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Hebron e altri inediti, di Elisa Alicudi

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Hebron

Come si astraggono le voci, si disperdono
insieme ai rumori della città,
i motori come scompaiono quando la casa è un rifugio
e conforta la calura che s’incunea nelle crepe del cemento:

ma le piazze sono buie, quando cade il coprifuoco,
e solo il fischio si sente e sono fissi i recinti
che di giorno assediano i colpi del pallone, o le reti
che frenano la pioggia dei rifiuti
mentre scivola il piscio per le maglie o tra la frutta

e le torrette sorvegliano tribù di anonimato –
spazi vuoti di sepolcri e di prodigi.
Come è alto il muro ogni giorno più alto.

 

 

Con l’ossigeno nella pancia
poi rimargina
ossida
che l’ossigeno
vibra nell’ancia
delle ossa
con l’ossigeno che manca
non si vive,
polmoni all’azoto
e di vuoto
si respira fino a morire

 

 

Che il magma di parole sprigioni un volto
non vuol dire sia l’aspetto a tenere fede al mondo,
che quel magma di parole imprigioni nel volto il mondo,
non c’è dubbio lo princìpi
come il volto che lo affiora e lo scompare
nel cammino e se rimane, non ha nulla
di morale, se rimane

 

 

Quanta strada padana si allunga come un elastico da cranio a cranio
(finché dura senza sale lasciamo che galleggi), ma a tirare di forza
la strada rimbalza e batte sulle scapole, tra le righe, nella pancia
(troppo sale fa male, poco sale fa saliva e ripostigli
che nascondono spazi profondi e a volte scadono).

Quanto strano e scuro è il profilo della notte, così vuoto di lancette,
viene voglia di stare nudi, di smuovere stelle,
a negare consiglio come col desiderio.

 

 

Gli esploratori

Riproduci il buio in ogni soffitto,
rimandi le cose, le stesse che pescano alcuni
a rovescio. Lo spazio dell’oggi
non lo riconosci, è intonaco bianco
ma è il tuo orizzonte
l’unica orbita ad averti, forse, quando sei in relazione,
Eros ti porta, l’accesso a occhi chiusi,
vaghi nell’oltre, che ti scagiona.

Riproduci il vuoto in ogni galassia,
ma non basta una zona abitabile
a dare la vita, serve spazio per domani
serve liberare le cose rimandate
senza chiedere spiegazioni, avere ragione,
gli errori sono la fortuna degli esploratori.

 

 

Mentre cammini in strada verso casa
e sembra una via qualunque di Pechino,
non ti sorprende che il livello delle polveri
sia lo stesso. Pensi globalmente
all’aria che respira il tuo vicino, pensi
a come caricare la muraglia in ascensore,
poi sul balcone.

Le agenzie di viaggio non offrono soggiorni
con topi o epidemie. Sali le scale,
non c’è febbre, né malaria,
ma continui a pensare la terra globalmente,
a calpestarla accumulando vita
in scala rimpicciolita
e non c’è quasi niente che sia diverso
dall’odore di vernice.

Non ci sono viaggi sul Nautilus,
tigri che non hai visto, lingue, lombi,
Lolite che non hai inseguito
almeno una volta in foto,
perché in compenso sono
tutti fotografi improvvisati
e ci sei tu, che pensi la terra velocemente
come un’unica biglia arcobaleno,
che più gira più diventa grigia.

La narrativa italiana riesumata in digitale: la collana “Reloaded” di Laurana

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intervista a Marco Drago di Mariarosa Rosi

A proposito della narrativa italiana degli anni 90, si può parlare di una controcultura simile a quella che ha generato la beat generation degli anni 60? Lei ne ha qualche volta fatto cenno.

Direi proprio di sì.  Non so se proprio come al tempo dei beat, però è vero che tanti scrittori nati tra il 1960 e il 1970 si sono trovati spesso a fare cose insieme, fossero queste delle antologie o degli incontri pubblici. Esistevano tante riviste e ognuna  tendeva a creare per sé un gruppo omogeneo e regolare di autori. Ed eravamo tutti, chi più chi meno, dei postmoderni inconsapevoli. Aldo Nove e Tiziano Scarpa facevano eccezione perché erano i più consci del valore dirompente di quello che stavano facendo. Molti altri erano semplicemente lì per via dello spirito dei tempi, ma erano quasi tutti scrittori molto bravi e innovativi. Ovviamente avevamo intorno un’editoria molto diversa da quella attuale.

In che senso diversa?

 Allora avevamo a che fare con dei vecchi che si comportavano da vecchi. Era gente che aveva vissuto tutto il ‘900. Si sapeva con chi si aveva a che fare. Adesso i più postmoderni sono proprio i dirigenti delle case editrici che hanno abbondantemente superato gli autori in termini di ribaltamento dei vecchi e cari luoghi comuni sull’editoria nazionale. Una volta andavi a parlare con un direttore o direttrice editoriale e ti trovavi di fronte a una persona che trasmetteva un senso di sicurezza e autorevolezza che ti faceva ben sperare. Adesso succede che un direttore editoriale si faccia vedere quasi in lacrime mentre prega di indovinare un best-seller di finta letteratura qualsiasi. Non hanno più vergogna a mostrare il loro terrore per la perdita del posto di lavoro e gli autori si sentono quasi in colpa perché continuano a scrivere dei romanzi che non vendono niente.

Racconto, testo breve, diario. Sono questi i generi più ricaricati da Laurana. Perché questa scelta?

Il mio gusto personale è molto ben rappresentato dalla collana che dirigo. Un occhio a qualche nome di maggior presa lo butto sempre, stiamo trattando i diritti di autori abbastanza importanti e con una sicura base di pubblico, ma al 90% la mia attenzione è dedicata a testi che mi avevano colpito quando erano usciti e che ora sono di scarsa reperibilità. Non sono un gran lettore di romanzi puri. La fantasia, in narrativa, mi stufa, infatti non sono un lettore di fantasy e nemmeno di fantascienza e nemmeno di gialli. La trama ben congegnata mi mette tristezza. Mi interessano sempre di più altre forme di scrittura.

Quali in particolare?

 Mi piacciono gli scrittori che ti fanno sentire la fatica della scrittura. Diffido dei narratori che applicano alla lettera la lezione calviniana sulla leggerezza. La facilità di affabulazione, l’eccessiva scorrevolezza di un testo, l’orecchiabilità, sono caratteristiche che mi mettono in guardia. Il più delle volte, quella facilità nasconde il vuoto e non te ne accorgi fino a che non hai finito e metabolizzato il testo. Le mie scelte per Reloaded premiano libri poco inquadrabili: libri che hanno a che fare con la sperimentazione – Dario Voltolini, Flavio Santi, Matteo Galiazzo -,  libri di racconti anche brevissimi – sempre Voltolini ma anche Giulio Mozzi, Luca Ragagnin e Roberto Alajmo,-  romanzi comico/grotteschi – Fulvio Abbate, Ernesto Aloia, Galiazzo, Walter Fontana, Piersandro Pallavicini -. Pochi romanzi-romanzi – Nicoletta Vallorani, Paolo Grugni, Massimiliano Griner -.

 Tra le vostre riproposte figura Cargo di Matteo Galiazzo. Quando, nel 99, uscì nei Coralli Einaudi, Maria Corti su Repubblica parlò di un giovane scrittore ricco di intelligenza, cultura e stile. Ma di certo non è un testo facile.  Come si muove ora nel catalogo reloaded?

Cargo è il titolo più scaricato di tutta la collana! Certo, è un testo molto particolare. Facile che molti non l’abbiano mai sentito nominare. Però quando qualcuno lo legge, poi non lo dimentica più. Troppo fuori di testa, per passare inosservato. È un romanzo che si scrive mentre lo si legge, è un manuale di istruzioni, un trattato di economia e di filosofia, un inesauribile cazzeggio che riflette su se stesso. Impossibile fare meglio, per un autore di appena 28 anni.

 Tutti gli autori della collana hanno avuto buone critiche alla prima edizione. Questo non ha impedito al loro libro di uscire dal mercato. E il destino dei titoli di nicchia o pensa che questa seconda vita sul web possa premiarli?

Credo che sia nella natura dei numeri. Non riesco a immaginarmi che possa andare altrimenti.  Il mercato butta fuori di tutto, solo qualcuno sopravvive.  Ma adesso il digitale può davvero rimescolare le carte in modo intelligente. Innovativo e intelligente.

E come, secondo lei?

 L’importante è separare le strade dei libri cartacei e quella dei libri digitali. Un po’ l’ha capito Feltrinelli con la collana Zoom, che pubblica testi troppo corti o troppo strani per uscire su carta ed escono soltanto in ebook. Ora è il momento di pensare appunto a quali testi fare uscire solo in ebook. Spero che non prevalga la logica dell’ebook come serie B della carta e che quindi vengano parcheggiati nel settore elettronico tutti quegli autori con un pubblico non numerosissimo. Quella la vedrei come una mossa miope e poco inventiva. Si può fare di meglio.

 Ha in mente una strategia precisa?

Innanzitutto ricreare i cataloghi in digitale. Assurdo che non si trovi nemmeno un titolo di Milan Kundera o di Guenther Grass in  ebook, in Italia, oggi. Il catalogo di titoli prestigiosi,  che tutti i grandi editori hanno, va sfruttato in senso digitale e  poi via via così per il resto dei titoli,  ad esempio proponendo tutti i romanzi usciti negli ultimi 20-25 anni,  o altro ancora. Qualcuno sta cominciando, altri non ci pensano nemmeno. Fare un ebook costa pochissimo, distribuirlo costa pochissimo. Strano che gli editori non si siano già buttati a pesce sull’occasione. Poi si possono fare affari con i testi scolastici o universitari, le dispense, insomma ci sono decine di applicazioni del digitale che aspettano solo qualcuno che le metta in pratica.

 Dalla carta allebook, ma anche il contrario. No?

Il mercato ci ha già pensato con una stampante speciale in grado di creare in pochi minuti un volume rilegato e dotato di copertina partendo dal file dell’ebook. Si può scegliere da un catalogo internazionale di 7 milioni di titoli fuori diritti, o stampare il proprio libro, se si vuole. In Italia, la prima di queste macchine è già installata presso il Mondadori Megastore di Piazza Duomo a Milano.

 Avete difficoltà a riacquisire i diritti dautore? Dovete fare tante rinunce?

 Nessuna difficoltà, tutto dipende da quello che vogliono fare gli autori. Se c’è la loro volontà, nessuno e niente ci può fermare. I diritti sulla versione elettronica di un testo non sono quasi mai presenti nei contratti originari dei libri che abbiamo in collana. Ma anche se fossero citati, qualora l’editore si dimostrasse inadempiente in quanto non ha mai realizzato l’ebook dell’opera, l’autore ridiventa automaticamente il padrone del suo testo e può farne quello che vuole.

 Qual è il valore aggiunto di Laurana Reloaded rispetto alle altre collane di ebook sul mercato?

Ridiamo la vita a titoli morti. Li andiamo a prendere dai cataloghi di tutti gli editori italiani. Quindi: reperibilità e varietà.

 Quale, a distanza di due anni, il bilancio della collana?

Niente di spettacolare, non è stato un miracolo, un boom. Ma non ha nemmeno portato gravi dissesti finanziari all’editore, forse anzi gli ha dato una cosa in più da dire quando parla della sua azienda. Il segreto è non mollare, non scoraggiarsi. Prima o poi tutti questi ebook daranno i loro frutti.

Prossimi titoli in programma?

Rimetteremo in circolazione un titolo poco noto di Gaetano Cappelli,I due fratelli, uscito per la De Agostini nel 1993 e diretto all’epoca ai ragazzi delle scuole. E poi, più avanti, Visto che siete cani di Walter Fontana, romanzo comico su una compagnia di attori teatrali che per sopravvivere in tempi di crisi del teatro si trasforma in una gang di ladri; Nonno Rosenstein nega tutto di Marco Bosonetto, una storia sarcastica in cui un ebreo scampato ai lager diventa negazionista per non soccombere al dolore dei ricordi. E ancora tanti altri: da Sorelle e Nemiche della noirista Barbara Garlaschelli a La resistenza del nuotatore di Sebastiano Nata, fino al recupero di Plays, una magnifica raccolta di racconti uscita per un editore locale piemontese una decina d’anni fa. L’autore è semi-sconosciuto: il musicista e traduttore Gianrico Bezzato, prematuramente scomparso nel 2012.

 

NdR: questa intervista è apparsa su PEN, trimestrale del Pen Club Italia, n.34, gennaio-marzo 2016; e qui di seguito il cappello introduttivo di Mariarosa Rosi:

“Sono quasi 900 mila i titoli messi fuori commercio negli ultimi vent’anni. Una piccola parte sarà ristampata, in edizioni tascabili o non, ma la gran parte sarà avvolta nell’oblio, sia perché senza merito o perché non più attuale, sia perché, distratti come siamo, lasciamo ai posteri il merito di scoprire il valore di ciò che noi non siamo stati capaci di riconoscere”. Così Giuliano Vigini, massimo esperto di editoria e docente di Comunicazione alla Cattolica, su La Lettura (Corriere della sera, 15 agosto 2015).  In realtà una piccola ma vivacissima casa editrice milanese, “Laurana Editore”, fondata da Lillo Garlisi , Giulio Mozzi e Gabriele Dadati, la sfida dell’oblio l’ha già raccolta e un paio d’anni fa ha dato vita alla  collana  “ Reloaded” (“ricaricati”) che ripropone, esclusivamente in ebook,  opere già edite di narrativa italiana dagli anni ’90 ai 2000. E’ un’opportunità resa possibile dai bassi costi del digitale ma anche dalla politica editoriale di questi ultimi anni che ha saturato il mercato con troppi titoli condannandoli a una vita media brevissima . Chi non ricorda i banconi delle librerie traboccanti di novità e di bestseller pigliatutto? Tra questi titoli Laurana fa una nuova scelta coerente con la sua espressa vocazione di “pubblicare libri utili” e cioè “di utilizzare la narrativa per far luce sulla realtà”. Perché il merito della collana non è tanto e solo il recupero dei titoli (già Amazon o altri lo fanno, con successo, per i libri introvabili) ma l’organicità della proposta editoriale che speriamo possa darci della narrativa italiana degli ultimi tempi un’idea più precisa di quella emersa dalle comparsate televisive, dal frastuono di certi festival o di altri non meglio identificati “eventi”.  A oggi, i titoli recuperati sono una ventina tutti di autori già noti e conosciuti dalla critica e pubblicati in prima edizione da editori consolidati o comunque affermati (Einaudi, Rizzoli, Feltrinelli, il Saggiatore, Minimum fax). Ma un aggiornamento su questa collana pioniera che potrebbe aprire altre prospettive interessanti sull’utilizzo futuro del digitale, ci rivolgiamo direttamente a Marco Drago, direttore  della collana. Laureato in letteratura americana alla facoltà di lingue dell’Università di Genova , scrittore (Lamico dei pazzi, Cronache da chissà dove, La prigione grande come un paese), conduttore radiofonico (Raitre, Radiotelevisione Svizzera) giornalista,  è stato anche  fondatore della rivista Maltese Narrazioni,  attiva dal ’89 al 2006 , che si è molto occupata della generazione degli “scrittori cannibali” di metà degli anni ’90. Quelli, per intenderci, che nell’antologia einaudiana a loro dedicata (Gioventù cannibale, a cura di Daniele Brolli, 1996 ) venivano definiti “una covata di narratori italiani giovani e giovanissimi,  che getta scompiglio nei vicoli della cittadella letteraria, negli schermi video  e nei talk  shows, tra le anime morte del perbenismo”.

