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Cose turche

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L’ultima epidemia di vaiolo in Europa fu nel marzo 1972. Nei trent’anni precedenti si credeva che la malattia fosse stata sradicata, ma riapparve a Belgrado, allora capitale della Jugoslavia. Un trentacinquenne kosovaro era tornato dal suo pellegrinaggio alla Mecca e aveva portato il virus. 175 persone si ammalarono e 35 morirono.

L’ospedale dove furono sistemati i primi ammalati fu letteralmente sigillato. Le porte, le finestre e la fognatura, tutto venne sbarrato e intorno fu messo un cordone di poliziotti con l’ordine di sparare se qualcuno avesse provato a scappare.

In tutto il paese fu dichiarato lo stato di emergenza, fu introdotta la quarantena statale obbligatoria, limitato rigorosamente il movimento di tutti i suoi abitanti.

In un mese e mezzo furono vaccinati diciotto milioni di jugoslavi su una popolazione di ventun milioni di abitanti. L’epidemia finì dopo due mesi. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità lodò le autorità jugoslave per come avevano soppresso l’infezione.

Dopo giorni di agitazione tutto si calmò, e presto l’evento non fece più notizia, fu rimosso dalla nostra attenzione.

Si va in Turchia

Mi preparavo per un’estate al mare, dopo aver finito il primo anno di università. Ma all’inizio di luglio arrivò il “contrordine del compagno papà”: si va in Turchia.

Con nostro papà si facevano escursioni lavorative e viaggi educativi, per vedere e imparare, mai per divertimento. Tutti in famiglia trovarono qualche scusa per non andarci. Mi opposi anch’io, tirai fuori varie scuse, addirittura il fatto che c’era stata l’epidemia e che poteva essere pericoloso andare in Turchia.

La Jugoslavia era l’unico paese in cui il vaiolo era comparso, ma noi avevamo ugualmente la strana idea che era tutta colpa degli altri e che il focolaio dell’epidemia fosse altrove, “nel sud” o in Oriente.

L’epidemia era sconfitta, il pericolo non c’era più. Mi toccava proprio andare a Istanbul. La partenza fu fissata per metà luglio. Era il 1972.

Eravamo un gruppo strampalato con interessi diversi: papà, io, e una coppia di coniugi suoi amici. La donna ci andava perché voleva comprarsi dei gioielli, o meglio, qualche oggetto d’oro e una collana di perle, il marito l’accompagnava, mio papà voleva vedere un po’ di mondo, ed io mi trovavo lì per forza.

Jugoslavia-viaggio-in-TurchiaPiuttosto che andare a Istanbul, avrei preferito ascoltare “The Beatles” a Londra, passare insieme alle dive cinematografiche per via Veneto a Roma, passeggiare in minigonna per gli Champs Elysées a Parigi. L’Occidente piuttosto che l’Oriente era la meta preferita dei giovani di allora.

La macchina la guidava papà, l’unico in possesso della patente. Era una “Moskvich 408”, un’auto russa, orgoglio famigliare, la più grande in tutto vicinato. Gli altri, all’epoca, possedevano una Fiat “Cinquecento”, almeno due volte più piccola della nostra.

Papà non era un autista appassionato. La macchina la portava in giro, ogni tanto, “perché non si scaricasse la batteria”, diceva. Nel garage la copriva “per non farle prendere freddo”, scherzavamo in famiglia.

Prima di partire mi dettò i compiti: dovevo occuparmi delle gomme, controllare se erano abbastanza gonfie, tenere i vetri puliti, e fare attenzione alla segnaletica stradale. Quest’ultimo incarico mi lasciò un po’ perplessa. Non avevo la patente, non guidavo, non conoscevo il significato dei segnali stradali. Ma se lo diceva papà!

Il viaggio

Dalla Bosnia Erzegovina a Istanbul ci sono circa 1.200 chilometri. La strada passa per la Serbia, attraversa la Bulgaria ed entra in Turchia dalla città di Edirne. Oggi, un autista esperto la può fare, volendo, anche in un’unica tappa. Noi ci impiegammo due giorni e mezzo.

Lasciammo Sarajevo alle quattro del mattino. “Ci è andata bene”, dichiarò papà verso le nove, quando eravamo già vicino a Belgrado percorrendo strade quasi vuote.

Da Sarajevo ci sono due vie principali verso la Serbia. Una che attraversa la Bosnia orientale e va verso il fiume Drina, e l’altra che va in direzione nord, verso il fiume Sava. Noi andavamo verso nord, in direzione di Belgrado. Nella città di Orasje, attraversammo il ponte sul fiume Sava e poi prendemmo l’autostrada detta “Bratstvo i Jedinstvo” (della Fratellanza e Unità) (B&J).

All’epoca l’autostrada B&J era l’unica via moderna della Jugoslavia, anche se aveva solo due corsie, una per ogni direzione. Fu costruita tra gli anni Cinquanta e Sessanta e collegava la Jugoslavia da nord a sud, dal confine con l’Austria al confine con la Grecia.

La costruzione dell’autostrada B&J fu un’opera epica. Vi parteciparono più di trecentomila giovani volontari da tutte le parti del paese e tanti stranieri. Per molti fu anche una sorta di scuola di vita o per la vita. Dopo otto ore di lavoro venivano organizzati vari corsi, anche per analfabeti, e molti ottennero il diploma che cambiò loro la vita.

L’autostrada della Fratellanza e Unità è la via più breve che collega l’Europa occidentale e il Medio Oriente. Negli anni Sessanta ebbe inizio il grande spostamento stagionale dei gastarbeiter, che in tedesco vuol dire “lavoratori ospiti”. All’epoca i più numerosi gastarbeiter in Europa erano turchi, italiani, spagnoli e jugoslavi.

Durante i mesi estivi, per l’autostrada “Bratstvo i Jedinstvo” passavano migliaia di macchine, in entrambe le direzioni. I gastarbeiter turchi avevano pochi giorni di vacanza, tanta strada da percorrere, guidavano senza sosta, giorno e notte, e molti trovavano anche la morte su quelle corsie. Su ambedue i lati della strada erano piantati dei platani, per rompere il paesaggio monotono della pianura pannonica, ma gli alberi erano causa anche di molti incidenti mortali.

Dovettero passare molti anni ed esserci decine di morti, prima che qualcuno si decidesse a tagliare gli alberi “mortali” che fiancheggiavano l’autostrada.

Dopo aver pernottato a Belgrado, il secondo giorno proseguimmo a sud, verso il confine con la Bulgaria. La strada segue il fiume Morava e passa per i distretti della Šumadija e di Pomoravlje. Un paesaggio bellissimo che ricorda la Toscana, tanto verde, con le colline basse, la terra fertile. Più a sud il panorama cambia, le morbide colline lasciano il posto alla Gola di Sićevo (Sićevačka Klisura).

Circa 250 chilometri più a sud c’è la città di Niš. Sotto l’impero ottomano il suo nome era Naissus (“Città delle ninfe”). Là nacque nel 271 d.C. l’imperatore romano Costantino I che costruì la nuova residenza imperiale di Bisanzio e la chiamò Nuova Roma. In suo onore i Romani chiamarono questa città Costantinopoli, l’odierna Istanbul, la nostra meta.

A Niš volevamo vedere un monumento unico nel suo design, la Torre dei Teschi (Ćele kula) che racchiude al suo interno dei teschi umani. Fu fatta nel periodo degli Ottomani, con 950 teschi dei serbi ribelli, come monito a tutti quelli che pensavano di opporsi all’occupazione. Oggi sono rimasti incastonati nella pietra solo una cinquantina di teschi, ma quel macabro monumento fa ugualmente impressione.

L’ultima città serba prima di passare in Bulgaria è Pirot. Da cinquecento anni è il centro della produzione di tappeti tradizionali. I kilim di Pirot, apprezzati per la loro bellezza, varietà dei colori e motivi, sono fatti di lana, sono molto leggeri e resistenti.

Noi andavano in Turchia per comprare gioielli e vestiti da pochi soldi, mentre gli antiquari turchi viaggiavano per la Jugoslavia e compravano, a buon prezzo, i tappeti antichi fatti a Pirot, che noi vendevamo volentieri perché ci piacevano di più le moquette moderne.

Tra Serbia e Bulgaria il confine non è solo amministrativo. Da una parte all’altra della frontiera il paesaggio cambia come se fosse tagliato con il coltello. In Serbia, prima del confine, la strada spacca le montagne, s’insinua con fatica per il terreno duro, avanza quasi a zig-zag, si perde in tante gallerie, è pericolosa, un attimo di distrazione e può essere fatale.

In Bulgaria la strada attraversa la pianura, va dritta e tranquilla. Su entrambi i lati è affiancata da alberi di mele, ordinati, con i tronchi imbiancati, che danno un senso di ordine e pulizia. Dietro gli alberi, si estendono a perdita d’occhio campi coltivati di grano e di mais. In uno di questi dormimmo la seconda notte del nostro viaggio.

Ci fermammo sul bordo della strada per mangiare. Papà dichiarò che era stanco e che non se la sentiva di proseguire. Non sapevamo quanto fossimo distanti dalla città più vicina. La signora brontolava sottovoce, suo marito stava zitto guardando davanti a sé, io fissavo una mela dell’albero e stavo per afferrarla.

Papà intuì le mie intenzioni e, senza guardarmi, mi intimò: “Non ti azzardare!”. Rispettava ancora gli ordini dei partigiani che, secondo i racconti, tenevano così tanto alla disciplina che addirittura fucilavano quelli che prendevano la frutta dagli alberi altrui.

La mattina seguente, il terzo giorno del viaggio, ci svegliammo presto, tutti con la schiena a pezzi, stanchi, arrabbiati, con i vestiti stropicciati. Nessuno guardava l’altro, né proferiva parola.

Gambe nude

Da lì in breve varcammo la frontiera tra la Bulgaria e la Turchia. A Edirne, la prima città turca dopo il confine, facemmo una sosta per bere un bel caffè. Nel centro trovammo un bar con la terrazza. Uscimmo dall’auto.

Esaminavo, come mi aveva detto papà, le gomme. Battevo il piede contro la gomma (come avevo visto fare da altri, anche se non sapevo perché e che cosa aspettarmi), e mi accorsi che qualcosa non andava. Alzai lo sguardo e vidi che tutti gli avventori del bar, i maschi, erano ammassati sulla ringhiera e ci guardavano.

Confusi, ci ispezionammo anche noi per un attimo. Fu la signora a capire per prima cosa c’era che non andava. Indossavo, secondo la moda, un paio di pantaloncini corti e attillati, gli “hot pants”, per cui i maschi, dal bar, erano tutti intenti a fissare le gambe di una ragazza poco vestita per le abitudini locali.

“Entra, si parte”, ordinò papà.

I turchi si meravigliavano delle gambe esibite, mentre io mi stupivo nel vedere i carri armati, all’entrata a Istanbul con i cannoni puntati verso la strada (un anno prima l’esercito turco aveva preso il potere con un putsch militare). Io mi stupivo nel vedere le donne paesane vestite in una sorta di doppia larga gonna nera che fungeva anche da copricapo ribaltando uno dei due strati di dietro, nel vedere i turchi bere il tè, piuttosto che il “caffè turco”, come noi bosniaci, dei numerosi monumenti, grandi e importanti che mi facevano capire quanto piccolo e insignificante fosse il mio Paese.

Arrivammo a Istanbul nel primo pomeriggio. Papà accostò la macchina sul bordo della strada per chiedere indicazioni sulla pensioncina che avevamo prenotato. Ferma il primo passante, gli parla in tedesco, quello non capisce, prova con il francese, niente. Frustrato, papà si gira verso di noi e dice in serbo-croato: “Questo qui non capisce nulla”. A quel punto il turco si mette a ridere e, nella nostra lingua, il serbo-croato, ci chiede se eravamo jugoslavi.

Era un discendente dei bosniaci emigrati in Turchia all’inizio del diciannovesimo secolo.

Oggi in Turchia ci sono almeno due milioni di persone di origine bosniaca. Dalla Bosnia Erzegovina i musulmani scapparono dopo la disfatta dell’impero ottomano quando la Bosnia Erzegovina passò sotto il protettorato dell’Impero Austro Ungarico.

I primi bosniaci scappavano perché non volevano stare sotto un governo non musulmano, altri perché temevano per la propria vita, oppure erano convinti che in Turchia avrebbero potuto preservare la propria ricchezza.

Dopo le guerre balcaniche emigrarono anche i musulmani da Sangiaccato, Kosovo e Macedonia. L’esodo continuò per cent’anni. Non tutti lasciavano la casa di propria volontà. La migrazione dei musulmani fu incoraggiata con la politica statale, con la forza, le minacce e le misure amministrative che, secondo i documenti ufficiali, dovevano rendere la vita dei musulmani impossibile, per cui l’emigrazione veniva vista come l’unica soluzione per loro.

In Turchia dovevano cambiare il cognome, ma molti avevano conservato anche il cognome bosniaco, la lingua e le abitudini. Ci sono alcuni villaggi, in Turchia, popolati prevalentemente dai discendenti dei bosniaci dove, dopo un secolo dal loro arrivo, ancora oggi si parla serbo-croato.

