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Un romanzo in pochi gesti: «Canto della pianura» di Kent Haruf

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di Giacomo Verri

“La donna la guardò, prese le sigarette dalla tasca della vestaglia e poi un accendino, ne accese una e rimase sulla porta a fumare. Si grattò una caviglia nuda con le dita dell’altro piede”.

È la madre di Victoria Roubideaux a usare l’accendino, ad appoggiare una spalla allo stipite della porta – la porta del cesso – e a togliere lo sguardo dalla punta arancione della sigaretta per tirarlo più in là, verso la figlia, che sta in mutande e in maglietta bianche a vomitare dentro alla tazza. Non va ad aiutarla, non si avvicina per scostarle i capelli dalla bocca che fiotta vomito. Non lo fa, prende anzi del tempo per sé, accende da fumare, gratta mollemente una caviglia senza neppure abbassarsi. Le vediamo quelle dita che si sfregano lì sotto, per Dio, se le vediamo: vediamo esattamente quei piedi che non corrono dalla ragazza bisognosa del supporto materno. Ci restano impressi nella memoria, sono uno di quei gesti compiuti dai personaggi della letteratura che diventano incancellabili.

haruf

Victoria Roubideaux ha bisogno della sua mamma, perché ha diciassette anni e non sa come affrontare ciò che le sta accadendo. Ma sua madre fuma, la chiama “stupida puttanella” e si sfrega “una caviglia nuda con le dita dell’altro piede”. Splendido.

Era da qualche tempo che avevo in mente di provare a interpretare un romanzo a partire da pochi isolati gesti compiuti dai suoi protagonisti. Gesti seminali, gesti che possano riverberare un nucleo narrativo. Lo faccio ora con Il canto della pianura di Kent Haruf (pp. 303, euro 18, NN editore), al quale già ho dedicato qualche tempo fa una più canonica recensione. Lo faccio prendendo in esame la parabola di uno solo dei personaggi del testo, la giovane diciassettenne Victoria Roubideaux.

Quella che ho trascritto sopra è la prima e unica apparizione della madre di Victoria nelle oltre trecento pagine del romanzo. La vediamo adesso e poi non se ne sente più parlare. Mai. Eppure non la dimentichiamo, e non la dimentichiamo in virtù di quel piede strisciato alla caviglia. E non la dimentica neppure Victoria, che poi se ne va di casa, forse per sempre. Il piccolo gesto di ostentato disprezzo, di oltraggiosa indifferenza, di arrogante disapprovazione per la condotta della figlia, resta ad aleggiare come una condanna. Canto della pianura è quindi anche la storia di una ragazza indifesa che si sottrae alla sarcastica sufficienza di un alluce che gratta la caviglia. Incurante del patimento, incurante della confusione di una ragazzina di diciassette anni.

Quello della madre di Victoria è un gesto che chiude, e, come vedremo, si contrappone con un gesto finale, altrettanto semplice, che uscirà dalle mani di Victoria, e che sarà, proprio nell’ultima pagina del romanzo, un gesto che apre al futuro.

Ma torniamo indietro. C’è un gesto di chiusura contro il quale, inconsciamente, la piccola Victoria deve combattere, con alterni successi della propria coscienza. A informarci che la giovane sta faticosamente marciando sulla via del bene (e la madre su quella del male) sono altri gesti, apparentemente discosti dalla vicenda principale. Siamo nella fattoria dei fratelli McPheron, si sta facendo la cernita delle vacche gravide. Anche qui, ciò che viene fatto con le mani resta impresso a fuoco nei ricordi del lettore:

“Intanto Harold si era tolto la giacca di tela, si era infilato una vecchia felpa arancione a cui era stata tagliata una delle maniche, e si era spalmato di gel lubrificante il braccio nudo. A quel punto si portò dietro la gabbia e piegò la coda della giovenca sul dorso. Infilò una mano dentro di lei, tirò fuori lo sterco molle, caldo, verde e si spinse più in profondità, per sentire se c’era un vitello. La sua faccia, appoggiata contro il fianco dell’animale, era rivolta verso il cielo, gli occhi socchiusi per la concentrazione. Sentì la massa tonda e dura della cervice, e dietro qualcosa che stava crescendo. […] Ritrasse il braccio. Era rosso e lucido, chiazzato di muco, e rimasugli di escrementi e piccole striature di sangue. Fumava nell’aria fredda”.

Come a dire che Victoria Roubideaux per arrivare a dare alla luce una nuova vita deve fare come il braccio di Harold: passare in mezzo alla merda dell’esistenza, e al muco.

Dovrà piegarsi alle voglie di colui che l’ha messa incinta. Senza dire una parola. Con i gesti, solo con i gesti:

“Così lei dovette chinarsi su di lui, piegandosi sulla pancia. I lunghi capelli le ciondolavano davanti, li raccolse e li spostò da un lato. Lui stava disteso sulla schiena, con le gambe irrigidite e gli alluci contratti, e siccome era ubriaco a lei parve che ci mettesse un sacco di tempo. Mentre era china su di lui, Victoria smise di pensare. Non pensava a lui, non pensò neppure al bambino. Finalmente lui gemette e sussultò. Poi lei si alzò, andò in bagno, si lavò i denti, si guardò gli occhi nello specchio e si strofinò la faccia, attese e rientrò nella stanza quando lui si fu riaddormentato”.

Victoria Roubideaux non dice una parola. È il suo corpo a parlare, di nuovo, con i gesti. E assieme al suo, parla il corpo che le sta accanto. Fate attenzione, ci sono due particolari che non vanno persi. Il primo è la pancia di lei che si piega, “Così lei dovette chinarsi su di lui, piegandosi sulla pancia”. La vedete quella pancia rotonda e tesa dalla presenza di una vita dentro di lei, che si deve piegare, che deve quasi contorcersi contro natura, che cambia la linea convessa in linea spezzata (avete mai provato a piegare un uovo?), che piega ciò che non può e non dovrebbe mai essere piegato (la vita!) per compiacere quel tizio, Dwayne, che l’ha messa incinta? Io la vedo, quella pancia, e mi commuovo.

Il secondo particolare sono gli alluci di lui, “gli alluci contratti” dalla tensione, dall’eccitazione e da un piacere alla prima persona singolare che è tutto e solo del maschio e esclude la femmina. È di nuovo un gesto di chiusura, come quello della madre all’inizio del libro. Di nuovo alluci, di nuovo piedi che parlano la lingua dell’egoismo, che si ripiegano e poi cadono morti. Dopo di essi c’è il nulla.

C’è molto, invece, in un gesto impacciato di chi sta accanto a Victoria, di chi le vuole bene davvero. Si tratta dei fratelli McPheron, i due vecchi scapoloni dai capelli d’argento che allevano mucche nella loro fattoria a diciassette miglia a sudest di Holt. Dopo una vita trascorsa a contatto quasi solo con gli animali, si trovano all’improvviso ad avere in casa una ragazza diciassettenne che porta in grembo un bambino. Non possono fare altro che rassicurarla narrando vicende capitate alle loro giovenche. Ma a un certo punto, Raymond, il più giovane dei fratelli, compie un gesto splendido, che da solo dà il la al processo di risarcimento per le sofferenze patite da Victoria:

“è tutto a posto ora. Non ti preoccupare. Ora va tutto bene. Si allungò attraverso il tavolo e le diede un colpetto sul dorso della mano. Era un gesto goffo. Non sapeva come farlo”.

Ma lo fa. È un gesto goffo, ma lo fa (lui che è apparentemente un rude, volto sciupato, berretto sudicio calato sulla fronte, mani callose e sporche) e proprio perché è goffo e proprio perché lo fa diventa improvvisamente un gesto giusto. Un gesto di redenzione.

Meraviglioso. Quel gesto goffo mi fa venire in mente la nascita di una nuova vita, appunto, un bimbo che con fare impacciato, ma tenace, prova su questa terra i primi passi. A partire da lì si guarda avanti, Victoria, finalmente, guarda oltre, con serenità. Tutto si apre, la vita piglia a soffiare speranzosa sui corpi. Allora c’è un ultimo gesto minuto, quasi insignificante, ma che dice molto in virtù della sua collocazione nel testo; siamo all’ultima pagina, siamo quasi alle righe conclusive. Victoria e Maggie Jones (la professoressa che in prima battuta ha aiutato Victoria) si fanno sulla veranda della casa dei McPheron, è la fine di maggio, e adesso l’aria è serena. Finalmente la vita scorre libera, e finalmente mani leggere e scariche di preoccupazioni compiono un gesto di apertura al futuro:

“le due donne [donne! Victoria non è più una ragazza] lasciarono che la brezza soffiasse fresca sui loro volti e sbottonarono un po’ le camicette per sentirla sul petto e nelle ascelle”.

Tutti i ragni 2 – Ragni che cadono

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di Vanni Santoni

2 red house spiderQuando torno da scuola mangio da mia nonna. Appena arrivo accendo la televisione e se c’è un cartone animato mia nonna dice sempre ma cosa guardi queste stupidaggini. Un giorno porto su il videoregistratore dei miei e metto I predatori dell’arca perduta. Lei non dice niente: si vede che per il cinema ha rispetto, anche se non l’ho mai vista davanti a un film.

Mia nonna è considerata una brava cuoca, anzi è lei stessa a dire di sé: sono una cuoca bravissima. Io mi sono sempre immaginato che un cuoco bravissimo sia uno che sa cucinare una varietà di piatti ma lei fa sempre le solite cose. Le sue specialità sono i fegatini e il ragù, che tuttavia solo raramente mette sui maccheroni, ovvero quando suo fratello li fa e li manda e allora si mangiano i maccheroni del bis-zio, belli spessi e col ragù. Altrimenti il ragù va sulla polenta. Altre volte suo fratello fa le tagliatelle e le mangiamo in brodo. Nella pulizia del pollo per il brodo – poiché fare il brodo significa farlo con una gallina ruspante intera, e poi mangiare gallina lessa per giorni, arricchita dalla maionese che fa mio nonno (per tale maionese mio nonno è celebratissimo, benché non si tratti di fare altro che mescolare tuorli e limone in una tazza). Quando le tagliatelle fatte a mano finiscono, nel brodo che avanza la nonna mette la pastina. A Natale, in quel medesimo brodo ci vanno i tortellini, essi pure fatti a mano, ma da mia nonna.

È un giorno normale, sicché a pranzo stelline in brodo. Giro il brodo col cucchiaio. Nel brodo, un filamento nero. Lo giro ancora. Tra le gocce gialle di grasso, le zampe dritte, tutte su un lato, flosce come alghe, un ragno, affogato.

Nonna, che schifo! C’è un ragno nel brodo!

Macché, mi risponde la nonna dalla cucina, senza neanche voltarsi – sta sbuzzando un pollo sul lato dell’acquaio, con le dita affilate cava fuori reni e interiora e uova premature. Qualunque cosa contravvenga al disegno che mia nonna fa di sé e del mondo, non solo è per forza di cose falsa, ma esprimerla è come fare una critica a lei direttamente. E mia nonna non ama le critiche.

C’è un ragno nel brodo, nonna.

Sarà un gambo.

Ti dico che è un ragno.

Macché! Si volta. È rossa. È un gambo di prezzemolo, sibila, poi torna al suo pollo.

Allora io pesco il ragno col cucchiaio e vado da lei e glielo verso lì, in quella superficie ondulata che c’è sul lato dell’acquaio.

È un gambo, fa lei, e lo sposta appena con l’unghia.

Adesso si vede bene che è un ragno. È un ragno, le dico, e lei lo guarda, con un panno lo sposta nell’acquaio insieme alla sua pozza di minestra, apre l’acqua, il ragno fa un mezzo turbine e sparisce nel buco. Poi mi molla uno scapaccione.

È sicuramente caduto dal soffitto, mi dice.

Nel periodo delle medie sogno moltissimo. Spesso sono incubi. Nel più terribile sono alla casa che prendevamo in affitto al mare, accendo la televisione e si vede la faccia di un vecchio a cartoni animati, forse il nonno di Sanpei, ma solo per un attimo perché la scena cambia e c’è una musica terribile e stanno torturando un burattino che però è anche un bambino, la testa di legno scuro, i lineamenti pitturati, qualcosa a mezzo tra un pupo siciliano, Pinocchio e un feticcio vudù, e lo torturano; con una macchina gli svitano la testa, gliela girano a forza di centottanta, trecentosessanta, settecentoventi gradi, e i lineamenti dipinti del burattino non hanno un’espressione di dolore, non possono averla, ma io so che sta soffrendo moltissimo ed è terrorizzato.

C’è una bambina di classe mia che mi piace. A volte vado da lei al pomeriggio. Ci raccontiamo i sogni (ma non questi più spaventosi, perché non mi piace ripensarci). Lei dice che sogna ragni, serpenti, lupi, tigri. Penso che sarebbe ganzo sognare delle tigri.

A volte rimango a dormire a casa sua. Hanno una cameretta che era di una sua zia. C’è una foto di questa donna su uno scaffale e c’è il suo letto, a una piazza, alto, molleggiato, un budino meccanico coperto da un drappo celeste. Sotto il drappo però le lenzuola che mette sua madre sono fresche, e dopo che ti sei infilato è bello sentire il peso del drappo su di te, l’importante è accertarsi di aver rivoltato bene le lenzuola, perché non vuoi ritrovarti a toccare quel velluto polveroso. A volte mi sono chiesto che fine abbia fatto questa zia, se qualcuno se la sia portata via. Se abbia adesso una sua famiglia.

Di solito stiamo in camera di Francesca, giochiamo a Brivido, a Dragon il gioco dei misteri cinesi, a scopa, briscola e rubamazzo. Lei mette la musica. Io di musica non ne so niente. Sulla tasca superiore dello zaino ho fatto la scritta IRON MAIDEN uguale sputata a quella che c’è nei poster che vendono in cartoleria, ma non ho mai sentito un loro disco. Possiedo la cassetta originale di “C’è da spostare una macchina” di Francesco Salvi, quella di “Sei come la mia moto” di Jovanotti e una di Madonna che comprò mia madre da un ambulante. Lei invece ha vari gruppi e cantanti preferiti, ogni volta uno nuovo. Oggi è: Bon Jovi. Mentre la musica va, lei mette la custodia della cassetta di Bon Jovi lì sul letto, come a dire, “guarda, la custodia della cassetta di Bon Jovi”. C’è sopra una foto di Bon Jovi, che è un ragazzone coi capelli lunghi e ricci, il torso nudo e un sorriso un po’ sognante e un po’ imbronciato. Che schifo, dico. Ma cosa ne vuoi capire, tu, fa lei, e mette via la custodia.

Un giorno Francesca mi prende per il polso e mi porta in una stanza dei suoi fondi. Mentre scendiamo mi dice che mi vuole far vedere una cosa e mi prende il batticuore e sudo e quasi non riesco a parlare, ma quando siamo giù mi fa solo vedere un ragno in un angolo. Dice che siccome i suoi la mandano sempre a prendere l’olio in cantina, ogni volta lo vede e finisce per sognare i ragni.

Torniamo su da lei e finiamo la partita e sua madre dice che è ora. Siccome non abbiamo fatto in tempo a cominciarne un’altra, andiamo a letto. Lei in camera sua e io in camera della zia, che mi piace anche perché sulla parete accanto al letto c’è una grossa tela che è il mio quadro preferito dalla prima volta che sono andato da lei e l’ho vista. Ci sono a sinistra Adamo ed Eva con in mezzo Gesù, a destra un inferno con diavoli dalla testa di uccello e di lepre che mangiano le persone o le portano in giro come trofei di caccia, gente che vomita, che caca rondini oppure monete, frecce che trafiggono colossali orecchie da cui spuntano coltelli, teschi di cavallo, slitte, carte da gioco, fiamme, padelle e giganteschi strumenti musicali usati come patiboli. E poi in mezzo, nel pannello più grande, una folla di gente nuda, e pesci, e frutta, in grandi caroselli; uccelli enormi e tende di corallo, tritoni e navi volanti e amanite muscarie di due metri, bacche grandi come palloni, cozze enormi da cui spuntano i piedi di chi ci si è nascosto dentro, uova da cui escono folle di giovani nudi, e all’orizzonte palazzi fatti di carne o di foglie o di rovi, essi pure ricolmi di gente che balla, si tocca, si accoppia, si abbuffa di frutti giganti.

Una notte sogno un “clac”. Sogno un ragno che cade dal quadro, da quella fitta folla di gente nuda e frutti e animali cade un ragno e le zampe sono gambe umane, glabre, passa sopra al mio braccio, cammina sulle lenzuola rivoltate verso la mia bocca. Mi sveglio. Il ragno, una bestiola tozza, le zampe brune, da ragno, è quasi sulla mia faccia. Lancio un grido che è un ruggito e con uno strattone sradico coperte e lenzuola e le getto in fondo alla stanza. Ne esce il ragno, fa per zampettare via. Gli rivolto sopra il mucchio di coperte e lo percuoto con una sedia. Arriva Francesca, in pigiama. Morbida, i capelli impastati sul viso, si strofina un occhio. Ha un profumo un poco appiccicoso, l’odore del suo sonno. Cosa c’è, mi fa. La spingo fuori e chiudo la porta imbarazzato. Sollevo le lenzuola e il ragno è spiaccicato, sull’azzurro del drappo le sue interiora fanno una macchia gialla. Strofino via la poltiglia con un fazzolettino, lo butto fuori dalla finestra. Torno a letto ma non mi riaddormento, entra già troppa luce da fuori. Vado da Francesca, che immagino pure non dorma, e provo a entrare, ma ha chiuso la sua porta a chiave.

[II – continua]

Primo capitolo

Passioni a confronto. Mario Mieli e le lesbiche femministe

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di Simonetta Spinelli*

 

mieli

 

Una passione incontrollata, eccessiva, ironica, spietata. La passione di Mario Mieli e la passione delle lesbiche femministe. Eppure, rileggendo oggi, dopo più di venti anni, Elementi di critica omosessuale, mi ritrovo a pensare che, malgrado ciò, negli anni ‘70 non era possibile un incontro. E che un incontro è, oggi, possibile anche se conflittuale. Ma la conflittualità non è solo inscritta nelle teorizzazioni di Mieli. Ha origine anche in una passione – la nostra – che non poteva/non voleva essere abbastanza ironica e, soprattutto, abbastanza spietata.

Tra le lesbiche femministe e Mario Mieli ci sono stati – e restano – punti di contatto: ipotesi appena accennate che non sono state esplorate fino in fondo, e che, proprio per questo, hanno subito evoluzioni pacificanti e normalizzanti; critiche lasciate cadere che oggi sono divenute barriere o fossati. E una distanza che non è stata costruita dal tempo. Il tempo ha, se mai, attenuato i contrasti e le rigidità.

Vista da lontano, la gabbia dell’utopia rivoluzionaria di Mieli ricorda – anche se le donne erano infinitamente più critiche e disilluse, abituate da sempre alle cadute dei “rivoluzionari” nella quotidianità – certe contorsioni di doppia militanza, tra collettivi e partiti, o gruppi extraparlamentari, di cui soffriva metà del movimento femminista. Osservato da oggi, il suo spregiudicato utilizzo della psicanalisi riecheggia certe critiche del primo femminismo, costruite come un mosaico in cui si infilavano le tessere, in ragione della loro forma, indipendentemente dalla provenienza, mescolando stili e colori. Se il superamento dell’Edipo era un’ossessione comune, analisi sistematiche sono venute molto tempo dopo.

Non è stato il tempo a costruire distanza. Nè il disconoscimento del dibattito femminista che Mieli seguiva attentamente, con una disponibilità intellettuale e un’apertura rara negli anni ’70, quando anche la sinistra – più o meno ufficiale – oscillava tra la condiscendenza, la sintesi approssimativa e la volgarità, che scaricava equamente sulle donne e sugli omosessuali (come in Elementi di critica omosessuale è ripetutamente sottolineato).

Per Mieli il movimento delle donne – le lesbiche in particolare – che aveva messo in luce le stratificazioni dell’oppressione patriarcale di sesso oltre che di classe, e la loro origine comune, e ricollocato al centro del dibattito la politicità del personale, rappresentava l’avanguardia della rivoluzione da costruire: “se davvero credessi nelle avanguardie, direi che l’avanguardia della rivoluzione sarà composta da lesbiche” (p.119). Del femminismo – dalla cui radicalizzazione era stato influenzato, a suo avviso, negli USA come in Europa, il nascente movimento gay – pensava si dovessero mutuare le pratiche (l’autocoscienza, il partire da sé). Pratiche che, mettendo in luce il singolo caso di oppressione, permettevano di cogliere, nello stesso tempo, le implicazioni patriarcali e la parzialità della norma, ma anche ciò che dal sistema codificato restava fuori e che, negato, ne rappresentava l’eccesso. Un eccesso da cui si poteva partire per ipotizzare, oltre il modo di produzione capitalistica, un’economia altra, un’economia del margine.

Mieli conosceva le teorizzazioni femministe. Citava in continuazione gli scritti delle femministe milanesi che apparivano sul periodico “L’Erba Voglio”. Le sue analisi sul collegamento tra subordinazione femminile, finalizzazione della sessualità alla riproduzione, oggettualizzazione della donna, e l’impotenza camuffata da virilismo violento da parte dei maschi etero, come espressione di un “Eros mutilato”, ricalcava molte analisi dei collettivi femministi romani [1]. La sua lettura dei cosiddetti atteggiamenti virili dei maschi etero – “il fanatismo patriottico rappresenta un’espressione convertita di desiderio omosessuale” (p.106) ; “il cameratismo maschile è la messinscena grottesca di un’omosessualità paralizzata e inasprita che si coglie […] dietro la negazione della donna” (p.107) ; “Il virilismo non è altro che l’ingombrante introiezione nevrotica, da parte dell’uomo, di un desiderio omosessuale per gli altri uomini fortissimo e censurato”(p.108) – risentiva delle teorizzazioni delle femministe francesi del gruppo parigino “Psychanalyse et Politique”, che rimbalzavano in Italia dalle registrazioni degli incontri internazionali e locali pubblicati dal periodico dei gruppi femministi milanesi, “Sottosopra”: “La sessualità che c’è oggi è pederasta nel senso del rapporto maschile e basta […] è un rapporto pederasta perchè è funzionale all’uomo”[2]; “tutti gli investimenti, tutta la cosa [il rapporto sessuale etero] partiva da un investimento omosessuale fatto dall’uomo su se stesso e lui prestava a me gli strumenti perché io potessi riconoscergli una sessualità, ma era […] il suo desiderio che mi offriva, le sue fantasie […] [tutto] veniva dal desiderio omosessuale dell’uomo che ci chiedeva di sostenere la sua sessualità, il suo investimento sul suo corpo…”[3].