Tutti i ragni 4 – Ragni immaginari

4

di Vanni Santoni

4Al liceo mi viene facile ottenere risultati scolastici dignitosi col minimo impegno, il che mi lascia sconfinate teorie di pomeriggi da dedicare al mio pc e dunque a Monkey Island I & II, Leisure Suit Larry I, II, III & IV, Ultima V, VI & VII, Populous, Civilization, Syndicate, Doom, Sim City, Sim Life, Sim Ant.

Sono ormai indubitabilmente, e considero me stesso, una persona che patisce di aracnofobia. Tuttavia, essendosi fatte più rare le occasioni di passare una giornata fuori e avendo sviluppato un totale dominio della tecnica della pisciata a occhi chiusi per quanto riguarda le serate di gioco di ruolo, si sono fatte rare anche le occasioni di incontro con i ragni, almeno con quelli reali.

Nel mondo dei videogiochi i ragni non hanno una posizione prominente: visti aspetto e caratteristiche, non possono che essere relegati al ruolo di antagonisti e la loro frequenza è media, sebbene a volte possano essere memorabili.

Nella serie Ultima, i ragni giganti compaiono come nemico solo nel quinto episodio, e sono di quelli che anche il giocatore meno abile è facilmente in grado di sgominare. Nelle campagne fuori da Trinsic ne schiaccio dozzine; il loro aspetto – in Ultima V i mostri sono poco più che icone – non è del resto in grado di intimorirmi.

In King of Dragons, la faccenda si fa più complessa. King of Dragons non è un gioco che ho sul computer: non soddisfatto di passare davanti a uno schermo le mie cinque o sei ore al giorno, ogni pomeriggio prendo la bici e vado a un bar vicino casa, che ospita Street Fighter II, Vendetta e lo stesso King of Dragons. Lì i ragni sono parte del mostro finale del settimo livello, una grande quercia dai cui rami calano, appesi ai loro fili, dei ragni tozzi e aggressivi, delle dimensioni di un barile. Il punto è evitarli quando piombano giù per afferrarti, e anzi picchiarli al volo in quel breve lasso di tempo. In ogni dato momento, fuori dall’albero non ci sono più di un paio di ragni, ma quando finalmente si sferra l’ultimo colpo, quelli muoiono tutti insieme e dalla chioma si scatena una pioggia di carogne: vengono giù con le zampette rattrappite e rimbalzano al suolo con un realismo che dà i brividi.

C’è poi Doom, dove non ci sono ragni ma soldataglia mutante e demoni, almeno fino all’ultimo schema. Lì allora, dopo qualche secondo di silenzio, ci si trova di fronte un colossale ragno cyborg, dotato di due mitragliatrici tipo M-60. Non riesco mai a vincerlo, e anzi il suo aspetto, i suoni che emette, la difficoltà nell’ideare tattiche per combatterlo, la velocità con cui profitta di ogni mio momento di dubbio, mi cagionano una sensazione che solo molti anni dopo, fattane più reale e continuativa esperienza, avrei potuto identificare come stress.

Anche in Sim Ant il ragno costituisce l’antagonista principale. A differenza di Sim City, dove le opzioni di gioco erano numerose, e Sim Life, dove erano così numerose da includere un menu dedicato agli eucarioti, tutto quello che c’è da fare in Sim Ant è andare in giro per un giardino a raccogliere semi e briciole di pane – che deve fare, del resto, una formica? – stando attenti a evitare gli insetti predatori e soprattutto il gran nemico, un ragno errante che effettua implacabili ronde sull’erba.

Quando arriva Baldur’s Gate ho perso un po’ di interesse nei videogiochi: il liceo è finito e godo di una maggiore libertà, che mi porta a rivolgere la mia attenzione ad altre questioni. Il motivo per cui non arrivo a finirlo non ha tuttavia a che fare con i postumi di una o più sbronze, o con la necessità di dimostrare la mia virilità a una qualche ragazzotta rinunciando per sempre ai videogiochi, bensì al fatto che uno schema secondario sia infestato di ragni giganti. La grafica dei pc ha ormai quasi raggiunto quella dei coin-op, e quelle orde di ragni grandi come pony, che sopraggiungono in equilibrio su lunghe zampe, che mordono i personaggi, che muoiono con rivoltante rattrappimento, sono per me qualcosa di insormontabile, a meno di giocare a occhi chiusi, cosa che tento un paio di volte solo per vedere un glorioso gruppo di avventurieri destinato a salvare i Forgotten Realms finire invece ghermito da un mucchio di aracnidi.

In quegli anni scopro il cinema. In casa mia si noleggiano film da sempre, ma è a scuola, con un cineforum indetto dal professore di lettere di un’altra classe, che scatta davvero qualcosa. Lo sento che parla con la nostra prof durante l’intervallo, dice qualcosa sul “farli appasionare, mantenendo però un minimo standard di qualità”: fatto sta che il cineforum ha nel suo primo ciclo di programmazione Blade Runner, Excalibur e Arancia Meccanica. Se tale idea non sarà sufficiente a farci andare alla seconda programmazione, che avrebbe virato improvvisamente su Rohmer e Kieslowski, serve almeno a farci uscire di scuola ogni giovedì alle 15 invece che alle 13, in preda a uno stato di esaltazione.

Ecco, al cinema i ragni non contano proprio niente. È come se si fosse stabilito di tenerli il più possibile fuori dal circo dei sogni. A volte fanno una comparsata, come quando si appiccicano alla schiena del compare di Indiana Jones. A volte la funzione è solo simbolica, come in Spider di Cronenberg. La figura migliore la fanno forse in Alien, ma il facehugger è solo una derivazione, un figlio spurio: quella coda ne fa qualcosa di morfologicamente diverso. Stesso destino per gli aracnoidi di Starship Troopers e Shelob del Signore degli Anelli, il cui pungiglione sull’addome ne esclude l’appartenenza all’ordine. Né esistono film con qualcuno intrappolato in casa col ragno velenoso, e sì che con i serpenti ne esistono una mezza dozzina. Anche nel cinema horror, dove avrebbero potuto fare la loro onesta figura, si manifestano solo sporadicamente. L’unico tentativo è quello di Aracnofobia, pellicola mediocre che esce tra qualche attesa da parte degli adolescenti, e che evito accuratamente, rallegrandomi anzi che non esistano imperdibili capolavori la cui visione impone anche quella di cospicue inquadrature di aracnidi.

[IV – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Terzo capitolo

les nouveaux réalistes: Attilio del Giudice

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Immagine

Dal profondo della notte

di

Attilio del Giudice

Miriam Celestini si è laureata il mese scorso, brillantemente. E’ stata sempre brava a scuola ed è l’orgoglio dei genitori, una ragazza seria, che non ha mai avuto grilli per la testa. E’ gentile con tutti ed è generosa con le amiche che l’adorano.
Miriam è scomparsa. Forse è stata rapita. In casa aspettano la richiesta di un riscatto. Il padre ha fatto un appello in televisione, non ha saputo trattenere le lacrime. La madre non sta bene, è stata ricoverata. Ieri è arrivata una lettera dalla Germania: “Cari genitori, lasciatemi libera. L’Italia è un paese che non posso amare. Non posso viverci. Quando mi sarò sistemata, vi farò sapere dove mi potrete raggiungere. Restate tranquilli! Vi amo. Miriam”
Certo la grafia era sua, ma non era credibile che avesse preso una decisione così importante da sola, senza parlarne alla madre, senza un motivo grave, un motivo plausibile.
No, certamente Miriam era stata costretta a scrivere la lettera. Si poteva desumere che era viva, questo sì, ma non si poteva escludere che l’avessero rapita per il mercato delle ragazze, un mercato che si stava espandendo a macchia d’olio negli ultimi mesi, e di cui si parlava ogni giorno nei telegiornali.

Leggevo queste notizie sulla cronaca del Messaggero, mentre ero nella metropolitana linea b, diretto alla stazione Euro Magliana, dove mi sarei incontrato con un tale per l’acquisto di un’ auto tedesca di seconda mano. Però ero informato della scomparsa di Miriam, che conosco da quando è nata, essendo un amico della famiglia Celestini da molti anni.
Sono sceso, mi sono guardato intorno. Un giovane alto, biondino, si è avvicinato e mi ha chiesto se ero quello della macchina.
“ Si, come ha fatto a capirlo?”
“ Non ne ero sicuro, ma ho visto che cercava qualcuno…”
“Dalla voce al telefono non la facevo così giovane.”
“ No, infatti al telefono non ero io, era mio cugino, che… è più anziano.”
“ Ah, ecco. E ora devo parlare con lui?”
“ Sì, l’accompagno. Sta un po’ fuori mano, ma ho la macchina. Venga!”
Aveva un suv straniero, enorme. Durante il percorso gli ho chiesto come mai non fosse venuto lui, il cugino, direttamente. Al telefono aveva detto:”ci vediamo alla stazione della metropolitana.”
“Non ha voluto dare tante spiegazioni. Lui non si può muovere facilmente, sta su una sedia a rotelle.”
“Ah, questo mi dispiace. E la Mercedes non è sua?”
“ No, no, è sua, solo che la guidiamo noi. Io o mio fratello.”
”Ho capito. Lei pensa che mi possa venire un altro po’ incontro col prezzo? Vede, pago in contanti e se le condizioni della macchina sono quelle descritte al telefono, la ritiro subito.”
“Magari una parola ce la metto, poi, lei mi fa un regalino”
“D’accordo. Facciamo così: su ogni 100 euro di risparmio che riesce a ottenere, le darò il dieci per cento.”
“ Facciamo il venti!”
“ Va bene, affare fatto.”

Siamo arrivati praticamente in aperta campagna tra catapecchie e tuguri da terzo mondo, di cui nessuno amministratore potrebbe giustificarne l’esistenza nella capitale. Ha fermato il SUV davanti a un capannone in mezzo ad alberi bruciati da un incendio recente, che sembrava aver colpito tutto il montarozzo, e ha detto. “Mio cugino sta qua. Scendiamo!”
Entrando nel capannone, quello che più dava nell’occhio era la sporcizia. Si capiva che ci dormivano, infatti c’erano tre brandine e ci cucinavano anche, lo si desumeva dai fornelli luridi, dalle pendole nello sciacquone e dai piatti sporchi e, soprattutto, dal fatto che si avvertiva un fetore di cibarie andate a male. Istintivamente stavo per fare marcia indietro e chiedere al biondino che mi riportasse dove mi aveva trovato.
Non si vedeva più il cugino e fuori il capannone non avevo notato nessuna Mercedes, solo, mi pare, una vecchia Bravo arrugginita, senza ruote.
Ma da una specie di sgabuzzino, che doveva essere il cesso, uscì con la sedia a rotelle un uomo deforme in maniera vistosa , con un braccio anchilosato e il naso orribile, come fosse stato rosicchiato fino all’osso da un animale.
“ L’aspettavamo. Lei è quello che vuole acquistare la Mercedes? L’ho mandata al lavaggio, la vedrà fra pochi minuti. S’accomodi, prego!”

C’erano tre sedie dietro un tavolo, due mi sembravano impraticabili, una terza dava più affidamento. Mi sono seduto, con i muscoli tesi, pensando che dovevo lasciare quel luogo il più presto possibile.
“ Forse – ho detto – sono stato troppo precipitoso. Forse è meglio che ci rifletta ancora un po’ e quando ho deciso, mi faccio sentire io. La ringrazio e mi scuso se…”
“ Per carità, prima di decidere bisogna pensarci bene!”
Il Biondino, che era improvvisamente ritornato, è intervenuto col fare di chi vuole mettere le cose in ordine: “Paride, il signore qua, vuole risparmiare almeno 200 euro. Se si può fare, paga subito.”
“200 euro non sono pochi, però, se paga alla consegna in contanti, facciamo uno strappo e l’accontentiamo.”
“No, guardi, io, in questo momento, prescindo dal risparmio, voglio pensarci. Abbia pazienza! Devo andare.” Mi sono alzato e sono andato quasi di corsa verso la porta. Appena ho aperto la porta, davanti a me c’era Miriam.
“ Miriam, che fai? Com’è che ti trovi qui? I Tuoi ti cercano disperatamente!”
“ Sta’ zitto! Io sono la Mercedes. Comprami e portami via!”
“ Miriam, fammi capire, come sarebbe che sei una Mercedes?”
“Non perdere tempo se mi vuoi salvare, comprami! Fai presto ti prego! Ti prego! Vai, vai dentro! Paga quello che ti chiedono!”
Sono rientrato e ho detto:“Ho visto la Mercedes. Va bene, la compro. Quanto devo pagare?”
“Quello che s’era concordato: dieci mila euro, meno i 200 che vuole risparmiare.”
Ho tirato fuori dal borsello il danaro e ho messo i dieci mila euro sul tavolo. “Ecco il danaro. I duecento, se li tenga, li dia al biondino!”
Ho aperto la porta e sono uscito sulla strada. Miriam era scomparsa.
Allora l’ho chiamata: “ Miriam, Miriam, dove sei? Miriam rispondi!”
L’avevano fatta sparire. Sono rientrato e ho gridato: “Dove l’avete nascosta?”
“Che cosa, signore?”
“Miriam, la ragazza! Stava qui fuori un minuto fa, dov’è adesso?”
“ Signore di chi parla? Io le ho venduto una Mercedes, lei ha detto che la ritirava subito.”
“Se non mi dite dove avete nascosto la ragazza, io vi denuncio, delinquenti, delinquenti assassini!”
Ho gridato così forte nel sonno che mi sono svegliato. Mia moglie era già sveglia e aveva ascoltato le mie grida. “Amore, hai avuto un incubo? Che hai sognato? Gridavi come un pazzo: delinquenti, assassini! Che è successo?”
“Dio mio! Si, un incubo terribile”
“Amore, sei tutto sudato, vado a prenderti un asciugamani.”
“ Ma che ore sono?”
“ Sono le cinque e venti”
“ Mi dispiace d’averti svegliata. Gridavo forte?”
“ Si, Amore, gridavi. Ma non ti preoccupare per me. Me lo dici che hai sognato?
“Si, te lo dico, ma prima voglio sapere una cosa: Miriam, quando l’hai vista l’ultima volta?”
“Ieri sera.”
“ Dove l’hai vista?”
“ Amore, ma che ti viene in mente? L’ho vista nel supermercato, questo sotto casa. Abbiamo parlato e siamo uscite insieme.”
“ E tu l’hai vista entrare nel portone di casa?”
“ Amo’, ma ti senti bene? Si, l’ho vista entrare. Non capisco dove vuoi andare a parare!”
“ Ascolta, fammi un favore, devo togliermi questo pensiero: Telefona ai Celestini e chiedi che tutto sia a posto.”
“ Ma tu sei pazzo? Telefono alle cinque e mezzo del mattino, per chiedere se sta tutto a posto? Sta tutto a posto da voi? Perché da noi mio marito non sta a posto con la testa…Amore, dai! Vuoi che ti prepari una tisana?.”
“No, no. solo un bicchiere d’acqua”.

