Che facciamo domani?”: alla fine si rimaneva là, sull’aiuola. Poi è arrivato il tempo in cui ci è spostati sull’altra, vicino al Bar Roberto. Un passaggio di storie».

Un po’ hippy, un po’ freak, di sinistra di sicuro, chi ortodosso, chi non praticamente, il gruppo della prima aiuola. L’eroina mischia le carte, e ci si ritrova a condividere il bordo persino con i fascisti, là, non lontano dal Bar Poker. Un popolo di ragazzi affamati come dieci anni prima, ma con gli occhi gialli, si mescola nel gorgo degli altri, a piazza Mazzini. Tutti sulla stessa giostra, ognuno a proprio modo.

Il reportage ha potuto godere del prestigioso patrocinio della Città di Correggio e dell’Università del Salento.

 

mater (# 7)

4

di Giacomo Sartori

Eri bella mentre morivi

eri bella

all’ospedale

senza rossetti e fronzoli

senza plateali

parole

 

eri bella

avviata alla morte

Sororità di Claudia Iandolo

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di Daniele Ventre

 

Quello che Claudia Iandolo presenta ai lettori, con la sua corona di venti poesie, raccolte nella silloge Sororità (LietoColle, 2014) è un monumentum dedicato a un’amica scomparsa. Già il titolo rende ragione dell’affetto per la creatura sorella appena perduta, ritratta in modo indiretto in un’opera che  nella delicatezza dell’espressione del dolore, non scade mai nella retorica chiassosa del planh. Ovviamente, la decisione di connotare l’omaggio poetico con una precisa identità, sotto la bandiera della sorellanza, rimanda a una scelta di campo politico ma anche di campo semantico, vista la necessità impellente dell’autrice di fornire alla scomparsa dell’amica una cornice di senso che la inquadri e ne elabori il lutto, garantendo al contempo, come nella dedicatio di ogni monumentum che si rispetti, la  permanenza della persona perduta in una sorta di parusia minimale, che al di là della morte possa perdurare. Attraverso la forma della commemoratio la rappresentazione della morte acquisisce anzi la funzione di preservare l’essenza e la valenza figurale dell’amica che è venuta a mancare; in tal modo, questa poesia riacquista, in netta opposizione al tema del nulla che domina l’epoca a cui appartiene, quella antica funzione di rito evocativo e rievocativo che è proprio di un arcaico kléos àphthiton, frutto dell’arte di mantenere perpetua l’eco di una individualità uscita dall’orizzonte dell’esistenza sensibile. Si tratta però di un’eco perdurante in una dimensione squisitamente privata e intima, quella in cui l’amica perduta, Lina (il cui nome, come è stato altrove notato, rimanda per ominosa concomitanza al contesto familiaris della poesia sabiana), continua ad agire oltre il velo del nulla come un’ombra compagna, in un rapporto in cui l’opposizione ontologica fra vita e non vita è rovesciata, una volta denunciata l’illusorietà del tempo e dello spazio che sono struttura apparente dell’esperienza comune (bisognerebbe che ci fossero/ davvero// lo spazio e il tempo e i luoghi/ a contenerci// allora saresti morta/ ed io viva), rivelata, di questa esperienza, il tessuto virtuale, perché il mondo, lo sai,/ è quello che hai in testa, e affermata una dimensione metafisica in cui l’assenza definitiva si traduce nell’essere morti/ al qui ed ora/ e viaggiare di possibilità.

In Sororità, l’interazione fra l’autrice e l’ombra compagna dell’amica assume sistematicamente, con tenacia, senza intermissione, il connotato di un dialogo, di un dramma lirico, in cui il femminile assume, in consonanza con il presagio insito nel titolo, l’ossimorica facies di una spensieratezza volitiva, tesa a creare un nuovo ordine metafisico del mondo e una nuova forma di mistica tangenza con il suo fondamento: così appare nella terza poesia di Fotoromanza, la prima sezione (che era di luna/ la tua lingua rampicante // cavaliera disarmata/ della notte), così il discorso poetico della Iandolo si palesa nella terza lirica della seconda sezione, Medusa, ed è questo un brevissimo componimento in cui la permeazione reciproca fra l’autrice e l’amica scomparsa si trasforma in un reciproco sogno di notti segrete/ indeate, nel quale si sottende una dimensione ultraterrena tesa fra una sorta di psicopannichismo e la possibilità di fusione con un assoluto femminino, lunare, una sorta di Eterna –di qui fra l’altro, nel componimento che abbiamo appena citato, l’hapax “indeate”, participio medio reciproco ricavato da dea e ricalcato sul dantesco indiarsi, epperò lontanissimo, nella sua mutualità paritartia, dal tradizionale processo mistico di indiamento, gerarchico e maschile. Questo fondamento, questa deità selenitica, si trasforma in un corpo mistico della affermazione della sorellanza (dove ci sorprende la luna/… ci saremo tutte/ figlie mancate/ di Lilith l’ubiqua, incipt della IV lirica di Train de Vie), in cui la comunione con l’amica perduta si inserisce in una dimensione etica che trascende, e perciò supera, la separatezza e la separazione insite nel lutto individuale. In questo orizzonte, l’amica ormai proiettata in questo immaginario ultraterreno è fatta oggetto di una preghiera laica tesa fra affettuosità ironica e liturgia dell’assenza (ora che ti affacci su scale sospese/ mandaci lune come perle da infilare/ e sogni che non franino al mattino// nunc et in hora che verrà comunque/ aspettaci agli arrivi e alle partenze/ tu in mulieribus splendida e lunare).