Che Mieli conosca e condivida le teorizzazioni femministe non è sufficiente a costruire incontro. Anzi, proprio da qui ha inizio la distanza. Per quanto egli affermi più volte che l’omosessuale non è necessariamente al di fuori della logica fallocratica, e che l’equivalenza tra oppressione delle donne e oppressione dei gay sia una riduzione semplicistica, egli attua – inevitabilmente e inconsapevolmente – una serie di semplificazioni. Interpreta, infatti, la pratica dell’autocoscienza, del partire da sé, come indispensabile mezzo di svelamento dell’oppressione di sesso. Oppressione che ha la stessa radice dell’oppressione attuata dalla norma eterosessuale, evidenziata dalla discriminazione e dalla violenza contro i gay. Ma le pratiche del movimento femminista, mentre svelavano dinamiche di oppressione, erano fondamentalmente strumento conoscitivo, invenzione di linguaggio, riappropriazione di corpo e, soprattutto, creazione di rapporto: “ il nostro rapporto con le altre donne, l’imprevisto della storia che il nostro movimento ha messo in atto”[4]. Per il femminismo più critico e attento, al di là delle proposte puramente rivendicative, la sfida è stata abitare/costruire uno spazio che, pur in bilico tra l’adesione ai modelli dati e l’estraneità verso gli stessi, sapesse coniugare la fedeltà a sé, alla propria singolarità – e l’appassionamento a sapersi – con la necessità di appartenenza come legame simbolico e politico con le altre donne [5].

Questo “imprevisto della storia” Mieli – peraltro in ottima compagnia – non lo vede. Il rapporto personale/politico è per lui un rapporto personale/pubblico. Ha un’immediata ricaduta nel pubblico, dove il maschio è storicamente l’unico soggetto visibile da sempre, per omologazione o per contrasto, perché è all’interno di un codice dato, costruito su/da un sistema di complicità maschile. Quando Mieli ipotizza una rivoluzione che scompagini, a partire dalla denuncia e dalla messa in evidenza di quanto dal codice è sanzionato, rivendica la piena titolarità nei confronti di uno spazio che già abita, pur pagando prezzi altissimi. La stessa reazione brutale, soprattutto contro il gay manifesto – come Mieli osserva -, è reazione tutta interna ad un’appartenenza consolidata, sia pure – o proprio per questo – violentemente espressa in termini contrappositivi. E’ l’inclusione nel sistema di complicità che impone la sanzione.

L’esclusione dal sistema codificato di complicità individua, di contro, un’irrilevanza. Non a caso, nei primi anni ’70, le rivendicazioni femministe venivano liquidate con un irritato “Tanto sono tutte lesbiche”. Frase consuetudinaria che tendeva a ridurre all’insignificanza tutte le femministe, relegandole in un ambito di minoranza marginale e acritica, e a cancellare due volte l’esistenza concreta di quelle donne che erano lesbiche. Mieli – e fu uno dei motivi per cui il suo saggio passò quasi clandestinamente tra le femministe lesbiche – fa l’operazione inversa: parla di femministe e di lesbiche, da una parte sottolineando la portata rivoluzionaria del pensiero lesbico, dall’altra separando nettamente le lesbiche dalle femministe. Allora, tale ripetuto distinguo fu letto come una definizione: tutte le femministe sono etero. Ma questo era inaccettabile in un periodo storico in cui, in Italia, la maggior parte delle lesbiche politicizzate convergeva nei collettivi femministi e contribuiva a costruire pensiero femminista. Le parole di Mieli furono lette dalle lesbiche femministe come un ennesimo tentativo di ricacciarle nell’invisibilità o di darle per scontate, omologandole acriticamente ai gay, proprio nel momento in cui costruivamo complicità e appartenenza con le altre donne.

L’analisi di ieri si scontra con la rilettura di oggi. Viene da chiedersi – e qui entra in gioco la passione di Mieli, che riusciva ad essere spietata, anche nei confronti dei gay, come la nostra non poteva/non voleva essere nei confronti delle donne – se quella distinzione non fosse anche frutto di una lungimiranza politica. Ci si domanda cioè se Mieli, che conosceva da vicino – per frequentazione diretta il movimento inglese, per conoscenza della lingua i testi americani e delle lesbiche radicali francesi – le esperienze di altri paesi in cui, fin dalle origini, i collettivi lesbici e i collettivi femministi si erano separati, e che subiva sulla sua pelle la difficile convivenza dei gay con i gruppi della sinistra extraparlamentare, non avesse intuito che, a lungo andare, una separazione si sarebbe prodotta e avrebbe costretto le lesbiche femministe a una rottura di fatto, non voluta, non detta, ancora non del tutto analizzata, ma irrimediabile.

Perché questo è successo, rendendo problematica quella complicità fra donne a tutto tondo che volevamo costruire[6]. Quando il discorso sulla sessualità – che era stato la nostra forza – ha evidenziato differenze di pratiche e di vite che si riverberavano sull’analisi politica, le stesse differenze sono state ridotte all’irrilevanza e al silenzio, in nome dell’unità e della differenza di genere. E, parallelamente, il discorso sulla sessualità è stato chiuso.

Se si cerca di risalire al momento in cui questa frattura ha iniziato a prodursi, il testo di Mieli torna di grande attualità. Egli, infatti, denunciava, con la solita spietata passione, la teoria – elaborata all’interno del movimento femminista e che aveva avuto ricadute nei gruppi extraparlamentari – della omosessualizzazione dei rapporti tra donne. Tale teoria – solo abbozzata negli anni ’70 e che più tardi, nel 1980, sarà sistematizzata e articolata da Adrienne Rich nel “continuum lesbico” [7] – rappresentava un tentativo di superare le divisioni tra lesbiche ed eterosessuali che si dicevano indotte dalla cultura maschile, riportando i diversi percorsi di ricerca dell’identità sul terreno comune della soggettività femminile, individuata attraverso la pratica del partire da sé.

La proposta – rifiutata con pesanti polemiche da molte lesbiche femministe, ma da altre appassionatamente condivisa – viene da Mieli tacciata di volontarismo e giudicata mistificatoria. Egli denuncia, a più riprese, l’ambiguità di un discorso che, mentre sembra attuare una ricomposizione, azzera l’omosessualità – sia femminile che maschile – riducendo a pratica intellettualistica una pratica di corpi e di desideri.

Lo stato della questione non sembra da allora essersi sensibilmente spostato. Se si esclude lo sforzo appassionato di teoriche che lavorano in altri paesi9, sforzo che peraltro cade nella palude nostrana con scarsissimi riscontri sia tra le lesbiche che tra le etero, di corpi e di desideri in Italia si parla il meno possibile.

Il saggio di Mieli è tutto incentrato sulla teoria della transessualità come liberazione dell’Eros, superamento in una nuova sintesi delle categorie oppositive etero-omo, espressione di una polisessualità originaria, repressa dalla norma, che, finalmente disinibita, permetterebbe il transito del desiderio sia verso gli oggetti che nel soggetto. Il soggetto transessuale, in quest’ottica di superamento della polarità dei sessi, esprimerebbe il nuovo uomo/donna “o assai più probabilmente donna/uomo” (p.236) della riconquistata “comunità umana”.

E qui, prima di discutere delle perplessità che la teoria ha suscitato – e continua in parte a suscitare – è opportuna una premessa: l’approccio al suo testo è reso particolarmente difficile e conflittuale anche per un residuo di perbenismo che aleggiava – e aleggia – sul femminismo (lesbiche femministe incluse). Ancor oggi, rileggendo Elementi di critica omosessuale, mi ritrovo a fare i conti con la mia suscettibilità e con le mie cadute di ironia, faticosissime da superare. Mentre Mieli il perbenismo non sa dove stia di casa ed è molto difficile che perda l’ironia.

Mieli, ricollegandosi a Freud, e forzandolo –ma altre/i ne parleranno con maggior cognizione di causa – vede nel polimorfismo perverso pre-edipico lo stato originario di natura che “l’educastrazione” reprime e che la rivoluzione erotico-politica (politica perché erotica) deve portare allo scoperto. Come il polimorfismo perverso ha in sé tutte le possibilità dell’Eros, la transessualità, nel senso di Mieli, sarebbe lo stato naturale liberato in cui tutte quelle potenzialità vengono simultaneamente espresse e attualizzate.

All’epoca della pubblicazione del saggio, la critica non si appuntava sulla transessualità come stato di natura, perché la “natura” era utilizzata a vagoni anche dalle femministe. Negli anni ’70, infatti, anche se vi erano frange di movimento che elaboravano altri percorsi teorici, la “natura” era una specie di coperta tirata da tutte le parti. Ciò che faceva ostacolo è la riduzione all’Uno. La transessualità liberata che, nella visione di Mieli, doveva rappresentare il superamento della polarizzazione tra i sessi, veniva letta come un’ ennesima eliminazione delle donne che avevano appena conquistato la consapevolezza di essere il soggetto cancellato della storia. Il transessuale di Mieli – uomo/donna o donna/uomo che fosse – poteva solo essere visto nell’ottica della secolare ossessione del maschile di ridurre tutto all’unità. A questo si aggiunge un’altra contraddizione interna all’analisi di Mieli, il quale, dopo aver criticato – acutamente – la mistificazione implicita nel discorso dell’omosessualizzazione dei rapporti sociali, che riduceva il desiderio ad atto intellettualistico e volontaristico, ripropone, sia pure ai fini rivoluzionari del superamento di sè come della norma, un altro volontarismo. Se io lesbica so che il corpo del mio desiderio è una donna – così come un gay sa che il corpo del suo desiderio è un uomo -, come si dovrebbe definire, se non intellettualistica e volontaristica, la scelta di sperimentare rapporti sessuali non in sintonia con il mio desiderio?

Il fascino di Mieli, malgrado le contraddizioni che nel suo saggio restano irrisolte, consiste ancora oggi in un pensiero che riesce simultaneamente a essere lucido e visionario, e a volte lucido proprio perché visionario. Ad esempio è tutta interna alla sua analisi totalizzante la consapevolezza che l’oppressione di classe, di sesso e di razza abbiano la stessa matrice. Una consapevolezza che negli anni ’70 non esisteva, tutte/i presi come eravamo a raccontarci la favola degli “Italiani brava gente”, poi smentita dal primo sbarco di immigrati nel territorio nazionale. E per noi lesbiche, in particolare, dal primo impatto con il vissuto, le pratiche, le analisi delle lesbiche nere statunitensi.

Alla lucidità di Mieli va ascritta un’altra consapevolezza che il movimento gay e la maggioranza delle lesbiche non riescono ancora oggi ad acquisire e che anzi respingono: una minoranza o è oltraggiosamente diversa o non è. La minoranza che sostituisce all’orgogliosa affermazione di sé l’affanno di essere assimilata e che ricerca il mimetismo, rincorre l’adeguamento alla norma, media al ribasso per un posto nel grande circo dell’inclusione, di fatto contribuisce alla sua cancellazione o si lascia inchiodare nel ruolo – minoritario – di eccentricità culturale.

Mieli considerava il mondo un luogo suo, un luogo dove la perdita di ogni esperienza avrebbe rappresentato perdita per tutti. Da qui la sua critica continua, ossessiva, contro la tolleranza, che interpretava come mistificazione pacificatoria che avrebbe lasciato inalterata la struttura di potere che sottende i rapporti sociali, e avrebbe, in nome di un’eguaglianza presunta, impedito la costruzione di un pensiero sincretico che contenesse in sé la potenzialità, la forza di tutte le diversità. In quest’ottica, era ostile ad ogni richiesta che tendesse a sistemare il movimento gay sotto l’ombrello protettivo dei partiti o delle organizzazioni non esplicitamente omosessuali, come alla richiesta di diritti civili che allora si andava formalizzando e che interpretava come sconfitta dell’orgoglio gay in nome di una generale eterosessualizzazione.

Eterosessualizzarsi per Mieli significava reprimere l’eccesso di una passione smisurata – la sua visionaria, ironica passione – nell’argine difensivo di un codice ampliato ma non stravolto, quindi sostanzialmente immutato nelle sue dinamiche binarie di inclusione/esclusione. Significava ridurre la visione di un desiderio liberato alla contraddizione in termini di un’economia della miseria. E Mieli, che voleva essere il funambolo sospeso su fili infiniti e tutti li voleva percorrere, non poteva ipotizzare la sua vita, la sua passione, precipitate sul terreno piatto della normalizzazione.

E’ la lucida, spietata intolleranza che rende ancora attuali le sue pagine. Oggi che siamo di fronte ad uno scenario in cui la voglia di integrazione è quasi l’unica protagonista, e ci chiediamo, ancora una volta con una caduta di ironia, se era questo l’esito verso cui tendeva la nostra passione.

 

Note

[1] Cfr. Movimento Femminista Romano (MFR) di Via Pompeo Magno, Sessualità maschile – perversione, Volantino del giugno 1973, in Donnità, a cura di MFR, Roma, 1976.

[2] Dalla registrazione di una discussione collettiva, Domenica 12 novembre [1972], dopo l’incontro a Chateau Vieux-Villez (27 ottobre – 1 novembre 1972), in “Sottosopra”, Le esperienze dei gruppi femministi in Italia, Milano, [1973], p. 35.

[3] Il corpo politico (registrazione di un incontro tra i gruppi femministi a Milano, 1-2 febbraio 1975), In “Sottosopra”, Sessualità procreazione maternità aborto, Milano, 1975, p. 11. Si è preferito qui citare stralci di dibattiti di movimento, piuttosto che teorizzazioni più elaborate, per evidenziare come i termini del dibattito francese fossero diventati patrimonio comune e fossero dati già dal 1973 per acquisiti.

[4] In “Sottosopra”, 1975, cit. p. 4.

[5] Alla fine degli anni ‘ 70 i concetti qui espressi erano frammentari. Una trattazione più organica si avrà in seguito: cfr. “DWF”, Appartenenza, 1986,4, Editoriale, pp.5-10

[6] Frattura che sarà polemicamente sottolineata, già nel 1980, da Monique Wittig con il suo provocatorio “Le lesbiche non sono donne”. M. Wittig, The Straight Mind, in “Feminist Issues”, n. 1 (Estate 1980), trad. it. di R.Fiocchetto, in “Bollettino del CLI”, IX (Febbraio 1990).

[7] A.Rich, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, trad. it. M.L. Moretti in “nuovaDWF”, 1985, 23-24, p. 5. Rich scrive: “Per continuum lesbico intendo una serie di esperienze – sia nell’ambito delle vite di ogni singola donna che attraverso la storia – in cui si manifesta l’interiorizzazione di una soggettività femminile e non solo il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato rapporti sessuali con un’altra donna”.

[8] In particolare v. T. de Lauretis, The Practice of Love. Lesbian Sexuality and Perverse Desire, Indiana University Press, 1994 [trad. it. Pratica d’amore. Percorsi del desiderio perverso, Milano, La Tartaruga, 1997].

– – –

* Questo articolo è stato pubblicato originariamente in Mario Mieli, Elementi di Critica Omosessuale, Milano, Feltrinelli, 2002, pp.313-320. Ringraziamo l’autrice, che l’aveva riproposto sul suo blog, per averci permesso di postarlo su NI.

Cattivo ragazzo

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Leicester(ecco l’ultimo  – speriamo solo per ora – degli Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Pronti a partire per Venezia?)

di Alberto Tonti

Il Codice “Della natura, peso e moto delle acque” di Leonardo da Vinci, dopo la morte del suo primo proprietario, lo scultore Guglielmo della Porta, giace in un baule per oltre un secolo dimenticato da tutti. Riappare solo nel 1690, quando le cronache dell’epoca raccontano che il pittore romano Giuseppe Ghezzi lo acquista “con la gran forza dell’oro” per, poi, rivenderlo nel 1717 a Thomas Coke, conte di Leicester, presumibilmente grazie ad altrettanta forza dell’oro.

A distanza di oltre 260 anni nel 1980 viene comprato, per qualche spicciolo in più di 5 milioni di dollari, da Armand Hammer, miliardario americano che, dopo averlo ribattezzato Codex Hammer, se lo porta in California godendoselo sino alla sua morte.

Messo all’asta da Christie’s nel 1994, se lo aggiudica quel poveretto di Bill Gates per 30,8 milioni di dollari, battendo sul filo di lana la Cariplo che, nella candida innocenza che caratterizza le banche di tutto il mondo, è già convinta di essere riuscita nell’impresa di riportare definitivamente il Codice in Italia, sua patria di origine.

Il buon Bill, da quel magnate dal cuore d’oro che è, promette comunque che, prima di portarselo a casa, il Codice (che ribattezza immediatamente Leicester, forse perché gli stava sulle palle Hammer) potrà essere mostrato al pubblico italiano per l’ultima volta, in una grande mostra itinerante.

La parola data si trasforma in realtà dopo meno di un anno: i principali sponsor della mostra sono Microsoft (of course), Cariplo e Poste Italiane, il catalogo è affidato ad Electa-Mondadori e la produzione a Grandi Eventi, il cui direttore artistico è Davide Rampello.

Il mio piccolo studio di Architettura, negli anni, si è specializzato in progettazione di mostre così, con un colpo di fortuna che rasenta il miracolo, viene incredibilmente incaricato del progetto grazie, anche, all’insistenza di Valeria Alemà-Regazzoni, responsabile dell’ufficio stampa e comunicazione di Electa, che convince tutti descrivendo i miei collaboratori e il sottoscritto come dei “veri e propri maghi dell’allestimento”.

Il primo incontro con Mr. Fred Schroeder, newyorkese, PR man di Gates e responsabile di tutta l’operazione, avviene a Palazzo Querini Dubois a Venezia, di proprietà delle Poste Italiane, prima sede prescelta per l’inaugurazione del tour che prevede, in successione, Palazzo Reale a Milano e, infine, l’Accademia Valentino a Roma.

Attorno ad un enorme tavolo, nel bel mezzo di un enorme sala che affaccia su Canal Grande, siedono una ventina di persone in nervosa attesa dell’americano. Dopo circa una mezz’ora i fumatori più accaniti, come me, chiedendo venia, si spostano sul terrazzo per tirare un paio di sane boccate. Appena rientrati veniamo avvertiti che Mr. Schroeder sta salendo le scale.

Lui è un omino alto come Woody Allen, ebreo come Woody Allen, dallo sguardo furbetto e intelligente, appena velato da un paio di grossi occhiali, tipo quelli di Woody Allen.

La riunione tocca tutti i temi possibili al fine di non trascurare nulla che possa, in un secondo momento, essere lasciato al caso.

L’americano è molto attento ai particolari e quando non è d’accordo con qualche proposta usa sempre la stessa frase: “Non credo che Mr. Gates apprezzerebbe”.

Dopo un paio d’ore molto dense si riesce, comunque, a trovare un accordo solo su una parte dell’organizzazione e, prima di passare al resto, fra i fumatori presenti corre uno sguardo fugace, ma inequivocabile, che sta semplicemente a significare “a questo punto, prima di proseguire, ci vorrebbe una sigaretta ”. Ma, con ‘sto rompicoglioni di americano, nessuno si azzarda a proporre una breve pausa.

E’ il rompicoglioni americano che, improvvisamente e con nonchalance, tira fuori dalla tasca della giacca un bel pacchetto di Marlboro rosse domandandoci: “Vi dispiace se fumo?”.

Un grido soffuso ma liberatorio e, addirittura, un accenno di applauso invadono la sala e, al contempo, una decina di mani si affrettano ad estrarre una sigaretta da altrettanti pacchetti. Nel giro di un minuto la principale sala di Palazzo Querini Dubois si trasforma in una sorta di fumeria d’oppio, fra le risate di tutti, comprese quelle di Mr. Schroeder, trasformatosi d’emblée in un vero e proprio Eroe Yankee.

querini

Nel giro di ventiquattro ore scopro che Freddy, ormai lo chiamo così, è un simpaticone che ama l’Italia perché è affascinato da tutto: arte, cultura, clima, cibo, donne e, soprattutto, libertà di fumo. Dopo aver apprezzato il nostro progetto e messo a punto tutti i particolari che servono per la realizzazione della mostra, quando è costretto a ripartire per New York non nasconde la pochissima voglia che ha di ritornare a casa, tanto da confessarmi: “Sono stato bene qui a Venezia con te e tutti gli altri, quest’estate per l’allestimento spero di passare un mese fantastico”.

Alla fine di luglio siamo già tutti sul posto, l’inaugurazione è prevista per il 30 agosto e c’è tanto lavoro da fare. Passiamo le giornate a seguire passo passo la realizzazione dei manufatti che servono per l’esposizione. Abbiamo l’obbligo di inventarci un sistema per permettere ai visitatori di ammirare tutti i fogli del Codice, a turno, solo per cinque minuti ogni mezz’ora: questo è l’accordo imposto dagli specialisti americani assoldati da Gates per salvaguardare, soprattutto dall’esposizione alla luce, il tesoro che ci sta prestando.

La teca, che abbiamo studiato per ciascun foglio, è dotata di una vetrina a prova di proiettile e di un’illuminazione a fibre ottiche ma, ancora, non siamo riusciti a risolvere il problema di come far apparire e poi far sparire il Codice, cioè un sistema semplice che, nei tempi prestabiliti, sposti i fogli, allocati nella parte bassa e buia della teca, fino alla parte alta dotata di vetro e luce.

Poi, una mattina, a Iesolo, dove ha sede la ditta incaricata degli allestimenti, decido di lavare l’auto in una stazione di servizio e, prima di entrare nel tunnel con le enormi spazzole e tutto il resto, il benzinaio mi consiglia di chiudere bene i finestrini e di far rientrare l’antenna della radio. Schiaccio il pulsante e, nello stesso istante in cui il motorino elettrico fa lentamente sparire l’antenna, mi rendo conto di aver trovato la soluzione che cercavamo. Non proprio una tecnologia sofisticata, degna dell’oggetto da esporre, ma funzionale e fin troppo furba, una roba all’italiana insomma, da tenere assolutamente segreta, soprattutto all’amico americano.

Fred arriva a Venezia il 3 agosto, è stravolto dalla tensione e sostiene di aver perso un paio di chili in viaggio dato che è partito portandosi in cabina una piccola valigia, fabbricata all’uopo, contenente tutti i 36 fogli (29×22 cm) del Codice e, girare con 30,8 milioni di dollari, non è stato affatto piacevole anzi come dice lui: “Horrible!”

Per farlo riprendere dallo shock chiedo a Rampello di portarci a cena all’Harris Bar per tre motivi:

  1. Davide, oltre ad essere un assiduo frequentatore, è amico di Arrigo Cipriani al punto che nel vasto menù del locale esiste “l’insalata Rampello”.

  2. Essendo amico usufruisce di uno sconto pari al 70% che, nel caso specifico, vuol dire pagare il conto di una qualsiasi trattoria casereccia.

  3. Si mangia davvero molto bene.

Il tavolo prenotato è al piano superiore, la saletta attigua al bancone del bar, la più ambita, è sold out, un po’ ci dispiace ma chissenefrega.

Fred, dopo aver dormito un paio d’ore in albergo, è molto allegro e, grazie a un paio di Bellini, diventa improvvisamente fresco come una rosa.

Sono seduto con le spalle alla parete di fondo e, avendo la visione completa degli altri tavoli, la mia attenzione viene attratta da una strana coppia: lui è sulla sessantina, lei potrebbe essere sua figlia ma continua a carezzargli la mano fissandolo come si fa solo quando si è perdutamente innamorati.

HopperFreddy” dico.

Si” dice.

Credo che Dennis Hopper sia seduto nel tavolo in fondo…” dico.

Veramente?” dice.