Ero turbato. Non avevo mai fatto un sogno così preciso, così narrativo, con le sequenze concatenate come in un film. L’aria era pesante, l’afa già insopportabile. Andai in veranda per respirare meglio. La città lentamente si metteva in moto. Rivedevo tutte le scene del sogno e rivivevo il malessere, la nausea, quell’individuo mostruoso, la rabbia.
Alle nove chiamò al telefono la signora Celestini. “Come stai Antonia? Ti sei ripresa?”
“ Sto bene, in che senso mi sono ripresa?” – disse mia moglie.
“ Ieri Miriam ha detto che veniva da te per dare una mano, che avevi la febbre alta, che forse si sarebbe trattenuta a dormire da te. Ora che fa, dorme ancora? Se è sveglia, me la chiami?”

Allora la realtà coincideva con il sogno? Con quell’incubo atroce?
Antonia mi guardava spaventata. Non riusciva a parlare. Cercai di introdurre nel caos di emozioni e nella sensazione di essere preda di un mistero, qualche pensiero razionale, per esempio, non si poteva escludere un elemento statistico, vale a dire la probabilità, una su dieci mila, che le due realtà, quella della vita e quella del sogno avessero lo stesso tessuto narrativo.
Devo dire, però, che, per quanto mi sforzassi di introdurre questa idea, mi sembrava che la mente non la potesse accettare come balsamo a un dolore che ci coinvolgeva enormemente.
E se mi servissi del sogno per collaborare con la Polizia? Potrei descrivere con dovizia di particolari il luogo dove era stato commesso il crimine, dove, forse, tenevano prigioniera la ragazza,
dove le persone, forse, venivano vendute come auto usate. Ma il sogno, che mi era apparso lucido, dove le sequenze mi erano sembrate consequenziali le une alle altre in un racconto di tipo cinematografico, ora mi appariva pieno di contraddizioni e in un’aura surreale propria di oscuri fenomeni onirici. Come avrei potuto farlo accettare dalla polizia quale testimonianza inconfutabile, senza destare dubbi e perplessità?. Io stesso potevo essere sospettato di complicità, di voler depistare le indagini, quale connivente della criminalità. No, non avevo alcun supporto razionale, non potevo parlarne.
Tre giorni dopo, nella campagna romana, vicino Santa Marinella, quindi in un luogo lontano da quello del mio sogno, due donne, mentre raccoglievano la cicoria selvatica, trovarono il corpo di Mirian.
Le analisi della Polizia scientifica evidenziarono che la ragazza era stata oggetto di gravi violenze fisiche e abusi sessuali da parte di più persone e che la morte non l’aveva raggiunta in quel luogo dove l’avevano trovata le due donne, ma era avvenuta due o tre giorni prima in un altro posto.

Di tanto in tanto vado col pensiero a quell’incubo maledetto e, nell’inquietudine che si rinnova puntualmente, non posso evitare di interrogarmi sulla materia dei sogni e sui loro misteriosi messaggi.

Gambe in spalla

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di Gianni Biondillo

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Il “serpentone” della Maratown

Il 24 ottobre scorso – proprio mentre battevo chilometri a piedi con centinaia di persone attorno alle periferie di Milano per un evento che avevamo scherzosamente chiamato “Maratown” – il Ministro della Cultura Dario Franceschini dichiarava il 2016 anno nazionale dei cammini. Pochi mesi prima Papa Francesco aveva proclamato l’anno giubilare della misericordia da inaugurarsi a dicembre 2015. Così, con due semplici annunci, è sembrato quasi che l’Italia si fosse d’improvviso rimessa in cammino. Slogan perfetto, ora che ci penso, degno del nostro attuale presidente del consiglio.

Ma, al di là delle battute sul renzismo imperante, credo che quella di Franceschini non fosse una intuizione scaturita autonomamente dal suo seno, come lungimirante presagio per la nazione. La politica, in Italia, da troppi anni, non orienta il paese, ma si fa orientare dal paese. Ed è questa, in fondo, la vera notizia. È da così tanti anni che una gran parte della nazione s’è messa, materialmente, in cammino, che le istituzioni non potevano più far finta di non vederla.

L’elenco di associazioni che su tutto il territorio da decenni ripercorrono sentieri e vie storiche è lungo e presente sull’intero stivale. È gente che cammina da decenni, fin dai tempi di un turismo che sprecava i territori che batteva, nel nome di un divertimentificio dissennato. Oggi l’eredità di quel turismo di massa è la perdità di attrattiva del nostro patrimonio a livello globale, e un lascito di residui materiali devastanti (ruderi moderni, paesaggi dell’abbandono, etc.). Lo spreco del territorio in nome della mobilità privata, foriera di seconde, terze case, spesso abusive, è una ferita che va risanata. E i camminanti lo sanno, da sempre. Attraversare gli Appennini o le valli alpine a piedi, pedalare sulle sponde dei fiumi o camminare negli entroterra insulari è stato il modo che molti italiani hanno attuato per riconquistare fisicamente il paesaggio dimenticato.

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astronavi alla Barona. Foto di Max Franceschini

Camminare è fare cultura. Non a caso, sono ormai vent’anni che i migliori scrittori italiani si sono rimessi in marcia. Hanno raccontato le città, le vie storiche, il paesaggio in trasformazione. Sono stati i testimoni di questo mutamento di sensibilità. Non c’è alcuna contrapposizione fra l’attività fisica da una parte e quella intellettuale dall’altra. Anzi, c’è contiguità. Siamo un paese, voglio ricordare, dove, secondo l’Istat, quasi il 20% degli abitanti non ha fatto assolutamente niente per tutto l’anno scorso: non ha letto un libro, non è andato in un museo, non ha visitato un sito archeologico, non è andata al cinema o a teatro, non ha fatto alcuna attività sportiva. Ma che ha quasi il 90% della popolazione che guarda la televisione tutti i giorni, per molti l’unica fonte d’informazione. Cosa c’entra col camminare? C’entra. Questa cosa ha un nome, si chiama “povertà educativa”. E, secondo uno studio di Save the Children, se fai attività fisica hai anche maggiori competenze matematiche e di lettura. Insomma, come diceva Giovenale: “mens sana in corpore sano”.

Camminare è quindi turismo, cultura, equilibrio psicofisico. Ed ecologia. Stimolare la mobilità “dolce” significa anche lanciare un segnale politico forte. Ormai sono decine gli studi specialistici che associano i livelli d’inquinamento dovuto alla mobilità privata col numero di ricoveri e morti quotidiani per cause respiratorie e cardiovascolari. Quello che sta passando Milano in questi mesi – stretta nella morsa delle polveri sottili – ne è la prova.

Non a caso, di fronte all’emergenza smog, il Ministero dell’Ambiente ha da poco messo in atto alcune misure che prevedono limiti al riscaldamento degli edifici pubblici e privati, abbassamento dei limiti di velocità delle strade urbane e inizative riguardanti il trasporto pubblico e la mobilità condivisa. Nelle misure approvate con la legge di stabilità sono anche previsti 91 milioni di euro in tre anni per ciclabili, ciclovie e cammini.

Nonché 3 milioni per la progettazione e la realizzazione di itinerari turistici a piedi. Non sono tanti, ad essere sinceri, se pensiamo all’intero territorio nazionale. Ma è un segnale d’inversione di tendenza molto interessante. Quello che bisogna saper fare, ora, è evitare di spendere questi soldi nel modo più scontato, per cammini di assoluta bellezza e rinomanza (penso, fra tutti alla via Francigena), dimenticandoci però dei tanti altri itinerari, meno famosi, o rotte da progettare ex-novo, che avrebbero un bisogno vitale di quei contributi statali.

È ora di aprire un tavolo dove invitare associazioni (storiche o meno), editori di settore, start up, università, dove riconoscersi per fare rete, tutti assieme. Tutta l’Italia è degna di una profonda topografia sentimentale. Occorre una visione d’insieme se non vogliamo disperdere questa opportunità solo per mantenere una piccola rendita di posizione.

Escursione di domenica 20 marzo. Con un gruppo senza distinzione di età, razza, religione, abilità. Foto di Max Franceschini.

Da anni lavoro a progetti di escursionismo urbano (vedi qui e anche qui) perché so, da architetto e da narratore, che la rielaborazione dell’identità avviene attraverso un processo di conoscenza e riappropriazione dei luoghi che è resa possibile proprio dalla mobilità “dolce”, la quale non esclude l’automobile, ma la mette ai margini. Questa idea di mobilità può dimostrarsi strategica nella politica gestionale della città ed è sicuramente al passo con le nuove tendenze strategiche della grandi metropoli internazionali. Ogni sentiero “aperto” è, a tutti gli effetti, una ‘sezione’ sulla metropoli che guarda con lo stesso interesse sia il centro che la periferia, restituendo dignità a ogni parte attraversata ed esperendo senza pregiudizi l’intero territorio. Non solo il centro storico, non solo i monumenti insigni.

Con lo stesso spirito va affrontato tutto il territorio nazionale. Non dobbiamo pensare solo al ritorno economico dovuto allo stimolo del turismo di qualità italiano e straniero, ma anche capire che attraverso il cammino attuiamo una terapia del corpo fisico della nazione – comprese le parti più sconosciute, spesso le più malandate – che è la premessa necessaria per curare anche la mente di un popolo fin troppo distratto dai proclami televisivi. Mens sana in corpore sano, insomma.

(pubblicato su L’Ordine del 28 febbraio 2016)

Tutto il calcio minuta per minuta

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di

Pasquale Vitagliano

 

 

 

Al processo lo dicevano
che la palla è tonda
che ogni partita è a sé
che il campo è neutro.

“Qualcuno che lo vuole davvero”, Maartje Wortel

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«Travel is nonsense» he announced. «The only thing you see is what’s already inside you.»

– James Salter

 

Oltre a una sorella maggiore e a un biglietto sul tavolo della cucina, il padre di Reza le ha lasciato anche un pascolo. Per il suo decimo compleanno le aveva promesso un pony. Il pony, come già previsto da sua madre, non è mai arrivato, il pascolo però è suo.

La Nuit Debout

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di Jamila Mascat

Il 31 marzo a Parigi – Place de la République, verso sera– migliaia di persone si sono ritrovate dopo una lunga e piovosa giornata di sciopero contro la Loi Travail, per passare insieme la nuit debout.

Foto di Jean Segura

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La stessa cosa è successa altrove

 

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A Marsiglia, Tolosa, Lione e in altre 18 città francesi

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François Ruffin, direttore del giornale satirico-politico Fakir e regista di Merci, Patron (2016). E’ tra i principali promotori dell’iniziativa.

 

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Da un mese gli studenti e i lavoratori francesi protestano ogni settimana (9 marzo, 17, marzo, 24 marzo, 31 marzo) contro il Jobs Act del governo Valls

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Finora il governo ha risposto con una repressione spropositata

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Ma la mobilitazione continua

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Il 5 aprile e il 9 aprile gli studenti e i sindacati si sono dati di nuovo appuntamento per chiedere il ritiro della Loi Travail

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Frédéric Lordon, economista, “intransigente collerico” secondo Libération, e rock-star della .  “Non ringrazieremo mai abbastanza la Loi El Khomri per averci restituito il senso del comune!”

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All’alba la polizia è intervenuta in Place de la République per sgomberare i manifestanti

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Dopo la prima nuit debout (#32mars), ce n’è già stata una seconda, stanotte.

 

Il caso Roualdès: il genio anarchico e poetico d’un occitano di Francia

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1 aprile

 

 

 

 

 

 

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di Andrea Inglese

Gallimard lo voleva per la sua storica “Série Noire”, Seuil lo voleva per la collezione “Fiction et Cie”, fondata nel 1974 dal poeta Denis Roche, persino l’esigentissima Minuit, che non ha nemmeno una collana di poesia, lo voleva, e non un solo volume, ma i suoi 9 libri, che per lui altro non sono che le 9 cantiche di un solo macro-poema.

“Il delta” di Kurt Lanthaler: storia di una traduzione

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di Stefano Zangrando

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Fino a pochi anni fa Kurt Lanthaler lo conoscevo solo di fama. Sapevo che era uno dei più noti scrittori sudtirolesi all’estero, che i suoi romanzi pseudo-polizieschi aventi per protagonista un certo Tschonnie Tschenett erano stati poco meno che best seller nei paesi tedeschi. Anche per questo non li avevo mai letti: gli studi universitari mi avevano reso tanto snob quanto da giovane ero stato pop, perché avrei dovuto leggere dei quasi-best-seller? Con quei titoli italofili, poi, chissà quanti cliché: Azzurro, Napule

Mi documentai un po’ meglio quando nel 2011 «il manifesto», grazie a Maria Teresa Carbone, decise di ospitare un mio articolo sulla ricezione della letteratura sudtirolese in Italia negli ultimi anni. A un certo punto in quel testo menzionavo anche i libri di Lanthaler, chiedendomi come mai neppure uno fosse stato tradotto, e in chiusura lanciavo una provocazione: che fossero gli stessi autori sudtirolesi a non interessarsi più di tanto alla diffusione delle loro opere presso i connazionali di lingua italiana? Quando poi l’articolo fu ripreso on line da un blog altoatesino, mi si accusò di aver omesso alcuni nomi, io risposi a tono e ne nacque un putiferio velenoso in seguito al quale, a un certo punto, mi giunse un’e-mail molto cordiale e compita. E bilingue. Era firmata Kurt Lanthaler, e puntualmente contestava la mia provocazione finale.

Fra i libri che mi ero procurato in fase di documentazione non c’erano i pseudo-polizieschi di Lanthaler, che mi ero limitato a sfogliare in una biblioteca tedesca di Bolzano, ma c’era un suo romanzo “a parte” uscito nel 2007 con il titolo Das Delta. Nell’articolo non ne avevo parlato, ma la lettura delle prime pagine era stata una rivelazione. Potevo essere finito in un film di Fellini, o in uno spaghetti-western, o in un capitolo mai pubblicato del Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, o una qualunque pagina padana di Gianni Celati – ma in tedesco. Non era l’italianità dell’ambientazione e dei personaggi, erano la poesia degli ambienti, l’atmosfera stralunata, quell’ironia aggraziata… Non pop né snob, ma popolare e letterario al tempo stesso. Prosa del mondo e bellezza.

Il resto è storia editoriale: traduzione delle prime venti pagine, invio a vari editori e responso pressoché immediato, e positivo, da parte di Aldo Mazza, direttore delle edizioni alpha beta di Merano e considerato dal settimanale sudtirolese «FF» fra i due o tre altoatesini di lingua italiana più influenti della provincia. Conoscevo Mazza, sapevo che aveva un passato da direttore di scuola di lingua, che la sua casa editrice vantava una nota collana di psichiatria chiamata «180» e che qualche anno prima aveva rilevato il catalogo narrativo di un editore locale minore, per dargli nuovo slancio e maggior respiro. In quella collana, fra l’altro, erano apparsi anche autori tedeschi come Helene Flöss o Sepp Mall, tradotti o, nel caso di quest’ultimo, anche come traduttori. Insomma, alpha beta era un editore impegnato, interculturale, molto radicato nel territorio e con l’ambizione di crescere, e l’onorario onestissimo che negoziammo per la traduzione mi convinse decisamente a contribuire all’impresa.