Sezione dopo sezione, scandito secondo simmetrie interne ben dissimulate ma ineludibili, Sororità ricorre a una lingua che appare quotidiana e colloquiale, ma è tanto più complessa nel suo gioco di equilibrio espressivo, quanto più riesce a dissimulare, in una sorta di profilo stilistico medio deliberatamente cercato, la presenza di neo-conii ed elementi linguistici allotrii, che si palesano come piccole ierofanie, piccoli prodigi di manifestazione quasi soprannaturale.  Sul piano metrico-verbale, la coesistenza di questo duplice piano espressivo si traduce in un andamento di fondo al limite della prosa ritmica, in cui però balenano in modo calcolato endecasillabi e settenari, sia che si profilino come unità metriche compiute, sia che si ricompongano all’orecchio al di là della pausa dettata dal silenzio dello spazio bianco. Ne viene fuori un impasto formale in cui stile e ritmo convergono nel dipingere un mondo che lascia affiorare, al di là del bianco e nero del quotidiano e dei suoi smottamenti ontologici, un potenziale sbocco nel totalmente altro: una poetica e una visione che potrebbero sconcertare, nella loro alterità, il bon ton intellettuale del mainstream poetico, e che tuttavia meritano ascolto, al di là di ogni incidentale pregiudizio critico e di ogni possibile precomprensione, e incomprensione, di sorta.

 

A proposito di SMart – cooperativa per lavoratori atipici

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SMart, letteralmente “società mutualistica per artisti”, è una cooperativa che si rivolge ad artisti e freelance che operano nel settore culturale e creativo. Il progetto è nato nel 1998 in Belgio e oggi conta più di 75.000 soci in nove paesi europei. Nel 2014 SMart ha aperto una sede a Milano e ha da poco un ufficio anche a Roma.
Ho chiesto a Chiara Faini, responsabile per lo sviluppo del progetto italiano, di spiegarmi come funziona. [ot]

A chi si rivolge SMart?

SMart è un progetto nato a Bruxelles nel momento in cui un ingegnere nucleare ed un commercialista si sono resi conto che i loro amici musicisti si trovavano spesso a lavorare in nero, a non sapere quando (e se) sarebbero stati pagati, e a navigare spesso in un buio senza risposte quando sorgevano problemi con la loro attività. Così hanno deciso di pensare a una soluzione per semplificare e tutelare il lavoro degli artisti, e per riconoscere la loro professionalità: se hai fatto della musica il tuo mestiere, questo non significa che puoi permetterti di essere pagato con quattro mesi di ritardo. In seguito si sono accorti che anche grafici, traduttori, editor, giornalisti, formatori, fotografi chiedevano di aderire, perché si trovavano a fare fronte a situazioni molto simili. Oggi SMart si rivolge a tutti i cosiddetti “lavoratori atipici”, a coloro che non si riconoscono nella dicotomia classica impiegato-imprenditore vecchio stampo, sebbene queste purtroppo restino le due principali categorie cui il legislatore fa riferimento.

Nella pratica, come funziona?