Incredibile!” esclama, dopo essersi accertato che non avessi avuto una visione.

Decidiamo all’unisono che Fred debba scrivere un biglietto per invitarli all’inaugurazione della mostra, spiegando chi siamo e tutto il resto. Lui non si fa pregare e, dopo aver scritto un mezzo romanzo, chiede cortesemente a un cameriere di recapitare il foglietto al destinatario.

Hopper sorpreso, legge, poi ci sorride alzando un calice di vino rosso facendoci segno che ci raggiungerà appena terminata la cena.

Fred non sta più nella pelle, io non ne parliamo, Davide, il grande, non fa una piega, anche perché la classe non è acqua.

Quando il nostro mito ci presenta sua moglie Victoria, sposata da poche settimane, e si accomoda al nostro tavolo, veniamo a sapere che è praticamente in luna di miele e che, comunque, sarebbe felice e onorato di potere essere presente all’inaugurazione della mostra ma, purtroppo, per quella data non sarà più a Venezia.

Fred non si perde d’animo e, da quel bravo pubblic relations man che è, lo invita per il giorno dopo a Palazzo Querini Dubois, dove potrà ammirare il Codice, tenendolo praticamente in mano. Hopper, scioccato dalla proposta, non può far altro che esclamare: “Sarebbe fantastico!”

All’appuntamento, fissato per mezzogiorno, si presenta da solo e, con uno strano giro di parole, ci fa capire che sua moglie, la signora Duffy in Hopper, probabilmente non sa neppure chi sia Leonardo da Vinci, figuriamoci se sa cos’è un Codice e che, quindi, ha preferito andarsene in giro a fare un po’ di shopping.

Seduti nella saletta dove troneggia la cassaforte, quando, col terzo foglio in mano, il ragazzino ribelle di “Gioventù bruciata”, il giovane pistolero di “Sfida all’O.K. Corral”, l’hippy on the road di “Easy Rider”, il fotoreporter di “Apocalypse Now”, il criminale psicopatico di “Velluto Blu”, il bombarolo maniaco di “Speed”, l’interprete di un’altra sessantina di film dove, per lo più, impersona il cattivo di turno, comincia a versare qualche lacrima non crediamo ai nostri occhi e, colti anche noi da una forte e improvvisa emozione, a turno tiriamo fuori i fazzoletti per asciugarci le guance e soffiarci il naso.

Scusatemi” dice Hopper “sono commosso non tanto per i disegni meravigliosi e per questa scrittura incomprensibile, ma per quel piccolo buco attorno al quale ha tracciato il tondo perfetto della luna. Pensare che proprio lui, Leonardo, in un istante preciso di oltre 400 anni fa, abbia bucato la carta col compasso e io abbia potuto ammirare quel forellino mi ha colpito profondamente. Grazie, mi avete fatto un regalo indimenticabile!”

Poi abbraccia tutti, compresa la guardia giurata di turno ed esce felice dal portone principale che dà su San Polo alla ricerca della sua dolce metà che, probabilmente, in quello stesso istante si sta provando una paio di scarpe qualsiasi.

I giorni che ci separano dall’inaugurazione trascorrono veloci, tutto fila via liscio al punto che all’ora di pranzo spesso e volentieri, assieme a Fred e Davide, con la scusa di fare un salto dal falegname o dal vetraio, ci rifugiamo all’Harris Bar, per concederci un pasto che riteniamo, sempre e comunque, di esserci meritati.

Per il 30 agosto tutto è pronto e, nonostante un’improvvisa ed imprevista acqua alta davvero inusuale in estate, le porte del Palazzo si aprono puntuali alle 18.30.

Bill Gates

Affacciati ad uno dei balconi che danno su Canal Grande, assistiamo all’arrivo di Mr. Bill Gates “in person”. Un numero imprecisato di fotografi su motoscafi, barche a remi, gondole e, persino, canotti, affolla lo specchio d’acqua di fronte all’entrata dal canale e, quando lui appare sorridente in piedi sul taxi, sembrano tutti impazziti: “Bill sorridi!”, “Bill guardami!”, “Bill saluta con la mano!”, “Bill manda un bacio!”. Le urla e i flash si sprecano: manco fosse arrivato Robert De Niro o Al Pacino.

Alla fine più sorpreso e confuso che altro saluta tutti, scende dal motoscafo e s’infila, protetto da due guardie del corpo, nel Palazzo dove Fred, molto emozionato, lo accoglie con un’incerta e tremante stretta di mano.

Incaricato di fargli da Cicerone cerco, nel mio inglese imperfetto, di spiegargli tutto ciò che abbiamo progettato per esaltare la presenza del Codice nella sua ultima apparizione in Italia. Lui, senza mai guardarmi in faccia, annuisce spesso, sorride davanti alle postazioni che contengono i fogli, apprezza l’apparizione e la sparizione degli stessi, poi si sofferma davanti a uno dei monitor che contengono una serie di filmati prodotti per l’occasione.

Sfiora il mouse per entrare nel programma, poi ha quell’attimo di perplessità che, con la solita faccia di culo che mi ritrovo, mi basta per chiedergli: “Can I help you?”

Mi guarda come si guarda un povero pirla e con un sorrisetto striminzito scuotendomi l’indice sul muso mi dice: “You are a bad boy!”

Paolo Di Paolo, «Una storia quasi solo d’amore»

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di Giovanni Dozzini

dipaolo

Eravamo a Torino, e Paolo Di Paolo parlava di Tabucchi. Gli è capitato spesso, e spesso continuerà a capitargli, perché a Tabucchi lui è stato molto legato, e quel giorno, al Salone del Libro, leggeva dei suoi vecchi testi, e a un tratto quei testi di Tabucchi dicevano, parola per parola, “giallo come una malattia”. Allora Paolo Di Paolo si era fermato, con fare teatrale aveva alzato gli occhi dalla pagina e aveva guardato noi, aveva guardato il pubblico: “Signori, questo è uno scrittore”. Quell’episodio mi è rimasto ben impresso nella memoria e anche da qualche altra parte del sentire, una sorta di mantra. “Giallo come una malattia”. “Questo è uno scrittore”. Questi, mi dico io da allora molto frequentemente, recitando a voce bassa quel ricordo, sono scrittori.

E adesso ho letto il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo, che si intitola Una storia quasi d’amore (Feltrinelli), e, mi pare, con quel mio ricordo ricorrente ha molto a che fare. Perché nel romanzo Di Paolo racconta una malattia, vera, ma solo un po’, dedicandole in fondo poco tempo e poche parole, e soprattutto racconta una storia d’amore come fosse, pure lei, una malattia, un ammalarsi lento, graduale ma inarrestabile. Quest’amore che prende forma è inatteso, improprio, quasi ingiusto, per molti motivi, come sono le malattie: per le età e per la geografia, per le idee e per le attitudini, per un Dio ingombrante anche nell’assenza. A un tratto, poi, sul finire del libro, Di Paolo mette insieme una frase così: “I pensieri cattivi lavoravano nella mente, tirannici come la malattia”. Tirannici come la malattia. Non gialli, tirannici. Questo, ho pensato io, ora e qui, è prima di tutto un uomo. Un uomo e uno scrittore, ma prima di tutto un uomo.

Le tre pagine che seguono, peraltro, sono probabilmente le più belle e le più letterarie dell’intero romanzo. È qui che la donna malata che osserva e immagina il dipanarsi della storia d’amore tra i due ragazzi si abbandona alla dichiarazione del proprio rabbioso amore, quello per la vita che scivola via. Un pezzo di bravura, che porta la vicenda lontano dal passato prossimo in cui è ambientata, tre anni fa che significa ieri, terreno molto complicato per un narratore, con la velocità pazza che ha ormai preso il mondo, innervato di tecnologia, impossibile da mettere a fuoco anche solo per un secondo. Con Mandami tanta vita, il suo, notevole, romanzo precedente, Paolo Di Paolo aveva per certi versi avuto gioco facile: cosa c’è di più romantico e drammatico e disperato di una vita come quella di Piero Gobetti, dei suoi ultimi giorni a Parigi, di quel pezzo di storia d’Italia, in fondo? Quello era stato un romanzo fatto di studio e passione, un romanzo di penna sciolta, lirica, di ricami, così come questo, al netto del talento che rimane lo stesso, sembra invece più un romanzo di esperienza, non di autobiografia – attenzione! – ma di esperienza. Con Una storia quasi solo d’amore Di Paolo s’azzarda, come già in passato, a calarsi nei giorni nostri, scegliendo di intrecciare una trama semplice, affrontando i temi principali del pensiero umano – l’amore, la malattia, la morte, la religione, la politica, l’arte – e mettendo a punto un congegno narrativo preciso ed efficace.

Nino, il giovane protagonista, è un attore poco più che ventenne perfettamente figlio del proprio tempo, post-ideologico, individualista e razionalista, poco incline a considerare valori e dignità altrui – che si tratti di idee religiose o trite tradizioni di provincia. Teresa, la ragazza di cui si innamora, è ancora giovane, ma ha comunque quasi dieci anni più di lui, e infatti è allo stesso tempo adulta, perché in qualche modo si è agganciata all’ultima generazione che, in Italia, è cresciuta senza la liquidità estrema della Rete e del pensiero in cui oramai è così difficile, basta guardarsi intorno, restare a galla. Sono due mondi apparentemente incompatibili, eppure, ci spiega Di Paolo, di fronte a certe malattie, come l’amore, non è dato porre argini. Perciò Nino e Teresa si prendono per mano, e cominciano a camminare, anche se è impossibile sapere dove finiranno per arrivare e come ci saranno arrivati. Non lo sa chi dopo tanto osservare e raccontare è costretto a smettere, non lo sa chi dopo tanto leggere, come noi, non può far altro che chiudere il libro e rinchiudere questa storia nel grande forziere delle storie sospese che è la letteratura.

Gramsci e le masse

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di Samuele Mazzolini

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L’ultima fatica di Michele Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Carocci, Roma 2015 è un libro contenutisticamente ricco, rigoroso sul piano della ricostruzione, pieno di accenni teorici e rimandi storici sempre esaustivi, come d’altronde ben testimoniato dalla folta bibliografia. Tuttavia, non è di ricostruzione storica che il libro si occupa, e nemmeno di questioni post-gramsciane, interesse che l’autore ha dimostrato in altre sedi (Filippini, 2011; Laclau e Mouffe, 2011). Qui invece la riflessione è prettamente gramsciana, rimanendo tesa all’esercizio esegetico del corpus del pensatore sardo. Il prisma attraverso cui questa interpretazione viene condotta non è però scontato ed è in questo aspetto che il contributo risulta prezioso. Si tratta infatti di rileggere Gramsci alla luce di due delle grandi novità, fra loro correlate, che caratterizzarono la sua epoca: l’irruzione della politica di massa e lo sviluppo delle scienze sociali. L’opera rimane in questo senso una lettura storica per espresso obiettivo del libro, ma che potenzialmente fornisce spunti e intuizioni di grande impatto strategico anche per la politica odierna, se ripensati sulla scorta delle circostanze attuali.

Vale la pena di soffermarsi sui due aspetti centrali per inquadrare meglio il campo all’interno del quale si muove il contributo di Filippini. La politica di massa corrisponde al trasferimento del locus della pensabilità del politico dal palazzo alla società, e più concretamente alla moltiplicazione dei corpi intermedi che mobilitano e attivano fasce crescenti di popolazione, infittendo in tal modo le trame sociali, politiche ed economiche. È una transizione di non poco conto, giacché presuppone un’uscita delle masse dalla passività che le aveva contraddistinte in epoche precedenti e che pone una sfida particolarmente delicata per il mantenimento della società borghese.

Il capitolo iniziale ben testimonia questa attenzione per la società di (e per la) massa. Qui viene analizzata in primis la crisi dell’ordine liberale di inizio secolo. Emerge in queste pagine la curiosa convergenza del giovane Gramsci con il liberismo economico, da intendersi in netta contrapposizione al liberalismo politico. Il liberismo economico infatti, a differenza dei canali integrativi del riformismo e del protezionismo ampiamente abusati dal giolittismo e dalla sinistra storica, spinge senza mediazioni per un processo di massificazione e socializzazione capitalista, pre-condizione per una socializzazione diversa e alternativa. Quella di Gramsci è dunque una convergenza figlia di una lettura meccanicista, che prevede il pieno sviluppo dello stadio capitalista e di tutte le sue contraddizioni prima di poter transitare verso un nuovo ordine.

Non si tratta di un meccanicismo destinato a durare. Gramsci, riconoscendo appieno la portata della Rivoluzione Russa e dell’elemento soggettivo, non tarda a vedere nel trionfo del leninismo una rivoluzione contro Il Capitale di Marx e i rigidi canoni del materialismo storico. In questo contesto non viene esplicitato come Gramsci, nel periodo che va dal 1916 al 1919, renda compatibili la necessità di libertà economica volta alla massificazione e questi sprazzi di eterodossia, ma ciò è forse in virtù di un’ambiguità che rimane latente negli stessi scritti di Gramsci e che si dipanerà completamente soltanto qualche anno dopo.

Tuttavia, è proprio all’interno del milieu liberista torinese che si sviluppano una serie di elaborazioni teoriche che avranno una prima importante influenza lessicale e orienteranno gli interessi di Gramsci. A quest’ultimo non sfugge che lo sviluppo di questi nuovi apparati teorici ed analitici – e qui abbiamo il secondo asse portante del libro – è strettamente collegato all’apparizione della società di massa e alla necessità ingigantita dell’ordine borghese di controllo e disciplina. L’interesse di Gramsci è spiegato da Filippini come un ripensamento della teoria della rivoluzione: viene infatti compreso che il sovvertimento non avverrà attraverso un colpo di mano, bensì tramite ‘una strategia articolata, che deve basarsi sulla conoscenza delle dinamiche che influiscono e determinano l’ordine stesso’ (p. 33). Un Gramsci, dunque, interessato alla fitta rete di meccanismi e fenomeni di disciplinamento non direttamente politici, ma tipicamente sociali, che in un primo momento vengono scambiati per riflesso della struttura economica, salvo poi essere compresi pienamente nel loro ruolo di riproduzione dell’ordine borghese. La vera sfida dell’opera di Filippini è quindi inquadrare il contesto di massificazione e gli strumenti delle scienze sociali che corrono in ausilio delle nuove esigenze di questo tipo di società, per poi capire come queste suggestioni vengano percepite, ma soprattutto rielaborate da Gramsci, e messe al servizio di un progetto di società diverso. In tal modo, il doppio statuto del pensiero gramsciano è posto in primo piano: da una parte l’aspetto analitico , la «filologia della società», dall’altra lo slancio strategico-programmatico.

Il primo capitolo presenta un crogiolo di temi gramsciani trattati negli scritti pre-carcerari: argomenti non interamente dissimili fra loro, ma talvolta disassati. In questo modo, la trama non si svela immediatamente, ma emerge con maggior chiarezza lungo il corso del testo. Qui trovano spazio le considerazioni di Gramsci circa il conformismo, concettualizzato come un’inerzia diffusa che risulta funzionale al mantenimento armonico della formazione sociale e che è indotta attraverso pratiche di potere che si intrufolano fino agli aspetti più intimi della vita dell’uomo. Tale elemento viene approfondito nel secondo capitolo con un riferimento alla disamina gramsciana dei minuti fenomeni della vita quotidiana e il ruolo sottile dell’ideologia. Quest’ultima, tuttavia, non è più intesa da Gramsci come un apparato mistificatore e induttore di falsa coscienza, bensì – in una mossa che anticipa Althusser – come un sistema di idee, una visione del mondo che inquadra gli individui in schemi d’azione preordinati, contribuendo in tal modo a sostenere ‘spontaneamente’ un sistema di potere.

A ben vedere però, sono soprattutto le riflessioni epistemologiche di Gramsci a rivestire un ruolo principe nel primo capitolo. In questo senso, Gramsci è critico sia del positivismo delle scienze sociali che di quello evoluzionista di marca socialista, ma nonostante ciò ne importa i concetti di ‘modello’ e ‘legge’, pur attenuandone la portata. In altre parole, modello e legge rappresentano per Gramsci degli strumenti di somma importanza per l’indagine della realtà sociale, anche quando non vanno loro attribuiti valori assoluti come nel caso delle scienze naturali. L’inevitabilità insita nel positivismo socialista viene però avversata da Gramsci senza riserve, a causa della passività politica che induce tra le masse operaie. Tuttavia, il pensiero stesso di Gramsci ne risulta influenzato: un esempio tra tutti è la concezione della società come un organismo di cui studiare le disfunzioni. Queste “anomalie” vengono però spiegate attraverso la presenza di norme sociali diverse, portatrici del seme di un nuovo conformismo ispirato a un’altra umanità.

Di questo seme è depositaria, per Gramsci, la classe operaia, anche in virtù delle condizioni di socialità strutturata e concentrazione che rendono la fabbrica il posto più congeniale all’apparizione di un’alternativa. Un Gramsci operaista negli anni del biennio rosso dunque? Filippini affronta in modo persuasivo questo nodo classico dell’interpretazione di Gramsci rifiutando l’ipotesi della discontinuità teorica, e inquadrando le riflessioni di quegli anni nella congiuntura storica dell’agitazione operaia. Gramsci, dunque, non rinuncia a concepire gli operai come la classe fondamentale, ma sempre nella cornice di un’alleanza con i contadini e i gruppi sociali intermedi – vera e propria novità del pensiero gramsciano nel solco avviato da Lenin.

Con il secondo capitolo, l’attenzione passa interamente ai Quaderni. Il punto di partenza è la concezione dell’uomo, per Gramsci un dinamico «centro di annodamento» tra individualità e mondo esterno, un’entità stratificata all’interno della quale coesistono in tensione permanente la soggettività individuale e l’oggettività della pressione sociale. Oltre all’influenza marxista, Filippini scorge qui l’impatto della sociologia francese e di Émile Durkheim in particolare; ma mentre per quest’ultimo gli individui sono ‘contenuti da un principio di coesione che è immanente alla società’ (p. 72) e che quindi impedisce che una parte vi agisca con possibilità di stravolgerla, Gramsci ravvisa una fessura che contempla il sovvertimento dei rapporti vigenti, attraverso la costituzione di una personalità – collettiva in questo caso – di un settore della società in risposta alle condizioni di socialità a cui è sottoposta.

È a cavallo tra la resistenza dell’ordine capitalista in Occidente e lo sviluppo della società comunista in Unione Sovietica che si sviluppa il tema dell’organicità in Gramsci, a cominciare dalla celeberrima questione degli intellettuali. Qui, secondo Filippini, il contributo originale in Gramsci ha a che fare non tanto con il processo di costituzione di un’intellettualità propria della classe operaia, ma piuttosto con la relazione da stabilire con gli intellettuali classici, concettualizzati da Gramsci come ‘sedimentazione storica di mutamenti politici e sociali del passato’ (p. 76) e quindi organici alla società in generale, ma non necessariamente al gruppo dominante. L’autonomia di cui godono questi intellettuali li rende in qualche modo conquistabili alla causa della classe operaia, attraverso l’erosione dei legami esistenti con il gruppo dominante e il loro riorientamento. Si tratta di un problema tecnico oltre che politico, il quale ha avuto la sua massima espressione nelle difficoltà dei bolscevichi a gestire l’apparato burocratico con i ‘tecnici borghesi’. Si noti quindi che per Gramsci – e di questo aspetto dà ben conto il quinto capitolo – la nozione di intellettuale ha un’estensione maggiore rispetto alla concezione tradizionale che contempla unicamente la dimensione teorica, includendo qualunque figura sia in qualche modo funzionale all’organicità di un determinato ordine e portatrice di una razionalità che la legittima e la precede.

Queste riflessioni rendono chiara l’idea di come per Gramsci la preoccupazione maggiore sia quella di gettar luce sui dinamici meccanismi interni alla società civile che permettono l’esistenza di un determinato ordine politico. Emerge qui tutta l’eterodossia di Gramsci: non è sufficiente che un gruppo si affermi nel mondo della produzione né che costituisca un’intellettualità rigorosa tale da rendere il gruppo omogeneo e consapevole. Piuttosto, c’è bisogno di aggredire l’organicità della società stessa attraverso una guerra di posizione che disarticoli e riarticoli diversamente gli elementi esistenti. Seguendo le tracce dell’organicità, si arriva anche alla concezione gramsciana del centralismo democratico (o organico) in contrapposizione a quello burocratico: mentre quest’ultimo prevede una semplice cooptazione attorno a una direzione sacerdotale, il primo consiste nell’adeguamento dell’organizzazione al movimento della realtà, alla ricerca di una forma unitaria che permetta tuttavia pluralità e conflittualità al proprio interno, cercando in tal modo il consenso attivo e partecipato dei singoli. Solo così sarà possibile approfittare delle crisi oggettive di organicità dell’ordine capitalista: attraverso un movimento soggettivo che rende concreta un’organicità alternativa, la quale appunto si coltiva costituendo una nuova struttura sociale, un nuovo blocco storico.

Filippini affronta poi i giudizi negativi espressi da Gramsci riguardo al testo ‘La teoria del materialismo storico’ di Nikolaj Bucharin. Vi è qui una lunga digressione storica che contestualizza l’intervento gramsciano e che permette una rilettura radicale del rapporto intellettuale tra i due. Secondo Filippini infatti, Gramsci fraintende il contributo buchariniano, il cui nocciolo è in realtà consonante al suo. In breve, entrambi sostengono l’importanza dei nessi causali nello studio della società, nel nome di una certa regolarità dei fenomeni sociali. Questo però non li porta ad abbracciare il fatalismo, coscienti del fatto che la relativa stabilità di certe dinamiche non possa portare ad ascrivere alcuna finalità ai processi storici. Nel dibattito moderno, si tratta di una mossa simile a quella compiuta da Jon Elster attraverso la sua nozione dei meccanismi causali, veri e propri sostituti delle leggi: i meccanismi, in altre parole, hanno capacità esplicativa, ma non di previsione. Dove invece la critica gramsciana di Bucharin coglie nel segno, secondo Filippini, è nel rifiuto dell’oggettività come dato immodificabile, ritenendola piuttosto il frutto della battaglia tra diverse ideologie, le quali svolgono una funzione unificante, normalizzante, rendendo storica l’oggettività. Bucharin invece, pur dando ampio spazio alla questione delle sovrastrutture, giustifica il materialismo storico attraverso il senso comune, e quindi rimpicciolendo lo spazio per una presa di coscienza critica sull’oggettività.

Altrettanto importanti sono le convergenze più schiettamente politiche tra i due. Spicca in questo senso l’equazione tra la teoria dell’equilibrio di Bucharin e quella dell’egemonia di Gramsci. Il russo, attraverso la NEP, aveva infatti dato vita alla costruzione di un’alleanza tra operai e contadini sul piano economico, base del nuovo blocco storico da costruire. Gramsci crede che questa operazione vada svolta anche a monte della conquista dell’apparato statale: la funzione dirigente, vera e propria cifra del concetto di egemonia, consiste per la classe operaia nel forgiare i nessi nell’ambito culturale e intellettuale con altri settori sociali prima della presa del potere. Tuttavia, è anche nell’analisi della fase successiva alla presa del potere che Filippini scorge una corrispondenza tra Bucharin e Gramsci. Entrambe le teorie contemplano infatti la fluidità dell’equilibrio e con essa la necessità di rinnovare all’interno della «vita statale», intesa da Gramsci in termini allargati come connubio tra società politica e società civile, la tessitura tra gli interessi del gruppo fondamentale e di quelli subordinati.