A un certo punto sperammo persino di poter pubblicare il libro assieme a Feltrinelli nella collana «Indies», ma in quel caso la risposta fu chiara e negativa: nonostante il libro fosse stato considerato «molto bello» e la scheda di lettura pervenuta ne avesse tessuto gli elogi sotto ogni aspetto, a quanto pare non aveva sufficiente potenziale commerciale per garantire un tot di vendite all’editore milanese. (Mi chiedo perché debbano essere proprio simili collane a dover rispondere a requisiti commerciali, quando dovrebbe essere il contrario: che il grande editore guadagni il più possibile con i propri titoli commerciali, così da poter sostenere operazioni indipendenti più sofisticate. O no?) Pazienza. Anche se sapevamo di disporre di risorse promozionali pressoché nulle – parlo al plurale, perché fin dall’inizio mi sentii pienamente partecipe all’idea di diffondere il romanzo presso il pubblico italiano – il libro sarebbe uscito solo con il marchio alpha beta. Tuttavia si sarebbe colta l’occasione per rinnovare la veste, ispessendo la copertina e dotandola di risvolti.

Così è stato, e nel suo primo mese di vita editoriale Il delta di Kurt Lanthaler ha venduto qualcosa come cento copie. Pochissimo, certo. Ma se si pensa che non è uscita una sola recensione, che fra i critici italiani ai quali l’ho fatto mandare solo una gentile signora dell’accademia nostrana si è resa disponibile per far ospitare una segnalazione in un mensile di cui è corresponsabile (e non ancora apparsa), che dunque tutto il resto è passaparola, cento copie – oggi – non sono poco.

Ma mi rendo conto che parlare di lettura in questi termini non ha senso, se prima non si racconta qualcosa del libro in sé. Dunque: Il delta è la storia, frastagliata quanto le stesse ramificazioni terminali del Po, di un trovatello di nome Fedele Conte Mamai, il quale, dopo decenni di peregrinazioni attraverso lo stivale e non solo, ritorna a Maierlengo, il suo paese d’origine sul delta. In valigia ha «baccalà e babà, bresaola e bottarga». A trovarlo, da poppante, fu un solitario barcaiolo di nome Bombolo, che lo allevò alla bell’e meglio e dal quale Fedele, cresciuto quanto basta, si allontanerà per girare l’Italia facendo i lavori più diversi: muratore, giostraio, operaio, contrabbandiere e molto altro. Non c’è intreccio, ma incastro e confusione di piani: narrativi, spaziali, temporali. C’è un’Italia provinciale di cui Lanthaler coglie spirito e dettagli, c’è l’arte ingegneristica dell’uomo e della natura, e c’è la lingua: un innesto continuo di apporti dialettali, espressioni idiomatiche e proverbi che nell’originale tedesco deve aver disorientato non poco i lettori d’Oltralpe, ma che in italiano avrebbe avuto tutt’altro sapore, quello di una dichiarazione d’amore per il plurilinguismo nostrano. Ah, e non ho detto che lo stesso Lanthaler, plurilingue com’è di suo, in fase di revisione della traduzione si è rivelato un collaboratore prezioso.

Quando di recente ho tentato di intervistare Lanthaler per un noto sito culturale italiano, la rinuncia è giunta dopo la prima domanda, che recitava: « Più volte ti sei definito “un autore italiano di lingua tedesca”: puoi spiegare questa definizione?»

La risposta di Lanthaler, barocca quanto certe sue pagine, superava le trenta righe; citerò qui solo le prime dieci:

per quanto concerne la mia “autodefinizione” (che eventualmente può esser letta come una (auto)provocazione, e mi spiego):

la maggior parte dei miei testi li scrivo in tedesco. (waere ich 1984 – was in frage stand – nach bologna und nicht nach berlin gezogen : waere es, aber das ist spekulation, anders gekommen)

il resto è qualche piccola poesia por talian e qualcosetta in greco.

a parte die unwaegbarkeiten solcher bologna/berlino/zufallsentscheidungen (fuer berlin sprach die damals deutlich virulentere off-filmemacher-szene (zumal im zelluloidformat 16mm): de facto bin ich da drin gelandet: als beleuchter/elettricista, erstmal. klassisch) … a parte also :

E così via. Quando ho espresso a Lanthaler la mia incertezza sulla traducibilità e pubblicabilità delle sue risposte se fossero state tutte di questo tenore, mi ha rimandato di ripiego a una mini-intervista fittizia presente sul suo sito, che riporto volentieri a completamento del lacerto soprastante:

A domanda risponde. A.d.r.

Paralipomena dal delta

(Secondo il vecchio Codice di procedura penale)


A.d.r.: Per scrivere un romanzo che racconta un viaggio, mi metto in viaggio. Leggendo. (Muoversi fisicamente da un posto all’altro non è tra le mie attività preferite. – Ma non necessariamente perché il posto dove sto mi piaccia.)


A.d.r.: Spendo un sacco di soldi per scrivere un libro. Comprando libri. (Scrivo libri per guadagnarmi da vivere. È il mio mestiere. Non ho altri.)


A.d.r.: Che faccio, se non scrivo? Al massimo leggo due righe.


A.d.r: No. Non me lo può chiedere.


A.d.r: Perché non ci sono risposte. 


A.d.r.: Alle risposte ci crede colui che non ha domande. Come Lei.


A.d.r.: Sarà. Ma non mi mette paura. Metta invece un po’ di fantasia. Allora sì che…


A.d.r.: Nun, da halte ich mich an Gramsci: »Jeder wirklich poetische Text hinterlässt eine Ablagerung von Alltagsverstand.«


A.d.r.: Infatti, un tornado che passa sopra Αθίνα è un fenomeno. Raro, se vuole. Se poi succede in ottobre … (Dal delta invece non ci è giunta foce.)


A.d.r.: Pioppi? Allego documentazione fotografica.

Ecco, Lanthaler è un tipo così, un po’ dada, un po’ situazionista, molto giocoso, cantastorie attento al ritmo e alla musica della lingua, propria e altrui. Concludo con una delle pagine iniziali de Il delta, un romanzo bello e buono, che spero trovi un po’ alla volta i suoi lettori italiani, anche attraverso questa strampalata finestra su Nazione indiana.

 

 

Vedete, Fedele Conte Mamai è di nuovo qui, dico. Ci è voluto un bel po’ di tempo, era sempre in giro. È quasi irriconoscibile. E tutto è rimasto come una volta, vedo. La piazza, l’edicola, la nebbia e il vento. L’argine, i canali. E di buoi non ce ne sono più già da un pezzo, da nessuna parte. L’ultimo lo vidi non meno di quindici anni fa. Attraversava la strada davanti a uno zoo. Non si capiva se andava o veniva. E da allora mi chiedo da dove arrivino mai tutti i guanciali brasati. Per l’appunto. L’osteria è ancora quella vecchia. Buia, come in passato. E un po’ umida, come allora. Non così inospitale.

 La porta era aperta. Scesi i tre scalini e mi guardai intorno. La volta, i tavolini, il banco corto, basso, eternamente bagnato. Le sedie erano sparse qua e là, come dopo una rissa. Il locale vuoto, come se i carabinieri avessero portato via tutti in una volta. Sul piccolo scaffale, qualche bicchiere. E sopra ogni cosa muffa, polvere, intonaco scrostato. Bene, dissi, attraversai il locale, passai nel retro, lì c’erano i resti cinerei di un falò, freddi. Cos’è successo qui?, dico, sarebbe una novità.

Mi sedetti al tavolo nell’angolo in fondo, il tavolo per chi arriva dopo. Lo assesto un po’ finché non traballa quasi più, poso la valigia accanto a me.

 

Oste, sono di nuovo qui. I gà igà i gái.

Sapete, l’osteria non è mai stata troppo cordiale con gli ospiti, e l’oste, se possibile, ancora meno. Ti portava un bicchiere di vino sul tavolo senza bisogno di dir niente. O mezzo litro. Sempre di quello disponibile al momento. Di caffè ce n’era soltanto nei casi veramente eccezionali, funerali o simili. Due o tre volte l’anno. Quando oltre agli ospiti abituali si trovava all’osteria anche quella parte del paese e dei dintorni che altrimenti ci girava alla larga sprezzante. Gli iniziati, dal canto loro, girano alla larga dal caffè. Di grappa se ne trova sempre, basta uno sguardo muto. L’accenno della mano verso lo scomparto in basso. Un cugino lontano che distillava senza tanto badare alla legge, uno che aveva capito e preso sul serio a tal punto la propria occupazione che ci aveva lasciato le penne.

Qualunque cosa servisse l’oste, che uno l’avesse ordinata o no, il ringraziamento era sempre il seguente: che bon caffè ca fè. Che buon caffè avete fatto anche oggi, oste. E lui si guarda intorno nella semioscurità dell’osteria, guarda la sua eterna clientela abituale e dice: I gà igà i gái. Hanno legato i polli. E allora parte un giro di risate. La volta dopo il gioco si ripete. Un rituale. Più che un passatempo, un indolente segnatempo.

 

(da Kurt Lanthaler, Il delta, traduzione di S. Zangrando, edizioni alpha beta Verlag 2015)

 

 

CaLibro 2016, Festival di Letture a Città di Castello [31 marzo – 3 aprile]

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Locandina CaLibro2016

Da giovedì 31 marzo a domenica 3 aprile 2016 torna CaLibro – Festival di letture a Città di Castello.

La quarta edizione di CaLibro è ormai alle porte: il Festival di letture, organizzato dall’Associazione culturale “Il Fondino”, grazie anche al sostegno e al patrocinio del Comune di Città di Castello e della Regione Umbria, sarà caratterizzato dalla presenza di ospiti prestigiosi e iniziative coinvolgenti che interesseranno un vasto pubblico: dai più piccoli ai più grandi, dagli appassionati di narrativa e di poesia, a quelli di ciclismo, spaziando dalla musica all’arte grafica. Il tutto tenendo sempre come punto di riferimento centrale i libri e la letteratura. Gli eventi, come sempre, si svolgeranno nei luoghi più caratteristici e suggestivi del centro storico della città.

Tutti i ragni 3 – Le cantine e i ragni

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di Vanni Santoni

3 tegenariaL’esistenza della casa dove sono cresciuto mi è sempre stata spiegata con un “l’ha costruita il nonno” che mi è sempre sembrato poco plausibile. La costruzione di un simile edificio richiede competenze che vanno dal muratore all’elettricista al falegname, e mio nonno ha solo un banco da falegname, col quale peraltro la cosa più complessa che gli ho visto costruire sono i portafavi per le sue api.

È pur vero che l’edificio non pare improntato al funzionalismo ma costruito, lì su una delle traverse alte di via Po, in base a un certo qual principio di buon senso e gusto del periodo: in base a scelte approssimative che si preparavano a patire il passare degli anni fino a dimostrarsi per lo più sbagliate.

La più grave fra queste coglionate è il fatto che i due appartamenti della casa non si sviluppano, com’è logico, in altezza, ma sono collocati uno sul primo e uno sul secondo piano. Il risultato è che mia nonna, che nel frattempo ha perso l’uso di una gamba, è rimasta intrappolata lì sopra, e dal momento che non può tollerare l’idea di vivere in un posto diverso da casa propria, ci rimarrà di certo fino a che non morirà. Un’altra di queste scelte irrazionali è l’aver dotato l’edificio di un sistema di fondi che sarebbe più appropriato definire catacombe, tant’è che ben presto i miei amici, con i quali in una di quelle stanze mi riunisco per giocare a D&D, li ribattezzano “il dungeon”. E con un dungeon i miei fondi hanno in comune, oltre alla pianta labirintica, oltre a curiosità architettoniche come buchi quadrati sui muri del corridoio e alte finestrelle che danno sull’esterno in punti del tutto casuali, oltre ai vicoli ciechi e alle stanze piene di armadi, bauli, botti, ziri, il fatto di essere piene di mostri. Non è raro infatti, per chi intraprende il percorso dalla stanza in cui giochiamo al bagno, incontrare scolopendre, scorpioni e soprattutto ragni. Il bagno in particolare è infestato, e i più pisciano a occhi chiusi, sebbene sia vero che un po’ ci crogioliamo in questa idea, e gli avvistamenti di questo o quell’avventuriero sono non di rado esagerati nelle dimensioni o nella quantità degli esseri incontrati. Quando però un giorno lo Staderini, chierico di 14° livello, torna e riferisce di aver visto un ratto, è chiaro che sta dicendo la verità: nessuno avrebbe osato inventarsi animali addirittura di diverso phylum.

Il giorno dopo, mio padre imposta un piano d’azione di ingegneristico razionalismo. Torna dalla mesticheria con tre tubi rossi, metallici, simili a quelli del dentifricio ma considerevolmente più grossi, industriali e cattivi. Sul barattolo un’onomatopea tipo “ZOCK!” scritta all’interno di una freccia che si abbatte su un ratto stilizzato, nero. Misura le soglie delle tre porte che costituiscono i principali snodi del dungeon e prepara tre cartoncini di quella stessa lunghezza, dotati di linguette attraverso le quali manipolarli, li spalma della colla contenuta nei tubetti e li colloca sulle soglie. Mi spiega che il ratto non potrà che passare sopra a quei cartoni e rimanerci appiccicato.

Tutto questo avviene prima di una vacanza di qualche giorno ed è grande, al ritorno, l’eccitazione di tornare e andare a vedere se la colla ha funzionato.

Io che scendo le scale, in avanscoperta, ancor prima che mio padre posi il cappotto nell’ingresso, e come arrivo mi blocco di fronte alla prima trappola. Sopra al cartone nessun ratto ma, a coprirne per intero la superficie, un mostruoso olocausto di ragni. Cinquanta, cento, uno sull’altro, ammassati, impiastricciati, ribaltati, i più ancora vivi, impegnati in una lotta di vani scatti con quella poltiglia fatta di colla e corpi dei loro simili. Sotto e in mezzo a quell’orgia di zampe e colla, a guardar meglio – perché, nonostante un conato che prende sostanza, mi avvicino, e guardo – un tappeto di altre creature: scolopendre, pesciolini d’argento, forbicicchie, cimici. E ragni: ragni grandi e piccoli, ragni filiformi, le zampe rese curve e molli dalla colla, ragni glabri e ragni pelosi, ragni gialli, neri, rossicci e uno rosa, osceno, come non ne avevo mai visti. Mio padre prende quell’orrore dalla linguetta e senza dire niente lo butta nella spazzatura.

Viene poi l’alluvione. Al mio paese i fenomeni atmosferici fuori norma sono rari e vengono sempre ricordati. Qualcuno dice che così come si ricorda il gelo dell’85, così verrà ricordata questa alluvione. Qualcun altro si chiede, con una nota quasi di disappunto, come mai non sia stata sommersa anche Firenze.

Piove così tanto che non solo l’Arno, ma anche i borri, come quello che passa poco sotto casa mia, straboccano e la loro acqua gialla si porta via pezzi di steccato, alberi, cassonetti, le Ape Piaggio dei vecchini e pure qualche utilitaria. Casa mia è stata collocata dal buon senso di mio nonno su un’altura e quindi possiamo permetterci di stare lì in fondo, dove la nostra strada si unisce con via Po e guardare gli averi altrui passare per la via come se fosse effettivamente il Po. L’acqua tuttavia non smette di scendere e anche casa nostra si trova col giardino allagato. Da lì poi penetra nei fondi. Sento mia madre che mi chiama perché dia una mano con i secchi. Allora, dopo essermi goduto il passaggio di una 500 che oltre a procedere su quel fiume di limaccia verso il centro di Montevarchi effettua anche rotazioni sul proprio asse, mi smuovo e raggiungo il giardino.