Un turco-bosniaco

Il nostro turco-bosniaco apparteneva alla terza generazione dei bosniaci espatriati dalla città della Bosnia del nord, Banja Luka. Nato a Istanbul parlava ottimamente la nostra lingua, con un accento forte e utilizzando alcune parole arcaiche. Era entusiasta dell’incontro casuale, era molto cordiale, gentilissimo, ci dava pacche sulle spalle e voleva invitarci a casa sua.

Papà, insospettito di questo entusiasmo secondo lui sproporzionato, s’irrigidì, diventò molto formale e pronunciò una serie di risoluti NO: “No, non se ne parla neanche”, “No, grazie”, “No, abbiamo già prenotato”, “No, vedremo”, “No, no, no, forse”.

Quel poveretto, deluso, ci guardava come un bambino che non capisce perché gli proibiscono di fare una cosa innocua. Ci accompagnò all’albergo, lasciò un pezzo di carta con l’indirizzo e il numero di telefono, rinnovò l’invito di andare a casa sua “almeno per una cena” e ci salutò.

Nella camera dell’albergo papà, come prima cosa, buttò nel cestino la carta con l’indirizzo del turco e si pulì le mani come se fossero contaminate, dicendo che “con gli stranieri non si sa mai… chissà chi era quello… meglio stare alla larga dagli sconosciuti… ci sono imbroglioni, ladri…” etc.

Papà mi portava in giro per i posti storici e i musei di Istanbul tenendomi per il braccio sopra il gomito come fanno i poliziotti quando accompagnano le persone arrestate. Di sera, in albergo, ci vedevamo con i compagni di viaggio, la signora mi mostrava le cose che aveva comprato, e io descrivevo le meraviglie che avevamo visto. Invano: a parte le compere, il resto l’annoiava.

Il terzo giorno a Istanbul, tornando in albergo, ci trovammo di fronte il “nostro turco”. Ero contenta di rivederlo, i coniugi pure. Papà, invece, “freddo come uno spritz”, aspettava zitto, presumo delle spiegazioni. Il “nostro turco” voleva invitarci a cena a casa sua. “Sì!”, rispondemmo noi tre all’unisono. A quel punto papà non poteva opporsi, ma era chiaro che l’idea non gli piacesse. Per tutta la serata ci fecero domande su come si vivesse in Jugoslavia, se fossimo liberi di viaggiare, se possedessimo macchine private, case, il telefono, qual fosse la situazione lavorativa, se il regime comunista fosse pericoloso, se si potesse visitare la Jugoslavia e poi poter tornare a casa propria. C’erano le moschee? La religione, era proibita?

Edhem, così si chiamava il “nostro turco”, viveva con i genitori e i fratelli in una bellissima casa affacciata sul Bosforo. Ci accolsero tutti affettuosamente. Si cenava nel giardino con una meravigliosa vista sul mare. Uomini e donne insieme. Si parlava nella nostra lingua.

Ci divertivano le loro domande. Sembravano quelle che fanno i bambini su cose e fatti ovvi. “Certo che si può visitare… è ovvio che abbiamo il telefono… naturalmente che nessuno vi ferma per forza… macché regime, da noi si vive, lavora e viaggia liberalmente”, rispondevamo noi.

Verso la fine della serata, Edhem timidamente chiese: “Posso venire con voi? Mi piacerebbe visitare la Jugoslavia, ne ho sentito tanto parlare ma non ci sono mai stato.”

Tutti noi, insieme ai padroni di casa, guardavamo mio papà aspettando il suo giudizio. Seguì un attimo di silenzio, troppo lungo, a mio avviso.

Mi piaceva il “nostro turco” e mi piaceva l’idea di portarlo in Jugoslavia con noi, di fargli vedere il nostro paese, le nostre città, il nostro modo di vivere.

Fissavo papà, anzi lo supplicavo con lo sguardo.

“Ma certo”, disse papà sorridendo, come se non avesse mai avuto alcun dubbio sul “nostro turco” fin dall’inizio.

Dopo cinque giorni a Istanbul eravamo sulla strada del ritorno. Il “nostro turco” stava seduto dietro tra i due coniugi. Contento, sorridente, disponibile, di buon umore. Canticchiava.

E canticchiò instancabilmente, per due giorni, quanto durò il nostro viaggio di ritorno. Da lui, sentii per la prima volta l’antica canzone popolare bosniaca “Put putuje Latif-aga”, che parla di un abitante di Banja Luka che sta per partire per un lungo viaggio, saluta tutti e non sa se potrà mai far ritorno.

Articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

Il caso Meursault

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DAOUD

di Gianni Biondillo

Kamel Daoud, Il caso Meursault, Bompiani, 130 pag, 2015, traduzione Yasmina Melaouah

C’è un uomo, un algerino, che parla, in una bisca di Oran. E c’è un ragazzo che lo ascolta. Probabilmente uno studente francese, che ha nella sua borsa Lo straniero di Albert Camus. L’uomo ha voglia di raccontargli una storia. Lui è il fratello del morto. Sì, proprio “l’arabo” che muore nel romanzo di Camus. Romanzo geniale – secondo l’autore di questo contro-romanzo, Kamel Daoud – ma anche romanzo crudele, che non si degna neppure di dare un nome e una identità alla vittima. “L’arabo”, viene chiamato da Camus. Una funzione narrativa, non una persona.

Sta in questa idea semplice e geniale il fulcro de Il caso Meursault. Un romanzo che vuole essere come un risarcimento per tutte le vittime dimenticate. Rileggere la storia dal loro punto di vista. Dare loro un nome, una identità, un passato.

Il romanzo è una lunga e confusa confessione dove non si segue un preciso ordine cronologico. Molte delle riflessioni, politiche, filosofiche, religiose, della voce narrante sono evidentemente riflessioni dello stesso autore, cosicché personaggio e scrittore sembrano sovrapporsi. E, per aumentare la confusione dei piani narrativi, spesso, si cade nel paradosso di sapere che il morto di cui si parla è un personaggio letterario, morto solo sulla carta, ma che la voce narrante (personaggio tanto quanto) tratta come avesse vissuto e incontrato per davvero la morte su una spiaggia algerina per mano di un francese che ha fatto la sua fortuna letteraria grazie a quell’omicidio.

L’idea potente che regge tutto il romanzo è però anche il suo limite. Senza conoscere il romanzo di Camus si perde molto del continuo dialogo filosofico che Daoud intesse idealmente con il collega francese. Il caso Meursault, essendo una controinchiesta, dà per scontata la lettura del romanzo a cui si ispira, perdendo così una autonomia che ogni opera dovrebbe pretendere per sé.

(pubblicato su Cooperazione n° 48 del 24 novembre 2015)

Nuvole apparecchiate

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di Orso Tosco

Le montagne dalle cime arrotondate scendono verso il mare trasformandosi in una valle di pietra e sabbia coperta da pietre e sabbie di colore diverso. Intenso è il lavoro del terriccio e della ghiaia per indagare le tonalità dell’ocra. Nel centro esatto della valle, lungo i bordi del sentiero che dal nulla delle montagne conduce al nulla del mare, le pietre sono chiare e grigiastre, quasi color della cenere. Quasi, perché del giallo si fa strada, come a creare un impasto di cenere e grano sbiadito. Ma subito dopo, poco oltre, in un punto che si potrebbe raggiungere anche solo sputando, il grigio giallognolo lascia spazio a un’ocra virato al viola. Un tono morbido e cupo, da lavanda fuori stagione, un viola ampio e fragile che in qualche modo sa di muschio, e che in certi momenti della giornata, specie quando il sole si lascia portare altrove, fa credere che persino il deserto abbia dei rimpianti.

I boschi, appunto. E le ombre perenni. La neve, persino.

Ma ecco che continuando a scendere la sabbia e la pietra acquistano un tono più uniforme, da legna asciutta, un marrone pieno e stabile che è lì per smentire i rimpianti, come dopo una crisi, come si beve un sorso d’acqua dopo un brutto sogno per tentare di tornare a dormire senza paura.

Apparentemente disordinati e casuali appaiono i bassi, rari cespugli secchi, quasi verdi, quasi grigi.

Forse si tratta di costellazioni, ed è soltanto a causa della pigrizia e della sbadataggine di chi li osserva se il disegno complessivo rimane sconosciuto: incomprensibile partitura del deserto, melodia aliena che il vento confonde oppure protegge soffiando senza sosta, lasciandola sottotraccia.

Il vento è forte, teso, trasporta manciate di sabbia e con quelle flagella i corpi dei due uomini seduti sotto l’ombra dell’unico albero presente nel raggio di chilometri. I due uomini di tanto in tanto si puliscono la bocca e gli occhi, inutilmente. Dimostrano un’età sicuramente diversa da quella reale, ed è quindi superfluo citarla. Basti dire che i loro volti sono di cuoio vecchio, i vestiti che indossano sembrano essere stati dissotterrati da poco, e una patina grigiastra ricopre le loro camicie, forse verdi, e i pantaloni di tela, i sandali.

-Ho le labbra sempre rotte perché dico bugie.

-No. È colpa del sole, del troppo sole.

-Se tu hai ragione, allora, lo vedi, ho ragione anch’io.

I due uomini sono appoggiati contro il tronco scheletrico dell’albero, provano a ripararsi sotto l’ombra sottile e frammentaria offerta dai magri rami, così asciutti, così aguzzi da sembrare gigantesche fauci sbrecciate. L’uomo dalle labbra rotte è rivolto verso le montagne, l’altro verso il mare, dove sono diretti.

La valle che dirada verso la costa appare rossa e pulsante, con aree gialle e parti color ruggine, seguite da linee di vegetazione sbiadite, un grigio che tende al bianco, al bianco delle garze.

Di solito, chi riposa sotto quest’albero e ha gli occhi fissi verso la costa, è colui che non riuscirà a raggiungerla. Perché questo è un luogo che richiede tenacia, una tenacia feroce, ma che disprezza ogni volontà troppo chiara, troppo esibita. Questo è un luogo che esige la fatica, lo sforzo, ma soltanto quel tipo di sforzo che è proprio delle cime da ormeggio, quando sono costrette a trattenere il peso delle barche che la corrente e il vento e le onde vorrebbero strappare al molo e che, seppur impegnate in uno sforzo immane, non producono altro che uno stridulo, strozzato miagolio.

L’uomo che si pulisce la bocca dalla sabbia e prova a sputare senza riuscirvi e guarda verso la costa, ha voglia di arrivare. Ha bisogno.

Ed è proprio questa voglia, questo bisogno, che glielo impediranno.

O forse, forse l’uomo che non riesce a sputare ce la farà. Arriverà fino a noi, Dottore.

E lei, pur conoscendo già la risposta, mi domanda il perché. Lei che è venuto via mare, con la bocca umida la testa all’ombra e le mani morbide da bambino, lei mi domanda: perché questi uomini e queste donne mettono a rischio le loro vite per arrivare fino a noi? La verità, come spesso accade Dottore, è poco più di un bicchiere vuoto osservato da lontano, troppo da lontano per sapere se qualcuno abbia bevuto ciò che il bicchiere conteneva, o se invece il bicchiere non sia mai stato riempito.

Dovrei tornare indietro nel tempo, per risponderle. Dovrei ricordare il motivo che mi spinse a fuggire. Ma anche il motivo è distante. Non bicchiere ma grumo, matassa di piante nemiche le cui radici affondano nel terreno e in altri casi sbucano dai muri in pietra, persino dall’acqua.

Difficile separarle tra loro, le ragioni della mia fuga, difficile persino giudicare, ormai, dove sia iniziata una decisione e dove un’altra sia terminata o cambiata.

Sono nato in un paesino bello per essere bambini o vecchi. Lo abbandonai a vent’anni e scelsi di vivere nelle città del Nord. Lo ricorda lei il Nord, Dottore? Forse è troppo giovane per ricordarlo. Era fatto di terra sempre bagnata e mattoni, di avena e cibi cresciuti nel fango. Spesso era composto di isole e coste abbaglianti contro cui s’infrangevano onde nere e grigie, sovrastate da cieli bassi e bui. Il verde dei prati bastava da solo a togliere la sete. Erano terre di banchieri e donne dalle splendide cosce bianchissime, liquori, migrazioni incessanti e difficili.

Vissi nelle città del Nord facendo lavori stupidi che giustamente nessuno ricorda più. Non ero abbastanza abile per ottenere quelle soddisfazioni che m’illudevo di meritare e nemmeno sufficientemente stupido o saggio per non dolermene. Scelsi allora di andare via.

Lavorai in una fabbrica di dolciumi in cui venivano prodotte caramelle gommose destinate agli orfani e ai mutilati. Realizzare caramelle è come scrivere poesie, credo. In entrambi i casi si lavora sugli scarti, o comunque su prodotti iniziali che vengono poi trasfigurati a risultato compiuto. Per fare caramelle si raccolgono assieme tendini, miscugli poco nobili di sostanze chimiche, avanzi di dolcificanti, midollo, coloranti, e tutto viene tritato assieme. Dunque si cerca di dare una forma e un colore gradevoli a questo impasto, modellandolo a forma di banana, orsacchiotto, oppure si lavora nella geometria, nell’astrazione, producendo cerchi, linee, persino linee attorcigliate e scure che sembrano la forma fossile del DNA umano. Non ha mai mangiato caramelle Dottore? Erano già finite? Poco male.