Quando un lavoratore atipico diventa socio, SMart lo assume tramite contratto, gli versa il compenso sotto forma di stipendio, al netto dei contributi e delle tassazioni dovute, ed emette per lui o per lei la fattura al committente, con il quale ha stipulato un altro contratto. Il lavoratore, dunque, è legato contrattualmente solo a SMart. Inoltre, i soci sono sempre pagati il giorno 10 del mese successivo al termine del loro lavoro, indipendentemente da quando il committente paghi: ci assumiamo quindi il rischio di ritardi o del mancato pagamento. Se il lavoro in questione è spalmato su più mesi, SMart paga il proprio socio mese per mese.
In sostanza, SMart funziona sul modello della sharing economy; artisti e creativi condividono la stessa partita IVA (la nostra), lo stesso legale e commercialista. In questo modo evitano di pagare lo scotto della loro atipicità professionale con la precarietà delle condizioni di lavoro. È un’alternativa all’apertura della partita IVA individuale, ma non solo: ricevendo il compenso netto, i nostri soci non devono più farsi carico degli aspetti amministrativi e contributivi legati alle loro attività, né preoccuparsi di inviare richiami al committente per essere sicuri di ricevere quanto pattuito. E questo, specie se si lavora in determinati settori, ad esempio con le pubbliche amministrazioni, può fare la differenza!
Ovviamente questo sistema ha un costo. SMart preleva l’8,5% del fatturato dei suoi soci (o il 5% in casi particolari, come spiegato più avanti, ndr), per coprire i propri costi di gestione. Trattandosi di un progetto senza scopi di lucro, quello che avanza di questo 8,5% è reinvestito per organizzare formazioni, incontri, bandi, oltre che per stipendiare noi lavoratori SMart. Applicare una percentuale implica inoltre che tutti, indipendentemente dalla riuscita commerciale individuale, abbiano gli stessi diritti ed accesso agli stessi servizi. È un modo per creare una rete solidale fra professionisti che vengono spesso lasciati da soli.

Cosa succede con le categorie professionali pagate in regime di diritto d’autore, come i traduttori letterari?

Anche in questi casi è SMart che fattura al committente, ma poi i traduttori vengono pagati in regime di diritto d’autore. Inoltre, la percentuale di applicazione è il 5% e non l’8,5%. Le ragioni di questa percentuale più bassa risiedono sia nella gestione semplificata di questo regime, che a noi risulta molto meno onerosa, sia nel rivolgersi a professionisti che non hanno necessità di aprire una partita IVA o di versare contributi, ma utilizzano i nostri servizi esclusivamente per tutelarsi dai ritardi di pagamento.

Quali sono gli eventuali vantaggi per il committente?

Beh, anche per il committente non è mai gradevole ritardare i pagamenti e relazionarsi con professionisti scontenti, rischiando poi di farsi cattiva pubblicità. A maggior ragione se vi è interesse ad instaurare una collaborazione non sporadica con il lavoratore in questione. Con SMart il committente da un lato si assicura che i suoi collaboratori vengano pagati subito, mentre dell’altro può negoziare con noi dei tempi decisamente più lunghi entro i quali saldare la fattura. Infatti, avere tanti soci che condividono lo stesso sistema ci garantisce una liquidità molto flessibile, e possiamo perciò pagare con ampio anticipo rispetto a quando incassiamo.
Un altro vantaggio per il committente è di non doversi più occupare degli aspetti contrattualistici ed amministrativi legati a queste collaborazioni, perché è Smart che se ne occupa.

Come si finanzia SMart?

Si autofinanzia. Sono gli artisti ed i freelance soci che finanziano il tutto, attraverso l’8,5% che pagano su ogni fattura. Nello specifico, per ora, sono principalmente i soci belgi (che sono 60.000 sui 75.000 totali) che sostengono il tutto. È grazie a loro che il modello di SMart ha potuto essere esportato, adattandolo, negli altri paesi (Francia, Italia, Germania, Austria, Ungheria, Svezia, Olanda, Spagna), che mano a mano, crescendo, si stanno rendendo o si renderanno finanziariamente autosufficienti.
Il progetto italiano fa un po’ eccezione in questo senso, perché all’apporto di SMart Belgio si è aggiunto anche il sostegno di Fondazione Cariplo, il che ci permette, in questa fase iniziale in cui non siamo ancora autonomi, di non appoggiarci solo su Bruxelles.

Quali sono i progetti futuri di SMart?