C’è sempre un mistero più profondo, una verità che solo la natura può decidere di svelare. Nell’angolo tra il secondo e il terzo scalino del mio pianerottolo, al riparo dall’acqua e a poca distanza da un finestrino basso che dà sui fondi, un ragno formidabile. Ne ho visti di più formidabili, certo, ma in foto. L’anno prima mi è stato infatti regalato un libro che documenta ragni di ogni genere, con un occhio di riguardo per quelli velenosi come la placida e mortale vedova nera o il ragno eremita, scattante flagello texano in grado di necrotizzare i tessuti umani, oppure giganti come la tarantola e la migale. Lo sfoglio ogni volta con un brivido, guardando e non guardando quelle foto terribili; lo centellino, lo succhiello, immagino come possa essere venire morsi dal ragno eremita oppure scoprire sul muro di casa una migale. La risposta è davanti a me, poiché questo ragno, che è qui e adesso, ha in comune con le migali del libro le dimensioni. Ma è un ragno di qui: è marrone, ha le zampe affusolate. Non ha screziature, o le forme bombate, muscolose quasi, delle tarantole. È una tegenaria, un ragno di Montevarchi, ed è grosso come la mia mano. È qui e si protegge dall’acqua, questo sovrano dei fondi sfuggito facilmente alle trappole di mio padre e agli avvistamenti degli avventurieri della domenica sera, e non gli piace essere qui, quasi mostra una sua saggezza, una consapevolezza della possibilità di essere schiacciato dagli uomini – di essere schiacciato da me – e si difende con quello che ha: con l’orrore. In realtà sta lì ad asciugarsi, valuto: aspetta una botta di sole o almeno di caldo che lo rimetta in sesto, ma il pensiero non attecchisce. Colto da brividi, non oso superarlo; entro dal portone di mia nonna e raggiungo mia madre da sotto, attraverso il dungeon.

[III – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Overbooking: Roberto Plevano

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cogitationes

Cogitationes

di

Roberto Pievano

Non che il mondo avesse bisogno di un altro romanzo storico di ambientazione medievale, certamente no. Imperterrito, inizio a lavorare a un progetto narrativo intorno sulla Marca veronese del XIII secolo (geograficamente corrispondente grossomodo all’attuale regione Veneto, con l’esclusione di Venezia e provincia). Il proposito è di ricostruire e rappresentare, per quanto possibile, mentalità e modi di pensare e di vivere di quel tempo, mettendo in secondo piano trama, intrecci e artifici letterari propri di un gusto di lettura più moderno.

L’uso della prima persona suggerisce una tecnica di roman à clef, tuttavia non c’è diretto riferimento al tempo presente. È storicamente problematico parlare di un’“Italia” e di “Italiani” nel XIII secolo. Allora la Marca veronese era la cerniera tra il mondo germanico e l’al di qua delle Alpi. Processi economici e sociali, strutture di potere e conflitti disegnano un quadro assai variegato e mutevole, tanto che oggi gli storici non si riferiscono principalmente ai contrasti tra Guelfi e Ghibellini o tra il particolarismo dei Comuni e le tendenze universalistiche dell’Impero, ma sono cauti nell’esporre linee generali di profili e tendenze di lungo periodo. Soltanto per fare un paio di esempi, allora tra gli abitanti di Padova e Verona e quelli di Venezia correvano distanze paragonabili oggi a quelle tra, mettiamo, Dubai e Londra. Né esisteva un’Europa di assoluta omogeneità religiosa: Musulmani nel regno di Sicilia e nella penisola iberica, Catari in Occitania, in Lombardia e Marca, Ebrei, erano minoranze significative e ben presenti in molti tessuti sociali. E c’è un’interessante e drammatica storia del potere, che è tentativo di dare forma stabile al passare degli uomini, e rilevanza a se stessi e ai propri interessi, con l’uso della persuasione e della forza.

Il XIII è stato un po’ il secolo di nascita della lingua letteraria italiana, con le scuole poetiche del regno di Sicilia e di Toscana. Tuttavia non ci si può nemmeno avvicinare alla lirica nei vernacoli cisalpini e peninsulari senza conoscere il grande fenomeno dell’emigrazione della poesia provenzale in Italia, che ha interessato soprattutto le corti e le città della Marca e di Lombardia. La lirica provenzale, a partire dalla fine del XII secolo, ha diffuso duraturi modelli di gusto ed etichetta, ha costruito una poetica e ha offerto una pratica sociale di letteratura passata in altre epoche. E invece la lingua della comunicazione culturale, del culto e delle leggi rimaneva il latino.

Un racconto, se ben riuscito, riflette l’esperienza in forma organica. Il romanzo di periodo è finzione, naturalmente, ma illustra verità storiche altrimenti ricavabili soltanto da un paziente studio di fonti e documenti, aggiunge per così dire un surplus di realtà alle nostre rappresentazioni, ricavato proprio dalla sintesi narrativa.

La clef del romanzo semmai sta proprio nell’uso della prima persona, nella dialettica di distacco e identificazione dell’autore (e sperabilmente del lettore) con il protagonista, Amalrico, intellettuale (organico a una corte signorile della Marca) addottorato in medicina e divenuto magister Artium. Chi pensa e scrive muove sullo sfondo di un inevitabile vissuto, di cose che hanno commosso e cose che è impossibile mandare giù; sa che il tempo è perduto, ma non getta la spugna.

Il romanzo Marca gioiosa ha avuto la buona sorte di vincere la II edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza. La pubblicazione presso questo editore è prevista nel 2016. L’espressione gioiosa Marca non è di origine italiana: si trova nel poema cavalleresco L’Entrée d’Espagne, scritto in franco-veneto nei primi decenni del Trecento: (v. 10976) En la joiose Marche del cortois Trivixan.

Qui di seguito una pagina: il protagonista, ormai invecchiato, incatena cogitationes.

cogitationes 1

da Marca gioiosa ( ed. Neri Pozza)

Ho vissuto tra gli uomini, ho vissuto come un uomo. Con alcuni uomini ho condiviso le cose che ho imparato.

Che cosa ho imparato? La cosa più difficile è stata… disimparare, disimparare il superfluo, che è il danno della mente. La cosa più difficile è dimenticare il cielo sopra di me, che non serve. Quello che gli uomini chiamano cielo è il vuoto in cui cadono le grida, in cui suppliche e pentimenti si spengono.

Come un uomo… ho creduto di essere un uomo, eh? Un corpo e un’anima razionale, così hanno detto, così ho letto, così ho creduto: ecco, è questo il mio essere… Ma io, che cosa ricordo io, prima di dire così di me? Ricordo qualcosa come un sentimento: gioia e tristezza, e sorpresa, e paura, e rabbia, e disgusto… nomi dati molto tempo dopo quel sentire, che sorge tutto intero, tutto insieme… I nomi di queste disposizioni arrivano buoni ultimi, prima c’è stata la passione stessa, di cui i nomi non sono nemmeno tracce sicure. E le cose che associamo alla passione… non sono proprio cose, no? Sono, dicono, hanno detto, anch’esse altre passioni, sentimenti dentro l’anima. Tutto è passione e sentimento, non è così? Vedo una cosa, la immagino, solida, estranea… No, no, sento l’effetto che l’urto con la cosa, che sia realtà esterna della cosa o quella interna dell’avvicendamento di cogitazioni – come distinguerle? – produce su di me, che sono fascio, condotto di passioni. Ecco, il torrente che siamo. Un torrente che scorre nel tempo che scorre. Ricordo la gioia per prima, perché è stata la passione più vera, più mia. Le gioie sono tutte diverse, la tristezza è la stessa in ogni epoca della vita. Ricordo la gioia per prima, perché è stata la passione più intensa, più breve, l’unica rimpianta, la sola che tento di risuscitare, da mattina a sera, e per tutta la notte. Il torrente impetuoso, nel tempo che scorre.

Ah, mi pare di sapere, ogni acqua, anche la minuscola goccia, scende infine al mare, nel pelago infinito della sostanza, dicono, hanno detto, ma l’acqua del mare si muove sempre, non trova mai quiete… Come ogni storia, se si continua a raccontare abbastanza, termina con la morte, signore assoluto, infinito nulla, dicono, hanno detto. Ma nemmeno le ossa, le ceneri, la polvere, trovano mai quiete.

«In poesia la morte non è mai l’ultima parola, messer Amalrico.»

Già, già… ricordo bene, credo di aver capito. Soltanto tu potevi dirlo, soltanto tu, non per consolare, non per rimediare allo strappo di quella parola, morte – se non l’ultima, la meno conosciuta. L’hai detto allora come un ordine, senza un perché. Mi hai detto: vivi! Vivi, e quindi respira, impasta la lingua di saliva, parla. Cantare e scrivere, che altro fare, se si vive? Così si dà forma al sentimento, significato all’esperienza, ancora al di qua dalla parola sconosciuta e impronunciabile. Dare un corso, una direzione al flusso, no? E la morte è il nulla, l’esaurirsi del corso, e non si può dire, ma la morte ancora non c’è, tu e non la morte sei la presenza assoluta, la mia signora. Prima che il gran fiume si arresti, fammi sapere dove tu sei stata trascinata. Dove sei ora?

E quanto al resto, ritornando a quello che ho imparato… ricordo che ho compreso qualcosa, sì, ho avuto un qualche intendimento, come si dice nei libri, che vorrebbe dire collegare cose e fatti che prima dell’intendimento se ne stanno soli soletti per sé, – e il culmine, la vetta dell’intendimento è, dovrebbe essere, comprendere che tutte le cose sono in relazione, non soltanto alcune, e il modo di questa relazione – e il poco che ho compreso, che ho creduto di comprendere, mi ha lasciato meravigliato, costernato, indifeso, incapace di metterlo a frutto, e se non avessi compreso questo poco, avrei vissuto lo stesso, certamente, forse meglio – una vita soddisfacente, di cui compiacersi – o magari non avrebbe fatto alcuna differenza. E pure, ricordo che ho ritenuto coloro che non comprendevano, i più – che pensavo diversi da me – in qualche modo bisognosi di istruzione, di correzione, come se proprio io fossi quello che poteva aggiustare, dare lezioni… Già, già, si è visto. I miei cari sono morti, il mio amore non so dove sia, non so come stia, io sono vivo, per ora, in cieca e ottusa obbedienza al dettame del mio amore, che mi ha imposto di vivere – in virtù della tremenda passione da lei in me causata –, ma che di questo mio vivere non sa nulla, non essendo mai stata accanto a me. Non sono sicuro che vivere senza il mio amore accanto sia un bene. No, no, pensare così non è giusto… teniamo per fermo, come un assioma, che l’esistenza, in se stessa e per se stessa, sia un bene.

Deve essere una faccenda di equilibrio, deve essere il fatto che ciascun vivente vive trovando da sé e negoziando i termini della sua esistenza. Inizia con il senso di sé, inizia col dire: io sono io e tu… ah, non c’è ancora nessun tu, ci sono io, ma io non basto a me stesso, c’è qualcosa che mi sostiene, c’è qualcosa che dà calore, di cui ho bisogno… ecco, quello sei tu. Ci sei tu. Al senso di sé si associa allora il senso del tu.

Ma pensare rimane un obbligo. Pensare, pensare, penare… non se ne può fare a meno, così come non si può fare a meno di essere quel che si è, qualunque cosa esso sia. Io sono il mio pensiero, sono il pensare, il dubitare, il concepire, l’affermare e il negare, il volere e il non volere, l’immaginare anche, il sentire… ah, quello mi è caro, sono anche materia, carne e ossa e sangue con cui ho sentito, dolori e l’immenso piacere della prossimità della cara persona. Ma forse altro rimarrà di me, esaurita la materia: qualcuno magari dirà un giorno, molto tempo dopo la mia morte, che il maestro volle istituire una scuola: quell’antico volere era il maestro; che il maestro dubitò di un qualche articulum fidei: quel remoto dubitare era il maestro; e così via. Non diciamo forse che Aristotele afferma che è evidente che gli uomini possono conoscere e comprendere le cose? Che il desiderio di conoscere e comprendere è la natura dell’uomo? Aristotele, da lungo tempo morto, rimane oggi quell’affermare. Su tutto il resto, di Aristotele si sa poco: quale il suo aspetto? Dove il suo luogo di nascita? La sua dimora? Dove la sua tomba? Quali i suoi dolori, e le gioie? Così, anche se nessuno potrà dire che il medico di Salerna abbia amato la sua donna sopra ogni cosa, attraverso se stesso e oltre se stesso, perché questo sentimento non ha avuto testimoni, e la sua donna rimarrà muta, ignara, tuttavia quel sentire è stato, ed è, fino a ora, il medico di Salerna, che medico non è. Nulla si può dire di lui se non che è stato qualcosa come uno spirito, un intelletto, una ragione, un sentimento, un’anima, senza attributi.

Pensare, pensare… è desiderio di conoscere, certamente. E pure so che desiderare qualcosa non ha nulla a che fare con l’esistenza, o anche la mera possibilità di esistenza, di quella cosa. Conoscere… che cosa vuole dire conoscere? Se gli uomini, tutti gli uomini, desiderano conoscere, ne deriva che odiano l’ignoranza. Se conoscere è impossibile agli uomini, e l’ignoranza è la loro condizione naturale, come ritiene Pirrone, – che è stato ed è, evidentemente, questa sua opinione – allora ne consegue di necessità che gli uomini odiano… odierebbero la loro condizione naturale, se ne avessero effettiva contezza, cioè se conoscessero con verità che non conoscono, il che, per il discorso stesso di Pirrone, non può avvenire. Deve essere stato allora per ripugnanza verso questa conclusione che Pirrone è tenuto in spregio, e che la radice dell’errore, che è occorrenza di ignoranza, viene posta nei sensi o in qualche imperfezione della mente, la quale mente, usando bene delle sue capacità, eviterebbe certamente errori e ignoranza e non si agiterebbe in un mondo di ombre e immagini vane, come ritengono gli spregiatori dell’opinione di Pirrone – che è stato, ed è, la sua stessa opinione. Dicono, infatti, che non sono autentici filosofi quelli che pongono il giudizio della verità nei sensi, e sostengono che tutto quello che è appreso debba essere misurato secondo le malsicure e fallaci regole dei sensi. E che la mente concepisca le sue nozioni sulla base dei sensi del corpo, e che tutto quello che si impara e si insegna da essi prenda forma e si trasmetta, è considerata un’opinione di cui scandalizzarsi, perché, dicono, con gli occhi carnali non si può vedere la forma della sapienza, che è bellezza, ma soltanto con la luce della mente. Uno è l’oggetto della mente, dicono, un altro quello dei sensi.