Sarebbe però sbagliato leggere Gramsci come un autore esclusivamente interessato a preoccupazioni di indole culturale. Di questo Filippini rende ben merito mettendo a tema le riflessioni di Gramsci su americanismo e fordismo, che non sono altro che le trasformazioni “di massa” nella sfera economica. Su questo punto l’autore del testo sottolinea giustamente che le trasformazioni produttive vengono inquadrate da Gramsci in un contesto societario più ampio che non si esaurisce con la fabbrica. Si tratta cioè dei processi di disciplinamento che includono il tentativo di regolamentare l’intera vita dell’operaio e renderla consona alle nuove esigenze produttive. Per il pensatore sardo però, questo tentativo è destinato a rimanere inconcluso, in quanto a suo dire il lavoratore non riuscirà mai a interiorizzare del tutto quella che resta un’imposizione esterna (pur condotta soprattutto attraverso mezzi persuasivi), in contrasto con quanto starebbe accadendo in Unione Sovietica, dove invece i lavoratori acquisiscono e fanno propria una nuova disciplina. Vi è qui un elemento di ambiguità che è bene porre in rilievo. Gramsci infatti trova che l’americanismo, la fusione cioè tra taylorismo (un discorso tecnico di razionalizzazione aziendale) e il fordismo (il disciplinamento di cui sopra), rimanga aperto alla conflittualità, all’irruzione dell’anticonformismo operaio. Un’insistenza che tradisce i residui di necessità in Gramsci: se la contingenza che implicitamente tematizza fosse veramente assunta fino in fondo, ogni ordine sarebbe esposto per definizione all’instabilità, mentre Gramsci sembra suggerire la possibilità di trascenderla in un sistema comunista, grazie a una completa e naturale interiorizzazione della disciplina che viene richiesta.

Su ciò che viene definito il nesso psico-fisico, cioè il tipo di equilibrio psichico e fisiologico richiesto dall’industrialismo americano, Filippini traccia un pregevole parallelo tra le riflessioni di Gramsci e quelle di Max Weber. Anche il tedesco infatti si concentra nello studio delle qualità caratteriologiche preferite dalla moderna industria e su quanto quest’ultima sia al contempo legata a una serie di condizioni pre-esistenti nel corpo produttivo. Ne emerge però un quadro pessimista di fronte a ciò che Weber definisce la gabbia d’acciaio della razionalizzazione, la quale determina una perdita di senso del mondo e che può essere mitigata solamente da una forza d’animo individuale. Gramsci al contrario ribalta l’ineluttabilità weberiana, nella convinzione che il processo sia dipendente dal comando politico che lo promuove (il quale può essere cambiato) e che il prototipo di operaio medio che l’americanismo cerca di plasmare attraverso un assortimento di coercizione e salari alti sia impossibile da ottenere. Solo in ordine nuovo, caratterizzato da un’altra condotta che l’operaio sarà in grado di recepire come emancipatrice, il potere “conformante” potrà essere percepito come propria emanazione.

Per questo c’è bisogno di un nuovo rapporto tra governanti e governati. Di questo si occupa l’ultimo capitolo del libro. Qui, come segnala lo stesso Filippini, si intrecciano i campi semantici della democrazia e della rivoluzione. D’altronde, il paradosso che si crea tra democrazia intesa come governo del popolo e democrazia intesa come tecnica di decisione di quella che resta una minoranza, si intensifica nella società di massa e pone in evidenza difficoltà non del tutto estranee al campo rivoluzionario. Gramsci infatti assume criticamente la trattazione di queste problematiche effettuata da scienziati sociali estranei alla sua tradizione, per poi riorientarne le acquisizioni al servizio del rinnovo della teoria rivoluzionaria. In particolare, Gramsci rivolge la propria attenzione ai concetti di ‘classe politica’ in Gaetano Mosca ed ‘élite’ in Vilfredo Pareto: nozioni che lo aiuteranno a sviluppare la famosa distinzione tra classe dirigente e classe dominante. Filippini tuttavia si sofferma in particolare sul rapporto tra individuo singolo ed organismo collettivo. In questo senso, il «moderno principe» deve evitare di riprodurre la divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, così come quella speculare tra rappresentanti e rappresentati. Questo in vista della necessità di anticipare nella società presente gli elementi dell’ordine nuovo. Il partito della classe operaia, in altre parole, è antesignano del nuovo Stato e deve già covare al proprio interno una relazione diversa tra comando e obbedienza. Fa bene l’autore a sottolineare a questo punto la dipartita del pensiero gramsciano da quello leninista, all’interno del quale invece il partito svolge una funzione di avanguardia: un’esperienza irripetibile in Occidente, dove una nuova volontà collettiva va costituita all’interno del vecchio ordine, aderendo il più possibile alla vita intima delle masse.

È in questo senso chiara la sfida che Gramsci lancia alla «legge dell’oligarchia» di Robert Michels, il quale postulava invece il governo di una piccola minoranza su una grande maggioranza all’interno degli organismi collettivi come una necessità assoluta, imputabile a fattori organizzativi e psicologici intrinseci. Per Gramsci, la soluzione risiede invece nella creazione di élites intellettuali che rimangono a stretto contatto con la massa e che ricevono la propria spinta dal basso, pur senza abdicare a un ruolo educativo che rivoluziona i costumi dell’epoca. In tal senso, la continuità della struttura non può essere messa in discussione, altrimenti si corre il rischio dell’improvvisazione: la filosofia della prassi di Gramsci traccia quindi un percorso teso ad evitare la Scilla del burocratismo e il Cariddi della discontinuità, tenendo sempre presente la necessità di assicurare un rapporto fluido e dinamico tra masse ed élites.

Per concludere, l’opera di Filippini compie una serie di operazioni teoriche con importanti ricadute sui piani dell’analisi e della strategia. In primo luogo, l’autore mette in luce come Gramsci tenda sempre ad ampliare l’accezione dei concetti e dei fenomeni sociali. Nozioni come diritto, coercizione, Stato assumono nuove connotazioni nella rielaborazione di Gramsci, e Filippini inquadra particolarmente bene questo movimento con un lavoro esegetico ottenuto grazie a un sistematico raffronto tra il corpus gramsciano e gli stimoli intellettuali delle scienze sociali a lui coeve. Si tratta di estensioni concettuali che non diluiscono le nozioni, ma le arricchiscono, gettando luce su aspetti spesso rimasti inesplorati e fornendo nuovi strumenti di comprensione della realtà. Come non cogliere in questo lavoro, dunque, un monito verso coloro che da sinistra perseguono i propri obiettivi analitici in isolamento rispetto a quanto avviene odiernamente nel contesto delle scienze sociali mainstream, le quali possono risultare preziose, previo re-indirizzamento, alla teoria emancipatrice.

Tale avvizzimento ha un parallelo anche nella sfera strategica. Filippini rende ben onore alla carica anti-positivista di Gramsci e alla sua natura di pensatore marxista eterodosso. Gramsci ci viene restituito come vero innovatore del marxismo, grazie allo sdoganamento dell’importanza della soggettività e del carattere storico dell’oggettività. Sono passaggi con ricadute particolarmente ricche su come impostare la pratica politica emancipatrice, non tanto in virtù del riconoscimento della varietà geografica occidentale che vuole lo Stato e il suo rapporto con la società civile diversi (un Gramsci come Lenin dell’Europa Occidentale, nell’intepretazione di Biagio Di Giovanni), quanto in virtù dell’indebolimento del riduzionismo classista. Su questo fronte abbiamo quindi un richiamo velato a tutti coloro che hanno imbalsamato Gramsci, attraverso un immagazzinamento e una riproposizione statica del suo pensiero, con l’effetto di trasformare la figura in una semplice immagine votiva di cui citare i passi più celebri. Di Gramsci, in altre parole, non si coglie oggigiorno il metodo: lo storicismo assoluto, nozione di cui Filippini non fa mai esplicitamente menzione, ma che aleggia pervasivamente lungo il testo. Certo, come sottolineato qualche riga più su, permangono dei residui di economicismo ed essenzialismo in Gramsci, propri in parte della centralità operaia della sua epoca e in parte di un percorso di rinnovamento del marxismo non ancora completo: questioni che Filippini non tematizza, ma che d’altronde rimangono fuori dallo scopo dichiarato del libro. Tuttavia, è proprio lo slancio volto alla revisione dei fondamenti, pur mantenendo un solido ancoraggio alla tensione ideale di partenza, a risultare centrale. Forse dunque, essere fedeli a Gramsci vuol dire non tanto aderire strictu senso al contenuto del suo corpus, quanto allo spirito che lo ha animato.

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Filippini, M. (2011) Gramsci globale. Guida pratica alle intepretazioni di Gramsci nel mondo, Bologna: Odoya

Laclau, E. e Mouffe, C. (2011) Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale (1985), traduzione di F.M. Cacciatore e M. Filippini, Genova: Il Melangolo

alieni al teatroinscatola

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alieni_cover

sabato 19 marzo 2016, alle ore 18:00
Teatroinscatola : Roma, Lungotevere degli Artigiani 12-14 (qui)

gammm presenta
(in prima assoluta)

Quando arrivarono gli alieni

di
Gherardo Bortolotti

Benway Series, 2016
https://goo.gl/5DF0oX

(con testo inglese a cura di Johanna Bishop)

https://www.facebook.com/events/242422382762021/

sarà presente l’autore

*

Con la partecipazione di
Luca Venitucci

[Dal testo:]
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Molti non riuscivano a rivolgere la parola agli alieni, temendo che una loro risposta facesse esplodere ciò che era vero, la minima tensione superficiale tra le cose di tutti i giorni, la patina degli eventi reali, aprendo la strada alle rovine dei mondi alternativi, concorrenti, agli universi paralleli, scartati nella successione dei minuti, da piccoli fatti, coincidenze realizzate, gesti distratti compiuti sulla porta di casa, leggendo per strada un messaggio.

[Excerpt:]

356

Many could no longer bring themselves to speak to the aliens, fearing that their answer would burst open what was true, the slight surface tension of everyday things, paving the way to the ruins of alternative, competing worlds, parallel universes, discarded in the flow of minutes, of minuscule events, materialized coincidences, distracted gestures while going out the door, reading a text message on the way.

Il sesto giorno

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12842521_10154167083802240_1835998780_oDa ieri nelle librerie, pubblicato da Fazi Editore, nella collana Darkside, “Il sesto giorno” di Rosanna Rubino è un libro che s’interroga e ci fa riflettere sul futuro umano e tecnologico che (forse) ci aspetta.
Di seguito, un breve estratto.

di Rosanna Rubino

Ronnie era rimasto in piedi sulla porta.

Ragazzo continuava a pettinare i capelli del padre, ciocca per ciocca, aiutandosi con le dita per allentare i nodi, fino a quando i nodi si scioglievano e il pettine andava giù liscio lungo tutta la lunghezza del capello, dalla radice fino alla punta.

L’uomo non sembrava accorgersi di quello che accadeva intorno a lui. Fissava il vuoto con sguardo bovino. Ruminava come se stesse masticando qualcosa, ma non aveva nulla in bocca. Aveva il viso affilato, così magro che pareva scarnificato. La sua testa era tutta occhi, due schegge trasparenti, affilate come ghiaccio. 

Bellissima fiera a Milano

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Con il nome di Bellissima Fiera a Milano presso il Palazzo del Ghiaccio dal 18 al 20 Marzo si terrà la mostra dell’editoria indipendente in ideale continuazione con quella tenutasi con gran successo l’anno scorso. Bellissima Fiera non sarà soltanto l’occasione per i lettori di trovare libri dell’editoria indipendente e di seguire dibattiti su vari aspetti e tematiche della nostra cultura, ma un momento importante per la costituzione di una filiera della produzione libraria indipendente che vada per così dire dall’autore al lettore passando per editori e librai. Si tratta insomma di costruire una rete di relazioni per innovare il modo di fare e organizzare cultura in Italia. A questo proposito vale la pena segnalare venerdì 18 alle ore 19 un incontro dedicato al poeta bolognese Roberto Roversi, una figura che ha interpretato in anticipo sui tempi una strategia del riposizionamento dell’intellettuale e dello scrittore di fronte all’emergente società dello spettacolo; sabato 19 alle 13.15 ci sarà un dibattito su romanzo e mercato con Nanni Balestrini, Paolo Fabbri, Angelo Guglielmi, Daniele Giglioli e Aldo Nove; sempre sabato alle 16.30 Emanuele Bevilacqua, direttore del neonato e innovativo nella formula Pagina 99, terrà una conversazione sulla crisi della carta stampata. Naturalmente questi non sono che pochi appuntamenti all’interno di un programma ben più vasto e articolato.

Infondo si può dire che questa  fiera otterrà successo se riuscirà a fare massa critica, anzi se diventerà per il mondo dell’editoria quello che critical mass è stato per il traffico delle grandi metropoli.

Bellissima Fiera

Milano, Palazzo del Ghiaccio, via Piranesi 14

Venerdì 18 marzo 14-22

Sabato 19 marzo 10-22

Domenica 20 marzo 10-22

Ingresso 2 euro

Per scaricare l’intero programma di presentazioni di libri, eventi e incontri:

clicca qui

Tutti i ragni 1 – I ragni e l’infanzia

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Il mese scorso è arrivata un brutta notizia, :duepunti edizioni di Andrea Libero Carbone, Giuseppe Schifani e Roberto Speziale chiudeva definitivamente i battenti. In realtà l’editore palermitano aveva già sospeso le pubblicazioni nel dicembre duemilaquattordici, limitandosi a vendere ciò che c’era già in catalogo. Un fatto particolarmente doloroso dato che avveniva sostanzialmente per ragioni distributive, e nonostante la qualità della proposta di :duepunti fosse ampiamente riconosciuta.

Capaci di riproporre Il verbale del nobel Le Clézio tre anni prima del premio, portatori di libri imprescindibili come Europeana di Ourednik, ideatori di una collana di saggistica raffinatissima, tra le loro proposte c’era anche la bella collana Zoo diretta da Vasta e Voltolini, nella quale ho avuto il piacere di uscire – in compagnia di Abbate, Bianchi, Enia, D’Amicis, Falco, Genna, Giorgi, Lagioia, Magliani, Mozzi e Santangelo – con un piccolo romanzo dedicato ai ragni.

Adesso Tutti i ragni torna di pubblico dominio, pertanto assieme all’amica Francesca Matteoni abbiamo deciso di pubblicarlo in otto puntate, tante quante le parti che lo compongono, qui su Nazione Indiana; a margine dell’ultima puntata anche l’ebook verrà lasciato in libero download (V.S.).

di Vanni Santoni

The spider’s touch, how exquisitely fine!
Feels at each thread, and lives along the line.
Alexander Pope, An Essay on Man

 

1Pseudo-araña_nocturna_(opilion)Ho sei anni. Sono in montagna. I miei genitori hanno preso in affitto un appartamento in questo edificio molto grande, un complesso di case. Forse una volta è stato un convento, dice mio padre. Muri in pietra, ogni pietra un lichene; muschio su quelle più basse. Nel nostro cortile, sedie di lamiera traforata e un tavolo di pietra attorno al quale tre massi fanno da sgabelli.

Mia madre mi indica un bambino, nel giardino della casa sull’altro lato. Lo vedo alla distanza, ha una tuta, anzi un toni, marrone. Ha la tua età, dice mia madre. Il bambino non mi ispira fiducia. Mia madre mi porta giù. Parla con la madre del bambino. C’è forse un complotto. Il bambino mi guarda storto, ha il naso sudicio. Su uno scalino di pietra, in fondo, gorgoglia e ridacchia una lattante. Ha i capelli neri, come il bambino lì davanti a me. Sento sopra di me le chiacchiere di mia madre con la madre del bambino. Il bambino mi chiede se voglio vedere i sassi che ha raccolto. Dai, vai a vedere i sassi che ha raccolto Federico, dice mia madre.

Venti minuti più tardi siamo migliori amici. Le nostre madri ci permettono di stare non solo in giardino, ma anche di passare sotto a un buco nella rete che c’è sul lato sinistro e andare nel greppo accanto alla casa. Oltre il greppo c’è una siepe di tasso che protegge il cortile di una villa buia, dove non andiamo. Giochiamo nel greppo. Ci lanciamo giù su delle tavole di compensato, cadiamo e ci ributoliamo nella rena. In fondo al greppo c’è una strada. A sinistra la strada si ferma quasi subito e c’è una casa, ci abita un bambino di poco più grande di noi. Ha una camicia a quadretti rossi, scarponcelli ai piedi. Ci guarda male. Noi pure lo guardiamo male. A destra invece la strada continua. L’unica automobile che la percorre in uno o nell’altro senso è la R4 del nonno del bambino. A volte, seduto davanti come un grande, c’è anche lui. Passa e ci guarda male da dietro il finestrino.

Ogni giorno esploriamo un pezzo di strada in più. Molto a destra la sterrata sbocca in una strada grande, asfaltata. È la statale, dico a Federico. Lui mi guarda. Se vai in su arrivi a Vallombrosa, gli dico. E se vai in giù?, mi chiede, ma mio padre non mi ha mai parlato di cosa succede se vai in giù. Arrivi a Montevarchi, butto là.

Le automobili passano veloci, lì. Ci fermiamo, ne guardiamo sfrecciare un paio. Quando facciamo per tornare sui nostri passi, notiamo una macchia di ortiche, proprio dove la sterrata fa angolo con la statale. Una poderosa spuma d’ortiche, e le più grosse, in mezzo, sono molto più grosse di qualunque ortica tu possa incontrare da sola. Dietro la macchia, un alto muro. Ti immagini a cascare da lassù e finire in mezzo alle ortiche, dico. Federico si avvicina alla macchia e mi dice: guarda.

Quasi tutte le piante d’ortica hanno sopra un ragno. Molte ne hanno due, alcune anche tre o quattro. Stanno lì fermi sulle foglie più grandi. Sono ragni dal corpo a bottone, giallo con una striscia nera in mezzo, le zampe lunghe e fini.

Nei giorni successivi è un via vai continuo alla “ragnaia”. Dal cortile andiamo nel greppo, scendiamo coi compensati, guardiamo male il bambino in camicia, facciamo tutta la strada, arriviamo alla ragnaia, preleviamo i ragni, li mettiamo dentro a delle caraffe che prendiamo a mia madre, li riportiamo al cortile, mettiamo le caraffe sul tavolino di pietra. A volte nelle caraffe c’è un residuo di miele e i ragni ci restano impiastricciati con quelle zampe sottili. Usiamo anche una scatola da scarpe, senza neanche metterle il coperchio: questi ragni sono lenti e prima che ce la facciano a uscire siamo già tornati da un altro giro alla ragnaia e li spingiamo di nuovo giù prima di buttare dentro i nuovi. Siamo così orgogliosi della ragnaia che un giorno lo diciamo anche al bambino lì sotto: abbiamo la ragnaia! Quello ci guarda male.

Prendiamo moltissimi ragni e li portiamo su, stiamo in cortile a giocare coi ragni. Li facciamo scappare e li catturiamo. Facciamo percorsi per i ragni. Smontiamo i giocattoli più grossi, ci mettiamo i ragni dentro e li guardiamo mentre cercano di uscire. Proviamo a dare delle formiche ai ragni, ma i ragni le ignorano e quelle scappano via. Proviamo a staccare una zampa a un ragno e lo guardiamo camminare appena un poco fuori asse. Proviamo a staccare due zampe a un ragno. Tre zampe. Un ragno a cui abbiamo staccato tutte le quattro zampe di un lato arranca in diagonale. Guarda questo, fa Federico. Guardo il ragno a cui ha staccato tutte le zampe. Guardo sulla pietra quel povero bottone giallo e nero.

Ho otto anni. Al mare nel primo pomeriggio non si esce, fuori il sole schianta la città, fa sudare veleno agli oleandri e scalda le radici dei pini, che escono e fanno saltare i marciapiedi. Abitiamo da una signora che in estate affitta la casa e va a stare nei fondi. La signora ha un marito che l’anno scorso è morto. Aveva grandi piedi nei sandali e occhiali da sole fumé. Girava in giardino, fumava moltissime sigarette. La stanza dove gioco è il suo salotto, si capisce perché ci sono molti posacenere, e in un cassetto anche una scorta di Merit. Noi mangiamo in tinello, dove c’è un quadro che secondo mia madre ha un valore, perché la signora che ci affitta la casa lo ha vinto a bridge a un’altra signora che abita due strade più in là, che aveva il marito pittore e si è ritrovata povera e allora si gioca i quadri oppure se li vende per un nulla. Quello che c’è in tinello rappresenta una specie di laguna. È il lago di Massaciuccoli, dice mio padre.

Gioco con i Transformers. Ho molti Transformers, mio padre mi fa una specie di concorso in cui per ogni cosa buona che faccio prendo dei punti oppure ne perdo in caso di azioni cattive, ma è un arbitro più che benevolo e questa evenienza è quasi impensabile. Quando raggiungo tot punti posso ottenere dei premi, oppure avanzare fino a ottenere il premio finale. Punto sempre e solo al premio finale, e chiedo sempre uno dei combiner, quei grossi robot composti da cinque Transformers. Pentacar, con cui sto giocando in quel momento, è composto da Transformers che divengono rispettivamente una Porsche, una Lamborghini, una Tyrrell da Formula 1, una Ferrari 308 e un tir, che forma il corpo centrale del robot gigante – le altre auto sono gli arti.

Qui a Viareggio c’è un bambino che ha anche più Transformers di me, nonostante io non faccia altro che comportarmi bene e chiedere in cambio Transformers. Ha anche i Gi-I-Joe (che io non ho), i Masters (dei quali ho solo Skeletor, Moss-Man e Modulok) e qualunque Playmobil sia mai stato stampato. Si chiama Tommaso, ha una testa grossissima e sta con i nonni in una casa simile alla nostra, ma senza una padrona nei fondi. Non so se i suoi genitori siano morti o cosa, fatto sta che vive con questi nonni che gli comprano qualunque cosa. E infatti ha anche Predaking, il combiner più grosso di tutti, che non ho mai osato chiedere a mio padre perché: a) a differenza degli altri non viene venduto anche in una scatola unica, ma lo puoi ottenere solo comprando tutti i singoli Predacon. b) un singolo Predacon costa 35.000 lire. Per capirci, le singole auto di Pentacar ne costano 9.900. A volte al pomeriggio vado da lui, ma non giochiamo a Transformers: giochiamo a videogame perché al mare non ho il computer mentre lui ha l’Amiga con Bard’s Tale e Tass Times in Tone Town.

Se non vado da Tommaso gioco in casa perché in giardino spesso c’è la signora e non mi piace incontrarla. L’anno prima, che era il primo anno in cui affittavamo quella casa, ci andavo spesso perché il marito della signora aveva una tartaruga. Ma quest’anno che non c’è più il marito, non c’è più neanche la tartaruga.