Nella prima metà del 2016 abbiamo lanciato un bando i cui vincitori hanno ricevuto un anticipo sulle spese di produzione per un loro progetto. Ad esempio siamo molto contenti di aver sostenuto Lecittàhannogliocchi, del collettivo Lele Marcojanni, che racconta attraverso un video il rapporto tra il fumetto e Bologna, e che sarà presentato al festival Bilbolbul.
Sempre in primavera, in collaborazione con SMart Belgio, abbiamo creato SMartWays, un progetto che facilita la mobilità internazionale nel settore artistico e creativo: per la prima edizione, un musicista italiano ha suonato a Liegi, mentre due musicisti belgi si sono esibiti a Torino e a Milano. A parte il fatto che erano i giorni di sciopero degli operatori di volo, tutto è andato molto bene!
In entrambi i casi sono state esperienze positive, e che vogliamo riproporre e fare crescere.
Insieme ad ACTA abbiamo poi sviluppato un’iniziativa rivolta ai freelance, che permette loro di usare SMart per non sforare dal regime dei minimi.
Ora stiamo definendo, attraverso varie collaborazioni, delle formazioni su alcuni temi sensibili (crowdfunding, diritto d’autore, negoziazione dei prezzi). Questi corsi sono già proposti da SMart in Belgio e in Francia, e sono molto richiesti.
Infine un cantiere importante è lo sviluppo del nostro ufficio di Roma, che esiste da aprile e che deve man mano farsi conoscere.

Qual è il vostro bilancio dopo un anno di attività con SMart Italia?

In una intervista apparsa di recente, il pioniere della peer to peer economy Michel Bauwens ha citato SMart come modello positivo di sharing economy, perché offre una risposta mutualistica e solidale a quei professionisti che rappresentano l’evoluzione più recente del mercato del lavoro. In Italia, le condizioni di questi lavoratori sono particolarmente precarie, e mi pare che un progetto come SMart sia davvero pertinente, anche in un’ottica di semplificazione. Basti pensare che in Belgio SMart ha 60.000 soci ed utilizza 2 tipi di contratto. In Italia abbiamo 370 soci e ne usiamo 8!
C’è poi chiaramente un grosso lavoro da fare per farci conoscere, adattare il progetto ai bisogni dei nostri soci attuali e potenziali, per aiutarli a far valere la loro professionalità, costruire collaborazioni con altre realtà, ma in generale possiamo dire che SMart sta incontrando entusiasmo e curiosità. Di recente una nostra socia ci ha chiesto di fare uno stage da noi per capire bene come funziona il progetto e darci una mano… ci è sembrato un ottimo segnale!

 

Scegliere il punto di vista di una donna. Sul presunto smascheramento di Elena Ferrante

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di Tiziana de Rogatis
woman-reading
C’è qualcosa che nessun esattore delle imposte, nessun conto in tasca, nessuna illazione sulla privacy o sulle verità biografiche, nessuna ombra di maritale e patriarcale sostegno potranno mai togliere a Elena Ferrante, e a noi lettori (mi riferisco all’inchiesta di Claudio Gatti apparsa domenica sull’inserto culturale del Sole 24 ore e simultaneamente su varie testate internazionali). Non importa che Ferrante sia una donna o un uomo, travestita/o o transgender, etero o omosessuale, che sia un singolo essere vivente o un collettivo. Quello che conta è che lei, nei lunghi anni oscuri (e probabilmente felici) in cui ha scritto L’amore molesto, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, anni in cui i suoi lettori erano pochi, anni in cui il suo futuro successo era imprevedibile, ha scelto di rappresentarsi come autrice e quindi anche come donna in tutte le sue dichiarazioni pubbliche e in tutti i suoi autocommenti (basta leggere La frantumaglia).

Gli Scomparsi

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di Maria Grazia Calandrone

I muschi pavimentano le primavere

Era buio, quella sera – un buio
molto lento e tranquillo – dal quale apparve
la vecchia con lo scialle e la lunga gonna
nera. Disse se vuoi salvare
la tua bambina, lasciala digiuna
tutto il giorno, e la notte le devi
solamente parlare
della grande distanza del paradiso.

Di lei mi resta
il lapsus sulla lingua tra figlia e vita mia.

***

Lo spiegamento di forze all’apparire del chiaro
Gli alberi occupano l’aurora della famiglia. L’animale
è una massa di attenzione, musica che sale
dai gomiti appoggiati alla terra. La campagna, quel grumo essenziale
di rondoni e polvere serena, è ora tavola, macero
e orinatoio, principio attivo dell’anima.
Lei trasformata
dalla scoperta che l’amore vibrava come un timpano d’acqua dalla base del tempo. Lo rivelano
le tracce ritrovate successivamente in mare – sulla città di pietra degli scogli
e l’impronta caucasica della scomparsa.

Mamma – mi sento come se volassi – davanti
a queste statue che ti somigliano. Indagine
della sbordatura plantare, la luce – poco incline – sulla spalla:
rosa vinosa
d’alba fiorentina. Non mi hanno ridato l’impermeabile
che avevo offerto
per coprire il suo eccesso di opacità.