Ah, il medico ha esaminato con i suoi occhi gli occhi degli uomini, ha cavato dalle orbite dei deceduti e dei condannati i bulbi oculari, li ha sezionati con il coltello e ha visto che l’occhio è una sorta di umore spesso e cristallino, come una lente minutamente levigata, che riceve la luce e, a misura della curvatura della sua superficie, la concentra su un tessuto dell’occhio simile a una retina, che viene così impresso dalla luce e muove il nervo che dall’occhio, sicut ramusculus, si propaga nella parte anteriore del cerebro. Il medico ha del pari esaminato gli altri organi del corpo, la pelle, il canale uditivo, le cavità nasali, la lingua mozzata degli spergiuri, e in tutti ha trovato aliquos ramusculos di nervi o vene che si estendono in tutto il corpo, come la rete di canaletti coextenditur in ogni parte della foglia dell’albero. Attraverso questi nervi vel ramusculi scorre la capacità o virtù sensitiva, dal cerebro in tutto il corpo – sebbene Aristotele dica erroneamente che scorra dal cuore, e i medici lo correggono su questo. Errori, errori, errori, Aristotele è il suo opinare, è il suo errare…

Gli occhi della mente… io mica li ho visti. Ho sezionato in lungo e in largo una quantità di cerebri, appartenuti un tempo a gente il cui capo fu separato violentemente dal corpo – e a cui evidentemente il cerebro non era più di alcuna utilità – e posso dire che il cerebro è composto di tessuti circonvoluti non dissimili da quelli degli altri organi del corpo, e nemmeno il cerebro, al pari della mano o del fegato o del cuore, può avere alcuna virtù se non è congiunto con il corpo. A me pare che il cerebro unito al corpo riceva dai ramusculi dei nervi le alterazioni degli organi dei sensi, che sono movimenti secondo la qualità, come una specie di specchio che riflette la luce, o di pagina che riceve le lettere da un copista, e abbia così la virtù di formare come un testo da queste alterazioni: compone cioè delle immagini dei corpi, che sono impresse in un tessuto interno del cerebro, che noi altrimenti chiamiamo mente. Similmente, le lettere tracciate su una pagina vanno a formare un testo.

Resta però da determinare – la gente dice che sono un maestro e si aspetto che io determini – se queste immagini siano davvero la conoscenza che gli uomini tutti desiderano. Tutti gli uomini, pensano, dubitano, concepiscono, affermano, negano, immaginano, desiderano, detestano, si intristiscono, si disperano anche… Aristotele dice che la mente è la parte dell’anima con la quale l’anima conosce e pensa, e quando finalmente conosce pienamente, la conoscenza e l’oggetto sono la stessa cosa… ma Aristotele erra, come ha errato sull’occhio e sul cuore. L’anima pensa, l’anima pena, l’anima si rallegra e piange, è presa da noia e tristezza, ma conoscere… tutt’al più, quando va bene, si accorge di aver preso cose false per vere, e quando se ne accorge, è sempre tardi per trovare un rimedio. Si ritiene quindi che le immagini nella mente non siano conoscenza.

L’anima si accorge di aver preso cose false per vere… che non significa necessariamente prendere poi altre cose per vere dopo essersi avveduti dell’errore, finalmente con piena e definitiva cognizione. Anch’esse si riveleranno false alla successiva – e spesso penosa – contezza. E dal momento che pare cosa naturale, ed essenziale per l’uomo, non soltanto il desiderio di conoscere, ma anche il deliberare e disporre un corso di azioni, Aristotele ritiene che la mente dell’uomo possa conoscere ciò che è vero e disporre ciò che è bene. Ancora l’opinione di Aristotele, ancora l’errore, perché se cose false sono prese per vere, ne consegue che azioni prese per buone sono in realtà erronee e pessime. E qui, maestro Aristotele, bisogna osservare che la storia degli uomini è un cumulo di rovine su rovine, lasciate ai nostri piedi da un’inarrestabile orgia di morte e distruzione, che ha come unica causa le nostre azioni, e quelle dei genitori, e dei genitori dei genitori, e così via. Ogni uomo nasconde a se stesso la disposizione, il presentimento della catastrofe incombente, e se potesse guardare alla propria vita dal suo punto estremo, la fine, non potrebbe evitare di vedere la sua parte di rovine, a cui nessun pentimento potrà rimediare.

Pentirsi non serve a niente, lo sapeva bene l’ipocrita frater Giovanni, che invitava tutti gli altri a pentirsi, per elevarsi sopra di tutti, per avere una qualche gioia degli occhi a veder bruciare tanta povera gente, che di quella rovina non aveva colpa. E il pentimento avviene persuadendosi che le cose umane siano disposte secondo un disegno intelligente e misericordioso, lamentando l’inconguenza di azioni passate, e proponendo di ordinare le azioni future in accordo con questo disegno. Disegno intelligente? Governare il conflitto è impossibile, il conflitto è volontà di annientamento, gli uomini in fondo desiderano avere potere sufficiente per sterminarsi a vicenda. Ricordo bene le cose che ho visto, non è faccenda di comprenderle, non c’è un perché. Il mondo è ciò che accade, mica quello che qualcuno crede di intendere. Se è un disegno intelligente, la condizione dell’agente di questa intelligenza non può essere felice, e così quella di tutti coloro che desiderano intendere. Meglio, molto meglio essere un bruto legato alla greppia, che non conosce il mattatoio, sa a malapena di essere vivo e non sa quando è morto. Essere una pietra inerte, nel fondo della terra, per sempre in quiete, per sempre in questo eterno accadere.

La terra metafisica (autismi della terra # 2)

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di Giacomo Sartori

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Quando sono in una delle mie buche qualche volta mi chiedo perché sono finito lì. Alzo gli occhi, e guardo il cielo, o insomma la fetta di cielo che posso vedere, se la buca è molto profonda, o anche lo strato più o meno denso di alberi, se sono in un bosco, o il merletto formato dai tralci, se mi trovo sotto una pergola di viti,

Pensieri sui fatti del mondo

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di Antonio Sparzani
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Provo un senso di vero fastidio – tanto che spengo la tv dopo venti secondi del discorso con cui il piatto ma volonteroso Massimo Giannini dà inizio a Ballarò – a vedere e a sentire il modo in cui i nostri mezzi di informazione si occupano di fatti di cronaca, che, mentre da un lato vengono ingigantiti fino ad invadere tutta l’informazione, paradossalmente dall’altro hanno significati e rilevanze che vanno ben al di là di quello che si vuol far credere.

La ricerca ossessiva dei media, anche dei giornali a grande tiratura on line, è quella di farci vedere le immagini vere, i filmati delle telecamere di sicurezza, le urla della gente spaventata, i lamenti e i pianti di chi giustamente si lamenta e piange, ma che forse preferirebbe farlo da solo. Interi telegiornali vengono dedicati alla riproduzione il più “realistica” possibile dei fatti di sangue, meglio se visibile, di cui si deve pur dar conto.

Se invece riuscissimo a pensare un po’ più “in grande” agli avvenimenti che in questa fase storica sconvolgono alcune nazioni sì e altre no, magari potremmo cominciare un’analisi realistica, questa sì, delle cause passate e presenti, che sono cominciate tempo fa e che continuano imperterrite a dar luogo a fatti che tutti consideriamo gravi, in quanto comportano la perdita di numerose vite, per lo più innocenti.

L’analisi realistica, di cui naturalmente non sono certo io capace, potrebbe però almeno fare degli elenchi di fatti, sempre passati e presenti, che rendono assolutamente ovvi, quasi necessari, questi sviluppi. Due anni e mezzo fa, qui ricordavo la frase trionfale con cui il presidente degli Stati Uniti celebrava l’uccisione di Osama Bin Laden, in territorio straniero e senza alcun mandato internazionale: «The cause of securing our country is not complete but tonight we are once again reminded that America can do whatever we set our mind to.»

Possiamo realisticamente pensare che un mondo nel quale uno stato parla con questi toni e questi contenuti sia un mondo stabile? Questa ed altre, sono solo domande retoriche che hanno l’unico fine di riportare alla coscienza, che facilmente dimentica, un contesto internazionale che comprende l’esistenza di un piccolissimo numero di stati che si sono arrogati il diritto di stati poliziotti del mondo, sia per la loro intrinseca volontà di potenza, sia per far dimenticare prima di tutto ai propri cittadini le brutture di casa propria.

Altri fatti interessanti in proposito sono quelli che riguardano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse presenti nel cosiddetto terzo mondo. Spesso si sente dire, o invocare, che invece di ospitare tanti migranti occorre “aiutarli a casa loro”: il che naturalmente sarebbe un’azione bellissima, se qualcuno si occupasse anche minimamente di praticarla; ma questo non comincia neppure ad accadere.

E poi, di che cosa stiamo parlando? Quale immagine offriamo della “civiltà occidentale”? Non siamo neppure in grado di offrire ai nostri giovani una prospettiva, prospettiva, intendo, fatta sì di speranze di un futuro lavoro ma anche di un quadro di valori condivisi nel quale essi riescano a pensare se stessi e il proprio percorso di vita in modo non deludente. E i giovani che arrivano da fuori, da aree del mondo in cui la parola pace non si sa bene cosa possa significare, e che tuttavia hanno, come tutti, questo bisogno di un ubi consistam culturale? Ci rendiamo conto di cosa voglia dire esattamente credere in un ideale fino a dare la propria vita per esso? Eppure i ragazzi – e le ragazze – kamikaze sono proprio tanti e continuano seguire il proprio tragico percorso; noi possiamo certamente pensare che si tratti di un percorso distorto, di un percorso al quale sono stati avviati e convinti con l’inganno e con il raggiro psicologico, servendosi di interpretazioni insensate dei loro libri sacri, sì, possiamo legittimamente pensarlo, ma dobbiamo riflettere sul fatto che noi invece offriamo un quadro generale che porta la maggioranza delle persone a comportamenti individuali sempre meno collettivi e sempre più egoisti e cinici. E questo, inutile tacerlo, è uno dei frutti più avvelenati del capitalismo selvaggio nel quale sempre più profondamente, a dispetto di tutti gli apparenti palliativi, siamo immersi.
Siamo un paese, anzi, siamo un’Europa in cui non c’è un partito autenticamente di sinistra con qualche possibilità concreta di influire sulla vita pubblica e paghiamo sempre più caro questo fatto, e lo pagano altrettanto caro i partiti di destra, o centro-destra come qualche volta eufemisticamente si dice, con le loro divisioni interne e la loro incapacità strutturale di una politica di lungo termine.

A chi mi fa spesso previsioni oscure e apocalittiche sul futuro dell’umanità io rispondo col mio inguaribile ottimismo che il male fa schiamazzo mentre il bene è silenzioso, nel senso che certamente la stragrande maggioranza dell’umanità è fatta di persone desiderose di pace e capaci di “operare il bene” in silenzio, ognuno nel proprio contesto. Ma non so se questo sia sufficiente.

Voci su Majorino

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A cura di Laura Di Corcia

 

[Questi due dialoghi con Biagio Cepollaro e Andrea Inglese sono tratti da Giancarlo Majorino – Laura Di Corcia, Vita quasi vera di Giancarlo Majorino, La vita felice, 2014]

 

 Incontro con Biagio Cepollaro

 

Che ruolo ha avuto Giancarlo Majorino per i giovani poeti, in cerca di una guida, di un punto di riferimento?

Ritorno ad Alphaville

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di

Stefano Felici

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Breve prologo per stare al gioco


Amleto, scampato al tragico epilogo,

vive ormai da tempo imprecisato a Roma sud,

in un monolocale, e una sera, a tanto per non annoiarsi,

si ritrova a fare un lezioso ego-surfing, col suo tablet,

su un portale di cinema.

 

            Arrivo al fondo dell’elenco con un solo e velocissimo colpo dito-polso; i titoli dei film scorrono saettanti uno dopo l’altro, dal basso: le locandine e le stelle da uno a cinque e i nomi dei registi e quelli dei cinema, e pure le brevi sinossi… Tutto, niente mi cattura, fino all’ultimo film: ultima sala, ultimo regista, ultime stellette, ultime righe di trama. Ma guarda qua: c’è il mio nome. Parla di me. Quest’ultimo film è un film su di me.

            Sono anni, ormai, che ho preso gusto all’Opera, all’opera e alle opere, in senso a giorni lato, ad altri più stringente, ma stasera, ore 20:51, mi accorgo, nel buio nero e compatto del mio monolocale, che l’Opera a cui ho preso da troppo tempo gusto è ormai logora e concentrica, è un punto occluso e troppo denso, è un buco nero di scritture – mentre penso a un buco nero, e per giunta di scritture, la mia testa è leggera e incantata ma cerco di ridestarmi, evitando la vertigine – e forse, e dico forse ma è un forse che è subito un piccolo fotone che schizza imprigionato nel buio assoluto della camera, dunque, forse è arrivato il momento che io veda, che io proceda, che io mi rimetta – il minimo indispensabile — all’ascolto.

            Ma che me ne viene, a me, di andare a vedere questo filmino sulla mia storia, stasera, di venerdì, fino a lì. Ché poi fa pure freddo, dovrei persino far benzina – «Ma zitto, zitto, e vai a quel cavolo di cinema!» strilla, ma in sordina, la mandibola serrata del teschio del mio amico e fidato Y., che se ne sta poggiato, e di solito sempre silente, da solo, su una mensola in alto, sopra la mia scrivania; e mi pare per un attimo di vederlo scintillare opaco, nel severo buio fitto, come fosse per un istante in madreperla. Be’: se Y. si è fatto sentire, e lui non parla mai, allora qui la cosa è grave, c’è un evento in corso, e io non me ne sono proprio accorto: quant’è, da quando mi sono stanziato qui a Roma, che non esco più di casa? Mi sono rigirato sulla sedia, mi sono spinto fino ad arrivare a un calendario che era chiuso nel cassetto di un comodino che mi ero persino scordato esistesse, e, ecco, insomma… per non costringermi a rivivere quello fulmine di terrore gelido, quindi elettrico, sulla pelle e nei muscoli, le ossa bloccate e indurite e a un istante dal far crac, il terrore dell’impatto col granito del tempo trascorso come niente fosse – trascorso e perso, poi, viene subito da pensare – mi limito a riportare vagamente questo pensiero: erano passati, dal mio arrivo a Roma e da quando mi chiusi al di qua della porta della mia nuova casa, be’, erano già scivolati via, diciamo, una quantità di anni che servono di solito a un personaggio – diciamo tipo me – per diventare un classico dell’Occidente.

            «Io allora me ne vado, a fra poco» ho detto, lasciando la stanza sempre al buio, correndomene via come si scappa da una folla appena ci si rammenta della propria e troppo umana natura di personaggio tragico. «A fra poco che?» mi ha fatto inaspettatamente eco Y. «Non scherziamo, eh! Portami con te» ha aggiunto poi. Ero sulla soglia, una mano sulla maniglia e l’altra a stringere le chiavi, pronto a richiudere con un paio di mandate e correre fuori, sul pianerottolo, per le scale, per l’androne, fuori finalmente per la strada, un po’ d’aria fresca pure se ferma e sporca e notturna. Invece no. E no. Mi sono bloccato. Sconcertato. Via via infastidito. «Ma dove ti dovrei portare?!» gli ho gridato allora dal piccolo ingressetto. «Che faccio?» ho continuato, «mi porto un teschio sotto braccio? Un teschio sotto braccio al cinema, mi porto?» Nessun rumore, nessuna parola per un po’. E quindi stavo per premere di nuovo sulla maniglia quando Y. riprende fiato – diciamo così – e mi domanda: «Ma dov’è questo cinema?» Mannaggia. Mannaggia a te, maledetto Y. Gli rispondo: «A via del Pigneto.» Y. continua: «Ah.» Silenzio. E poi subito riprende: «E ti stai a preoccupare, tu, di andare al Pigneto con un teschio sotto braccio. Cioè: tutta ‘sta nevrosi per paura di passar per strano, tu, vestito di nero dalla testa ai piedi, pallido e con le occhiaie, tu, hai paura di passar per strano. Al Pigneto. Ma tu guarda un poco la…» Un attimo di silenzio. E poi ha concluso: «Cammina, vieni qua, prendimi, andiamo. Sbrighiamoci.»