Io, comunque, venni licenziato nonostante quel lavoro mi piacesse: era meschino e futile, eppure mi dava l’impressione di partecipare a un processo alchemico, quasi magico. Era divertente osservare ciò che ribolliva nelle vasche, mi dava gioia essere vittima del senso di nausea causato dai fumi: a quei tempi, deve sapere, andava di moda credere che l’utilità personale di una persona povera, fosse direttamente proporzionale al disgusto provato nel compiere l’attività che le permetteva di restare povera. Svolgere mansioni detestate, e spesso inutili, a fronte di scarse retribuzioni, veniva considerata una condizione sacrosanta ed essenziale per far parte di quella che veniva allora definita società. Non le so dire esattamente da cosa nascesse questa moda o credenza popolare. Le posso dire però che era molto diffusa.

In ogni caso venni licenziato. Dopo il licenziamento decisi di spostarmi verso Sud. Procedevo in senso opposto rispetto alle carovane che tentavano di raggiungere e superare le barriere del Nord, sempre più massicce, aggressive, impenetrabili. Furono giorni di carestia e rappresaglie, le campagne erano devastate, le strade contenevano a malapena il flusso di corpi in marcia, i roghi lambivano gli accampamenti provvisori, con le baracche sorrette dai teli di nylon laceri e le tende. Forte era l’odore della febbre e quello delle erbe bollite. Poco distanti dagli accampamenti, le carcasse dei cani, precedentemente utilizzati nelle cucine di fortuna, venivano ammassate a formare gigantesche cattedrali sempre sul punto di crollare e mai del tutto crollate.

Fu un sollievo raggiungere le città del Sud. Le deserte, calme, pestilenziali città del Sud. Lei non può sapere quanto piacere provai nell’osservare quegli edifici morbidi, bianchi come meringhe. Dopo così tante lamiere, dopo così tante urla e barricate, mi sembrò di aver raggiunto luoghi mortali ma dissetanti, mi pareva di poterle bere, le città del Sud, con le loro piazze vuote e alberate e l’odore di fiori marci nell’aria, i cortili interni, Dottore, i cortili interni e le ossa dei gatti, le fredde scale di pietra e le piastrelle lucide dei bagni pubblici.

Fu allora che la incontrai. Di notte. Mentre dormivo sdraiato in terra, stordito dalla fame, lei mi venne vicino. Si sedette vicino a me e mi raccolse come si raccolgono gli oggetti preziosi e quasi perduti, con mano generosa, con dita riconoscenti. E io mi sentii fortunato Dottore, perché sapevo di non essere prezioso, ma avevo così tanta voglia di non ricordarlo più, d’illudermi di essere altro, un altro, qualcosa di nuovo e inaspettato. Ed è ciò che lei mi fece provare, risvegliandomi con una breve pressione della mano sulla spalla e offrendomi un frutto lungo e storto, sbucciato soltanto a metà, fresco, quasi ghiacciato. Era una donna dall’aspetto sgradevole, sgradevole e necessario. Non parlammo di nulla. Camminammo attraverso il centro storico della Città del Sud, un labirinto di pietra e terrazze malandate senza punto d’ingresso e senza possibilità d’uscita, silenzioso, mollo, distorto appena da alcuni rantolii provenienti da cantine sotterranee. Non m’innamorai di lei, Dottore, se è questo che vuole sapere. Nessuno s’innamora di lei. Noi tutti, noi tutti che l’abbiamo incontrata, abbiamo bisogno di lei, ma non l’amiamo affatto. Abbiamo bisogno di lei perché averla vicina significa interrompere una malattia, significa provare una sensazione stupenda, che soltanto colui che si è salvato appena in tempo da una dissenteria mortale può comprendere. Lei, la donna dall’aspetto sgradevole e necessario, controlla le ghiandole e il respiro, il sudore e il flusso sanguineo, in lei si dimentica la sete, e dimenticando la sete si riposano le ossa e si riposano le tempie: è tutto in ombra, con lei e in lei, un’ombra salvifica che salva fingendo di non saperlo, quando tutto il resto è sole immenso e duro, parco giochi abbandonato che si chiude in se stesso e crolla come un gigantesco fiore secco e croccante.

Ma lei si addormenta Dottore. La faccio addormentare. Sicuramente è colpa mia, no, non mi contraddica; la colpa è mia, è spesso mia. Ho esagerato nel parlare di lei. Ma l’ho fatto cercando di rispondere alla sua domanda, alla sua curiosità. La donna dall’aspetto sgradevole e necessario è il motivo per cui sono giunto sino a qui. La sola notte trascorsa assieme nel centro storico della Città del Sud è bastata a farmi capire che avrei seguito i suoi consigli, i suoi suggerimenti; i suoi ordini.

Attraversai il deserto, come stanno provando a fare quei due sotto l’albero, perché lei mi diede appuntamento qui, in questo paese costruito tra le rocce, in questo paese dalle case senza spigoli, in questo paese senza ombre, esposto al mare e al sole e al cielo stellato.

Rischiai di morire, nel deserto, come tutti, come tutte. E come tutti e tutte pensai che forse, forse la donna dall’aspetto sgradevole e necessario mi aveva teso un tranello, invitandomi a raggiungerla nell’unico villaggio della costa, che forse lei, durante quella notte di passeggiate e pressioni della mano, non aveva fatto altro che ingannarmi e che, mentre io rantolavo sulla terra scura e sulla sabbia, lei fosse appostata da qualche parte, e mi guardasse, e ridesse di me e dei miei sforzi. Un pensiero di questo tipo avrebbe dovuto gettarmi nella sconforto, avrebbe dovuto farmi infuriare, e invece io provai una calma improvvisa. Quasi che qualcheduno, o qualcosa, mi avesse appena sussurrato all’orecchio una risposta a lungo cercata e a lungo, troppo a lungo mai trovata. Mi misi immediatamente a scavare, in un punto poco distante dall’albero sotto il quale quei due uomini riposano oppure si spengono. Scavai con le unghie, e finite le unghie scavai con la carne. Non sapevo cosa avrei trovato, ma sapevo che avrei trovato qualcosa. Mi bastava. Mi diede la forza necessaria per andare in profondità, oltre i colori della sabbia e le tonalità della terra. Raggiunsi il letto del deserto, un banco d’argilla nera e umida. Dentro l’argilla trovai piccole radici, poco più grandi di un mignolo, trasparenti, con un punto scuro al centro del corpo simile a una vescica. Le mangiai, me le feci esplodere in bocca come fossero gocce di pioggia. Avevano un gusto leggermente salato. Mi rannicchiai nella buca, schiacciai il viso ustionato contro l’argilla nera, provai la necessità di piangere e vomitare e pisciare e masturbarmi e cacare, e al tempo stesso il bisogno di aspettare, di non fare nulla, di vivere quel conflitto interno, di navigarlo, di lasciare che il conflitto stesso, quel contorto grumo di bisogni, si esprimesse per conto proprio, intatto, senza nessun mio intervento che non fosse l’attesa.

Il vento crebbe in intensità, impose alle nuvole di lanciare ombre sulla terra, ombre veloci e scure, simile al manto di un felino. E le nuvole trascinarono via il sole, lasciarono la notte a prendersi cura di me e del deserto silenzioso.

Il giorno successivo raggiunsi il villaggio. Gli abitanti mi avevano visto camminare nel deserto e si dissero felici di sapere che il deserto non mi aveva spento. Ci vollero mesi, forse anni, per scoprire che tutti gli abitanti del villaggio erano ugualmente in attesa della stessa persona che mi aveva spinto a andare laggiù. La donna dall’aspetto sgradevole e necessario era la ragione per cui ci trovammo, e ancora ci troviamo, a vivere assieme. I più sensibili e i più permalosi col passare del tempo hanno iniziato a rinnegare le loro motivazioni, certi dicono di essere nati e cresciuti in questo posto, e che nessuna donna ha detto loro di fare alcunché: si spacciano come pescatori figli di pescatori, oppure avventurieri, ricercati dalla polizia in fuga. Io ascolto le loro bugie e do loro ragione. Che senso avrebbe costringerli a dire la verità davanti a me? Quando io stesso, e tutti gli altri, li ascoltiamo piangere e pregare di notte, affinché lei rispetti la parola data e venga a noi.

È questa la storia del nostro villaggio, una storia di promesse e attese, nel deserto, davanti al mare.

E lei giustamente penserà che siamo degli sciocchi, non è forse vero? Ma cosa c’è, mi dica, cosa c’è di più dolce che essere degli sciocchi in penombra? Lei, lei sa proporre di meglio che far finta di essere stati amati, e restare così, come gomitoli di lana sulla pietra, così, come nuvole apparecchiate per una cena eternamente rimandata? Sa far di meglio, lei, nascosto dietro i suoi occhiali da sole che riflettono un’adolescenza infinita e guasta?
Oh, Dottore, ci fosse meno correttezza nelle diagnosi e maggiore precisione nella compassione, non sarebbe forse bello? Sapessimo dire le cose giuste, poche cose, simili al silenzio, ma a un silenzio che non è restrizione, un silenzio naturale, che sgorga come acqua da una sorgente, come fiato, Dottore, come l’ultimo o il penultimo respiro prima di annegare.

Occhio di vergine, occhio di vecchia. Su Althénopis

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di Ornella Tajani

Althénopis di Fabrizia Ramondino, recentemente riedito da Einaudi, si apre con l’apparizione folgorante, numinosa, di una vecchia sempre vestita di nero e avvolta da vivaci fiamme variopinte, còlta mentre attraversa con incedere impetuoso, disordinato eppure ancora erotico, la piazza del paese. È la nonna della narratrice, uno dei personaggi più attraenti del romanzo, indimenticabile quando smette di occuparsi dei poveri e sceglie di dedicarsi alla cucina, mettendo a soqquadro mezza casa e inaugurando una festa di creme favolose, fritti e millefoglie, per la gioia dei nipoti e la rabbia degli adulti, costretti alla parsimonia dalla guerra. La sua entrata in scena è una visione, come chiarisce la primissima delle molte note a piè di pagina in cui l’autrice interviene con commenti, parziali spiegazioni linguistiche o filologiche, fantasiose glosse: «Le visioni, che sono verità rivelate, come le ossessioni, che sono verità non ancora rivelate, non si possono dimenticare. Né però spiegare».
È una visione baluginante questa della nonna, che torna in seguito a illuminare altri passaggi del romanzo, fungendo spesso da termine di paragone con la madre dell’autrice, molto più riservata e ombrosa, molto più Madre, con la maiuscola che le sarà attribuita nell’ultima parte del romanzo, in quel momento capitale della formazione della Figlia in cui il ruolo inghiotte la persona. Basti ricordare la differenza fra le mani dell’una e dell’altra genitrice: «L’odore della mano della nonna, di incenso, olio, polvere, cera e fiori, mi calmava; la mano di nostra madre era invece inquietante, pareva sempre cancellare “sciocchezze”, lavare via qualcosa, fresca e odorosa di sapone».
Questa visione, non dimenticabile e non spiegabile, incisiva e quasi ultraterrena, con quel tocco di realismo magico che spesso si ritrova nelle infanzie vissute in qualche sud del mondo, scandisce sin da subito il passo della scrittura di Ramondino, che alterna dettagliate descrizioni dal respiro lento a esplosioni ricche di potenza immaginifica, attraverso le quali s’indovina, nelle parole dell’adolescente, la donna che verrà e che nel 1981 firmerà, ormai già ultraquarantenne, questo suo primo romanzo. Althénopis è un’altalena di paesaggi campani e costieri, una folla di familiari dai nomi greci e altisonanti (Alceste, Callista, Adone) o farciti di stucchevoli diminutivi (Ninì, Chinchino), una sfilata di ambienti e arredi quasi dotati di vita propria, come quei mobili pieni di cassetti e storia, che già per Rimbaud erano un piccolo tesoro nascosto in «un fouillis de vieilles vieilleries». Si tratta però di un’altalena spesso interrotta da un io che straripa dalle note a piè di pagina e si allarga nel testo «come una pianta che crescesse a dismisura». È questo io che con pazienza spiega al lettore i termini castigliani o partenopei del suo lessico famigliare (l’autrice ha vissuto la prima infanzia a Maiorca), o che, fingendo di chiarire, confonde le acque dell’etimologia che trasforma Napoli in Althénopis, in un lungo gioco di toponomastica creativa, o che, ancora, sceglie di intervenire spumeggiante e caustico con una postilla storica o culturale come la seguente, vale la pena citarla per intero:

Sebbene allora la moda non fosse un fatto di massa come oggi, il buon gusto nulla o quasi nulla aveva a che fare con essa. Tutte le edizioni di Gallimard erano di buon gusto, tutto Wilde e Shaw; riservati ai pedanti i classici latini e greci. I merletti (coperte, centrini, colletti, copricuscino) non erano più apprezzati; lo erano invece i tessuti orientali e contadini; non però le cineserie. I mobili ottocenteschi ammessi, gli altri in stile, tranne che nelle antiche case patrizie, erano visti con sospetto; lo stile Liberty e quello 1930 era per nuovi ricchi, per amici dei gerarchi, non per quelli della ex casa regnante. Le signore che andavano in chiesa nascondevano questa debolezza. I neonati non dovevano tenerli in braccio le ciociare, ma le schwester svizzere. Bene i cani, ma non i gatti. I cammei e i coralli erano tabù. Si dovevano ascoltare Wagner e il jazz, ma non Verdi e Beethoven. I pianisti non erano più apprezzati tranne, in privato, Renato Caccioppoli, un matematico di fama internazionale. Il dialetto tollerato solo nei patrizi di antica nobiltà. I tailleur erano di tweed, il principe di Galles abolito. Il visone selvaggio, non l’astrakan. Avere più di tre figli era volgare. Non era più chic morire di tisi.