Gli avvolgibili sono abbassati per il caldo; l’impiantito di marmo è fresco. Sul tavolo una brocca d’acqua, i resti di tre cubetti di ghiaccio che vanno a scomparire. Mia madre e mio padre non ci sono.

Se i Transformers hanno un difetto, è che se li trasformi in modalità automobile, o camion, o ruspa, e poi li lanci, fanno poca strada. Non come una Hot Wheels o una Micromachine, per capirci. Si arenano quasi subito, oppure curvano e si fermano. Giusto la Porsche di Pentacar va un po’ meglio. Vado in cucina, prendo l’oliera, la porto in salotto. Le olio le ruote, ma dall’oliera esce troppo olio e fa una chiazza per terra. Vado a prendere un panno e asciugo l’olio, ma sul verde del marmo rimane un’ombra. In quella, un tac tac tac tac dall’angolo più lontano della stanza e lo vedo arrivare, rosso, spesso, veloce. Passa sotto il tavolo e sfreccia verso di me. Passa in quella zona dove il buio della stanza è fesso dalla luce, e l’impiantito diventa  un alternarsi di rettangoli verde e oro. Alla luce il suo rosso è arancio; le zampe scattano meccaniche sui lati. Su per la schiena ho un solletico: un fruscio. Mi sposto di lato, il ragno che passa oltre e infila le scale, come se sapesse benissimo dove andare. Mi tolgo la maglietta, per controllare di non avere un ragno sulla schiena e resto lì mezzo spogliato, con qualche brivido ancora addosso.

[I – continua]

Auto-antologie-2. Francesco Filìa

6

di Francesco Filìa

 

VI

Creato in un luogo comune di fili sospesi, antenne

e asfalto di tetti addossati l’un l’altro. Sfuggo

all’agguato di bancarelle e ragazzi urlanti nel sole

cercando il freddo di travi che oscillano

nell’ultima stanza. Il grido delle strade si perde

nel grumo irrisolto del giorno, in un pensiero

aggrappato alla sua radice alla sua origine

oscura.

 

VIII

Ho gommapiuma dove dormire e acqua

da bere nel cassetto, ma ora vi immergo

un polpastrello rinsecchito e intingo

la vita nell’inchiostro

della biro esplosa in tasca, ora le

unghie sono sporche di terra e nero.

Mentre una scheggia del bicchiere apre

la via al sangue.

 

XIII

Ricorda la storia dei ragazzi feriti per gioco

il cigolio della porta, le monete che rimbalzano

sul muro tra le urla di scherno. La parola

è stata ripetuta come un rituale per non

far crollare il giorno. Il balzo su noi stessi

per sorprendere il mondo alle nostre spalle.

La gioia intuita dietro una parete e travi che

slittano oltre un sospiro e un colpo di storia.

Il teorema è stato imparato, non dimostrato.

Non bisognava provare a parole di esserci

bastava un gesto un foglio il sangue di chi

non sapeva.

 

XXII

Ma io parlavo soltanto con le case.

Mentre mi aggiravo selvaggio tra marciapiedi

e il piperno di androni aperti, dove infilarsi e violare

con lo sguardo la tregua di cortili o sfuggire

a un guardiano, genius loci. Strade percorse fino al limite

di vesciche e scarpe del colore giusto, maledette

d’asfalto o basalto dissestato. Gambe furiose che cercano

il termine di paragone.

 

XXIV

Gioia completa, senza l’ombra di un “ma”. Completa

di vento e vuoto. Si confondono mura, strettoie

e lo slargo di vetrine riflesse nei volti, dove finisce il senso

spezzato di una vita. Forse è giunto il giorno

di credere a una domanda mal posta, di capire

il silenzio di ogni sillaba, l’intermittenza dei giorni

e delle notti, di essere presi dall’aprirsi improvviso

di una strada a mezzacosta. L’arcano delle tempie

è ancora da comprendere.

 

XLII

Sei sceso nell’agguato delle strade per provare

che è lì il tuo ultimo respiro, che la tua vita

è nel gorgo di questi palazzi e non oltre

non altrove. La consegna da rispettare.

 

da Il Margine di una città, Il Laboratorio/ Le edizioni, 2008

 


 

(I frammento, Napoli 2007)

 

…noi siamo già quel che voi

sarete domani.

 

La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista

se non nella bocca a nord del vulcano

nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia

che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza

ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa

e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa

fino al midollo. Ce ne accorgiamo dai sorrisi tirati

dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada

dalle urla dei ragazzi impresse nell’aria, dal nostro esitare.

E non ci sono di conforto i nostri sogni agitati in piena estate

lo scambiare la notte per il giorno o il ricordo di una madre

il tepore della sua ombra. E se anche qualcuno di noi

si chiede qual è il respiro di queste strade, del loro teso

vibrare, della luce che apre spazio tra palazzi e i nostri

incerti passi affrettati rimarrà come un brusio di fondo

tra risate e un colpo di clacson. Tra misericordia

e cielo non c’è più tempo per esitare. L’assedio

è dentro le case. E’ tra la mano e il buio di stanze abbandonate

e non serve ritrarsi di scatto, anche le mura sapranno chi siamo

scrutando la paura nei nostri occhi e allora potremo solo obbedire

ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze

e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre

frammenti di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti

gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età

come chi dovrà morire sul serio.

 

(IV frammento, Napoli 2007)

 

Non saremo noi a sentire il tepore del disgelo, la neve

che si scioglie tra lava e cenere ammassata

l’alito della terra che rinasce. Rimarremo

nel vuoto di calcina e cemento armato tra crepe

e radici che penetrano le mura del nostro abitare

e allora saranno le nostre spalle nude a difendere

lo spazio di queste parole inermi a dare forza al respiro

tra portoni e auto in doppia fila e negli occhi di un passante

forse, vedremo una lontananza che ci accomuna

un insensato sperare e non sarà il suono di una campana

a richiamarci all’ordine, a richiamare all’ordine

questi incroci di mani dolenti e gesti furtivi. Ora

la città è lucida di pioggia e bisogna solo percorrerla

sino alla fine del nostro fiatare chiedendo

nel riflesso del semaforo sull’asfalto

il perché alle pietre, alle radici che insinuano

tra il porfido e la terra, tra i nostri passi e un’angoscia

di pugni stretti nei fianchi mentre la linea dell’orizzonte

collassa sui nostri corpi stremati …. e ora

solo ora, un passato di vicoli e bande di ragazzi

di chiostri e reperti che affiorano ci entra dentro

senza far rumore.

 

(XXII frammento, Napoli 2007)

 

Correvamo con la neve in tasca per paura che svanisse

come un sogno appena sognato nel soprassalto ghiacciato

di un risveglio. Il vento custodiva il rossore dei nostri

visi il viola dei polpastrelli raggrinziti il nostro fiato

gelato. Abbiamo confuso la minaccia di neve con

la sempre promessa e mai caduta manna, lo stesso

candore lo stesso deserto ma altro nutrimento altre

rovine, nessuna terra promessa, se non questo catalogo

di cose da dire di strade di cristalli che si sciolgono

prima di toccar terra per diventare fango, poltiglia.

Ci sorprendemmo a guardarla come un incanto

appena accennato, un disegno appena abbozzato.

 

(XXVI frammento, Napoli 2007)

La madonna della neve

 

C’è giunto in sogno con la forza di un respiro brinato

il luogo delle promesse non mantenute dei prodigi

mai compiuti, di una rosa che sboccia di sole spine.

Che ad agosto non nevica si sa, i miracoli non esistono

se non nella gioia dei semplici, di noi che aspettiamo

un passato che riscatti il perimetro delle nostre attese.

Con uno scongiuro non riuscito abbiamo predisposto

il rituale per salvare le nostre facce davanti, quelle

che abbiamo offerto all’offesa di ogni giorno al rito

di sangue e purezza di ogni nascita all’attimo che trasforma

il più nudo dei casi in ciò di cui non si è potuto mai fare a meno.

La cenere dei falò i copertoni delle auto abbandonate

la scaramanzia dei nostri cellulari accesi tutto è pronto

per un oltre di forme geometriche e cristalli da sciogliersi

al sole per essere nel silenzio di esagoni poggiati uno

sull’altro di fiocchi che definiscano il recinto

delle nostre preghiere, per un dono che non chiede

nulla in cambio, se non l’ultimo dei nostri respiri.

 

Da La neve, Fara, 2012

 


 

Corteo

 L’onda della folla s’infrange sul blocco nero
dei volti che fronteggiano gli sguardi
lineari di visiere e caschi a difesa
di un incomprensibile ordine. Lo scherno
di un inchino rivolto al nemico. La scena
della strada è muta, una frazione
una sospensione del tempo, l’attesa
di una scintilla del manifestarsi del dio
di ogni contesa del sangue che laverà i basoli
di porfido e malta che affogherà le urla
gli slogan. Orbite che tengono insieme
gli atomi impazziti di questo giorno, di noi,
di questa marea che sale tra spalle allineate
e teste girate a un futuro di palazzi e silenzi
tesi in un solo vibrare. Vortice di agguati
e provocazioni nel cielo rasoterra
di fine inverno. Con l’apnea di un ultimo
respiro attendiamo. Anelli di una catena
che sprofonda nel cupo cuore di un evento.

 

Assembramento Piazza Garibaldi

 La folla si avvolge in spire attorno
allo spray della statua dell’equestre
eroe che veglia su facce assonnate
o feroci nel grigio di un giorno
ancora inesploso, il vocìo indistinto
a tratti in cori si organizza
in slogan di desiderio e minaccia
di un assalto a un cielo ormai remoto
mentre una terra modifica se stessa
in un implodere d’asfalto e crepe
nei marciapiedi. Sono lì Andrea Ciro
che già parlano non so di quale massimo
sistema ed io mi avvicino esitante.
Provengo da non so quale
galassia remota dello spirito chiuso
tra un manuale da affrontare e un codice
di vita da decifrare, ma adesso in maschera
da combattimento vivrò un ultimo giorno
poi sarò vita che sopravvive a se stessa.

 

Il contesto

I

“Né eroina né polizia.” Contro
cosa protestiamo contro chi
urliamo il nostro disprezzo
di generazione in generazione?
Il fallimento dei padri – le loro
nevrosi cadute su di noi
come una colpa – che hanno
perso e barato che hanno spergiurato
e credono di essere esempio.
Non c’è un ordine contro cui
lottare ma un’anarchia del potere
che ci fa fare ciò che vogliamo,
non desiderarlo. Memorie
di una nazione morta
diciamo tra noi ridendo
giocando un gioco di ruoli: l’artista,
il nichilista, l’impegnato, la giornalista
ma ognuno è di meno di più di una
forma rinsecchita. È  la gloria di una resa.

 

II

Ardi divina tenaglia sul mondo!
Denaro merce più denaro. In quale
fase di questo ciclo ci colloca
il sistema che fa muovere
ogni singolo passo? Fine e mezzo
interscambiabili, la mano invisibile
che comanda un acquisto e un amore
indifferentemente. E se anche questo
fosse un rimedio? Alcuni ci vogliono al gelo
alla crudeltà della lotta per la vita
e credono così di aver colto
il nocciolo dell’esistenza, denaro
più denaro. Un vento travolge ogni
cosa per voler solo se stesso.
C’è una macina che trita i suoi grani
secondo dopo secondo, eone dopo eone
e noi torniamo sempre di nuovo
su quest’identici passi a correre
a urlare a cercare di aprire
il cerchio imperfetto di queste vite.

 

Primo Gennaio 2015 (Epilogo)

 Non abbiamo avuto nulla di meglio dopo
è vero, ognuno di noi assiderato
in questo crepaccio di piazze e tempo
in un mutismo attonito, occhi
sbarrati che scrutano dal nulla.
Un rimorso, il soffio di un’altra vita
sfuggente, sfumata. L’artiglio dei giorni
che implodono uno sull’altro. Sembra vero
il brulichio di corpi nelle strade,
cataste senza nome di desideri e grida,
anche le nostre ombre, tra le infinite altre
scivolarono su questi ciottoli di pietra lavica.
Non rimarrà traccia del filo di luce
amore bellezza furore – non so
ancora come chiamarlo – che ci ha legati
l’uno negli occhi degli altri per un attimo,
per quella gioia mozzafiato. Ognuno
tradito, da se stesso e dagli altri. Ora
con devozione e calma non resta
che allargare i labbri della ferita
che ci tiene in vita, non resta
che inoltrarsi, silenti, nella resa.

Da La zona rossa, Il laboratorio, 2015

 


 

In queste pagine sono presenti estratti dei tre poemetti da me pubblicati negli ultimi sette anni: Il margine di una città, La neve, La zona rossa. I tre libri, pur essendo stati concepiti in tempi diversi e con ispirazione ed elaborazione differente, visti a posteriori possono rappresentare una vera e propria trilogia che ha come protagonista la città di Napoli. Infatti  di volta in volta, Napoli, si fonde con l’io lirico, come ne Il margine della città, si pone come deuterantagonista, come ne La neve, in cui assume il ruolo di tremenda, ancestrale grande madre e nel terzo, invece, in cui sembra arretrare sullo sfondo degli eventi narrati e la trama si apre a più voci che si contrappongo tra loro, rimane, però, come polo dialettico negativo e incombente. A queste tre diverse posizioni della città – che però è sempre vista in momenti unici, dal margine esistenziale e periferico, nel momento eccezionale di una nevicata, o in quello di una manifestazione che rompe il normale scorrere degli eventi – corrispondono anche tre diversi respiri del verso. Nel primo poemetto la versificazione assume una dimensione compatta che tende alla verticalità, in cui il verso è più o meno immediatamente la traduzione di una visione assoluta e inaggirabile e il soggetto lirico più che vedere è visto e attraversato dalle immagini che urgono d’imporsi nella loro evidenza. In La neve, invece, il verso tende a dilatarsi, a saggiare, parallelamente a un inesausto e frenetico aggirarsi per le strade cittadine, il limite estremo del respiro. I versi si strutturano in lunghe lasse, che però non ambiscono a una narrazione compiuta ma a un equilibrio tra la verticalità del dire poetico e l’orizzontalità della narrazione, in tale ottica il frammento, che caratterizza in particolare i primi due poemi, permette di rendere questa coappartenenza di due prospettive apparentemente divergenti. Ne La zona rossa invece l’intento si fa più scopertamente narrativo, i versi diventano strumento di un racconto, di una storia da trasformare in dettato poetico. I versi tendono a farsi più brevi, a ritornare nell’alveo mobile dell’endecasillabo per sfruttarne la duttilità espressiva, in modo da poter oscillare dal drammatico al grottesco e, al tempo stesso, rendere sia l’apertura espressiva, sia la nervosa icasticità delle sequenze.

Napoli, la città in cui sono nato e cresciuto e dove, tranne una breve parentesi in Lombardia, ho sempre vissuto, in questi testi sta anche per altro, è l’emblema dell’enigma del mondo, del suo implacabile ciclo di creazione e distruzione, che richiede la lente, deformante e rivelatrice, della parola poetica per poter essere indagato. In questa prospettiva per me l’attività poetica è un’attività conoscitiva, è percezione, è ascolto, è il luogo in cui ci si confronta in prima persona con le forze, visibili e invisibili, che ci attraversano e ci governano. La poesia, come la intendo, è oltre la distinzione tra forma e contenuto, in quanto più ci approssima alla verità da dire tanto più la forma ne consegue e, viceversa, lo stile è la verità della poesia. Il poetare, come ogni attività umana, è finito e fallibile, ma esso, a differenza delle altre attività, non rimuove il fallimento insito in ogni fare, ma lo dice fino in fondo. Insomma l’attività poetica per me si presenta come un discorso sul limite, sull’impatto tra contingenza e necessità, un modo per affrontare le estreme possibilità della parola e della dicibilità delle cose, in questo risiede il suo valore estetico, nel senso etimologico del termine, la sua possibilità di sopravvivenza.

(Francesco Filìa)

 


 

Nota Biobibliografica

Francesco Filia vive a Napoli, dov’è nato nel 1973. Insegna filosofia e storia in un liceo cittadino. Si interessa prevalentemente di filosofia, poesia e critica letteraria. Suoi testi sono inseriti in varie antologie tra cui: Armi di pace (Il laboratorio, 2005); Da Napoli/verso (Kairos edizioni, 2007); Il miele del silenzio (Interlinea, 2009); La disarmata (Cfr edizioni, 2014). Sue note critiche e poesie sono presenti in numerose riviste e litblog. Ha pubblicato i poemi Il margine di una città (Il Laboratorio, 2008); La neve (Fara, 2012), vincitore e finalista di diversi premi nazionali; La zona rossa (Il Laboratorio, 2015), con prefazione di Aldo Masullo e tavole di Pasquale Coppola. È redattore di Poetarumsilva.

 


 

[ Auto-antologie prosegue con Francesco Filia e il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada  e a Vincenzo Frungillo . Sul lavoro di Filia è possibile leggere un mio intervento qui.

L’idea di curare delle micro-auto-antologie risponde al desiderio di tratteggiare una direzione, un possibile senso -anche solo accennato-del percorso di autori che hanno raggiunto, a mio avviso, una prima maturità letteraria. L’autore è invitato a guardarsi indietro e a ricostruire emblematicamente le fasi del suo lavoro, proponendo a tal fine anche una pagina di auto-presentazione e una scheda bio-bibliografica. Nel flusso incessante spesso vitale ma anche caotico della rete credo che siano utili dei momenti come questo di coagulo, di rallentamento.

Continuo in altra forma il lavoro iniziato con  la rivista on line Poesia da fare (2005-2007)  insistendo ancora sul rallentamento e sulla sedimentazione. Gli autori che invito ad auto-antologizzarsi sono poeti che, per il mio gusto, illuminano , da particolarissime prospettive, il nostro tempo, individuando, spesso con spietatezza, i rapporti di potere nei quali siamo invischiati o quelle semplici evidenze esistenziali che si tendono a rimuovere.

Qui il lavoro sul linguaggio poetico non è fine a se stesso ma è teso a rendere più efficace la configurazione intensa di un’esperienza umana ed estetica radicata in realtà per lo più condivise, comuni. Questo è anche ciò che intendo, almeno ora e provvisoriamente, per “poesia di ricerca”.
In un’epoca in cui sembra che le soggettività reali perdano sempre più la possibilità (e anche il sogno) di decidere del proprio destino, in una generalizzata precarietà e ricattabilità,  l’espressione poetica pare moltiplicarsi, anche grazie alla rete, e offrirsi come un luogo speciale di pensiero, di creazione e di relativa socializzazione.

Moltissimi scrivono ciò che ritengono in buona fede “poesia” e la “postano”  anche per questo, cercando e spesso trovando il consenso e la reazione dei propri “amici” di rete.
La valutazione dei risultati estetici poi dipende ovviamente dal gusto, dalle esperienze e dagli orientamenti culturali del lettore. B.C.]

 

 

 

Nancy Fraser (16 marzo) & Luc Boltanski, Arnaud Esquerre (18 marzo) a Torino

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cartolina-boltanski-fronte-con-data

(Segnaliamo due eventi importanti, che si terranno all’Unione Culturale Antonicelli a Torino il 16 e 18 marzo)

La liberazione incompiuta
Le lotte per l’emancipazione femminile, oggi

16 marzo | H. 21.00
Unione Culturale Franco Antonicelli (via Cesare Battisti 4/b – TO)

Lecture* di
Nancy Fraser
(New School for Social Research, New York)

Scacciapensieri (antologia di poetry therapy)

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di Licia Ambu

A immaginare non ci vuole niente.

 

A leggere questo libro mi son venuti i nove anni.

Poi i tre, i quattro, gli undici. Sono usciti da soli, si sono palesati perché erano già lì, tutti nello stesso posto, tutti che mi abitano. Al primo verso di questa antologia, inaugurata con una poesia alla primissima voce di mamma, gli anni sono ritornati subito alla ribalta.

Questa antologia si chiama Scacciapensieri. Poesia che colora i giorni neri. Lo scacciapensieri è uno strumento musicale in parte mobile, in parte fisso. Ed è uno strumento idiofono, cioè produce un suono tramite la vibrazione del suo stesso corpo. Un po’ come dire che ha in sé tutte le risorse per poter diffondere la sua musica a spasso per il mondo. Un suono che sia calmante, terapeutico, portatore di gioia, lenitivo per la tristezza, o un semplice sottofondo. Scacciapensieri è il titolo di questo libro, e questo libro è come una bacchetta magica universale. Il principio è lo stesso: ha una parte fissa di parole stampate saldamente tra le pagine, con un inchiostro convinto e intenzionato a restare nel tempo e una parte mobile che permette di diffonderne il potere a spasso per il mondo tramite il suo impiego, tramite la liberazione delle parole e del loro suono. Anche in termini terapeutici. Come una medicina.

La medicina è quella cosa che serve in caso di guai. Quando si tratta di guai dell’anima, la medicina si chiama poesia. Ma poesia mica nel senso aulico che potrebbe farvi pensare a polvere, versi ostici, montagne di ermetismo, splendido per carità ma non terapeutico allo stesso modo diciamo, assolutamente non quello. Questa poesia è una magia molto particolare. Ha finalità pragmatiche e scaccia i pensieri che non vanno bene. Questo libro è un cilindro magico in cui si crea l’arte di guarire. Roba da infilarci una mano scendendo fino al gomito compreso, e tornare alla luce con il braccio praticamente fatato, pieno di fili di parole terapeutiche su argomenti molto molto importanti, come l’amore, il dialogo, la risata, lo stupore e il tempo. Una magia che serve universalmente e che ogni volta è nuova e diversa. Un incanto che funziona su tutti.

Scacciapensieri è un libro completo di istruzioni per l’uso, dichiarate apertamente e con la seria intenzione di rendere il tutto tascabile e facilmente fruibile. Ricco di espliciti bugiardini tematici e con illustrazioni liquide e itineranti lungo tutte le pagine. Come uno scacciapensieri, appunto, che produce vibrazioni e poi le lascia libere di andarsene a volare per aria, a toccare le teste che passeggiano di grandi, piccoli, animali, fiori e cose. Questa raccolta di versi è un prontuario e come tale va usato, come una caramella che cambia il gusto alla bocca, un’idea che spolvera la testa, una formula che cambia i colori,

In mezzo c’è una strada

Che porta verso il mondo

È che dovunque vada

Non sta lì a girare in tondo

Il provetto portavoce per una missione di questa portata, e cioè la diffusione del verbo, si dice a un certo punto dovrebbe essere un bambino che al posto del primo cittadino declami i versi per il pianeta. Una candidatura indovinatissima perché con questo metodo si finisce per esprimere tutta l’efficacia delle parole ed è proprio possibile che in determinati contesti si riesca a ripescare uno dei bambini che siamo e fargli recitare la poesia. I bambini si riconoscono dall’età e da molte caratteristiche ma qui, più che l’anagrafe, la questione è decidere di considerare l’essere bambini il comune denominatore di tutti, perché tutti lo siamo stati e tutti dovremmo ancora esserlo da qualche parte dentro di noi. Si tratta di allargarsi un momentino la pelle e guardarsi dentro alla ricerca di quel posto, tra un organo e l’altro, da sotto gli occhi alla punta dei piedi, dove stiamo nascosti ancora bambini. Siamo quelli con la pila in mano che ci indichiamo la strada per guardare per bene le cose in modo un po’ puro e semplice, citando: Per fortuna ci sono i bambini e i poeti.