            Ha vinto lui, alla fine. Ma ho strappato un piccolo compromesso: l’ho avvolto in alcune pagine di giornale. Poi, durante il tragitto in macchina, mi ha spiegato come facesse ad avere una così approfondita conoscenza del Pigneto – che io, per esempio, non avevo quasi mai sentito nominare.

            Dopo ventisei minuti esatti in circolo concentrico per trovare uno spazietto dove parcheggiare, ovviamente e possibilmente il più vicino a questo cinema che si chiama Alphaville ed è sito in via del Pigneto 238, mi comincio a domandare – vedendo una caterva d’altre automobili sistemate un po’ di sbieco, un po’ con musi e posteriori ad occupare spazi che non potrebbero occupare, altre un po’ troppo sporgenti nelle carreggiate, abbandonate quasi al mezzo della strada – mi domando, insomma, se non sia il caso, visto che il parcheggio qui proprio non c’è e io mi innervosisco facilmente, di lasciare la macchina su un fazzoletto d’asfalto, visto poco prima, fra delle strisce pedonali e il gomito di una curva, che, considerato non guido da decenni, e non osservo la città e men che meno so calcolare spazi e loro annessa praticabilità, non so giudicare se possa andar bene o no, e nel mentre che il tempo passa – poco, ma passa – e mi domando se quello sia effettivamente un parcheggio oppure non lo è, parcheggio?, non parcheggio?, realizzo, di colpo, come infilzato al collo da un dardo velenoso che invece di paralizzarmi mi rende invece più lucido, sciolto, cosciente, mi porta a realizzare dunque che l’alternativa è tornarmene a casa, poiché prima o poi il film comincerà a esser proiettato, e il tempo, seppur lentamente, scorre e come. Fatto: do quindi un colpo isterico d’accelleratore, sterzo tutto, mi fiondo nello spazietto tra strisce e curva a gomito, freno, freno a mano, spengo il motore, tiro via la chiave e mi lancio fuori dall’auto. Mi scordo però di Y., impacchettato sul sedile. «Grazie» mi dice, appena riapro lo sportello, prima che potessi aprir bocca per scusarmi.

            La stretta, buia, ripida, incolta e spoglia via del Pigneto. Pochi passi e da una piccola porta vetrata coperta dall’interno, per metà, da un drappo nero spiegazzato, arrivano dei flash bianchi e grigiastri a intermittenza. Mi avvicino ancor di più e leggo, sopra la porticina vetrata, la scritta “Alphaville”. Al di là del drappo vedo cinque o sei teste, delle silhoutte di teste nude, mi sembrano tutti uomini, forse una donna, e dalla piccola porzione di schermo visibile – un telo da proiezioni, né piccolo né grande, diciamo della giusta misura, perché no? – vedo in bianco e nero la figura di quello che mi pare essere un samurai, un samurai agitato e arrabbiato e isterico come me quando mi fiondo su un parcheggio di fortuna, e poi mi accorgo che lo conosco, che di lui mi ricordo, mentre con la coda dell’occhio vedo che accanto a me c’è un cavalletto con sopra un cartonato, una locandina: la programmazione della settimana dedicata ai 450 anni esatti dalla nascita di Shakespeare, e leggo – nonostante il buio, ma i miei occhi al buio danno ormai il loro meglio – che quello è il bravo attore di cui ho sentito parlare benissimo, Toshiro Mifune, e il film è Il trono di sangue di Akira Kurosawa, che rifece anni fa questo suo Macbeth ambientato nel Giappone feudale a lui tanto caro. «Akira Kurosawa» dico a voce alta, senza accorgermene. «Akira Kurosawa» fa eco Y. «Statti zitto, tu» gli dico, e lui controbatte piccatissimo «Ma quale zitto, su, fammi vedere Kurosawa», e io sbarro gli occhi e per poco non caccio un urlo, ma poi mi limito ad avvicinare alla mia bocca Y. e a sussurrare minaccioso «Stai buono, e zitto, sennò ti ficco dentro al cassonetto», però Y., anche lui sussurrando minaccioso, mi dice «Se non mi fai vedere Kurosawa e pure il film dopo, io, qua, mi metto a urlare forte, ma proprie forte, e finché non viene gente e vede che non sei tu a urlare, ma proprio un teschio, un teschio avvolto nella carta di giornale.»

            Sul finale del film di Kurosawa ho aperto la porta e sono entrato tenendo Y., con entrambe le mani, dietro la schiena. Questo piccolo cineclub di nome Alphaville, ho pensato, è piccolino, sì e no una trentina di posti a sedere, sedie normali, piccolino però il film si vede bene, guarda, guarda pure che casse, senti che sonoro, si vede bene il film, tutte le cose al loro posto, la biblioteca sulla sinistra, la videoteca sul muro di destra, la signora vicino al proiettore che adesso mi guarda e mi fa cenno con la testa dev’essere la proprietaria o comunque la responsabile, be’, insomma, piccolo ma ben messo, carino, e Il trono di sangue finisce con la nenia giapponese del coro finale, annichilente, nostalgico e cavernoso. Rumore di sedie e di scarpe, scarponi, fruscio di giacconi e sciarpe, e si riaccende la luce – accidenti, che botta, l’ho sentita addirittura fischiare nelle orecchie! Da quant’è che non venivo illuminato?

            In un famoso libro del celebre scrittore catalano Enrique Vila-Matas, il narratore, nonché protagonista del racconto e critico letterario, va a trovare suo figlio che vive a Nantes – mi pare: questo figliolo fa il libraio insieme alla sua fidanzata, e non se la passa proprio benissimo: costui è “malato di letteratura” e, all’atto pratico, per farla breve, visto da fuori sembra un po’ pazzo – uno stramboide che è a tanto così dall’esser pericoloso per sé e per gli altri. Nel raccontare un episodio che ha avuto luogo in un ristorante – episodio in cui prende vita una stranissima e accesa discussione – il narratore inventato da Vila-Matas inizia col dire che suo figlio, in quella circostanza, gli ha ricordato in tutto e per tutto il personaggio di Amleto. Questo amletismo – vado a memoria, al solito – il narratore lo riscontrava in certi aspetti del comportamento, tipici del personaggio shakespeariano: uno era la “cortesia con fare cerimonioso”; un altro era “l’adombramento malinconico”; un altro ancora la “follia simulata”. Più altri, che ora proprio non ricordo.

            La signora dell’Alphaville mi viene incontro. Mentre le otto-dieci persone che poco prima erano sedute si mettono in fila per uscire in strada, io rimango fermo, tre passi dentro il locale – più vicino alla soglia che non verso le seggiole – sempre con Y. ben nascosto dietro la schiena. «Buonasera!» mi fa la signora dell’Alphaville, all’improvviso, prima di essermi a distanza di conversazione. Ecco: è qui che in mezzo secondo ho pensato che erano anni, tanti, troppi anni, che non parlavo più con esseri viventi e contemporanei, e che m’ero scordato com’è che si fa ad approcciare una comunicazione, a mandarla avanti quel tanto che basta per parlare poi senza fatica, un poco più sciolti – m’ero scordato pure la sensazione d’essere sciolti durante un dialogo; rischiavo insomma la paralisi a oltranza, l’inazione per indecisione, insomma, cose che ho già provato, in realtà; ma l’ombra gelida spettrale di quella sensazione era lì lì per attanagliarmi, di nuovo, ho pensato, e allora mi è venuto in mente quel libro di Vila-Matas, quel breve elenco di comportamenti amletici, stilati da un amletista molto attento, dacché nel momento in cui li lessi, mi ricordo, sogghignai compiaciuto, e allora, al termine di questo benedetto mezzo secondo, ho finalmente deciso: ricalchiamo i comportamenti che dice Vila-Matas. Magari, però, evitiamo quella faccenda della “follia simulata”, ho sentenziato mentalmente, un istante dopo il «Buonasera a lei!» quasi urlato di rimando alla signora dell’Aplhaville.

            Mi sono ricordato com’è che ci si relaziona a pubblicamente. L’elenco di Vila-Matas mi è servito da canovaccio. Se mai dovesse leggere questo scritto, be’, grazie molte, Enrique. La signora dell’Alphaville ha sgranato gli occhi a certe mie esuberanze vocali e a certi miei silenzi inaspettati, a certe risate inutili e sguaiate, a certi repentini e insensati sguardi torvi. Ma ha assorbito tutto con una pazienza e una cortesia quasi commoventi. Ringrazio anche lei, signora dell’Alphaville, semmai leggerà questo scritto. La ringrazio soprattutto perché, al momento di firmare la tessera di sottoscrizione al cineclub, ho indugiato non poco prima di scrivere nome e cognome, e lei, sempre cortese e discreta, non ha aperto bocca nel vedermi disegnare svolazzi incomprensibili che pretendevano d’essere strani grafemi messi in fila per assomigliare a Mario Rossi.

            Un Amleto di meno, di Carmelo Bene. Non l’avevo mai visto, ma della sua fama – intendo del film, anche se quella di CB stesso era ovviamente assai superiore – ne ebbi conto già quando uscì nelle sale, ovvero nei tardi anni Settanta. Sapevo anche del lavoro teatrale di CB, del suo tentativo di operetta, delle infinite e particolari riletture che avevano alla base il testo ora prosa ora pometto di Jules Laforgue – che per primo, davvero, mi rilesse e mi riscrisse, capendomi più dello stesso Shakespeare che pure, per me, face tanto, più di tutti — m’inventò.

            Dopo una breve introduzione a braccio della signora dell’Alphaville, buio in sala e via con la proiezione. Questo Amleto di meno è frenetico, musicale e colorato, ho pensato, dopo pochi minuti. «Colorato, colorato» ha ripetuto una voce che non sapevo di chi fosse ma che poi, appena formulata mentalmente la domanda, ho ricondotto a Y., poggiato incartato sulle mie ginocchia – nel fattempo, in corrispondenza delle orbite oculari, avevo fatto due buchi nella carta, così che anche lui potesse guardare il film. «Senti», continua poi Y., «fammi il piacere: tanto stiamo in prima fila, nessuno ci guarda.» Vertigine. E senso immediato di nausea. Più Y. parlava, seppur a voce bassissima, più mi sentivo formicolare il viso, le mani, le braccia, le gambe: di colpo il terrore che qualcuno potesse sentirlo, capendo che quella voce non proveniva da una persona ma da un crano incartato in fogli di giornale; mi sono immaginato poi che la signora accendesse la luce, bloccasse il film e, piombando su me e Y., si mettesse a urlare incredula e terrorizzata, per poi chiedere aiuto ai presenti e correre in strada con le mani nei capelli. «Mettimi più alto. Mettimi tra la clavicola tua e il bavero del cappotto» ha concluso Y. Io, paralizzato, pensando però che se avessi eseguito l’ordine Y. si sarebbe poi azzittito per tutto il resto della serata, ho trovato non so quale risorsa – o il corpo l’ha trovata per me – e, meccanicamente, mi sono portato il teschio di Y. ad altezza della clavicola, ho spostato un po’ il bavero del cappotto e lì, in questo spazio, sono riuscito a incastrarlo. E così ci siamo goduti il film. Fino alla fine.

***

            Amleto si mette in affari è il film di Aki Kaurismaki – in bianco e nero; e a me, il bianco e nero, piace in una maniera davvero particolare – per cui io e Y. abbiamo deciso di tornare all’Alphaville anche la sera dopo. A dire il vero, è andata così: tornati in macchina dopo l’Amleto di meno, che ci ha molto divertiti, io e Y. ci siamo messi a parlare del più e del meno, ed è venuto fuori che a entrambi, alla stessa maniera, dava il voltastomaco l’idea di tornare a casa, in quel gorgo monolocale inghiottito dal buio, denso di tenebra, e anche qui, a entrambi, è venuta la stessa idea, associando casa nostra a quel caos maligno e primordiale e indefinito di cui parla Esiodo nella sua Teogonia (una lettura comune sin dai tempi in Danimarca). Si è deciso così di rimanere a dormire in macchina e di restarcene al Pigneto. Aspettando l’Amleto di Kaurismaki in un tedio un po’ più luminoso del solito.

            Di nuovo all’Alphaville, ho seguito ancora una volta il canovaccio di Vila-Matas, ma con maggiore sicurezza, maggiore spontaneità. La signora dell’Alphaville sembrava persino contenta di rivedermi.

            Con Y., in prima fila, abbiamo ripetuto la stessa manovra. Ci siamo goduti l’Amleto di Kaurismaki, che è un film assai fedele alla mia storia, seppur ambientata in una Scandinavia finnico-tardomoderna che non mi appartiene – personalmente, mi appartiene di più il vuoto bianco-teatrale imbrattato di colori allestito da Carmelo Bene.

            Film davvero molto bello, comunque. Al momento del congedo, ho ringraziato la signora dell’Alphaville per la bella rassegna messa su, ma l’ho fatto, mi pare, o almeno ho questa sensazione, senza il pensiero di dover seguire il canovaccio di Vila-Matas: è stato un ringraziamento sincero, insomma. Lei ha compreso che le mie parole erano finalmente genuine, e forse, per un attimo, credo abbia persino capito chi fossi: le si sono inumiditi gli occhi. Mi pare abbia persino iniziato il movimento che porta all’abbraccio; ma si è subito ricomposta. Varcando la soglia dell’Alphaville, con la coda dell’occhio, sono sicuro di averla vista agitare una mano, in segno di saluto, all’indirizzo di Y., che portavo sotto il braccio, e del quale, come per un mucchio di altre cose, la signora non ha mai fatto parola. In macchina, Y. mi ha detto di non aver visto, o di non essersene accorto. Ha cambiato poi discorso, dicendomi che per me non c’è speranza: mi interesserò sempre e soltanto di libri, di film, componimenti musicali, qualsiasi cosa, purché parlino quasi esclusivamente di me. Io ho sorriso. Ho pensato a quel quasi. Poi ho detto: «Io continuo a non aver voglia di tornare a casa.» Y. ha replicato: «Lo stesso vale per me.» Poi ha aggiunto: «Però, mo, che scusa ci inventiamo?» Al che, sentendo uno strano accenno di esaltazione, ma a dire il vero anche di pace, forse persino di tranquillità, di umore buono, no, togliamo l’esaltazione e teniamo tutto il resto, insomma, pervaso da queste strane e piacevoli sensazioni che sul momento, comunque, non ho di certo riconosciuto, ho risposto a Y.: «Dormiamo di nuovo qua in macchina, intanto.» Mi ha poi attraversato una frase. Il ricordo di una frase. Anche se adesso, però, non sono tanto sicuro fosse un ricordo. Forse il ricordo della frase me lo sono creato al momento. Comunque, ho continuato e concluso dicendo: «Se è vero che, come ho letto di recente, ogni personaggio moderno è un personaggio-Amleto, allora, Yorick, stai tranquillo: entro domani sera una scusa per tornare al cinema, in qualsiasi cinema, di sicuro la troviamo.» Ho rigirato il teschio di Y. verso lo schienale del sedile e ho steso il mio. Poi ho chiuso gli occhi e ho cominciato a far finta di dormire.