Nonostante il titolo, Althénopis non è un romanzo su Napoli, che anzi compare più che altro a sprazzi, così come la guerra resta soprattutto un’eco; Napoli è perlopiù lo sfondo in lontananza, è la città che sempre definisce per contrasto lo spazio circostante, l’agglomerato più o meno informe dei paesi per i quali il faro non può essere che uno.
Con una lingua che ama spingersi ai limiti della sintassi, usando la scrittura come uno strumento abituale eppure alla sua prima prova letteraria, Althénopis è una successione di quadri narrativi che soltanto visti dall’alto rivelano il movimento complessivo della formazione dell’autrice, perché di formazione non si può evitare di parlare, dato che la scena finale – il cui tono allegorico è sottolineato, come già detto, dalle lettere maiuscole – è la morte della Madre, la quale trapassa «come un capo tribale». Questa però è soltanto la chiusa di un libro che racconta piuttosto «quelle lunghe stagioni infantili, – come opportunamente si ricorda in quarta di copertina, con le parole di Natalia Ginzburg – che parevano eterne ma sospese nella perenne attesa d’uno scompiglio, d’uno sgombero, d’una partenza, d’un prossimo esilio»; stagioni spesso del colore dell’estate, che in napoletano è la Stagione per antonomasia, forse perché costituisce l’intervallo che scandisce lo scorrere degli anni, o forse perché è il tempo straordinario in cui tutto può succedere.

[F. Ramondino, Althénopis, prefazione di Silvio Perrella; Torino, Einaudi, 2016, € 23]

mater (# 4)

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di Giacomo Sartori

 

Più di tutto

 

amavi i libri

i fiori

i cieli

i film

chiacchierare

Breve memoriale di un condannato al patibolo

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di Fabio Rea

Salire al patibolo e sentire il tuo odore che marcisce sottoterra. Un condannato a morte è un poeta, scalino, dopo scalino, con le tue ombre e i tuoi fantasmi che stavolta hanno vinto, ti stringono i polsi, ti segano la pelle, bruciano sotto le tue ferite. Sei stato schiacciato dai tuoi incubi, Jan, ed ora ti aspettano.

Diario parigino 6. Su islamofobia e bigottismo (a margine del costumone).

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Di Andrea Inglese

 

Questo intervento ha un obiettivo specifico. Voglio cercare di mostrare che combattere l’islamofobia, o forme di razzismo esplicito antiarabo, che prosperano nell’opinione pubblica occidentale, non implica disconoscere o mettere in sordina la battaglia per la laicità, che considero sia, ovunque nel mondo, attraverso espressioni che possono avere storie e forme diverse da cultura a cultura, una precondizione indispensabile per una visione radicalmente democratica della società.

Storie di arche e caravelle

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di Antonio Sparzani

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Sembra che d’estate ci si possa concedere di darsi anche a letture cosiddette leggere, non so perché, veramente, visto che appunto d’estate si ha più tempo anche per meditare su letture più impegnative. Io comunque mi dedico, per esempio, a Thomas Mann, ma, per variare, ho pensato di concedermi una lettura che, dal titolo, certo suonava più leggera: si tratta del volumetto Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio di Riccardo Ferrazzi (Fusta editore, 2016, € 13,00, ottima prefazione di Giuseppe Panella). Veramente c’è un sottotitolo – breve discorso sul mito – che dovrebbe avvertire che non di frivolezze si tratta bensì di riflessioni di peso e di interesse ben maggiori.

Da “La sposa nera”

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di Ilaria Seclì  

.                  

                                   andando via dal tempio velatevi il capo,

                                   slacciatevi le vesti e alle spalle gettate le ossa della grande madre

Ovidio, Metamorfosi, Libro I

 

la palude ha voce, annega

l’albero ammaestra la frusta

metallo di collana nel sangue

il pastore in fumi fiamminghi riparerà

nella casa i piedi e la pupilla nel paiolo.

Flussi diversi. Correnti poetiche a Caorle

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Il Comune di Caorle

in collaborazione con Libreria Diffusa presenta

FLUSSI DI VERSI 9a Edizione Festival di poesia

26/27/28 Agosto 2016

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PROGRAMMA

Venerdì 26 Agosto

17:00/18:00

Caorle tra i dialetti.

A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco

Ospiti: Luciano Cecchinel presentato da Paolo Steffan Luigina Lorenzini presentata da Giuseppe Nava

20:00-22:00

Reading e letture di

Marthia Carrozzo Francesco Terzago Giacomo Sandron Giovanna  Frene Alfonso Maria Petrosino

Lello Voce & Frank Nemola

Sabato 27 Agosto

11:00 Laboratorio di poesia e lettura ad alta voce per bambini e genitori.

A cura di Dome Bulfaro

13:00-15:00 Editoria di poesia: prospettive, soggetti, sistema.

A cura di Julian Zhara e Luca Rizzatello (Prufrock spa) Interventi di: Franco Buffoni (poeta e traduttore)

Maria Borio (Nuovi Argomenti) Luigi Socci (direttore artistico de La Punta della Lingua)

16:00 Inaugurazione della mostra di Dino Ignani

“INTIMI RITRATTI, i volti dei poeti”

17:00-18:00 Il dialetto nella poesia del Nord-Est

A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco Ospiti: Fabio Franzin presentato da Julian Zhara

Giacomo Vit presentato da Francesco Terzago

19:00 Performance “Golden Hour”

di Tiziana Cera Rosco

21:00-22:00 Reading e letture di

Dome Bulfaro Franca Mancinelli Tommaso di Dio Francesca Matteoni Maria Grazia Calandrone Luigi Nacci

Domenica 28 Agosto

05:30 Performance “Golden Hour”

di Tiziana Cera Rosco

06:00 Le notti chiare erano tutte un’alba.

Letture dei poeti soldati nella Prima Guerra Mondiale al sorgere del sole.

11:00 Laboratorio Poesia e Fiaba per bambini e genitori

A cura di Francesca Matteoni

13:00-15:00 Editoria di poesia: prospettive, soggetti, sistema.

A cura di Julian Zhara e Luca Rizzatello (Prufrock spa)

Interventi di: Gian Mario Villalta (direttore artistico Pordenonelegge) Francesco Forte (Oedipus Edizioni)

Laura Liberale e Francesca Diano (Carteggi Letterari)

17:00-18:00 Il dialetto nella poesia del Nord-Est

A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco

Ospiti: Piero Simon Ostan presentato da Christian Sinicco Ivan Crico presentato da Giuseppe Nava

19:00 Premiazione a Franco Buffoni

20:00-22:00 Reading e letture di

Bernardo Pacini Andrea De Alberti Maria Borio Luigi Socci

Gian Mario Villalta Franco Buffoni

22:00- 22:45 Hip Hop Poetry

Concerto di Eell Shous

22:45-23:30 Electric Poetry Party.

A cura del pj luigisocci

 

POESIA ESPRESSA durante tutto il Festival, in Piazza Papa Giovanni un poeta a turno, scriverà delle poesie espresse per i passanti.

La mostra di Dino Ignani “INTIMI RITRATTI, il volto dei poeti” ci sarà per tutti e tre i giorni consecutivi. Inaugura Sabato 27 alle 16:00 Centro Civico di Caorle, Piazza Vescovado.

Le letture e i reading avverranno in Piazza Vescovado (in caso di maltempo le letture si sposteranno nel Centro Civico di Piazza Vescovado)

Il reading di poesia dialettale si terrà sotto i Portici del Centro Civico in Piazza Vescovado L’Electric Poetry Party e L’Hip Hop Poetry si terranno al Bafile Gran Cafè, piazza Matteotti 1

La PERFORMANCE DI TIZANA CERA ROSCO avverà al tramonto sul lungomare della Spiaggia di Ponente. All’alba sul lungomare della Spiaggia di Levante.

Organizzazione: Libreria Diffusa Direzione artistica Julian Zhara Ufficio Stampa Alessandro Burbank

Contatti flussidiversicaorle@gmail.com

Tutto accade ovunque

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di Francesca Fiorletta

 

Testaanche oggi ho visto qualcosa
che di continuo ritorna
anche oggi ho visto qualcosa
indistintamente

Pubblicato ad aprile 2016 da Nino Aragno Editore, nella bella collana i domani, curata da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno, Tutto accade ovunque è l’ultima raccolta poetica di Italo Testa.

L’oscurità e il godimento: una lettura di “Il Galateo in Bosco”

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di Andrea Inglese

 

Ho letto Il Galateo in Bosco molto giovane e ovviamente poco ne capivo. Non ricordo neppure se fosse il primo libro che mi trovassi a leggere di Zanzotto, ma ancora oggi, passati molti anni, e sedimentate molte letture, Il Galateo è come se rimanesse, per me, il libro di Zanzotto, il libro riassuntivo ed esemplare, quello che, alla fine, ho letto più spesso, e quello che ho sempre nuovamente voglia di leggere. È senza dubbio un libro legato al percorso auto-iniziatico della poesia, e custodisce, quindi, quelli che, molto presto, considerai dei valori fondamentali del testo poetico moderno e contemporaneo: oscurità e godimento.

La condizione estiva ( una bagatella per le vacanze)

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di Giorgio Mascitelli

 

Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso accendono l’aria condizionata. Un intero anno trascorso trastullandosi nella nostalgia del tepore e un’intera primavera per avvezzarsi poco a poco al suo arrivo e subito bisogna armarsi di golfino e di sciarpina e di calze con i trenta gradi centigradi fuori dall’abitacolo o dal negozio o dall’ufficio. Se vi fosse almeno tolleranza, si potrebbe a ragion veduta affermare ‘almeno c’è tolleranza’, ma di essa non c’è traccia in questo mondo estivo globale. Per esempio quando in ufficio scoprirono che Guido della Veloira portava la maglietta della salute in pieno luglio scattò subito la convocazione dal direttore del personale che voleva scoprire cosa ci fosse sotto ( ma sotto c’erano solo le fragili membra infreddolite di un uomo, Guido della Veloira per l’appunto). Guido della Veloira, invece di dirgli, come sarebbe stato giusto, di non essere disponibile a prendersi i torcicolli, le febbricole, i mal di schiena e i cagotti perché l’azienda nella sua disperata caccia di profitti possa continuare a fingere che le stagioni non ci sono più ( d’altronde se tutti dicessimo ciò che è giusto al momento giusto, tutti saremmo o morti o disoccupati o finiti come il povero Ursino), si limitò a ricordare che il modo più naturale e al contempo più nobile per difendersi dagli eccessi di calura è passare la giornata sotto i portici ombrosi di un patio che racchiude un verde cortile al cui centro zampilla una fontanella d’acqua bevendo bibite fresche alla menta o al limone. Il direttore del personale lo osservò in modo insolito come sotto una luce nuova. Il direttore del personale è un tipo anfetaminico e si sa che i tipi anfetaminici sono collerici e si sa che i tipi collerici sono impulsivi e si sa che i tipi impulsivi sono ridondanti nell’espressione e si sa che i tipi ridondanti sono sgrammaticati sicché è possibile non capirci nulla. In ogni caso non fu mai pronunciato un tassativo divieto di portare la maglietta della salute, ma piuttosto c’era l’interesse di scoprire se sotto questo atteggiamento passatista e sconveniente covassero le braci della rivolta, ma sotto, come si è visto, non covava nessuna brace quanto un gelo improvviso fuori stagione come l’annuncio di un messo infernale che tornava nel mondo.

Se Guido della Veloira era sfuggito ai rigori di una sanzione diretta, non poteva d’altra parte non aspettarsi che l’ombra del sospetto, ossia di essere annoverabile tra i nemici del progresso, aleggiasse su di lui. ‘L’aria condizionata è uno standard della vita moderna’ gli venne ricordato. Essere contro gli standard significa oggettivamente essere nemici del progresso. Un collega gli batté una mano sulla spalla dicendo che in fondo si trattava solo di abituarsi, visto che erano pochi anni che c’è l’aria condizionata, neanche un battito di ciglia nella prospettiva dell’evoluzione, e forse se le avessero cambiato nome, che so ‘moderatore climatico’ o ancora meglio qualcosa in inglese, anche Guido della Veloira l’avrebbe accolta più serenamente.