La poesia è creazione, è dialogo, è costruzione. I poeti creano, inventano, cantano. Lo sapevate che con la poesia si può domandare a un dolore senza fargli male? E che ci sono poesie che vanno recitate e dette con una precisa coreografia di passi? Che gli anni si possono perdere all’indietro? Che si può persino stupirsi dello stupore, tenersi la natura a portata di mano, portarsi a spasso il vento, invitare il sole, farsi compagnia con gli alberi, imparare a prendere le misure alle cose, le distanze giuste per guardare, è possibile tutto questo, lo sapevate? E quale medicina può essere migliore di quella che si tramanda in un modo così leggero come la voce, in qualsiasi posto, a qualsiasi ora, ad opera di chiunque?

Viene voglia di impararle a memoria, di dirle come un mantra, una ricetta, una canzone, al posto di nome e cognome, codice fiscale, targa della macchina, informazioni sul tempo, appuntamenti noiosi. Qui ci si legge dentro mica ci si archivia fuori. Dice una nota a un certo momento: Non tutti i libri quando bussi ascoltano.

Questo libro quando bussi canta, vi dico.

 

*

 

Scacciapensieri. Poesia che colora i giorni neri.

Antologia di poetry therapy per bambini
dagli 8 ANNI
Edizioni Mille Gru, 2015

<http://poetrytherapy.it/lantologia-scacciapensieri/>

 

I misteri della sicurezza: allucinazioni lombrosiane, frenesie securitarie e fantasmi di nuove imprese libiche.

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di Alessio Berré

 

Your-Safety-BusinessPuò capitare che un oggetto di studio, al quale ci siamo avvicinati in nome della più sana curiosità nonché del più serio e rigoroso interesse scientifico, si trasformi nel corso del tempo in qualcosa di molto simile a un’ossessione, se non, addirittura, in una vera e propria perversione. Io, ad esempio, non riesco più a fare a meno dei romanzi brutti, meglio se ottocenteschi. Datemi un feuilleton tra i più dimenticati; disseppellite dalle appendici dei quotidiani le sue pagine ammuffite – e per altro vergate con uno stile narrativo altrettanto indigeribile – e avrete fatto di me un uomo felice. Se poi al romanzo si accompagnasse, per caso, una di quelle bislacche e velenose teorie scientifiche che spuntavano come funghi, nel fitto e intricato sottobosco medico-antropologico del secondo Ottocento europeo, allora l’orrenda pietanza produrrebbe, nei confronti dei miei sensi alterati e pervertiti, un’attrazione assolutamente irresistibile.

Romanzi giudiziari, perizie psichiatriche e teorie criminologiche le più strenuamente votate all’ideologia della difesa e del controllo sociale: ecco gli ingredienti principali della mia quotidiana alimentazione degli ultimi anni. Tre, per la precisione, e non uno di più, giacché pare che le tesi dottorali abbiano ormai una data di scadenza improrogabile entro la quale devono necessariamente essere concluse. Di positivo c’è senz’altro che lo studente aspirante studioso evita così di rigirarsi per troppi anni nella stessa minestra, rischiando a volte di affogarvi. Per contro, come si sa, mangiar tanto e troppo in fretta non è il modo migliore per dormire sonni tranquilli. Figurarsi poi quanto possa esser facile da digerire un’abbuffata di scritti lombrosiani e romanzi d’appendice sui delinquenti dell’Italia postunitaria. Tanto che ora, a indigestione avvenuta, è giunta la ben nota fase allucinatoria, la quale si sta però presentando con un’intensità che comincia a dire il vero a preoccuparmi. Capita infatti che sfogliando un giornale – uno del 2016, s’intende – in quei momenti in cui lo sguardo si perde negli spazi bianchi tra le righe, la vista mi si appanni e d’un tratto, come per magia, mi par di vedere le pagine ingiallirsi e ricoprirsi al contempo della stessa muffa e delle stesse invettive securitarie e belliciste tipiche di quei quotidiani ottocenteschi di cui non posso più fare a meno, e che forse proprio per questo immagino rimaterializzarsi nel mondo di oggi.

Eppure, dicevo, tutto era cominciato con la massima lucidità e in nome di una convinzione ben precisa: quella, cioè, che studiare la cultura letteraria e scientifica dell’Ottocento fosse cosa importante e utile, in modo particolare, a rintracciare quei discorsi discriminatori e razzisti che allora venivano stampati nero su bianco, con la massima franchezza e disinvoltura, nei prodotti culturali dell’epoca, soprattutto in quelli cosiddetti “di consumo”. L’idea era tutt’altro che infondata e le prime conferme non tardarono ad arrivare.

Prendiamo ad esempio I misteri di Parigi, ossia il romanzo popolare per eccellenza, scritto da un Eugène Sue fresco di conversione al “socialismo”; apriamolo alla prima delle sue numerose pagine, ed ecco cosa troviamo:

Tutti hanno letto le pagine stupende nelle quali Cooper, il Walter Scott americano, ha descritto i feroci costumi dei selvaggi, la loro lingua pittoresca, poetica, le mille astuzie con le quali sfuggono ai loro nemici o li inseguono. […] Noi cercheremo di far passare davanti agli occhi del lettore alcuni episodi della vita di altri barbari, lontani dalla civiltà come lo sono i popoli selvaggi descrittici così bene da Cooper. I barbari che intendiamo sono proprio in mezzo a noi; possiamo trovarci gomito a gomito con loro, avventurandoci nei covi in cui vivono, in cui si raccolgono per concertare il delitto, la rapina, per spartire infine il bottino dei loro misfatti. Questi uomini hanno costumi propri, donne proprie, una lingua propria, una lingua misteriosa, piena di immagini funeste, di metafore gocciolanti sangue. Come i selvaggi, infine, questa gente suole chiamarsi con soprannomi mutuati dalla propria energia, dalla propria crudeltà, da certe doti o da certe deformità fisiche [1].

Uno dei romanzi dell’Ottocento più letti, tradotti e riscritti a livello mondiale [2] si apre dunque con l’esplicita e agile sovrapposizione tra il “selvaggio” delle colonie e i “barbari” dei bassifondi metropolitani. Per il pubblico dell’epoca fu amore a prima vista e l’ossessione verso le classi pericolose “fe’ piovere misteri” in ogni città, Italia compresa. Se ne lamentava Francesco Mastriani nella prefazione ai suoi Misteri di Napoli. Studi storico-sociali [3], romanzo che a sua volta rilanciò l’ossessione per i delinquenti dei bassifondi nell’Italia postunitaria. Guardate ad esempio come si apre ‘L cit d’Vanchija, un romanzo del 1878 oggi dimenticatissimo, scritto da un avvocato e romanziere dalla cui penna uscirono, un paio d’anni dopo, anche I misteri e Il ventre di Torino:

Il Moschino sorgeva in quella parte della nostra città ove oggi sonvi i murazzi lungo Po e servono di retroscena al lungo viale di San Maurizio, il quale divide la città dal borgo di Vanchiglia. […] Là stavano a confine, il delitto, la miseria, la prostituzione. Alle più scandalose turpitudini in questa morta gora del vizio succedevano i crimini più nefandi, i reati di sangue più orribili. […] Nemmeno le guardie di P.S. osavano slanciarsi innanzi e dar di cozzo nelle fitte schiere dei malfattori. […] Erano uomini delinquenti dalla culla e che vivevano a famiglia col catechismo della Cocca per evangèlio. Non mancavano le Frini da pochi soldi, nate per vendere se stesse e facilitare così con un sorriso contratto la vendita altrui. Siamo qui nel teatro del gran dramma sociale; ne vedremo la genesi, lo svolgimento e seguiremo passo passo i personaggi fino alla catastrofe[4].

Prima precisazione: non che quella dell’armata-del-crimine-all’assalto-della-società-dei-galantuomini fosse un’ossessione solo letteraria. Anzi. Talmente diffusa e minacciosa parve, all’epoca, l’emergenza della criminalità come fenomeno sociale, che nacque una scienza espressamente dedicata alla questione. Una scienza, cioè, che non solo fosse in grado di descrivere a fondo L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie – come titola il celebre volume lombrosiano pubblicato per la prima volta nel 1876 – ma che potesse utilmente esprimersi anche Sull’incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo, come Lombroso in persona rivendicò fieramente:

A chi mi chiedesse perché io, senz’essere uomo politico o giurista, abbia ardito porre mano ad un’opera di questa natura, risponderò solo: Che si guardi d’intorno. – Innanzi alla marea del delitto che monta e monta sempre, e minaccia sommergerci e insieme infamarci, senza che alcuno pensi ad opporvi le dighe, a me parve che un uomo onesto, il quale aveva per molti anni studiato il delitto come psichiatra, se non come statista, non doveva tacere[5].

E condividendo in tutto o in parte la stessa ossessione, Lombroso e i romanzieri del periodo postunitario finirono per attrarsi vicendevolmente, fino a far scoccare, com’è stato detto, un vero e proprio “amore corrisposto”[6]. Sicché, da una parte, i vari Dossi, Scarfoglio e Capuana lessero con attenzione gli studi lombrosiani; e dall’altra parte, i vari Lombroso, Ferri e Sighele osservarono non meno meticolosamente la letteratura del tempo, fin quasi a trasformarsi in critici letterari o, addirittura, in narratori. Scipio Sighele e il collega Alfredo Niceforo, ad esempio, firmarono un volume divulgativo – La mala vita a Roma – esplicitamente ispirato ai fratelli Goncourt, concentrandosi su una zona ben precisa della capitale:

Quella zona di Roma, occupata quasi tutta dal rione di San Lorenzo, è l’ambiente ove brulicano le classi pericolose della società, ove si commettono quei fatti criminosi che terminano quasi tutti nella stessa maniera: l’impunità dei rei. Di là partono e si diffondono per la città intera i misteriosi soldati del delitto [7].

Seconda precisazione: non che Lombroso e colleghi si fossero inventati tutto da soli. Anzi. Era dall’inizio del secolo che si andavano formalizzando una serie di provvedimenti e pratiche punitive che “sembravano ruotare, più che sul crimine, sulla persona del criminale”[8]. Tale operazione, inoltre, sembrò caratterizzare per intero il vecchio continente, e se ciò avvenne non fu certo per l’improvvisa diffusione di un’epidemia allucinatoria simile a quella di cui soffre ora il sottoscritto, bensì in nome di un lucidissimo intento politico. Come scrisse un grande storico della legislazione penale, “nella seconda metà dell’Ottocento, oltre a quello del comunismo, un altro spettro si aggira per l’Europa: quello dei recidivi, ‘biechi militi dell’armée du crime’, una moltitudine di incorreggibili delinquenti incalliti”[9], attorno a cui si concentrarono gli interessi dei più disparati campi disciplinari[10].

Certo fu anche grazie alle teorie lombrosiane – sorte, però, in un terreno già abbastanza preparato ad accoglierle, al netto delle polemiche che esse seppero suscitare – che il delinquente divenne una sorta di collettore di tutti i nemici della società: oziosi e vagabondi, anarchici, regicidi, epilettici, prostitute, assassini e grassatori, contadini meridionali scambiati per briganti (ossia il famoso Giuseppe Villella) e briganti veri e propri, …tutte queste tipologie dell’anormalità – costantemente appaiate alle presunte caratteristiche delle popolazioni selvagge e primitive – furono teoricamente inglobate all’interno dell’Uomo delinquente di Lombroso e concretamente catalogate dallo stesso scienziato nel suo Museo di antropologia criminale. Quello stesso museo che ha ufficialmente riaperto i battenti pochi anni orsono e in merito al quale, mio malgrado, ho avuto modo di sperimentare la prima delle mie allucinazioni.

 

Scopertomi ignaro dell’avvenuta riapertura e desideroso di conoscerne la storia, mi capitò qualche tempo fa di lanciarmi nella navigazione online alla ricerca di informazioni sul Museo Lombroso, ammucchiando freneticamente una dopo l’altra, come mio solito, una nutrita serie di nuove finestre del browser: pagine della più diversa estrazione ma potenzialmente utili a una prima infarinatura, stando, almeno, alle poche righe di contenuto visualizzabili nel motore di ricerca. Colpa dell’eccesivo numero di pagine aperte, o piuttosto dell’eccessivo peso di una di queste, fatto sta che a un certo punto mi ritrovai perso a fissare una barra di caricamento che stentava a proseguire il suo percorso. Quand’ecco, dopo un breve appannamento visivo, mi parve di vedere una nutrita schiera di militanti neoborbonici – nel XXI secolo! – marciare su Torino per manifestare[11] contro il Museo Lombroso, reo di esporre il cranio di Villella, eretto a simbolo della resistenza meridionale. Proprio come in un sogno in cui si mescolano eventi e periodi storici i più disparati, vidi inoltre Beppe Grillo sostenere a spada tratta, sulle colonne del suo blog, l’iniziativa dei nostalgici del Regno delle due Sicilie e inneggiare all’immediata chiusura del museo[12]. Dulcis in fundo, improvviso e minaccioso, s’espanse sullo schermo un banner grigio-scuro in cui campeggiavano un enorme scaffale ottocentesco stracolmo di teschi umani e un contatore a quattro cifre bianche su sfondo nero accompagnato dalla scritta: “Dissòciati da questo crimine razzista. Firma online la petizione affinché le teorie criminologiche di Cesare Lombroso vengano rimosse ufficialmente dai libri di testo e le commemorazioni odonomastiche e museali a nome ‘Cesare Lombroso’ vengano soppresse al più presto. Comitato tecnico scientifico nolombroso.org”[13]. Cliccato il banner, un vecchio teschio visibilmente ammaccato esclamava imperativo: “Io non posso più firmare! Fallo tu per me!”[14]

Avrete senz’altro capito, come compresi io stesso sin da subito, che tutto ciò non poteva che essere il frutto di un annebbiamento mentale, sicché, confidando nell’eccezionalità del fenomeno – e soprattutto nella sua transitorietà – valutai che un bel sonno ristoratore dovesse naturalmente riportare la calma e la lucidità perdute. Mai scelta fu più inopportuna! Giacché, coricandolo, un cervello stimolato sino all’ora tarda dalla ricerca d’informazioni – tanto più se digitali – aumenta più che non diminuisca le proprie visioni, le quali, sadico, il dormiveglia sa inoltre abilmente impastare con altre ansie, non necessariamente consce né tantomeno logicamente collegate agli ultimi pensieri della serata. Tanto che, dopo alcuni minuti ciondolanti tra il sogno e la veglia, apparve ai miei occhi una donna velata e avvolta da un candido manto svolazzante, verso il quale mi sorpresi ad allungar la mano, come a volerne tastare la consistenza materiale: cartoncino morbido e flessibile. Un attimo dopo, infatti, quella stessa figura era divenuta l’immagine di copertina di un libro – La vergine delle ossa. Cesare Lombroso indaga [15] – che mi ritrovavo a leggere spaparanzato sul divano, come se tutto fosse normale, seguendo le avventure di un Lombroso-detective alle prese con un misterioso omicida seriale nella Torino di fine Ottocento. A ogni minimo movimento, spiegazzata e incastrata tra il gomito mio e il bracciolo del divano, scricchiolava un’edizione di «Repubblica» dell’agosto 2010, in cui il giornalista domandava all’autore del romanzo in questione:

Lombroso è tornato al centro di polemiche revisioniste e antirisorgimentali. C’è chi vorrebbe chiuderne il museo e dannarne la memoria. Non è che con questo romanzo si farà qualche nemico? “Sicuramente. Ho voluto eliminare la banalità del positivista a due dimensioni che ti condanna in base alle misure del cranio. Su alcune cose però è estremamente moderno. […] l’apertura mentale e la grande umanità sono la sua grandezza, che resta fuori discussione. Era realmente un uomo che cercava di migliorare la qualità della vita della gente” [16].

Il televisore acceso e abbandonato su Rete4 trasmetteva “Quarto grado”, dove il criminologo Massimo Picozzi si soffermava sull’ultimo efferato delitto assurto agli onori della cronaca nazionale, e nella penombra della stanza la luce dell’apparecchio illuminava tremolante la rigida copertina di un altro libro adagiato sul tavolo: “Andrea Vitali / Massimo Picozzi / La ruga del cretino / Un famoso criminologo, una medium, una giovane contadina un po’ strana, e un assassino misterioso, come Jack lo squartatore / Romanzo / Garzanti”[17]. E nella fascetta giallo-acceso: “Oltre tre milioni di lettori. Un nuovo grande successo”. Colpito dalla coincidenza, feci per alzarmi a recuperare il volume quando mi accorsi che un teschio rosso sangue – anch’esso su copertina rigida – spuntava minaccioso dai cuscini del divano, incorniciato dalle seguenti parole: “L’UCCISORE / La prima indagine di Cesare Lombroso, detective. / GINO SALADINI / Rizzoli”[18]. Capite bene che c’erano tutti gli ingredienti necessari perché le mie papille gustative fremessero dalla voglia di divorare la leccornia che mi ero ritrovato proprio sotto il naso, sicché afferrai il volume, lo aprii a caso e cominciai a leggere avidamente:

“È la mia smania di capire, la mia ricerca infinita, la sola energia che intuisco pura dentro di me. La sete di sapere. Per chi crede è un peccato di superbia. Ma io sono consapevole di essere un uomo superbo, Federico. E tu?” Reinier sorrise a Lombroso. In quel momento gli fu chiaro che per arrivare a capire chi era doveva costeggiare il bordo di un precipizio. Non doveva aver paura di sporgersi troppo nell’oscurità. Un uomo famoso nel mondo come Lombroso non aveva esitato ad affrontare il ridicolo per le sue convinzioni. Per cercare di comprendere i fatti che si verificavano sotto i suoi occhi. Se c’era qualcuno che affermava di parlare con i morti, uno scienziato aveva l’obbligo di studiare quei fenomeni. Anche quei fenomeni, sì, aveva ragione il professore. A costo di essere irrisi[19].

Il cuore aumentò frettolosamente l’intensità dei suoi battiti al cospetto dell’eccezionale scoperta. Infastidito quanto morbosamente attratto dalla lettura mi lanciai all’immediata ricerca del finale del romanzo, sennonché, tremolante, il pollice destro fece inavvertitamente scattare l’ultima pagina. Una mezza smorfia di disappunto ebbe a mala pena il tempo di contrarre palpebre e sopracciglia, che esse dovettero subito distendersi stupite alla vista delle seguenti parole: “RINGRAZIAMENTI / Ringrazio Cesare Lombroso, l’archetipo del criminologo”.

 

 

incuboDue ampie e generose sorsate d’acqua di rubinetto rinfrescarono la mia gola arsa. Ne trasse giovamento – ma poco – anche il volto riflesso allo specchio, pallido e sudato come lo richiede l’improvviso risveglio da ogni incubo che si rispetti. E di un incubo vero e proprio non poteva che trattarsi, soprattutto agli occhi di chi passava già la quasi totalità del suo tempo di veglia a farsi perseguitare dalla figura del famigerato scienziato. Come si poteva mai immaginare – nel 2015! – una sorta di riedizione dell’ottocentesco “amore corrisposto” tra Lombroso e la narrativa? Come credere che scrittori e/o criminologi potessero ora aprire le porte del romanzo a un tale personaggio, per trasformarlo in una sorta di buffo, innocuo e bonario detective? Se non, addirittura, nell’emblema dello scienziato, che sfida l’ignoto e il ridicolo per la sua sete di conoscenza? Diedi un’altra copiosa sorsata d’acqua e, riagguantando un istante di lucidità, la mia mente corse a un’altra, rossa copertina di libro in cui stavolta non si stagliava nessun teschio, bensì la serena e sorridente zucca pelata di Michel Foucault, che nel suo corso sugli Anormali, dopo aver citato la perizia di Lombroso al militare calabrese Salvatore Misdea, concludeva perentorio:

Il razzismo che nasce dalla psichiatria di quest’epoca è il razzismo contro l’anormale, il razzismo contro gli individui che, in quanto portatori di uno stato, di uno stigma, di un difetto qualsiasi, possono trasmettere alla loro discendenza, nel modo più incerto, le conseguenze imprevedibili del male, o piuttosto del non-normale, che recano in sé. Si tratta dunque di un razzismo che avrà come funzione non tanto la prevenzione o la difesa di un gruppo contro un altro, quanto l’individuazione, all’interno stesso del gruppo, di tutti coloro che potranno essere effettivamente portatori di pericolo. È un razzismo interno, un razzismo che permette di filtrare tutti gli individui dentro una determinata società[20].

Eh sì – dissi al me stesso ritratto allo specchio – serviva davvero tanta, forse troppa fantasia per immaginare che un romanziere possa oggi anche solo lontanamente pensare di riabilitare una figura di questo tipo. Tanto più che in Italia questo razzismo psichiatrico seppe davvero saldarsi a un’altra forma di razzismo interno. Non manca chi l’abbia denunciato con lucidità – senza peraltro ricorrere ad alcun tipo di nostalgia borbonica – sottolineando come “lo stereotipo dei calabresi epilettici, folli, delinquenti” fosse stato ampiamente recepito da buona parte della psichiatria e dalla magistratura italiana dell’epoca. Non per nulla il “caso del celebre brigante calabrese Musolino” suscitò “uno scontro tra diverse tendenze della psichiatria italiana”, in cui comunque “il Musolino di Lombroso rappresenta l’arretratezza atavistica della regione”[21].

A dirla tutta – sembrò rimproverarmi il mio sosia riflesso (ma ero ancora abbastanza lucido, perché ripercorrevo ragionamenti già svolti e fissati per iscritto nella mia tesi di dottorato) – tali sviluppi della psichiatria italiana vanno inseriti all’interno di un più ampio dispositivo di controllo sociale, sorto ben prima delle teorie lombrosiane, che a suon di leggi eccezionali e misure di sicurezza seppe svilupparsi con, ma anche senza l’aiuto di queste teorie, e a volte addirittura contro di esse! Dalla legge Pica del 1863, che istituì il domicilio coatto per colpire briganti e camorristi meridionali “ma anche gli oziosi, i vagabondi e più in generale quelle persone che dal codice penale sono indicate come sospette”[22]; alle leggi crispine del 1894, che ne estesero l’applicazione agli anarchici, ma anche ai socialisti, cui Lombroso e Ferri si erano nel frattempo avvicinati. Per cui non è che si possa proprio tagliare con l’accetta… Alt! – dissi perentorio, quasi ad alta voce – Ricorda: ogni volta che la situazione s’ingarbuglia e rischi di perder l’orientamento, prendi fiato e cita Sbriccoli.

Il regno d’Italia nasce sotto il segno di una mortale emergenza. L’insurrezione di una parte delle popolazioni meridionali mette in pericolo da subito, ed in modo assai serio, l’unità dello Stato appena realizzata […] In ragione di quella emergenza, si dette vita ad una legislazione eccezionale, dalla quale pullularono, su di un terreno peraltro già preparato ad accoglierle, prassi e principi che si installarono permanentemente nell’ordinamento penale, con il fine di prevenire l’ordinario e di fronteggiare l’emergente […] (come si comprende, non c’è differenza, per questi effetti, tra un pericolo reale e un pericolo creduto).