Domando cosa non l’abbia fatta risplendere: il mio corpo da latte
era carico di misericordia. Sovrastate – restituite
allo stato di cose, le sue ossa dolevano grandiosamente, mute
come respira muto dalle origini il neutro.

17 febbraio 2004

***

Vendemmia delle spade

Lui veniva attraverso il tramonto con le coperte militari e il corpo di ragazzo
frastornato – ma io l’ho visto dritto sulle scale
come una spanna di salute, spasmo
di calore nel lago bianco del vento
elettrico, pronto alle piogge e ad assecondare
le bolle d’erba del terreno. Diceva appena: io ricordo tutto
della fonderia – tutti i camion, che invece sono
cose solide, cose alle quali si deve prestare attenzione come a un flusso autodisciplinato del pensiero.

Mamma, tutti i malati – tutti
i moribondi – ciò che era vivente perché respirava e ora soffre e ancora
resta unito – o durante
la severa scissione della morte:
tutti quelli che parlano ancora, la loro ultima
parola in vita è
quella – e io
la sento, la schiena china sul lavatoio dei corpi per debolezza, non più
per amore.

Io dichiaro di non riconoscere. Avevo
la fabbrica chimica della sua voce fortemente infusa
nel pensiero
nella clausura dove si parla a gesti
come per una distratta evoluzione che fa chiudere gli occhi
come per una grande stanchezza sul pavimento della terra
che ci ha sostenuti e mette un sentimento
che tende alla lentezza ed è dotato come un’ala di strutture leggere
nel raccoglierci: adesso, dopo la vendemmia che le spade hanno consumato per calare sull’erba
il vuoto verde dei cieli.

13 ottobre 2004

***

L’altare della specie

Era facile amarla ma era destinata
ad andarsene frettolosamente e insieme ad aderire
a certi preparativi che gli indizi rivelano
meticolosi. Di pomeriggio si prendeva cura del giardino
in silenzio. Non capivamo quello che pensasse, era
tranquilla. Oppure
trafficava su un notes. Tutte le notti – rivestitosi
l’ultimo cliente – comprava un dolce per la colazione della madre.

Nell’acqua viaggiano i rifiuti e vengono
trattenuti a intervalli regolari dalla grata sepolta
nel buio e nel silenzio che si formano molti metri sotto
l’aspetto superficialmente aereo dell’acqua
che dipende dall’attardarsi del sole alla sommità come una lacca
democratica, un getto straripante di ottimismo
anche nelle orticaie disossate dall’urto delle fabbriche.
Si chiama strada del canapificio e porta
in una mescolanza di fanghiglia e zolla
resistente all’imprimersi del cascame animale alla centrale
idroelettrica – è un sentimento interrotto, una deriva dei continenti e dei relativi disastri sommersi
nell’isola del corpo che finisce
alla porta del grande casamento: c’è soltanto un custode e controlla
l’andirivieni tra le due parti d’acqua e fiamma serpentina o forse
trasmigrazione.

La trovammo in uno strano abbandono
come se tutti scissi i legamenti:
quasi niente dell’acqua del canale
nessun cattivo pensiero
nessuna ironia
non una goccia d’acqua nei polmoni, neppure
diatomee – il corpo sostenuto da una luce critica
oltre il proprio abbandono – pulsava al sole come in preda a un’estasi.

25 ottobre 2004

***

Non avrai che la vita

Le scarpe non vennero ritrovate.
Ma la luce batteva coitale sul corpo della ragazza
cristallizzato nella testimonianza.
Tra gli occhi e il ventre
tracce di lavatoio – un percorso a ritroso per stabilire gli alibi.
Il portone risultò chiuso con molte mandate.

Ardeva come un’ostia nella materia
lacrimale del tardo pomeriggio – con il capo impigliato tra gli arbusti
e la pervicace ripetizione dei giri. Per cause sconosciute
non ha potuto compiere i suoi anni
qualsiasi funzione avessero singolarmente ma un immobile
addio alla bellezza del mondo
riscaldava la fibra che resiste
grido di gioia del corpo senza dolore.

***

Deposto il nome

Diceva sempre
ditele che la amo
e ditele che ho fatto tanta strada
per amarla.

Ditele che se uscivano
angeli e diavoli dalla sua bocca,
io vedevo soltanto la sua bocca.

Ditele che mi abita
per sempre.
Diteglielo, vi prego. Diceva sempre.

30 aprile 2016

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Testi tratti da Maria Grazia Calandrone, Gli scomparsi, Lietocolle-pordenonelegge, 2016