Uscito dall’ufficio e scampato al gelo del metro, Guido della Veloira ebbe la dabbenaggine di pensare di trovare solidarietà nella sua maglieria di fiducia, dove faceva incetta di magliette della salute, sperando che l’elogio dell’uso parsimonioso dell’aria condizionata in quell’esercizio e il principio della ragione del cliente gli avrebbero guadagnato il sostegno del titolare. Tali aspettative furono frustrate: il titolare alla cassa abbassò lo sguardo senza spalleggiarlo, mentre i numerosi clienti accorsi ad acquistare freschi completini estivi lo guardavano muti e interrogativi.

La principale tendenza morale del nostro tempo è quello di una gran massa di servi, persuasi non solo di essere liberi, ma, nei casi più disperati, di essere dei padroni. Basti pensare a un’intera generazione fermamente convinta che essere liberi significhi fare il cameriere a Londra. Di fronte a questo sfacelo l’unica reazione possibile è quella dell’ironia, che, incomprensibile ai più, è una reazione estetica, mentre ce ne vorrebbe una politica, ma non si può costruire un discorso politico sull’ironia. Che le cose stiano così è perfettamente dimostrato dal fatto che oggi è un gran casino usare parole tipo ‘libertà’ o ‘libero’ e io stesso, quando devo prenotare al ristorante, preferisco chiedere se c’è un tavolo disponibile per non generare malintesi ( d’altronde non vado quasi mai fuori a cena). Comunque di queste cose è meglio non parlare troppo a lungo pena il rischio di finire come il povero Ursino.

Il momento più grave restava però quello della spesa a causa delle temperature polari che si raggiungevano nel supermercato e della necessità della sua visita per procurarsi del cibo. Non diversamente si saranno sentiti i soldati di Annibale alle prese con la traversata delle Alpi in cerca di preda; non diversamente si sarà sentito il povero Ursino di fronte al suo fato. Oggettivamente il supermercato anteponeva il mantenimento dello stato solido di una tavoletta di cioccolato alla salute dell’uomo, anche se Guido della Veloira per fortuna non si rendeva pienamente conto del significato di questo dato di fatto.

Così per caso, esternando la sua amarezza ad Amadeo Boni, un vecchio conoscente, questi gli suggerì di sfruttare i vantaggi dell’ipermodernità e, visto che davanti al supermercato stazionavano sbandati di vari continenti, avrebbe pur sempre potuto incaricarne uno in cambio di una congrua mancia di fare la spesa al suo posto aspettando tranquillamente fuori, finché il suo uomo non fosse arrivato alle casse, dove gli sarebbe subentrato per pagare con il bancomat.

L’organizzazione del mondo è però ideata in tal modo che è impossibile che in un supermercato con un certo tipo di climatizzazione all’avanguardia come quello facessero fare la spesa con tanto di carrello a uno sbandato di qualsiasi continente, giacché lì non si era razzisti, e veramente Guido della Veloira rischiò di finire come il povero Ursino. Quando gli addetti ebbero attorniato il suo incaricato e gli ebbero chiesto conto della sua presenza e lui ebbe spiattellato questa storia incredibile di uno che non sopportava l’aria condizionata e gli aveva chiesto di far la spesa al sui posto e già essi cominciavano a dargli sulla voce chiedendogli se pensava che erano scemi, l’uomo di uno dei continenti indicò la figura di Guido della Veloira ferma oltre le porte a vetro scorrevoli.

Le autorità supermercatorie sospettarono Guido di ricettazione e quelle submercatorie di essere un cinico trafficante di essere umani che voleva riempire di delinquenti il quartiere. A nulla valsero le sue spiegazioni: esse accusavano. Capì allora che la sua strada si faceva stretta, che tante porte si chiudevano, che diventava pericoloso e complesso volere ciò che fino a una generazione prima sarebbe stato ovvio avere. E si sentì esattamente come mi sento io che anelo e sogno sempre un’estate al mare, neanche troppo eccitante, con qualcosa di rinfrescante senza esagerare però, come viene viene, ma di stile balneare.

 

L’ultimo arrivato

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LUltimoArrivato_Balzano di Gianni Biondillo

Marco Balzano, L’ultimo arrivato2015, Sellerio editore, 205 pagine

Un uomo, sdraiato sul letto della sua cella, in attesa di scontare gli ultimi giorni della sua lunga pena, ricorda. Si rivede bambino, in una Sicilia antica e immobile, ricorda la curiosità che scaturiva ascoltando le storie del suo maestro elementare, ricorda la fame disperata, il lavoro nei campi, la madre malata, il padre anafettivo, l’abbandono forzato della scuola. Ninetto, si chiama. Pelleossa, per chi lo conosce. A nove anni, senza famiglia, emigrerà verso la speranza di una vita migliore, al Nord. Sembra una storia d’altri tempi, eppure ci sono ancora uomini e donne che potrebbero raccontarci, oggi, la loro vita di bambini lavoratori senza famiglia. Marco Balzano, col suo L’ultimo arrivato, ne ha fatto un romanzo di quelle storie.

Il protagonista si muove fra un oggi grigio e disilluso e una Milano del boom dura con gli immigrati dal Sud ma latrice di un illusoria emancipazione collettiva. Le fabbriche, oggi tutte dismesse, erano il sogno di una vita normale per chi ha conosciuto solo fame e disperazione. Finito quel mondo che dava allo stesso tempo tranquillità e alienazione, cosa abbiamo avuto in cambio?

L’ultimo arrivato è sostanzialmente un lungo monologo che parla una lingua che non è più innervata sul dialetto dell’infanzia di Ninetto e non è ancora un italiano coerente e condiviso. Una specie di lingua di mezzo, irrisolta. Come è irrisolta l’esistenza del protagonista, il suo carattere chiuso, scontroso, ma anche curioso e limpido. Ninetto uscirà dal carcere, ma continuerà a rinchiudersi nei ricordi, personale prigione consolatoria. Per tutto il romanzo ci chiediamo quale sia la ragione materiale della sua condanna, anche se sappiamo, forse già dalle prime pagine, che la vera pena è stata la sua stessa esistenza. Una vita senza infanzia. Una condanna che nessuno merita.

(pubblicato su Cooperazione n° 43 del 20 ottobre 2015)

Miti Moderni/19: ritorni

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di Francesca Fiorletta

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Il mare era calmissimo, agitato.
Le nuvole alte nel cielo, pesanti, si aprivano su un pomeriggio assolato di fine estate.
Nelle orecchie il mugolio delle cicale, l’abbaiare dei gatti in calore dentro i vicoli deserti del centro storico, le terrazze di vetro, abbandonate, coi panni stesi ad asciugare, le tovaglie del giorno prima. Fare l’amore sotto le stelle, la via lattea in lontananza, l’abat-jour ben salda, appoggiata sul tavolino del salotto. Una villa in stile umbertino, il tetto basso, la fila rossa di mattoncini ordinati per cancello, un pozzo riarso da cui abbeverarsi, preparare il caffè con l’acqua piovana.

Da Cuneo a Venezia. Perché sono le storie a scegliere i narratori, e non viceversa. Breve ritratto di Andrea Tarabbia.

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di Michele Cocchi

Circa sei anni fa sedevo dietro a un lungo tavolo in compagnia di alcuni giovani scrittori italiani. Di fronte a noi, in platea, un pubblico numeroso. Allora non lo sapevo, ma in mezzo a quel pubblico sedevano alcune delle personalità del mondo editoriale italiano, venute ad ascoltare quelli che – in teoria – sarebbero dovuti diventare gli scrittori italiani del futuro. Si trattava dell’edizione del 2010 di Esor-dire, organizzata, tra gli altri, dalla scuola Holden di Torino. Una manifestazione dedicata ai giovani, e promettenti, scrittori esordienti. Con me, Elisa Ruotolo, Paolo Piccirillo, Irene Chias, Paolo Zanotti, Andrea Tarabbia. Per accedere alla tre giorni finale di Esor-dire era però necessario vincere prima una “sfida” a due con altri scrittori esordienti: la sfida consisteva nel leggere un racconto inedito che sarebbe stato votato dal pubblico presente in sala. Nel mio caso eravamo a Venezia, il pubblico era composto di nove persone, e io superai l’altro concorrente con lo schiacciante risultato di 5 a 4. Uno strano modo per decidere quali scrittori meritassero di arrivare a Cuneo.

Non ricordo niente di ciò che risposi all’intervistatore, quando fu il mio turno, ma ricordo invece molto bene l’intervento sul concetto di distopia di uno dei miei “compagni”. Allora non sapevo il suo nome, non ero riuscito, durante le presentazioni, ad associare i nomi ai volti. Ricordo che mi colpì il suo modo diretto e sicuro di rispondere. Un modo potente, non soltanto per il tono della voce, o per le qualità verbali, bensì per una speciale energia che, oggi, oserei dire aggressiva, nel senso buono del termine: l’aggressività che ci permette di difenderci e, quando serve, di far arrivare all’altro il nostro pensiero. Quello era Andrea Tarabbia. Pantaloni di stoffa, camicia ampia, barba e occhiali. Un bel sorriso franco. L’immagine che, negli anni a venire, avrei imparato ad avere di lui. La sera, durante la cena post-premiazione, avrei desiderato aggregarmi agli altri scrittori, ma rimasi intrappolato – dall’altra parte del tavolo – in una lunga discussione con il mio editore. Persi quell’occasione ma non mancai di avvicinarmi al gruppetto nel dopo cena, scambiare con loro alcune battute, fissare per la mattina successiva.

La mattina si presentò soltanto Andrea. Con le nostre compagne, oggi mogli, facemmo colazione insieme, poi guardammo, per alcuni minuti, uno spettacolo destinato a rimanere a lungo nel mio immaginario: gli editor di alcune case editrici dibattevano sui testi di giovani aspiranti scrittori. Ne dibattevano in loro presenza, ovviamente. Stesso lungo tavolo del giorno prima, protagonisti diversi, pubblico simile. Una sorta di talent show, ante-litteram, dove ogni editor difendeva strenuamente il lavoro o l’impegno del narratore affidatogli ma non mancava – non in tutti i casi, si intende – di attaccare, più o meno ferocemente, il lavoro o l’impegno di uno, o più, degli altri. Pensai che noi – quelli del giorno prima, quelli della sfida a colpi di racconti – eravamo stati decisamente più fortunati. Provai, empaticamente, un profondo malessere e fantasticai che uno di quegli aspiranti scrittori si alzasse dalla sedia, afferrasse con risentimento il proprio manoscritto e con voce potente dicesse, prima di andarsene: – Questa storia è mia! – Non riuscivo cioè a smettere di pensare a quanta fatica emotiva, e a quanto sforzo creativo, quei giovani avessero investito, e che sarebbe stato necessario avere maggior rispetto del loro lavoro, indipendentemente dalla qualità del testo.

A Cuneo ho stretto molte amicizie, alcune sono tutt’ora molto forti. Le più intense, tra queste, sono state quelle con Paolo (Zanotti) e Andrea. Nei mesi a seguire hanno presentato il mio libro, e io il loro. Sono stati ospiti a casa mia. Hanno partecipato al mio matrimonio. Erano l’esatto opposto: forte e deciso Andrea, mite e insicuro – almeno apparentemente – Paolo. L’amicizia con Paolo, purtroppo, è finita troppo presto. Mi ritengo, però, un privilegiato, per avere conosciuto, di lui, almeno quel suo sorriso leggero, la sua voce quasi sussurrata, la sua intelligenza acuta, la sua generosità e la sua delicatezza. La prima volta che lui e Andrea hanno trascorso una notte da me, ho trovato Paolo, la mattina successiva, sovrastato dai miei due gatti perché lui non aveva avuto il cuore – per non ferirli – di scacciarli via dal materasso gonfiabile sul quale dormiva. Sonnecchiava sul bordo del materasso, accecato dalla luce che entrava dal lucernario che lui aveva preferito – per non cambiare l’assetto della casa – non tentare di coprire. Paolo era fatto così.

Nessuno di quei giovani scrittori, seduti insieme a me, ha – per fortuna – smesso di scrivere e oggi, Andrea, ha l’opportunità di vincere il Campiello. Lui, forse più degli altri, in questi anni, ha reso un servigio importante alla narrativa italiana: ha formulato, attraverso i suoi libri, un pensiero coeso e compatto sulla violenza; la violenza declinata in alcune delle sue forme più orribili. Lo ha fatto soprattutto attraverso tre romanzi: La calligrafia come arte della guerra, Il demone a Beslan, Il giardino delle mosche. Andrea non dovrebbe vincere il Campiello unicamente per la sua abilità di scrittore, per il suo stile, per la sua lingua, per aver dato voce, nel Giardino – romanzo per il quale è candidato al premio – a Čikatilo; dovrebbe vincere il Campiello perché in Italia, oggi, è tra i narratori che sa dire la violenza e sa come dirla: nelle sue forme più estreme, più feroci, più complesse. Ma, e soprattutto, riesce a raccontarla senza pregiudizi. La contestualizza, per comprenderla meglio. La sonda, per conoscerla. La restituisce alla sfera delle azioni umane, senza demonizzarla, analizzandola come un geologo analizza un terreno, studiandone la costituzione e l’evoluzione. La violenza, attraverso la penna di Andrea, diventa un organismo vivo, con una sua storia, col suo esser-ci, coi suoi possibili sviluppi e questo, a mio avviso, è il suo merito maggiore.