[…] Quale stabile complemento legato alla legislazione di emergenza, anch’esso per così dire incistato à jamais nell’ordinamento punitivo del regno in occasione dell’insurrezione meridionale (e poi ereditato dalla Repubblica), va aggiunto quello che potrebbe essere chiamato il paradosso del fallimento della legislazione d’emergenza, in forza del quale le leggi eccezionali, di regola introdotte in via provvisoria, vengono di regola prorogate o rinnovate per la sorprendente ragione che il problema per il quale erano state pensate è rimasto irrisolto[23].

Assai rinfrancato dalla meravigliosa chiarezza di queste parole, impresse in modo ormai indelebile nella mia memoria, decisi di riavviarmi dal bagno alla camera da letto nell’illusoria convinzione di aver riguadagnato la calma e la ragionevolezza necessarie a ritentare l’assopimento con buone speranze di successo. Infilatomi sotto le coperte pensai che in effetti, a difesa della non totale compromissione del mio stato mentale complessivo, si poteva citare il fatto che oltre ai brutti romanzi ottocenteschi – a proposito, leggetevi il Romanzo di Misdea di Edoardo Scarfoglio: romanzo d’appendice terribile e dimenticatissimo (perfino dal suo autore) recentemente ritrovato[24], deve aver avuto un ruolo considerevole nello sviluppo della mia dipendenza – esiste anche un altro genere di scritti capaci di attrarre con ancora più forza il mio appetito: i bei saggi storiografici. E questo di Sbriccoli sui Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano lo è senza dubbio alcuno, tanto che fornisce, come solo i migliori esemplari del genere, una chiave interpretativa che sembra continuamente in grado di strabordare il periodo storico e le coordinate geografiche per le quali è stata pensata – cui pur si addice al massimo grado – per illuminarne anche altre, ben diverse e soprattutto ben più attuali (o almeno così pare ai giovani aspiranti studiosi alla disperata ricerca di una chiave di lettura per forzare il proprio tempo, soprattutto se intenti a rigirarsi nel letto, in confusionale stato di dormiveglia).

Le sue parole sul paradosso del fallimento della legislazione d’emergenza – che a me piace ribattezzare primo mistero della sicurezza – non sono infatti così nette e potenti da disvelare la banale e risibile assurdità di ogni dispositivo di controllo sociale violentemente imposto e reiterato “per la sorprendente ragione che il problema per il quale è stato pensato è rimasto irrisolto”? Dalle misure di sicurezza contro l’ottocentesca “armata del crimine”, a quelle odierne contro la “marea” dell’immigrazione, che per alcuni – lombrosianamente – “monta e monta sempre, e minaccia sommergerci e insieme infamarci, senza che alcuno pensi ad opporvi le dighe”; dagli sgomberi per ripulire i bassifondi della Firenze ottocentesca dai “selvaggi d’Europa”[25], a quelli odierni per riportare il decoro a Calais, giungla d’Europa[26].

Il modo in cui quella classe dirigente reagì, sul piano normativo e su quello delle pratiche di giustizia, impresse indelebilmente nel sistema penale italiano un segno che si sarebbe rivelato praticamente incancellabile: un imprint originario destinato a durare e a colorare di sé la politica penale dello Stato lungo l’intero arco della sua esistenza[27].

E il modo in cui la nostra classe dirigente sta reagendo non sembra diretto a colorare con lo stesso segno la politica dell’Unione Europea lungo l’arco della sua esistenza futura (ammesso che ve ne sarà una)? Dall’état d’urgence impresso indelebilmente nella costituzione del pays des droits de l’homme, avviando così il passaggio “De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité[28]; al rispristino dei controlli alle frontiere, eccezionalmente previsti dal trattato di Schengen, ma ormai diffusi e reiterati al punto che rischiano di minare l’esistenza stessa del trattato (o di svelarne, forse, la vera natura).

Va là che c’aveva proprio visto lungo il vecchio Sbriccoli, bofonchiai girandomi nel cuscino, e mi sorpresi a pensare che non avevo mai visto una foto dello studioso, né tantomeno mi era mai capitato di incontrarlo dal vivo. Era alto o basso? Com’era la sua faccia? Con quali espressioni del volto e tono di voce si esprimeva? E soprattutto con quali si esprimerebbe ancora oggi, contro le nostre ennesime leggi eccezionali?

Il loro scacco è la giustificazione della loro conferma. Ed è norma che anche una volta uscite di vigore esse lascino nell’ordinamento pesante traccia di sé, introducendovi principi destinati a durare ed a perpetuare lo strumentario, quando non lo spirito[29].

Sbriccoli allontanò il microfono dalla bocca e il piedistallo urtò leggermente il cartellino bianco posato sulla scrivania, in cui erano riportati il suo nome e cognome. Il gesto fece probabilmente scrocchiare le casse dell’impianto di amplificazione, ma nessuno se ne accorse, poiché di colpo la sala convegni fu sommersa da un applauso scrosciante, cui mi unii con una gioia e un’emozione che gran parte del pubblico dovette notare. Anche perché sedevo dalla stessa parte della scrivania e per giunta a fianco dell’oratore che aveva appena terminato il suo intervento. Un cartellino bianco da cui trasparivano leggermente il mio nome e cognome – ma di dimensioni ridotte rispetto a quello del collega – svettava a sua volta a pochi metri dal mio microfono, dietro il quale avevo appoggiato una sull’altra l’edizione del marzo-aprile 1902 della «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», e quella del «Corriere della Sera» del 15 febbraio 2016.

Una volta ch’ebbero terminato di battere – e furono forse le ultime a farlo – le mie mani accaldate e colorite dall’energico applauso cominciarono rapidamente a tremare abbassando considerevolmente la loro temperatura. Titubante, la destra si convinse ad afferrare il piedistallo del microfono, mentre la sinistra scansava le due edizioni impilate che intralciavano il tragitto dell’altra, evitando così di produrre un nuovo scrocchio, che il ritrovato silenzio della sala non avrebbe certo contribuito ad attenuare. Afferrai infine con cautela il bicchiere d’acqua gentilmente fornito dagli organizzatori, ne bevvi una generosa sorsata e, dopo un rapido schiarimento di voce, attaccai:

– Per prima cosa volevo ringraziare gli organizzatori di questa interessantissima giornata, alla quale ho accettato di partecipare con grande felicità e, come vedete, anche con una certa emozione. In effetti, non è certo facile prendere parola dopo che, con la saggezza e l’acume che lo contraddistinguono, il professor Sbriccoli ha descritto così bene il paradosso su cui si fondano le leggi eccezionali che tanto hanno segnato e segnano la nostra storia passata e recente. Chiedo dunque, a lui come a voi, di perdonare le imprecisioni nelle quali rischierò probabilmente di incappare, dovute in primo luogo alla mia inesperienza di giovane studioso – o aspirante tale – e in secondo luogo al fatto che, con l’audacia – o forse l’avventatezza – tipica dell’inesperta gioventù, vorrei tentare in questa sede di riallacciarmi alle questioni illuminate dal professore, per attirare la vostra attenzione su quello che mi pare costituisca un ulteriore paradosso, incistato sin dal principio nelle leggi eccezionali dell’Italia appena unificata, e i cui rigurgiti non hanno a tutt’oggi cessato di ripresentarsi. Tale secondo paradosso – o come mi piace dire, secondo mistero della sicurezza – consiste nell’apparentemente illogica eppur direttamente proporzionale compresenza tra le operazioni di guerra condotte contro il nemico interno ai confini nazionali e quelle indirizzate all’esterno degli stessi, se non addirittura in vista di una loro più o meno diretta espansione.

Pare infatti che già nel 1862, “in una serie di trattative col Portogallo, il governo italiano cercò di acquistare possedimenti coloniali (da utilizzare in funzione di colonia penale) in Mozambico, nel Congo o in Angola”[30]. L’idea di liberarsi dei delinquenti spedendoli in una lontana terra “selvaggia”, e di utilizzare al contempo il lavoro dei primi per trasformare la seconda in una colonia della madrepatria, stuzzicò dunque sin da subito i governanti della Nuova Italia. Lo scapigliato Carlo Dossi diede addirittura una forma romanzesca a questa stessa idea, che continuò a circolare per molto tempo ancora in diversi settori dell’opinione pubblica italiana. Il lombrosiano Alessandro Lioy, ad esempio, esponendo nel 1884 alla Società Africana d’Italia, sostenne a gran voce – citando peraltro proprio il romanzo dossiano – l’utilità d’impiantare una Colonia penitenziaria ad Assab:

Spiego meglio la mia idea. Io credo che Assab non debba esser altro che una colonia commerciale, ma che per elevarsi a ciò abbia bisogno del concorso dell’opera dei condannati.  Signori, il ricavare così una colonia commerciale da una colonia penitenziaria, non è strano, né nuovo nella storia. Anzi io credo che l’evoluzione più propria delle colonie sia quella d’iniziarsi col lavoro degli uomini reietti dalla società civile, per poi esse, rese adulte, svilupparsi vieppiù col lavoro libero manifatturiero ed agrario e giungere così fino a vergognare delle proprie origini e proclamarsi popolo virtuoso e civile. È una evoluzione storica che rassomiglia ad una evoluzione naturale: la farfalla che nasce dal bruco. (Bene!)[31]

Dieci anni più tardi, Dossi pubblicava la quinta edizione del suo romanzo sulla Colonia felice, che apparve sulle appendici di un quotidiano milanese esattamente il giorno successivo a quello in cui Francesco Crispi – di cui Dossi era nel frattempo divenuto strettissimo collaboratore – aveva inviato il seguente telegramma al Governatore dell’Eritrea: “Prego telegrafarmi se caserme Assab sarebbero adatte accogliere domiciliati coatti indicandomi nel caso affermativo quanti potrebbero mandarsene e modo provvedere casermaggio e vitto specificando relativo costo”[32]. Anche Enrico Ferri, allievo di Lombroso e ormai già transitato dai radicali e socialisti, non era contrario in linea teorica alla deportazione dei delinquenti “in paesi barbari, dove essi, che nei paesi civili sono semi-selvaggi, rappresenterebbero invece una mezza civiltà e per le stesse loro qualità organiche e psichiche, mentre divengono grassatori od assassini nei paesi civili, diverrebbero discreti capi tribù o militari nei paesi selvaggi, dove si trovano poi gente che non ricorre ai tribunali per rintuzzare le offese”[33]. Sennonché, nel caso specifico della colonia di Assab, valutò opportuno esprimere il suo parere contrario, ben scandito in un discorso alla Camera del luglio 1898:

Voi mandate là i coatti in un clima micidiale; in una forma indiretta li condannate ad una pena di morte che la legge non contempla. Voi li lasciate là alcuni anni; molti ne morranno; altri sopravvivranno, e sopravvivendo torneranno in Italia; e così avrete formato tanti nemici della società, con tale veleno nell’animo e nel cuore, che io soltanto, studioso di queste terribili malattie della delinquenza e della pazzia, posso aver visto nei manicomi più dolorosi[34].

Non è tragicamente beffardo il racconto consegnatoci dagli ultimi centocinquant’anni della nostra Storia? Un secolo fa molti credevano che deportare i nemici della società tra gli abitanti dei “paesi barbari” al di là del Mediterraneo potesse trasformare gli uni e gli altri in cittadini sottomessi alle nostre leggi. Oggi, alcuni cittadini delle nostre società partono volontariamente verso i paesi dominati da barbari e crudeli terroristi al di là del Mediterraneo, per addestrarsi a compiere attacchi nel cuore delle nostre città. E non è tragicamente assurdo che per combattere questo nuovo e spietato nemico interno, si organizzino sempre nuove e più potenti operazioni militari al di là del Mediterraneo, che gli attentatori peraltro dichiarano di vendicare? Soprattutto, non è ancor più paradossale che almeno dal 2001 tali guerre vengano di regola prorogate o rinnovate per la sorprendente ragione che il problema per il quale erano state pensate è rimasto irrisolto? Niente affatto. O così, almeno, verrebbe da pensare guardando alla disarmante trasparenza con la quale ancora oggi, alcune penne dei più autorevoli quotidiani italiani incitano all’intervento militare in terra di Libia.

Un silenzio terribilmente denso e minaccioso era ormai calato sulla sala convegni, riempendola da cima a fondo con la sua ingombrante presenza. Non ci misi molto a capire che la acrobatica rete di collegamenti storici appena tessuta, la quale appariva ai miei occhi giovani e fieri come una limpida forma geometrica regolare e armoniosa, doveva invece presentarsi a quelli ben più esperti dell’uditorio come un mostruoso scarabocchio infantile. Ordinai a me stesso di procedere il più speditamente possibile alla conclusione dell’intervento, non tanto perché fosse già evidentemente troppo tardi per tentare un qualsiasi rimedio, quanto perché l’intensità dei battiti cardiaci stava aumentando al punto che sarebbe presto divenuta insopportabile. Ormai terrorizzato, mi schiarii la gola riarsa senza osare nemmeno indirizzare la mia mano tremante verso il bicchiere d’acqua, e mi sforzai invece di dirigerla verso la copia del «Corriere», comunque preoccupato delle mie capacità prensili certamente compromesse. Anche la vista non doveva versare in uno stato migliore, poiché la pagina del giornale che avevo selezionato mi sembrò inscurire repentinamente le sue tonalità e ricoprirsi ai bordi di svariati strappi, e soprattutto di una fitta coltre di muffa, che mi fece di colpo ricordare di avere ancora l’olfatto. Solo il pensiero dell’imminente e pubblico svenimento mi diede la forza di proseguire, affrettando così la conclusione.

Ad esempio, sul «Corriere della Sera» di pochi giorni fa è apparso un articolo intitolato “Noi in Libia saremo mai pronti?”, in cui un celebre professore intende preparare l’opinione pubblica italiana all’imminente e necessario intervento armato in quelle terre al di là del Mediterraneo che già furono nostre colonie. Egli lamenta il fatto che, dal dopoguerra ad oggi, la nostra nazione sia stata completamente incapace di sviluppare un’adeguata “cultura della sicurezza”, e ne adduceva ad esempio l’eccessivo credito che non solo l’opinione pubblica, ma addirittura la magistratura, conferisce alle ragioni delle “mamme preoccupate e ambientalisti vari che cercano di impedire che il Muos, il sistema militare americano di comunicazioni satellitari, entri in funzione a Niscemi, in Sicilia”, per concludere infine perentorio: “Ciò che accade intorno a noi, dovrebbe convincerci di quanto inconsistenti siano le giaculatorie sulla necessità di una ‘Europa politica’, la quale, come è noto, viene sempre evocata solo quando si parla di euro e di banche. Si dimentica che le unificazioni politiche non si fanno col burro ma con i cannoni. Sono sempre state guerre e minacce geopolitiche a innescarle”. Il tutto, come vedete, – e la citazione mussoliniana[35] sta lì a dimostrarlo – con una tale franchezza e disinvoltura da far impallidire persino Lombroso!

 

RisikoUn vero e proprio frastuono, più che un mormorio, esplose all’interno della sala e il pubblico, sino ad allora pietrificato, cominciò ad agitarsi in gesti scomposti e disordinati. Alcuni iniziarono ad andarsene, intimando allo stesso tempo gli organizzatori di guardarsi bene dall’invitare certa gente ai convegni. La maggior parte, però, sembrava proprio intenzionata a restare per indirizzare direttamente a me medesimo e coi più coloriti aggettivi il proprio disappunto. Per distrarre i miei muscoli dalla raffica di tic che stavano invadendo il mio corpo sull’orlo di una crisi di nervi, afferrai di scatto la copia della «Nuova Antologia», ma nessuno sembrò far caso al mio gesto che in altro frangente sarebbe potuto apparire (involontariamente) minaccioso. Più inviperita degli altri, una nutrita schiera di professori bolognesi si alzò in piedi a ribadire, quasi in coro, che Angelo Panebianco insegnava da molti anni nell’Ateneo di Bologna, che il suo valore scientifico era noto a livello nazionale e internazionale e che la sua capacità e il suo impegno come professore ne facevano un maestro apprezzato dai suoi studenti e del quale tutta la comunità accademica era orgogliosa.

Improvvisamente, la tachicardia che mi stava incessantemente divorando il petto si fermò di colpo e ogni singolo muscolo del mio corpo si distese in un’incontenibile espressione di stupore. “Se i colleghi vedessero quel che sto vedendo io!!!” dissi a me stesso, quasi in uno stato di trance. La copertina del volume di «Nuova Antologia» spalancato tra le mie mani aveva infatti cominciato a farsi sempre più rigida e sottile, sino a raggiungere una consistenza molto simile a quella di una tavoletta di plastica. Le pagine che avevo aperte, da scure, rotte, increspate e fragili che erano a causa della loro veneranda età, si facevano invece sempre più lisce e dure come uno schermo, colorandosi per giunta di un bianco sempre più luminoso nella colonna centrale e di un grigio tenue in quelle laterali, l’una e le altre sovrastate da una banda blu acceso ed intenso, che correva orizzontalmente in prossimità del bordo superiore. Più che un sorriso, un ghigno quasi beffardo si dipinse sulle mie labbra, quando avevo cominciato a capire cosa stava prendendo forma sotto i miei occhi. In cima alla bianca colonna centrale apparve un piccolo riquadro con una foto del profilo di Lombroso, affiancata subito a destra dal suo nome e cognome scritti nello stesso blu della banda. Appena sotto si potevano leggere le seguenti parole.

Cari amici, ho appena scritto un pezzo per la «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti». S’intitola “Il pericolo tripolitano” e ne posto qui sotto un passaggio al quale tengo particolarmente:

“Tutto prova, che in forma insidiosa, ma sempre più tenacemente progrediente, noi andiamo avvicinandoci a nuove difficoltà, simili o peggiori ancora forse di quelle dell’Eritrea – alla conquista di Tripoli. […] Ora è giusto che qualcuno parli ben chiaro, prima che l’impresa meditata alla sordina diventi un fatto compiuto. La verità è che tutta la base, da cui si parte per le imprese coloniali, specialmente nell’Africa, è sbagliata.”[36]

Se siete d’accordo condividete affinché tutti se ne rendano conto!!

SVEGLIA!!!1!!1!!!1

 

 

[1] Eugène Sue, Les mystères de Paris (1842-43), Gallimard, Paris 2009, trad. it. di M. Militello, BUR, Milano 2011, p. 33.

[2] Dominique Kalifa e Marie-Eve Thérenty (a cura di), Les Mystères urbains au XIXe siècle : Circulations, transferts, appropriations, http://www.medias19.org/index.php?id=17039

[3] Francesco Mastriani, I Misteri di Napoli. Studi storico-sociali, Napoli, G. Nobile, 1869, pp. VII-VIII.

[4] Ausonio Liberi [Alessandro Giuseppe Giustina], ‘L cit d’Vanchija. Romanzo giudiziario, Torino, Candeletti, 1878, pp. 8-11.

[5] Cesare Lombroso, Sull’incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo, Torino Bocca, 1879, p. III.

[6] Delia Frigessi, Un amore corrisposto, in Id. Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, pp. 327-352.

[7] Alfredo Niceforo, Scipio Sighele, La mala vita a Roma, Torino, Roux Frassati, 1898, pp. 51-52.

[8] Paolo Marchetti, Le ‘sentinelle del male’. L’invenzione ottocentesca del criminale nemico della società tra naturalismo giuridico e normativismo psichiatrico, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», vol. 38, 2009, p. 1023.

[9] Mario Da Passano, Echi parlamentari di una polemica scientifica (e accademica), «Materiali per una storia della cultura giuridica», a. XXXII, 1 (giugno 2002).

[10] “Questo oggetto di conoscenza scientifica, figura protagonista della scena culturale e di quella sociale, epigono della normalità, metafora vivente dell’ordine e del progresso, è al centro di molteplici interessi, di pratiche e metodologie differenziate. Magistrati e filantropi, giudici e medici, poliziotti e letterati, politici e religiosi, all’interno di una situazione che spesso non conosce differenze, o quasi, di specialismi, intrecciano conoscenze ed intervengono spesso con imperialismi di ruolo”, Renzo Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 8.

[11] https://www.youtube.com/watch?v=7ndtFjJW_zo

[12] http://www.beppegrillo.it/2010/05/i_neoborbonici_contro_lombroso.html

[13] http://www.nolombroso.org/it/

[14] http://www.nolombroso.org/it/petizione/

[15] http://www.castelvecchieditore.com/la-vergine-delle-ossa/

[16] http://torino.repubblica.it/cronaca/2010/08/09/news/lombroso_trasformato_in_detective
_al_manicomio_di_collegno-6165483/

[17] http://www.garzantilibri.it/default.php?page=visu_libro&CPID=3234

[18] http://www.rizzoli.eu/libri/luccisore/

[19] Ivi, p. 234.

[20] Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2009, p. 282.

 

[21] Delia Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, p. 375.

[22] Daniela Fozzi, Una «specialità italiana»: le colonie coatte nel Regno d’Italia, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento, Roma, Carocci, 2004, p. 216.

[23] Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in Luciano Violante (a cura di), Storia d’Italia. 14. Legge Diritto e Giustizia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 487- 489.

[24] Edoardo Scarfoglio, Il romanzo di Misdea (1884), Manola Fausti (a cura di), Firenze, Polistampa, 2003.

[25] https://archive.org/stream/firenzesotterra00fabbgoog#page/n25/mode/2up .

[26] https://passeursdhospitalites.wordpress.com/2016/02/29/destruction-du-bidonville-autres-temoignages/; https://www.youtube.com/watch?v=MWFvh4Lr3hs .

[27] Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit. p. 489.

[28] http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/12/23/de-l-etat-de-droit-a-l-etat-de-securite_4836816_3232.html; http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-01-23/guerra-stato-diritto–212159.shtml?uuid=AC3pO39B&refresh_ce=1

[29] Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit. p. 489.

[30] Paolo Marchetti, L’armata del crimine. Teoria e repressione della recidiva in Italia. Una genealogia, Ancona, Cattedrale, 2008, p. 115.

[31] Alessandro Lioy, Colonia penitenziaria ad Assab. Conferenza alla Società Africana d’Italia, Napoli, Stabilimento tipografico Morano, 1884, p. 6.

[32] Citato in Daniela Adorni, Crispi: un progetto di governo, Firenze, Olschki, 1999, p. 421.

[33] Enrico Ferri, Sociologia criminale, Torino, Bocca, 19004, pp. 885-886.

[34] Citato in, Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento, cit., p. 286n.

[35] https://staffetta.noblogs.org/post/2016/02/25/e-il-prof-panebianco-cito-mussolini/

[36] Cesare Lombroso, Il pericolo tripolitano, in «Nuova antologia di scienze lettere ed arti», vol. 182, marzo-aprile 1902, pp. 721-722.