Bracciate #1- Gioacchino Lonobile

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Bracciate è la mia nuova rubrica per Nazione Indiana, evoluzione per crasi della precedente, che s’intitolava Braccia rubateBracciate accoglie alcune brevi narrazioni e il tentativo dei loro autori, bracciata dopo bracciata, di raggiungere l’altra riva o tornare in terraferma.

 

Il primo racconto è quello di Gioacchino Lonobile, redattore della rivista letteraria TerraNullius e componente della direzione artistica del Flep! Festival delle Letterature Popolari. Lonobile nasce a Toulon, ne è prova un piccolo trafiletto di giornale gelosamente custodito dalla madre; rinasce tre mesi dopo in Sicilia, e di questo ne sono prova le vocali aperte e i suoi racconti.

 

L’UNA E MEZZA

di Gioacchino Lo Nobile

triplicescritta

Agata aveva appena ritirato i panni. Quando entrò Gaspare, nemmeno si girò. La velocità con cui piegava la biancheria tradiva il suo nervosismo.

– Non scrive più – disse sottovoce – Totuccio – precisò – Non scrive più.

Un esattore, al pari degli sbirri, era curnutu e ‘mbami. Totuccio recuperava crediti per conto dei mercatari, delle botteghe e delle taverne. Portava con sé un quadernetto a quadri su cui erano scritti solo numeri e nessun nome, e una matita corta corta che chiamava “la piz”. I negozianti che facevano credito, a fine settimana iniziavano a ricordare ai clienti di “un certo conto”.

– E che senza i me’ picciuli non puoi campare?

Chi non pagava, a fine mese, diventava di diritto un numero sul taccuino di Totuccio.

Il padre di Gaspare lo conoscevano in tutte le taverne. La sua unica fonte di reddito era un piccolo appartamento in piazza Ballarò che affittava a studenti fuori sede, qualche centinaio di euro che, tra birra e sigarette, durava fino al quindici del mese. Domandargli un prestito era come lavare la testa all’asino: si perdeva tempo, acqua e sapone, già quando era vivo, ancor più dopo che un infarto lo aveva reso un brav’uomo amico di tutti. Della famiglia di Agata non si poteva far conto dai tempi della fuitina, che loro già lo sapevano di quanto Gasparino fosse cosa inutile.

– Non dice di chiudere il conto, ma che magari gli diamo qualche cosa, ci passi tu? – chiese Agata.

Un tempo, dopo la famiglia c’era il Monte di Pietà. Da quando la miseria sembrò essere un antico ricordo, e l’ultimo banco dei pegni chiuse, a quando comparve il primo Compro Oro passarono meno di dieci anni.

Gaspare si avvicinò ad Agata, che continuava a tenere gli occhi sul bucato, e poggiò le mani sui suoi fianchi.

– Finiscila, che ci sono i picciriddi – disse la donna imbarazzata.

Quel popolo, che faceva di ogni esperienza un motto, diceva che la povertà non era vergogna, ma nemmeno vanto, di certo il suo ultimo atto era rivolgersi ai cravattari. E con loro c’era picca di babbiare.

– Dicono che cercano gente al cantiere, magari in questi giorni che non stai lavorando…
Gaspare avrebbe voluto sorridere per rassicurare la moglie, ma riuscì solo a sbuffare. Lasciò Agata e si allontanò.

– Vado a comprare il pane- disse e uscì.

Percorse via Rue Formaggi, via Maqueda e corso Vittorio Emanuele. Tra il Cassaro e la Vucciria un ambulante vendeva il pane fresco di Monreale. Pane di paese.

Chiese un rimacinato.

– Bello cotto.

Proseguì in direzione del mare.

Su una grande porta ad arco, oltre la quale rimanevano i ruderi della chiesa della protettrice dei tavernari, era appeso un cartello. Ovale, bruno con tre scritte bianche, la prima in italiano “vicolo S. Sofia” le altre in ebraico e arabo. Gaspare rimase a fissare il cartello, cercando di decifrare simboli e lettere, vide che dall’altro capo della strada c’era un cartello simile. Non fece in tempo a scendere dal marciapiede per attraversare, che sentì un rumore vicinissimo. Una macchina era a meno di due metri da lui, non avrebbe mai fatto in tempo a frenare.

Quando si sta per essere investiti, non si trova nulla di meglio da fare che rimanere immobili, non si riesce neanche a gridare. Quella volta non fu così. Tutto rallentò fino a fermarsi, ogni particella smise di vibrare come congelata: la coppia di turisti tedeschi rimase a guardare la cartina aperta della città, i giornali dell’edicola cessarono di svolazzare, Franco u’ Vastiddaru rimase con il braccio proteso a dare il resto a un cliente, immobile anche lui con il panino panelle e crocchè in una mano. Forse ognuno, in quell’assenza di movimento, ripercorse la propria vita, e anche le cose lo fecero, i palazzi ricordarono quando fu posta la loro prima pietra, le macchine del caffè nei bar pensarono all’emozione dopo aver riempito la prima tazzina. Gaspare era l’unico in grado di muoversi. Fece un passo indietro. Solo allora il tempo tornò a scorrere, e con esso l’automobile che lo stava per investire. Il cuore aveva accelerato appena di qualche battito. Tornò a guardare dall’altro capo della strada. Il cartello era sempre lì. Uguale al primo, stessa forma, stessi colori, tre scritte. Percorse via Paternostro, varcando la porta Judaica, che metteva in comunicazione il Cassaro con il vecchio ghetto ebraico.

Altri cartelli: in piazza Sant’Anna, in piazza Rivoluzione, luogo del quarto mercato, l’unico estinto, quello della Fieravecchia, e in via Divisi che tutti chiamavano dei Biciclettai. Accanto al cartello marrone di via Lampionelli ce n’era un altro scritto a mano con la vernice rossa che ammoniva: “La persona pulita butta la spazzatura dentro il contenitore”, ma il cassonetto che ci stava sotto era già colmo. Gaspare proseguì per via Giardinaccio, vicolo Meshita fino in via Calderai, la strada dei fabbri.

Il giorno festivo teneva chiuse tutte le officine, tranne una. Davanti alla saracinesca sedeva un uomo intento a far nulla. Dietro di lui campeggiava uno dei cartelli. Gaspare lo indicò al fabbro, che strinse le spalle e abbassò gli occhi. Quella risposta muta riportò Gaspare a molti anni prima. La sua memoria diede forma a una figura con pochi capelli neri pettinati da un lato, che incorniciavano un viso magro dalla fronte alta.

– Abbiamo eliminato tempi verbali come il futuro, chiuso le vocali, abbiamo diminuito il numero di parole e le abbiamo accorciate, sempre di più, fino a trasformarle in sillabe, in suoni o solo in un gesto.

Ai lati della bocca due pieghe scendevano fino al mento, aveva le orecchie grandi da vecchio. Era suo nonno, Gaspare Cardella anche lui.

– Un solo gesto può intendere molte cose – disse l’anziano.

Nella piccola cucina, dopo la morte della moglie, aveva sistemato un divano su cui dormiva. Nel letto matrimoniale, diceva, non riusciva più a riposare. L’odore delle sigarette impregnava ogni cosa.

L’uomo si diresse verso la finestra, Gaspare lo seguì con lo sguardo.

– Abbiamo alzato mura, per non farci capire e per proteggerci dai nostri oppressori. Si dice una cosa per intenderne un’altra, e certe volte nemmeno si dice.

Gaspare muto.

– Gli ebrei, invece, hanno imparato la lingua di chi li governava, cercando di divenire invisibili, gran popolo…- disse sorridendo – Erano bravi macellai, furono loro i primi a cunsare u pani ca’meusa.

L’anziano accese un fiammifero. Gaspare respirò l’odore di zolfo, la fiammella ondeggiava insicura.

– Nessuno come loro conosceva i segreti del fuoco. Erano maestri nel forgiare il ferro. Il fuoco che distrugge e rigenera, Ade ed Efesto. Fu un dio greco a rubarlo ai suoi per donarlo agli uomini.
Gaspare rivide sé stesso bambino, difronte a suo nonno. Strinse sotto il braccio il filone di pane ancora avvolto nella carta, e uscì dalla sua infanzia e dal cartello che non aveva smesso di fissare. Guardò dentro l’officina il fuoco nella forgia. Ade ed Efesto pronunciò senza emettere suono. Indicò il polso all’uomo seduto davanti l’officina.

Quello alzò prima l’indice e poi piegò il mignolo.

L’una e mezza non disse.

L’ANOMALIA CHE DIVENTA STORIA (Balestrini & Parenti)

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I furiosi di Nanni Balestrini nello spettacolo di Fabrizio Parenti

Di Angela Bozzaotra

 

Il turbinio di eventi narrati ne I Furiosi (1994) è una costellazione caotica che si anima attraverso le parole vive della lingua dei protagonisti. Un linguaggio ruvido e inframezzato da slang urbano e dialetto, che delinea un’epopea burrascosa istoriata da un barbaro cinismo, direttamente trascritto dall’autore Nanni Balestrini senza utilizzo di punteggiatura negli undici canti che compongono l’opera.

Il racconto dello sguardo acceso. “Calabria e Piccadilly”

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Pubblico molto volentieri questo racconto dal nuovo libro di Franco Buffoni. Da anni l’autore porta avanti in parallelo e perfetta corrispondenza all’opera poetica un lavoro narrativo dove la forza di testimonianza della parola scritta assume il valore di un diario in pubblico, un romanzo epistolare per versi e narrazioni indirizzato al lettore, approdo di una riflessione sull’io che prende coscienza di sé e del mondo, della storia e dei territori, fisici, morali, culturali, che attraversa. Se ne La casa di Via Palestro Franco Buffoni indagava il rapporto con il paese d’origine, in questa nuova raccolta il viaggio della memoria ha un respiro più ampio, spazia nel lavoro e nello studio in altre città e nazioni, tocca l’altro, come se ogni ritorno a casa, che avvenga nel tempo trascorso o nel momento attuale, non fosse che il primo movimento di una nuova partenza. Ecco che allora lo sguardo acceso del titolo indica proprio questa apertura al vasto, alle possibilità offerte dall’esperienza: dopo aver dato un corpo tangibile alla propria identità occorre aprire gli occhi, conoscere altri corpi e lingue, riconoscere l’importanza delle vicende minime, come dei cambiamenti epocali in cui queste avvengono.  Il ricordo in fondo non è che questo – portare noi stessi nel passato, parlaci, ascoltarlo, farne una sostanza viva, che sappia accendere la storia del presente. (F.M.)

di Franco Buffoni

Se Dario Fo, con il suo grammelot, porta alle estreme conseguenze la riflessione sulla traduzione come sintesi fonemica, il caso di Imma produce un risultato simile come sintesi ontologica.

Imma nasce a Roma all’inizio degli anni settanta, figlia di una coppia di immigrati calabresi, portinai (o come si dice a Roma: portieri) in un grande stabile (a Roma si dice palazzo) d’una zona alto borghese. Sprovvisti d’istruzione ma molto volonterosi, i genitori di Imma sanno conquistarsi la stima anche degli inquilini inglesi del terzo piano, una coppia senza figli, lui direttore e lei insegnante nella scuola inglese distante poche centinaia di metri.

Imma a tre anni si trova così iscritta a quella scuola, dapprima imparando alla materna canzoncine e buone maniere, poi come allieva della primaria, quindi delle medie e del liceo fino alla maturità, che supera brillantemente. E sempre frequentando anche la casa dei genitori inglesi “adottivi”. Mentre ogni estate trascorre tre mesi in Calabria a Cirò da nonna Immacolata a va al mare con gli zii.

Conobbi Imma quando si iscrisse al primo anno di università. Mi si rivolse subito nel suo inglese perfetto, dall’intonazione leggermente ironica (che mesi dopo ebbi modo di riconoscere – identica – nella madre “adottiva”). Imma – due grandi occhi neri ardenti, capelli fluenti corvini e intercalari lievemente cockney nei momenti di pausa – era talmente più “avanti” rispetto ai compagni di corso che subito le affidai delle mansioni organizzative relative ai seminari.

Per qualche settimana non me ne resi conto: tutto cambiò la mattina in cui entrai in aula prima del previsto. Imma era seduta sulla cattedra a gambe divaricate e stava impartendo ordini sguaiati in… italiano? No, non era italiano quel miscuglio di calabro-romanesco che usciva dalla bocca di quel tomboy… persino le sue labbra assumevano un disegno che non le conoscevo. Come si accorse di me, si ricompose, le labbra ridivennero quiete, l’inglese riprese il sopravvento e l’intonazione tornò ad essere quella consueta, leggermente ironica…

Io restai impietrito. Dai colleghi poi seppi delle difficoltà di Imma in storia e letteratura italiana, e degli sforzi tremendi che doveva compiere per pronunciare la seconda lingua straniera, il tedesco.

Passarono i semestri: Imma si era molto affezionata a me, e io cercavo ogni occasione per farla parlare… in italiano. Correggendole pronuncia e intonazione e dandole da leggere romanzi italiani ben scritti, e poi chiedendole di riassumerli, sia per iscritto sia oralmente. All’inizio fu un vero disastro, ma Imma era (ed è) molto tenace e piano piano imparò a cavarsela. Si laureò e poi si legò sentimentalmente e andò a vivere con un’insegnante inglese della mitica scuola in cui si era formata, e dove anche lei era stata assunta.

Una sera le due giovani signore mi invitarono a cena. Menù vegano molto british, intonazione sobriamente ironica e controllatissima in entrambe. “E in Calabria ci andate?”. “E i tuoi genitori come hanno preso la vostra unione?”. Risposte evasive, molto eleganti, leggermente prive di contenuto…

Il giorno dopo Imma mi telefona, ha bisogno di parlarmi. Viene a casa mia. E finalmente si sfoga. Da donna intelligente quale è, Imma si rende perfettamente conto dello stato di scissione in cui vive. “Sugli stessi argomenti”, mi confessa, “io PENSO in modo diverso a seconda che ne parli in italiano o in inglese”.

“Non è una questione di traduzione o di lingua. Ma della mentalità al cui interno mi sono formata”.

“Se avessi frequentato il liceo italiano, probabilmente sarei riuscita ad amalgamare i due…”, si blocca, mi guarda con le lacrime agli occhi, “i due cast of mind, quello dei miei genitori e di nonna Immacolata da una parte (per me l’italiano è quello) e quello inglese dall’altro. Così vivo con Jane e con lei mi nutro vegana, insegno a scuola e andiamo in Inghilterra dai suoi… Ma quando torno a Roma o addirittura in Calabria, dopo due giorni a morseddhu e sagne chine, non riuscirei mai a dire in italiano we’re a lesbian couple, e Jane torna ad essere soltanto la mia amica”.