Credo che ciò che ho percepito a Cuneo, quando per la prima volta l’ho sentito parlare, abbia a che fare con questo. Credo, cioè, che se nei suoi libri è riuscito a rappresentare l’universo della violenza così bene, è anche grazie a quell’energia, a quella forza, a quella potenza verbale che mi colpirono nel sentirlo rispondere alla domande dell’intervistatore.

Durante la presentazione del suo ultimo libro – Il giardino delle mosche – a Pistoia, affiancato da Roberto Gerace, mi ha colpito molto una sua risposta a una domanda che gli avevo rivolto sul rapporto fiction non-fiction: scegliere la non-fiction, dice Andrea, ti permette di ovviare al problema della trama, perché questa esiste già, sta scritta sui documenti, è sufficiente consultarli. Era, ovviamente, una battuta, ironica e provocatoria, perché se esistono già i fili di una tessitura, comunque la tessitura va organizzata, embricata, sarà forse un compito più semplice, ma comunque un compito arduo. Il problema, a mio avviso, non è tanto questo, ma il fatto che lo scrittore che sceglie la non-fiction, che si appassiona a una storia di cronaca, per esempio, o a un fatto storico, non sceglie una storia, ma dalla storia viene scelto. Questo direi, oggi, ad Andrea, per ribattere alla sua battuta: ti sei illuso di scegliere la storia di Čikatilo, ma è la storia di Čikatilo che ha scelto te. Non è il tuo interesse per la letteratura russa, il tuo interesse per la storia dell’Unione Sovietica, il tuo amore per Mosca che ti hanno portato a Čikatilo. È stato qualcos’altro. È il fatto che qualcosa di noi si presta bene a calamitare certe storie e non altre. È la nostra capacità di captare dei segnali e di sintonizzarci su questi. La capacità innata, oppure maturata con l’esperienza ma, comunque, nostra, che sposterà la nostra attenzione in una direzione anziché in un’altra, che lascerà sullo sfondo delle storie, per portarne in superficie altre. Quella capacità, in Andrea, ha a che fare col magnetismo di quel pomeriggio a Cuneo, con qualcosa che è della sua natura e forza mentale, con la sua sicurezza e potenza verbale. Čikatilo ha scelto Andrea perché ha sentito in Andrea la persona giusta per raccontare la sua storia, per molti di noi, altrimenti, assolutamente indicibile.

Dopo la presentazione, durante la cena, ho rivelato ad Andrea quanto ancora sia affezionato al suo primo libro La calligrafia  come arte della guerra – il libro che ha portato Andrea a Esor-dire – e lui si è preso gioco di me, dicendo che era un libro, per certi versi, immaturo, oramai lontano. Io credo che invece, idealmente, il primo libro potrebbe chiudere, così come ha aperto, questa sorta di trilogia – come un anello immaginario -. Perché con la Calligrafia si torna alla fiction, alla narrazione di pura invenzione, alla pura creatività, si esprime qualcosa – più esplicitamente di quando presumiamo di aver scelto una storia d’altri – della nostra trama interna, della nostra personale natura. All’epoca, per la presentazione della Calligrafia, scrissi nei miei appunti: – Per la storia di Andrea, ambientata nel futuro e distopica, non è necessario pensare a uno dei molti mondi possibili. Potrebbe essere una storia nostra, dei nostri tempi. Il fatto è che Andrea è arrivato al nocciolo della questione, alla faccenda reale, ha scarnificato il concetto di guerra fino a toccarne l’osso e intorno a quest’osso ha costruito una storia, apparentemente lontana dalla realtà, ma utile a comprendere gli aspetti profondi dell’uomo -. Il lavoro che Andrea ha svolto nel Demone a Beslan, e ne Il giardino delle mosche, è il medesimo, sebbene declinato diversamente: si va al cuore del problema, alla struttura ossea della questione.

Non è importante che sia fiction, o non fiction, noi leggiamo il mondo attraverso una speciale lente, unica e irripetibile, che ci permette di vedere delle cose, e non altre. Qualcuno – come Andrea – le cose che vede le sa anche raccontare. La lente di Andrea ci ha permesso di riflettere su un tema, quello della violenza, oggi, forse più che in passato, centrale per la futura evoluzione dell’essere umano. Mi auguro che Andrea vinca questo premio, ma soprattutto mi auguro che Andrea continui a scrivere, a scorrere la sua lente sulle cose dell’uomo, a prestare la sua lingua a ciò che lui, e solo lui, potrà vedere. Mi auguro che ci ha portato a Cuneo nel 2010, continui a investire su quegli scrittori e su quelli che verranno, non perché gli scrittori siano animali da palcoscenico, ma perché ognuno di loro, se favoriamo l’incontro tra la loro speciale lente e la realtà del mondo, può raccontarci storie irripetibili.

Educazione sentimentale dell’indiano: Memorie di una maitresse americana

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memorie di una maitresse americanadi Mariasole Ariot

Tutto si svolgeva alla luce del sole
N. Kimball

Nella casa senza tetto non c’erano libri. Solo una vecchia enciclopedia tagliata al centro da mio padre per nasconderci monete preziose arrivate dall’America : era il nostro tesoro , un tesoro come un porcile, uno scavo tra le parole per riporci i soldi : raccapricciante e allo stesso tempo meraviglioso. Mi agitavo con le mani e le braccia quando aprivo la pagina duecentotrentasette del terzo volume : c’era un buco scavato a taglierino da mio padre, un buco meticoloso, e nel buco una manciata di metallo racchiuso in singole confezioni circolari. Protetto, perché niente laggiù era protetto. Si potevano leggere gli anni : la più vecchia moneta era la più grande. Poi lui le ha cedute fondendole tutte lontano da casa per farci su qualche soldo vero. Spendibile, come tutto doveva essere nella casa senza libri e senza mura.

Ma questo era un affare per adulti e per bambini con la pelle d’oca. Io avevo già la mia, la tenevo nascosta per i momenti in cui la casa si svuotava : era un libro proibito. Nella casa grande e gonfia di silenzi c’era solo quello e un vecchio manuale femminista per capire il proprio corpo : erano i regali di una cugina combattente, che cercava di acchiappare una parola da quel tombale, da quegli inutili faldoni di Quattroruote e riviste di casa. Nei tempi brevi, quando uscivano per la spesa, io mi arrampicavo sulle parole enciclopediche e lo prendevo. Fuggivo inseguita dal mio ladro privato, quello che mi stava sempre alle costole anche quando non combinavo niente, quello degli sguardi assassini e benevoli, delle grandi risate nel muro dei pupazzi e dei giocattoli. Percorrevo le scale al contrario per non essere presa dal mio senza-testa e chiudevo la porta senza serratura come si chiudono gli scaffali morti o le orecchie per non sentire le urla. Avevo il mio libro proibito, e le mie ore di libertà. Ero la storia di una puttana americana, una storia di sesso, di pagliai, di bordelli, di spazzole usate come giocattolo, di sorelle, di fughe dalla finestra, di stalloni in amore, di quindicenni, di esplorazioni, di corpi, di vita bollente, di piccole menzogne, di verità spalancate come cosce mature e come la cosa più naturale da fare. Forse a nove anni non sapevo nemmeno cosa significasse maitresse, ma dalla copertina intuivo che qualcosa là dentro bruciava- e infatti bruciava.

Nell scopriva il suo corpo e io scoprivo il mio, ritagliavo lembi di tempo per scappare con lei nel grande pagliaio pieno di stelle, di aghi che s’intrecciano ai vestiti, di povere cose. La mia soffitta alta in cui mi nascondevo era la sua stanza da cui lei voleva scappare.

Quell’aprile Charlie disse che ce ne saremo andati, saremmo scappati non appena fosse riuscito a mettere le mani sui soldi che gli spettavano.

“E dove andremo, Charlie?”

“Scenderemo il fiume, e poi prenderemo una nave per il Brasile”. Aveva questo tarlo del Brasile che gli trapanava il cervello, ma a me non importava niente, fosse Cina o Brasile, fintanto che avevo qualcuno che pensava a me. Non avevo nessun’idea di nessuna parte del mondo, tranne North Pike, Indian Crossing, e quella cascina lì attorno. Per il mondo che conoscevo, avrei quasi potuto arrivare ai suoi confini con uno sputo.

Il ricordo è sensoriale. Sento l’odore del fieno, gli umori della pelle, l’acre dello sperma dimenticato nel bordello del mattino, gli zoccoli dei cavalli, il rumore della monta, le grida, il fiato trattenuto della prima volta, il suono bello e grave dell’attributo “garzone”. Lei apriva le gambe e io spalancavo la bocca e gli occhi, lei aveva il petto gonfio e una leggera peluria rossa sul corpo tornito, io ero come miniaturizzata, la sorella minore che ha tutto da imparare, che crede ancora alle bambole. Ma non ci credevo più. Memorie di una Maitresse americana è stato questo : il mio salto generazionale senza corpo. Con la testa mi precipitavo fuori casa, tra i bordelli e le strade americane battute dal vento, mi spingevo più in là per capire come avrei fatto io, a mia volta, a fuggire dalla mia prigione, dagli sguardi senza testa che popolavano i miei incubi da sveglia, ma il corpo non cresceva, restava bambino, e con questa scusa potevo farla franca. Gli adulti avevano la loro enciclopedia monumentale per ricercare l’ultimo re, io avevo il mio libro mondo per cercarmi quando non mi trovavo.

[ madre, tu che sai sempre tutto : mi mai hai scoperta? No, non mi hai mai scoperta : sono scoperta da sempre ]

Appena un rumore varcava la soglia di casa io correvo giù a precipizio, scivolavo le scale sbattendo le ginocchia sull’ultimo gradino, mi arrampicavo, riponevo la copia di Adelphi che allora mi sembrava grande e pesante sul ripiano più alto, nascosto dietro il nascondiglio dei nascondigli, e fingevo indifferenza, con il viso rosso di vergogna e di eccitazione per la mia scoperta sensibile. Ero adulta anche quando non avevo che un piano liscio al posto del petto, mentre la sorella americana si dimenava ancora tra le radici della testa, prendeva una carrozza e scappava verso Saint Louis – e io la seguivo ammattita, col desiderio rosso di ricominciare quelle pagine.

A volte ne saltavo, volevo percorrere la storia al contrario : tornare sempre al principio, alle prime pagine in cui con una penna dorata scalfiva i dolori adolescenziali per farne materia di studio. Studiava i movimenti degli animali con una passione tremolante eppure stretta come stringeva le gambe per sperimentare nuove modalità di rumore. Io la seguivo, seguitavo a non parlarne con nessuno : erano i miei nove anni, i miei novembri frebbrili che dovevano essere scaldati dalla monta dei calori. E precipitavano stelle, magma infuocati dai calcagni alla punta più alta della testa, sul suo naso che immaginavo all’insù. Lei si descriveva con una tenacia da prima donna, ma era anche l’ultima, e questo mi piaceva : essere con lei tra gli ultimi, ultima arrivata nel bordello, a fare le fusa con uomini maturi e gonfi di vino e di liquido bianco negli occhi. Da allora vedo sempre quei corpuscoli come piccoli spermatoozoi che viaggiano in cerca di un ovulo da fecondare : strizzavo le palpebre per oscurarle alla grande bugia di casa, le premevo forte con le dita piantellate sulla parte molle e vedevo il bulbo colorarsi di arancione intenso, un fuoco denso e vivo in cui vivevano le microparticelle con la testa più grande del corpo. Immaginavo facesse così anche lei, la piccola prostituta di campagna che prima di partire voleva provare il dolore delle cose, la rugosità delle giornate assolate e assetate. Poi mi hanno spiegato che si trattava solo di polvere.

[ padre, perché non hai tagliato la testa anziché tagliare un libro? perché non hai la testa?]

Volevo i suoi capelli rossi, la sua posizione supina, i suoi fianchi coperti di stracci e di lustrini sporchi : la sporcizia mi piaceva, vendicava gli atti di pulizia che venivano compiuti ripetutamente in casa. Mangiavo la terra, e i sassi, e le ossa lasciate sui piatti, e con lei mangiavo tutto, mi rotolavo sugli spazi vivi di quelle noie da sabato pomeriggio, quando i libri di scuola non bastavano e io non bastavo a me stessa. La piccola ragazzina cresceva e io mi fermavo appena prima, tornavo indietro, volevo di nuovo il pagliericcio e la sua prima volta, descritta con una punta di ferro infiammata, incisa sulla lapide della sua età adulta.

“A sedici anni ero piena di quelle che seppi si chiamavano illusioni; nella mia testa c’era una gran confusione, su che cosa era il mondo, su ciò che la vita offriva, quali effetti aveva su una persona, e come sarebbe stato il futuro. M’informavo ascoltando e osservando. Avevo un corpo molto bello e robusto, seni meravigliosi, pieni ma non fuori misura, coi capezzoli di un rosso fragola, non scuri o macchiati come hanno certe donne. Avevo una pelle di un rosa perlaceo, i capelli e la peluria alle ascelle e in mezzo alle gambe di un oro rossastro. Ero prudente per natura, spesso però anche troppo fiduciosa. Non mi ero ancora resa conto che la società fuori dalla nostra portata aveva soltanto una sottile vernice di moralità e di valori sociali – come la crosta di una torta. Frasi convenzionali e cortesia formale.”

Era la sua scrittura di carne a catturarmi, come se ci fossero zampate animali e pagine sporche di sangue mestruale sulla curvatura della copertina consumata : l’ammiravo per questo. Per il suo saperci fare con la crudeltà e le stellate. Per questo forse ho cominciato a dire il nero del nero, a lottare per l’indicibile : perché tutto quello che non si poteva dire né sussurrare andava scritto, trafitto sulla tela, macchiato dell’irresponsabile e di tutto l’opposto : la responsabilità del vero. Con cui lei parlava, con cui io ascoltavo. E così l’amore – inciso sul foglio al suo grado zero.

“Avrei dovuto accorgermi che mi ero innamorata. Ma non avevo mai avuto un’esperienza simile, non sapevo come un atto potesse diventare un sentimento e una follia che sconvolgeva e annullava tutto il mio vivere, tutte le mie difese per proteggermi. Tutto era liquefatto, come fossi fatta di zucchero e mi stessi sciogliendo dentro una vasca da bagno. Ero una giovane puttana piena di confusione che in quel momento desiderava l’amore come avrebbe desiderato un’altra testa.”

Eravamo l’indice dei libri proibiti, eravamo proibite, eravamo due donne sul pagliaio, eravamo sporche di fango, spalancate, addormentate sul letto del bordello, eravamo arrampicate allo scaffale della libreria fasulla, eravamo di pietra e di foglia, eravamo ammuffite, eravamo fresche, eravamo indici, radici di parole mescolate all’aria, tuoni di fine stagione, sempre fuori stagione, inopportune, verità con la testa alzata, capogiri del reale, piccole minacce per gli sconosciuti : eravamo proibite. Restiamo proibite anche in questo scriverci a distanza da secolo a secolo, in questo ricostruire i passi, fare memoria delle cose perdute, delle case senza tetto, dei seni maturi, di quelli buoni al latte, delle carcasse, del pagliericcio che ho incontrato più adulta, della sua irriconoscenza.

La coda di Ferragosto

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di Luca Ricci

Friedrich-Viandante_mare_nebbiaL’uomo, mettendosi in macchina a Ferragosto- benché avesse programmato con largo anticipo una partenza a un orario cosiddetto “intelligente”-, sapeva che sarebbe stato vittima di un evento ineluttabile: la coda per raggiungere il mare. Gli era già capitato un migliaio di volte di restare imbottigliato, eppure sul suo volto si dipinse uno stupore infantile mentre scalava le marce dalla quarta alla prima. Subito dette la colpa a tutta una serie di circostanze nefaste: la seconda colazione al bar, il rifornimento superfluo di giornali all’edicola, il lavavetri che si era avventato sul parabrezza con il semaforo verde… 

les nouveaux réalistes: Giuseppe Checchia

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Claude Lazar – dipinto

Anatomia di un interno

di

Giuseppe Checchia

 

Quello che sta dormendo sul letto con la voglia a forma di isola sulla guancia è mio zio. Si chiama Vincenzo, ma tutti lo chiamiamo col suo secondo nome Gino. Quell’altro in piedi con il coltello in mano invece sono io.

Nella ricostruzione mentale che mi faccio degli eventi che hanno portato a questa situazione, le cose sono andate così:

1) un giorno di molti anni fa la mosca si è semplicemente poggiata sopra la voglia a forma di isola di zio Gino, che in quel momento dormiva perché altrimenti non si spiegherebbe come mai non l’abbia scacciata.

2) la mosca è rimasta immobile sulla voglia a forma di isola per un tempo abbastanza lungo che automaticamente la stessa voglia ha finito per inglobarla. Un po’ come è successo quella volta che mi sono sbucciato il ginocchio cadendo dalla bici e il giorno dopo c’era una crosta del tutto simile alla voglia dello zio che aveva ricoperto la ferita.

3) sono anni che la mosca è sepolta sotto quella voglia dalla forma incredibilmente simile a un’isola. E questa volta sono qui per liberarla.

Mi sono dimenticato di dire che siamo a casa del nonno.

Adesso lui è di là che fuma una delle sue sigarette Stop. Di sottofondo, a volume molto basso ma perfettamente percettibile si sente la musica che esce dal giradischi Pioneer di sua proprietà. Un operetta che ho sentito mille volte, di cui però non conosco il nome.

 

Già la luna è in mezzo al mare,

mamma mia, si salterà.

L’ora è bella per danzare,

chi è in amor non mancherà.

Già la luna è in mezzo al mare,

mamma mia, si salterà…

 

La camera è quella di zio Gino, illuminata da una lampada poggiata sul pavimento. Gli scuri della finestra sono tirati anche se sono le quattro del pomeriggio.

La voglia a zio Gino gli occupa gran parte della guancia destra, ma c’è una specie di rigonfiamento nerastro. Qualcosa sottopelle, proprio al centro della voglia.

È lì che è sepolta la mosca.

La voglia a forma di isola l’ha fagocitata, come la pianta carnivora dell’Amazzonia che la maestra Lea ci ha fatto vedere a scuola. Mi chiedo solo come mai nessuno l’abbia notata. Voglio dire, il nonno e la nonna. O forse anche loro l’hanno notata, in fondo vivono sotto lo stesso tetto da sempre, solo che non vogliono dirlo allo zio per non sembrare indiscreti. Oppure è lo stesso zio Gino a essere al corrente di avere una mosca impiantata nella guancia, ma è come se la cosa non lo interessasse.

La nonna dice che da quando è andato in pensione il nonno non fa altro che fumare le sue sigarette Stop e ascoltare quei vecchi dischi.

 

Presto in danza a tondo, a tondo,

donne mie venite qua,

un garzon bello e giocondo

a ciascuna toccherà,

 

Mentre cerco la posizione giusta per praticare l’incisione della voglia a forma di isola, a zio Gino dormiente viene una specie di sussulto e io istintivamente rimango pietrificato. Ma alla fine lo zio semplicemente si rigira sul cuscino e torna a russare fuori tempo.

 

finché in ciel brilla una stella

e la luna splenderà.

Il più bel con la più bella

tutta notte danzerà.

 

Poco fa ero a pranzo col nonno, la nonna e zio Gino che però non ha mangiato perché deve fare certe analisi e deve saltare i pasti. Che è anche il motivo per cui deve sempre riposare. In effetti ora che ci penso neanche il nonno ha mangiato, però a differenza della nonna non mi ha nemmeno rivolto la parola. L’unico momento in cui l’ha fatto è stato quando ha detto: – Mangia, -. Ha spento una sigaretta Stop nel posacenere e subito dopo ne ha accesa un’altra.

A un certo punto, la nonna si è alzata per prendermi una banana. Ma a me la banana non mi è mai piaciuta, così anziché mangiarla ho cominciato automaticamente a giocare con la buccia. È stato allora che il nonno ha detto – Mangia, -. Prima che lo dicesse, però, io avevo già fatto scivolare il coltello nell’incavo del polsino della polo a righe.

Adesso che zio Gino si è risistemato sul letto la grande voglia che gli copre la guancia mi sta proprio davanti e posso finalmente liberare la mosca. La musica di sottofondo del nonno prende una piega più colorata.

 

Salta, salta, gira, gira,

ogni coppia a cerchio va,

già s’avanza, si ritira

e all’assalto tornerà

Già s’avanza, si ritira

e all’assalto tornerà!

 

La nonna dice che da quando è andato in pensione il nonno è diventato una specie di melomane, una parola strana che vuol dire che non può fare a meno di ascoltare i suoi vecchi dischi. Dice che in parte è anche un po’ colpa di zio Gino e dei suoi strani comportamenti. Ma io so che la colpa è solo della mosca. O meglio, che la colpa è:

  • della voglia a forma di isola sulla sua guancia.
  • della mosca che vi si è andata a depositare.

Ma quando provo a dirlo, ogni volta che provo a spiegargli che zio Gino non è malato ma ha solo una mosca sotto la pelle della voglia a forma di isola, che dunque una spiegazione c’è, ed è per giunta lì, sotto gli occhi di tutti, la nonna fa sempre la stessa cosa:

1) mi accarezza la testa guardando accuratamente altrove.

2) sorride distratta, mentre il nonno invece non mi ascolta proprio, e anzi solitamente in quel momento spegne un’altra sigaretta Stop nel posacenere di cristallo.

 

Serra, serra, colla bionda,

colla bruna va qua –

 

La musica si ferma all’improvviso. E io mi immobilizzo per la seconda volta. Un crepitio di passi strascinati. Lo scalpiccio delle pantofole contro il pavimento e la porta che si apre. L’odore delle sigarette Stop del nonno che si fa sempre più inteso.

E tu che ci fai qua?

Nascondo il coltello della nonna sotto il polsino della polo a righe senza farmi vedere. A quanto pare, anche questa volta non riuscirò a liberare la mosca.

Il nonno aspira una boccata, si sfiata un rutto in gola e mi prende in braccio. – Avanti, alzati.

Il nonno cerca di parlare sottovoce per non svegliare lo zio, – Usciamo-.

Uh… Che succede?

Zio Gino si tira su con la schiena.

Ma quanto ho dormito?– sbadiglia, si strofina gli occhi, alla fine si accorge anche di me – E tu che ci fai, qua?-.

Il bambino è venuto che voleva giocare, ora usciamo.

Volevi giocare, eh? – e comincia a farmi il solletico sotto le ascelle – volevi giocare, eh? -. Ma per fortuna si ferma subito. Zio Gino stringe gli occhi e si tocca la fronte con un’espressione di dolore come se sentisse un sibilo fortissimo nei canali delle orecchie.

Adesso vai a giocare insieme col nonno.

Il nonno mi prende la mano. Dopo il fallimento della missione sabato scorso, l’ennesima buca nell’acqua. Perché questa è una cosa che posso fare solo di sabato, il giorno della settimana in cui resto a mangiare a casa del nonno e della nonna. Ma sono convito che un giorno ci riuscirò. Un sabato o l’altro. Sì, dev’essere così. Non so perché ma questa consapevolezza me la sento dentro. Arriverà un sabato che riuscirò ad aprire quella maledetta voglia a forma di isola e liberare finalmente la mosca. E lo zio, e il nonno e la nonna e, indirettamente, anche me stesso. Magari quando cresco, l’anno prossimo magari, quando avrò dieci anni ci riuscirò di sicuro. A dieci anni sei grande abbastanza per prenderti la responsabilità delle tue azioni. Mi procurerò un coltello migliore e il momento giusto arriverà. Ne sono sicuro. Ma adesso, basta. Stringo forte la mano odorosa di sigarette Stop del nonno. L’unghia dell’indice e parte della falange del dito medio sono colorate di colore caramello. Lo guardo. Andiamocene, nonno, e chiudiamoci questa storia alle spalle.

La prossima volta andrà meglio. Il prossimo sabato.

Il nonno mi guarda, sorride, poi guarda lo zio. Anche lui sorride. Il nonno si gira, intravedo la testolina della nonna fare capolino sullo stipite della porta della camera di zio Gino. – Dai un bacio allo zio e andiamo, – dice il nonno.

Cosa?

Avanti, un bacetto allo zio.

Mi autoconvinco che non può essere. Spingo la testa contro le gambe del nonno. Ti prego, non farmi questo. Questo, no.

Avanti.

Zio Gino si sporge in qua con il viso butterato dall’abuso di antibiotici, continuando a indicare la voglia a forma di isola: – Dammelo qua, proprio qua-. Chiudo gli occhi.

Li riapro e vedo il nonno che sorride e fa un cenno di approvazione con la testa da una distanza che mi sembra lontanissima.

Allora mi ricordo di quello che ha detto la maestra Lea sulle cose difficili che non capisco e faccio una lista.

Una lista per fare chiarezza.

Avanti, un bacio allo zio Gino.        

1)

1)

Non sarai mica già un ometto?

1)

Non riesco a fare nessuna lista.

Zio Gino alza e abbassa le sopracciglia ritmicamente mentre il dito indice della sua mano destra continua a indicare la voglia a forma di isola. La testolina della nonna non si stacca dallo stipite della porta. Il giradischi Pioneer. Il nonno fa un movimento al rallentatore e spegne la sigaretta Stop contro il tacco della scarpa.

– Proprio qui. Sulla guancia.

Fosca Massucco,Per distratta sottrazione

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copMASUCCO

di  Clizia E. Guerrini

Il secondo libro di Fosca Massucco, dopo L’occhio e il mirino del 2013, si presenta con una grande apertura verso il territorio abitato dall’autrice: il Monferrato di Beppe Fenoglio, da sempre letto e riletto con incondizionato trasporto. Le impostazioni metriche da lei usate hanno l’andamento lirico di certe pagine di Una questione privata, quando nell’uno e nell’altro caso la poesia si spalanca alla luce perfetta di quelle colline. Ci sono segni del territorio natìo e precisioni scientifiche che fanno pensare a folte letture zanzottiane, anche se non sono particolarmente d’accordo con Elio Grasso, in sede di prefazione, quando avverte che l’opera del poeta di Pieve di Soligo potrebbe condurre Massucco a prove future ancora più profonde e salde. A me pare che possano essere differenti, e altrettanto importanti, i percorsi da affrontare e fare propri. Senza escludere, come suggerimento non casuale, il Sereni del Posto di vacanza. Non fosse altro che per le avvedute attenzioni verso la realtà, dei luoghi e dell’anima, e per le robuste abilità prosodiche. Le tre poesie, successive al libro, e recentemente pubblicate nel terzo Almanacco della poesia edito da Raffaelli sembrano confermare, nella loro tempestiva luminosità, questo mio pensiero. Forte delle sue competenze tecniche e scientifiche (l’autrice ha una laurea in Fisica e lavora come Tecnico del suono) i temi della raccolta vengono sviluppati secondo linee di conoscenza religiosa, uno spartiacque tra la visione per così dire esteriore del paesaggio e quella interiore dell’anima. La scansione delle sezioni rivela chiaramente come a Massucco interessi prima di tutto lo studio dei particolari nei testi sacri, e il metodo più conveniente a trasportare nella propria visione quotidiana il ricco fiume ideologico e devozionale. Immergendoci nelle pagine di Per distratta sottrazione si avverte una responsabile e autonoma volontà di ricerca, ogni premessa viene portata a compimento sia sotto forma di luce diretta sulle personali visioni sia sulle corrispondenze trovate nei prediletti autori. Questi non vengono mai citati, ma la sintonia del libro vale per la raffinata annessione che si avverte e di cui, mi sembra, si possa godere. Da un capo all’altro dell’opera, sorvolando la fin troppo estesa Prefazione, annidamenti e svelamenti conducono alla nobilitazione di quanto oggi cerchiamo nel vasto e controverso mondo della nuova poesia.

Bisogna avere grande prudenza,
è tutto un universo di avvisi.

       “Lavori in corso” – “Caduta pietre da sinistra”

Prestare attenzione ai messaggi
ritardi annullamenti partenze
non attraversare i binari, non mangiare
con le mani, nessuna mano
nelle mutande, i congiuntivi.

        Nessuna leggerezza, pericolo!

Si potrebbe perdere un’acca o l’ombrello,
un ricordo doloroso, la testa per un critico,
la garanzia che per un paio d’anni
qualcuno aggiusti gratis tutti i cocci
sostituisca i fusibili, speli i fili e le vene.

       Cautela,
       un dosso (o una cunetta)

la doppia croce di Sant’Andrea avverte:
passaggio a livello, reazione chimica
in colonna a sinistra
due concentrazioni di liquidi al centro
e in mezzo quella da raggiungere.
Concentrazione, sforzo sublime!
Ma ci vorrebbe pace, e quel fruscio
invariante delle foglie d’aprile.

     “Animali selvatici vaganti”

li intravedo nei cespugli di erba sparta,
nascosti dagli steli fino a notte.
Poi stelle – e buona condotta.

      (pericolo, onde elastiche!)

Meglio, ottima conduzione
che rende tenero il mio focolare –
su cui appendo stelle di porporina
con la perfezione del buio.

Fosca Massucco, Per distratta sottrazione, Raffaelli Editore, Rimini 2015, pp. 64, € 12,00

Messico invisibile

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Pubblichiamo il prologo al libro di Fabrizio Lorusso, Messico Invisibile, voci e pensieri dall’ombelico della luna, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2016

di Alessandra Riccio

Il Messico è un grande paese dell’America del Nord che, secondo un detto popolare, è troppo lontano da Dio e troppo vicino agli Stati Uniti. Come spesso succede, la saggezza popolare scaturisce da profonde verità: il lunghissimo confine che separa il Messico dagli USA –la frontera– è stato sempre un luogo di conflitto, di guerre lunghe e sanguinose che hanno spostato il limite sempre più a sud con la perdita di circa un terzo dei territori della ex colonia spagnola a favore della giovane, aggressiva e indipendente Confederazione di Stati del Nord. California, Texas, Arizona, Colorado, Nuovo Messico, come indicano i loro nomi, erano gioielli del Vicereame della Nueva España prima che, nelle alterne, drammatiche e discontinue vicende dell’indipendenza messicana, andassero ad aumentare il numero delle stelle nel vessillo della Confederazione.

Un evento segna significativamente l’entrata del Messico nel XX secolo. Nel 1910 esplode una rivoluzione popolare e contadina le cui vicende sono ormai diventate leggenda come lo sono le due figure più emblematiche di quegli anni, di quelle rivendicazioni e di quegli esiti drammatici: Pancho Villa ed Emiliano Zapata.

Da quegli eventi maieutici scaturisce, nella prima metà del novecento, un rinascimento artistico straordinario, una rivoluzione sociale importante, un protagonismo statale capace di grandi gesti come l’accoglienza agli esiliati della Guerra di Spagna o dell’esule Trotsky, l’affermazione di uno stato laico quando non addirittura anticlericale, il riconoscimento e il supporto alle lingue, alle culture e alle attività artigianali delle popolazioni originarie, un’alfabetizzazione diffusa e popolare. Il francese Jean-Marie G. Le Clézio, premio Nobel per la letteratura, descrive così quella Città del Messico: “Una città in cui si agitano la creazione, l’invenzione, la novità. Indubbiamente, nessun’altra città fu mai così rivoluzionaria, faro per i popoli oppressi d’America. Un luogo così importante, durante il decennio 1920-1930, così fertile per l’arte e per le idee come lo furono Londra ai tempi di Dikens o Parigi durante la belle époque di Montparnasse.” (Jean.Marie G. Le Clézio, Diego e Frida, Il Saggiatore, 1997, p. 16)

Prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, il Messico è stato terreno di generosa solidarietà, ospitale, pieno di creatività, eccessivo a tratti, ma portatore di una cultura non solo identitaria ma anche densa di novità, suggerimenti, integrazioni, contributi originali alla cultura universale. Ricordare i nomi dei grandi pittori del muralismo, dei fotografi pronti a rivelare nuovi mondi, l’ardimento di donne straordinarie, è doveroso. Frida Kahlo e Diego Rivera, Tina Modotti e Julio Antonio Mella, Rosario Castellanos, José Guadalupe Posada, il brillante ministro Vasconcelos, il vero animatore e protettore di quest’epoca d’oro, il Presidente Lázaro Cárdenas, poi anche ministro, a cui si deve la riforma agraria e la nazionalizzazione del petrolio e delle ferrovie, e tanti altri ancora che hanno configurato un mondo politico culturale nel pieno della corrente mondiale ma con punte di avanguardia e originalità che lo hanno reso unico.

Fra le caratteristiche di quel mondo vi è stato –e continua ad esserci- un impegno politico dichiarato ed esercitato anche a costo di prezzi da pagare molto alti mentre il paese si trasformava inesorabilmente in un narcostato, nella terra dell’impunità, della mafiosità diffusa, del militarismo e del femminicidio, delle atroci sparizioni come l’ultima e la più terribile, quella dei 43 desaparecidos di Ayotzinapa. Maestri e giornalisti, scrittori e musicisti, pittori e poeti, hanno fatto e fanno sentire la loro voce contro un degrado che sembra inarrestabile e contro gli abusi del potere sia locale che statale che federale. L’ultima, dignitosissima voce che ha denunciato il deplorevole stato del paese, è quella di Fernando del Paso. Il grande scrittore, nel ricevere l’importante Premio Cervantes nell’Università di Alcalà de Henares, davanti ai Re di Spagna, non ha voluto lasciar passare l’occasione senza far sentire la sua autorevole voce di accusa per il pericolo che corre la democrazia messicana a causa dalla Legge Atenco, recentemente varata: “A marzo dell’anno scorso, quando ho avuto l’onore di ricevere nella città messicana di Mérida il Premio José Emilio Pacheco, ho fatto un discorso che ha causato un certo scalpore. So bene che quelle parole hanno risvegliato una grande aspettativa riguardo alle parole che pronuncerò oggi in Spagna: da allora, le cose in Messico sono cambiate in peggio, continuano le rapine, le estorsioni, i sequestri, le sparizioni, i femminicidi, la discriminazione, gli abusi di potere, la corruzione, l’impunità e il cinismo. Criticare il mio paese in un paese straniero mi fa vergognare. Bene, inghiotto questa vergogna e approfitto di questa platea internazionale per denunciare ai quattro venti l’approvazione nello Stato del Messico della Legge Atenco, una legge oppressiva che consente alla polizia di arrestare e perfino di sparare nelle manifestazioni e riunioni pubbliche contro chi, a suo giudizio, attenti contro la sicurezza, l’ordine pubblico, l’integrità, la vita e i beni sia pubblici che privati. Sottolineo: è a criterio dell’autorità, non necessariamente presente, che questa misura estrema viene permessa. Ciò prefigura il principio di uno stato totalitario che non possiamo consentire. Se non lo denunciassi, allora sì, proverei davvero vergogna.” (23.4.2006)

Le nobili parole di Del Paso sono armi spuntate contro una situazione che viene descritta da questo libro di Fabrizio Lorusso in numerosi frammenti della realtà messicana che servono a comporre il terrificante mosaico di quel paese, ridotto oggi a pura violenza e illegalità. Eppure, nel panorama degli straordinari cambiamenti dell’America Latina in questo Terzo Millennio, cambiamenti purtroppo attualmente messi di nuovo a rischio, il Messico continua a mantenere il suo prestigio in quanto “buon vicino” degli Stati Uniti, obbediente al Washington Consensus, fedele alleato in una fallimentare lotta al traffico di droghe, una battaglia che è certamente all’origine dell’attuale degrado del paese. Anche l’Italia mantiene ottime relazioni, e lo conferma il recente viaggio del Primo Ministro Renzi, di cui si parla in questo libro dove, oltre ai rapporti di politica estera fra i nostri due paesi, si dà conto di altre, diverse relazioni, come quelle intrattenute da Libera e da don Ciotti su corruzione e mafie, l’interesse di Roberto Saviano per questo e per altri paesi latinoamericani i cui rapporti con la delinquenza organizzata italiana sono fin troppo evidenti, l’opinione dello scrittore Pino Cacucci, conquistato dal Messico e dalle sue contraddizioni, o le visite di due Papi in un paese ufficialmente anticlericale. Della visita di Bergoglio, Lorusso sottolinea il silenzio sul degrado istituzionale e morale, sull’illegalità eclatante e sulle violazioni dei diritti umani. Papa Francesco ha anche officiato una messa in Chiapas –una periferia delle periferie- che dà conto della resistenza culturale di quelle popolazioni originarie le cui credenze religiose sono molte e differenti e riporta all’attenzione una regione dove una resistenza silenziosa e attiva ha consentito l’esperimento insolito e notevole delle cinque comunità o caracoles –cinque come le dita della mano- impegnate a realizzare forme di autogoverno in un territorio ostile, la Sierra Lacandona, assediata dall’esercito federale fin da quando, il 1° gennaio 1994, l’Esercito Zapatista di liberazione Nazionale, la prima guerriglia postmoderna, ha conquistato con le armi la città di San Cristóbal de las Casas.

Negli ultimi anni, di pari passo con il declino del paese, il culto più particolare sembra essere quello della Santa Muerte, una forma estrema di familiarità con la morte non nuova in Messico, ma adesso pericolosamente sprofondata nella superstizione e nel criptico linguaggio espressivo della delinquenza, praticata prevalentemente nelle città. D’altra parte, la mitologia contemporanea eleva agli altari delinquenti come El Chapo Guzmán, capo indiscusso del narcotraffico, o il suo contrario, il dottor Mireles, un medico esasperato dai ricatti e dalle violenze imposte dal gruppo criminale Caballeros Templarios, che ha guidato le sue pattuglie di autodifesa in vere e proprie operazioni di guerra nello stato del Michoacán.

Su questo caotico panorama di un grande paese sprofondato in una crisi grave e ormai cronica ha speso qualche amara parola, nel contesto di un discorso politico sul discutibile impeachment di Dilma Rousseff, Presidenta del Brasile, Cuauhtémoc Cárdenas, uomo politico e figlio dell’amatissimo Presidente Lázaro Cárdenas:

“Conviene pure gettare uno sguardo al nostro paese, il Messico. Qui il golpe è stato morbido: il neoliberismo ha imposto al nostro paese il modello che soddisfa l’egemonia, gli interessi finanziari e politici che comandano negli Stati Uniti. Si è appropriato dei nostri mercati interni, distruggendo capacità produttive della campagna, smantellando settori industriali e impedendo la creazione di catene produttive, eliminando istituzioni, annullando principi costituzionali basilari per l’esercizio della sovranità nazionale e aprendo ad interessi alieni le aree e le risorse strategiche dello sviluppo economico. D’altra parte, il golpe che è stato realizzato gradualmente in Messico è stato duro: ha provocato un impoverimento crescente della popolazione, un’esorbitante concentrazione della ricchezza, un continuo flusso migratorio che disprezza il valore del lavoro al nord, mentre qui produce una crescita della disoccupazione e del lavoro informale, della violenza e della delinquenza senza controllo, con un alto costo di vite, insieme a corruzione e impunità.”

Questo grande paese ha dentro di sé il veleno e l’antidoto e la battaglia è, inevitabilmente, all’ultimo sangue.

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