Educazione sentimentale 2: Lo hobbit

4

di Giorgio Mascitelli

Ho letto Lo Hobbit quando andavo per i dodici anni. Probabilmente, in senso letterale, non era il primo libro che leggevo, ma è stato il primo che ho voluto leggere grazie  ai racconti entusiastici del mio amico Raffaele: fino ad allora ero un lettore accanito di fumetti ( produzioni bonelliane e supereroi). Ragazzino impacciato nelle attività sportive e ginniche, troppo alto e scoordinato, imbranato ma non asociale nella vita in comune con i pari età, arruffato, timido e disordinato, a mio attivo potevo solo vantare un certo numero di conoscenze superflue in campi poco spendibili a scuola, dove del resto ero uno studente mediocre. Non mi ricordo poi tanto bene della scuola media, ma gli aggettivi ‘discontinuo’ e ‘disordinato’ sono nel mio lessico interiore  strettamente collegati a questo periodo della mia vita scolastica.

Visto che talvolta mia madre arrivava a essere preoccupata per la mia pericolosa tendenza a fantasticare e a essere inconcludente deprecando il mio contegno distratto e abborracciato ( in definitiva a ragione), Lo Hobbit faceva proprio al caso mio perché incanalava questa mia deprecata inclinazione in una pratica, la lettura, che al contrario godeva di uno statuto di prestigio nella mia famiglia.

In realtà all’inizio ero molto scettico su Lo Hobbit la cui lettura cominciai soltanto come attestazione di amicizia nei confronti di Raffaele. Mi si deve capire: la storia di una spedizione per recuperare un tesoro sequestrato da un drago sembrava assai poca cosa, quasi il minimo sindacale, a chi, come me, era abituato ai complicati plot di Thor e i Vendicatori.  In un certo senso la lettura confermò i miei pregiudizi  perché a un figlio seppure inconsapevole della fantascienza anni settanta una banda di nani, un lungo viaggio, lupi malvagi, un personaggio che si trasforma di notte  in  orso, fuochi fatui  e addirittura il ritrovamento di un anello che rende invisibili facevano lo stesso effetto che faranno i miei soldatini di plastica a gente abituata a giocare con la playstation, come usano dire  quelli che hanno capito che il futuro è già qui. Erano insomma la misura classica di questo racconto, nel senso  di un limite di sobrietà alla proliferazione  dell’eccesso fantastico, e il suo appartenere naturalmente al terreno dell’epica che mi infastidivano.

Ciò che invece mi piacque fin da subito furono gli anelli di fumo delle pipe, sebbene non fumassi, e i nomi e le genealogie dei nani.  I nani e Gandalf facevano lunghe gare a fare anelli di fumo dalle forme affascinanti che erano nel romanzo uno spettacolo in sé, anche perché prima di allora non mi ero mai posto il problema se un  eroe di un’avventura fumasse o meno; ora che ci penso, anche la descrizione delle prelibatezze alimentari e dei banchetti imbanditi dallo hobbit e da altri personaggi mi colpì; scoprii che esisteva una bevanda che si chiamava idromele e rischiai perfino di cambiare opinione sul miele, che non mi era mai piaciuto, a causa dell’evidente godimento con cui Tolkien descriveva tutti questi cibi. Scoprii che il consumo del cibo rimandava a una cosa che in seguito avrei saputo essere chiamata convivialità, ma la cui importanza per il buon vivere avevo già compreso. Il fatto curioso è che tutti questi dettagli, pur non cambiando la storia, che restava morfologicamente povera ai miei occhi, allo stesso tempo la rendevano inconfondibile e diversa. Ne avrei avuto la controprova negli anni successivi quando, affrontando altre opere fantasy, me ne sarei ritratto con l’impressione che erano noiose perché mancava qualcosa e  ciò che mancava non era certo una trama complessa e avvincente.

Anche i personaggi erano caratterizzati da strane sfumature  che contribuivano a rendere la storia dello Hobbit più imprevedibile di quelle ricche di colpi di scena. Prendiamo per esempio Bilbo Baggins, che, presentato chiaramente all’inizio come un pantofolaio poco propenso all’avventura, si dimostra improvvisamente e involontariamente coraggioso e nel contempo rimane fedele alle sue singolari manie, che spesso si manifestano nei momenti topici dell’azione;  un altro esempio può essere  Thorin Scudodiquercia, il capo della spedizione che svela progressivamente la sua titanica avidità per la quale è disposto a scatenare una guerra contro gli altri popoli buoni nella totale costernazione dei suoi compagni e nell’ira crescente degli altri sovrani, che in fondo non sono migliori di lui ( specie il re degli Elfi). Con il senno di poi, posso affermare che a dimensioni infinitesimali, e perciò comprensibili per me dodicenne, avevo colto ciò che a dimensioni macroscopiche si può cogliere nell’Eneide. Il grande poema di Roma, così dipendente nella materia dal ciclo omerico e dai risvolti ideologici tanto ambigui, raggiunge la sua verità nel dettaglio poetico, narratologico o psicologico della rappresentazione dei temi e degli episodi ereditati dalla tradizione. Anche se non lo sapevo, avevo imparato che non è la storia a contare, ma il modo di raccontarla. Allora, naturalmente, non sarei stato in grado di formulare questo principio, ma ciò non impedì che smettessi  con i supereroi, che avevano perso ogni sapore per me,  e andassi avanti con Il signore degli anelli e con il Silmarillion.

Dopo due o tre anni mi trovai a leggere La vita agra, che, si converrà, è quanto di più lontano ci sia da Lo Hobbit. Del resto le motivazioni che mi avevano spinto a leggere il romanzo di Bianciardi non erano particolarmente illuminate: avevo visto in televisione un frammento del film che mi aveva colpito perché si svolgeva vicino al grattacielo Pirelli nella vicinanza del quale abitavo anch’io, dunque curioso di conoscere una storia che si svolgeva dalle mie parti,  quando trovai per caso il libro nella biblioteca dei miei, me lo presi. Fu una lettura proficua per me, ma senza Lo hobbit non avrei mai potuto capire perché valesse la pena di scrivere e di leggere la storia di un uomo che voleva far saltare in aria una torre e poi non era capace neanche di provarci.

Così  Lo hobbit mi ha insegnato a leggere altri libri, anche se immagino che un scrittore conservatore come Tolkien avrebbe più di una perplessità nell’apprendere a quali letture mi sono dedicato sotto la spinta propulsiva della sua fiaba, ma, essendo anche dotato di senso dell’umorismo, magari mi avrebbe perdonato. Forse come educazione sentimentale non fu un granché, forse fu piuttosto un’educazione al gusto, ma di fronte alle catastrofi quasi sempre inopinate che la realtà ci fa piombare sulla testa, l’unica utilità della letteratura è  a posteriori il saperne dire o il saperne riderne o il saperne piangere: è insomma un gusto per le cose, che talvolta ci rende più sereni e talvolta più disperati ma mai indifferenti, e del gusto è vero quello che si dice nelle réclame a proposito delle carte di credito, che non ti abbandona mai in ogni frangente della vita.

A dispetto del fatto che queste righe possano essere scambiate per un piacevole amarcord  non ho nessuna nostalgia degli anni in cui lessi Lo hobbit : furono anni orrendi, anche se probabilmente solo a causa di cose che accadevano nella mia testa e nel resto del mio corpo. Eppure nonostante Tolkien sia per me indissolubilmente legato a quegli anni, una qualsiasi citazione de Lo hobbit o de Il signore degli anelli mi mette automaticamente di buon umore. Non credo che ci possa essere manifestazione più spontanea di gratitudine da parte di un lettore per uno scrittore

 

Andy Violet – L’eroe semantico e lo scrigno del silenzio

2

di Daniele Ventre

Ti chiederanno
di questa poesia
di trovare le parole-chiave
cerchiarle e sottolinearle
poi di fianco
raccoglierle e elencarle.

Quando però ne avrai un bel mazzo
raccolto in un sonante passe-par-tout
ti accorgerai
provando e riprovando con premura
che girano sempre a vuoto
le parole-chiave
dentro ad un silenzio-serratura.

Così recita parole-chiave, uno dei testi meta-poetici più pregnanti della silloge l’Eroe semantico di Antonio Cretella/Andy Violet, a cui concretamente l’appellativo di eroe semantico, da lui stesso coniato anni fa come calembour, è stato poi, fra rimpalli da web a carta stampata, quasi espropriato e ricucito addosso con altra più limitata e limitante connotazione in un articolo del Corriere del Mezzogiorno, a firma di Olimpia Rescigno, datato al 16 maggio 2011, ai tempi ormai mediaticamente offuscati dei morattiquotes e della campagna elettorale milanese Moratti-Pisapia, di vecchia memoria cronachistica. Insegnante tormentato, come sono stati tormentati a vario titolo e con vari danni professionali molti insegnanti (incluso l’autore di questa prefazione), dalle politiche di riforma dell’istruzione, poeta, costruttore fra italiano e latino, fra docenza e letteratura, di piccoli ordigni verbali a spoletta ritardata, l’eroe semantico che si cela dietro questi versi, e dietro le altre poesie della raccolta, gioca qui sull’idea di parola-chiave, e sulla prassi scolastica, da didattica non aggiornata, dell’analisi del testo di façon strutturalista.
Il gioco porta a una prospettiva rovesciata, quasi da foto in negativo, del rapporto silenzio-parola, verso-spazio della pagina: in tale rovesciamento dialettico dell’ideologia ermeneutica dominante della critica letteraria –l’interpretazione del testo e delle sue tematiche attraverso il Leitwort –il testo stesso in apparenza sbiadisce, e le sue voci, vòlte in teoria a scardinare le porte dell’inarticolato, secondo una abusata citazione eliotiana, appaiono contenere, nel loro zanzottiano piacere del principio, un simultaneo, e polemico, piacere della fine. Il dantesco provare e riprovare dell’interprete –hypocrite lecteur, lettore ipocrita in quanto si inganna e inganna nella sua compiacenza di fruitore hypocritès, attore/interprete dei versi di fronte a sé stesso –si cortocircuita così, nel suo girare a vuoto, in looping, in un un rumoroso chiasso verbale scatenato invano sui “silenzi-serratura” di contorno, che il testo semina nel suo ambiente visivo e uditivo per differenziarsi dalla pausa enunciativa e dallo spazio bianco del foglio. Quest’ultimo si muta in rappresentazione visiva del rumore bianco, un assordante silenzio della pagina da torturare maieuticamente: lo scrivere in versi si fa così De-scrivere, come recita il testo che segue immediatamente Parole chiave, e come stabilisce l’ulteriore, connesso gioco di destrutturazione verbale, in cui il preverbio de- perde la sua funzione resultativa e intensiva, per riconnotarsi come privativo. L’atto della composizione di versi si riqualifica in tal modo come sottrazione dell’atto dello scrivere, sottrazione del dettaglio, sottrazione della scrittura dal suo oggetto (il tu lirico dell’interlocutore del poeta) e sottrazione dell’oggetto dalla sua scrittura. Questo de-scrivere, atto complementare, fissato in grafemi, dell’aurale silenzio-serratura, si manifesta come supremo atto poetico, nel senso originario del termine, di gesto creativo e fattivo: la de-scrizione/de-scrittura materializza carnalmente una presenza fisica da estrarre viva fra le macerie della pagina bianca, di per sé lasciata a morire di parto, stracciata e stanca.
Siamo qui di fronte al rovesciamento di un altro totem filosofico e critico (stavolta post-strutturalista e decostruzionista, proprio della vulgata derridiana), originariamente innovativo ma ormai immiserito e incancrenito anch’esso in ideologia dalla prassi dell’ermeneutica e della scrittura normale: l’immagine della cartolina postale, del segno, de-oralizzato e impresso su pagina, che rimanda a mero segno, della letteratura come comunicazione fra assenti. Nel tempo della chenosi ontologica ammantata di parola proliferante, la duplice esquisse metapoetica di Parole chiave e De-scrivere addita la possibilità di una chenosi, o meglio di un negativo, verbale, a rievocare l’obliterata forza del concreto.
Nel contempo, come paradossale e necessario portato di questa coerente impostazione di fondo, in cui il duplice totem novecentesco di struttura e decostruzione viene cassato e consegnato alla storia, la forma espressiva riguadagnata dalla poesia dell’eroe semantico è caratterizzata da un rinnovato rigore formale, con la rinascita di forme chiuse che già appartenevano ad alcune aree della poesia del secondo Novecento (è il caso di alcune prove dei novissimi, e più tardi del gruppo ’93), ma qui assumono un nuovo fine comunicativo. Non abbiamo più la superfetazione ironizzante tipica di Sanguineti, né la riscoperta in positivo e la rimodulazione di funzioni e potenzialità espressive delle forme chiuse, tipiche di un Frasca; si assiste invece all’orecchiamento del modello, in una dimensione fonica al limite fra l’atonalismo à la Raboni e la regola. Basti aver presenti a titolo di esempio gli endecasillabi del sonetto incipitario, L’eroe semantico, in cui la legge di Bembo è mantenuta, ma ci si aggira nel contesto di una ritmicità di canone marginale: si pensi a versi con accenti di quarta e quinta sillaba come: “per non avèr[e] àltro che lo spessòre”, o al trattamento estremo, da verso comico del teatro tardo-rinascimentale, delle sinalefi e delle dialefi. In parallelo, la forma stilistica della poesia dell’eroe semantico è tramata di rivolgimenti verbali, riarrangiamenti morfemici, ridefinizioni funzionali, figurae etymologicae e false etimologie, bisticci e quant’altro giova alla creazione di una trama ecoica dal potere fortemente evocativo, grimaldello per scassinare l’ostico scrigno del silenzio-serratura, forcipe per estrarre vivo dalla pagina morente il nascituro e salvarlo dall’avello dell’assenza. Si squaderna così al nostro orecchio un apparato di tesori retici (ed eretici) proprio di chi ha ascoltato “tutto lo spettro dell’udibile” (Decibel); la parola riguadagna in parte, sia pure per caso, nell’inopinato addensarsi iconico del fumo in una “sala fumatori”, una sua materialità creatrice:

Nella sala fumatori
si poteva vedere la forma delle parole
quando uscivano dall’inferno
dei polmoni in fiamme…

Una volta che questo meccanismo magico, poetico e poietico si innesca, il rovesciamento di rapporto fra la realtà extratestuale e la vita fittizia del personaggio letterario, un topos ricorrente e scontato nella letteratura moderna, assume un significato inedito e l’opposizione fra testo e rumore bianco si ridefinisce come stacco netto della poesia rispetto al rumore bianco del quotidiano e dell’esistente, mentre l’atto maieutico operato sulla pagina dal poeta viene riassestato nel suo ruolo specifico di fulgurazione da creatore in limine: “Essere uomo è un dono che non voglio:/ meglio essere opera di uno scrittore…” godendo del privilegio ontologico indubbio di non soffrire delle sbavature che l’esistere fisico si porta appresso, “vantaggi derivanti/ dall’essere figura senza ombra”.
A questo scopo di creazione e ricreazione, di scassinamento e parto estetico risponde in ogni caso, a un livello ultimativo, la necessità di restaurare e di “fare il silenzio” autentico attorno a sé:

Il mio silenzio è invaso dal rumore
di tutti quelli che a gran voce chiedono
silenzio.
“Fai silenzio”, mi ordinano
e io non so di che farlo:
La carta fruscia, il metallo stride
la carne geme.
Di cosa si fa il silenzio?
ho chiesto sommessamente,
ma loro, soltanto,
gridano di non gridare
e urlano di non urlare.

L’opposizione silenzio/voce, o più genericamente silenzio/rumore, finisce qui per acquisire un ulteriore tratto. Il silenzio imposto dalle circostanze sociali del fare poesia inquinano il silenzio del poeta, un silenzio naturale fatto di rumori spontanei che costituiscono l’ecosistema equilibrato dell’eco delle presenze del reale: tale ecosistema appare inquinato da voci che sono estranee alla sua naturale omeostasi. A questo più profondo livello di introspezione, il silenzio del poeta, il silenzio serratura scassinato, la pagina bianca lacerata dal parto, si viene configurando come una sorta di ecologia della presenzialità della voce, intorbidata da presenze improprie. Di fronte a queste presenze improprie la voce del poeta si tempra in un esercizio permanente, fra il mantra e il grido primordiale, in una sorta di ascesi dissimulata che è anche progressivo annullamento, come sembrano suggerire i versi di Raucedine:

Bisogna innanzitutto urlare
una per una tutte le vocali
senza articolazioni, solo aria
che striscia e scintilla nelle guance
come i freni su rotaie in corsa.

Fermarsi, poi, a un passo dal silenzio
quando queste non saranno
più le nostre voci,
ma tuniche sfibrate e logore
raucedine lacera e sabbiosa:

solo allora potremo occultare
nel fragore del respiro che resta
un impercettibile addio.

In questa fusione/confusione fra poetica, forma della parola e slancio vitale, còlto dalla sua prima articolazione al suo ultimo esaurirsi, si condensa in definitiva l’opera dell’eroe semantico, che come ogni eroe, dopo le sue fatiche e le sue vicissitudini, spesso misconosciute, è votato in qualche forma al sacrificio e alla morte iniziatica che ne consegue.

Red west

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redford
Il buon vecchio Robert

di Gianni Biondillo

Da bambino me ne andavo in giro per il cortile del palazzone di periferia dove vivevo tutto orgoglioso della mia colt 45 nella fondina, della stella appuntata sul petto e dei baffi arricciati all’insù, disegnati con la penna bic da mia madre. Facevo lo sceriffo e portavo la legge nel selvaggio west. Fu il mio periodo repubblicano, quando sentivo il fardello della civiltà occidentale sulle spalle e i sacri valori della democrazia occidentale da inculcare ai villici a colpi di piombo fumante. Non durò molto. Venne molto presto la mia deriva libertaria. Presi coscienza dei diritti delle minoranze e compresi il dovere della loro salvaguardia. Avevo sei anni, più o meno. Ero nel mezzo di una temperie culturale che stava cambiando la Weltanschauung. Al cinema l’eroe non aveva più le sembianze scultoree del tetragono John Wayne ma quelle inquiete di un Robert Redford che cercava la pace interiore fra le montagne abitate dai nativi americani. Andavo scoprendo il quartiere popolare dove vivevo indossando un copricapo di piume e due strisciate di colore sulle guancie. C’è da dire, ad essere sinceri, che dello “spirito dei tempi”, della controcultura e di tutto quell’armamentario retorico degli anni ’70 mica ci capivo molto. A conti fatti a me semplicemente piaceva andare in giro a fare l’indiano. Vita libera e selvaggia. Alla ricerca di tracce di animali o pronto ad accendere un fuoco fra i rovi dei campi abbandonati con gli amici del cortile.

Potenza dell’immaginario collettivo. Ero figlio di due sottoproletari meridionali emigrati a Milano, ma delle loro svariate leggende di contadini, nobiluomini o briganti non sapevo nulla. Il mio mondo immaginifico era stato invaso dalle narrazioni che venivano da oltreoceano. Pasolini, proprio mentre ero quel bambino che giocava a fare il capo indiano, manifestava sulle pagine del Corrierone la sua antipatia nei confronti dei capelli lunghi. Dapprima visti come segno di rivolta giovanile, poi come prodotto omologante della sottocultura dominante. Chissà la sua reazione se sapesse, povero poeta, come oggi i suoi stessi versi vengano manipolati a sproposito dalla nuova sottocultura, che non sa più distinguere destra da sinistra, alto da basso. Proprio come gli indiani d’America, dapprima simbolo della cultura alternativa e oggi usati come icone del più vieto localismo razzista. Potenza dell’immaginario, dicevo, che crea una cornice, un contesto, dentro il quale, per quanto ci si muova, diventa imprescindibile.

winnetou
Winnetou e Old Shatterhand

Io, per dire, della serie di romanzi western scritti all’inizio del secolo scorso da Karl May nulla sapevo. Un intero universo di personaggi inventati da un tedesco che non aveva mai visitato gli Stati Uniti, se non in vecchiaia. E della infinita filmografia, che dagli anni Venti è giunta sino alla fine del secolo breve, meno che meno. Per me Winnetou, l’apache protagonista della sua saga, e il suo sodale Old Shatterhand, erano due perfetti sconosciuti. Eppure allo stesso tempo, senza aver mai letto una riga o visto un solo fotogramma, li sento familiari. In fondo leggevo Tex da bambino. E Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini mica c’erano stati nelle praterie del nord America quando lo inventarono.

Ma che ancora oggi qualcuno, in nome di quelle avventure immaginate da un signore nato in Sassonia, decida di vivere come un nativo americano, fra tepee, squaw e trapper, be’, diciamocelo, mi toglie il fiato. Ché tutto ti aspetti, ma non di vedere questi europei dagli occhi cerulei e le chiome bionde fare gli indiani. E non da oggi. Molti dei luoghi dove, con la bella stagione, si fermano a bivaccare sono i set cinematografici proprio di quei film che hanno costruito il loro immaginario infantile, quando la cortina di ferro separava nettamente l’Europa, fra miti capitalistici da una parte e socialismo reale dall’altra.

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foto di Jen Osborne

Questi polacchi, russi, cechi, si travesto da indiani fin dai tempi in cui svettavano bronzei i monumenti dedicati a Lenin nelle piazze delle loro città. Forse così, all’epoca, parteggiando per i nativi americani credevano di criticare la società nata dai cow boy bianchi, sterminatori di quel popolo tanto ammirato. Ma alla fine restavano, e i loro successori ancora restano, dentro la potente cornice di un mito. Prima ancora che il muro crollasse, insomma, l’immaginario americano li aveva già definitivamente conquistati. Dei navajo o degli apache, delle loro autentiche tradizioni o dei loro valori, sapevano, e sappiamo, poco e niente. Ce li siamo costruiti come un abito prêt-à-porter – buoni, saggi, liberi, legati al ciclo della natura – facili da indossare o imitare. Fare l’indiano a Berkeley o a Budapest alla fine cambia poco. La sottocultura vince sempre.

O forse più semplicemente, senza star qui a tirare fuori a sporposito Pasolini, la verità è che li guardo e li invidio. Come quel bambino avventuroso che si appostava vicino ai binari delle ferrovie Nord Milano in attesa di assalire il treno con la sua crew, vorrei ora, lo confesso, stare lì, con loro, col corpo seminudo e dipinto, a cavalcioni del mio mustang, capelli al vento, nella prateria. Magiara.

foto di Jen Osborne
foto di Jen Osborne

(pubblicato su Io Donna del 6 febbraio 2016, vedi il servizio fotografico di Jen Osborne, che ha ispirato il pezzo, qui)

Rappresentazione social di noi stessi

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24183-gedi Francesca Fiorletta

Solo nell’ultima settimana, mi è capitato di assistere a due “rappresentazioni” della nostra vita contemporanea, decrittate attraverso la lente (di ingrandimento?) dei cosiddetti “mezzi di comunicazione di massa”.

Il primo è un film, Perfetti sconosciuti, per la regia di Paolo Genovese, con un buon parterre di attrici e attori medio-giovani del momento. Il plot è davvero molto semplice: una cena e un gruppo di amici, quasi tutte coppie, che decidono, per ammazzare il tempo o per creare quel pizzico di zizzania che non guasta mai (?), di tentare una rivisitazione del caro vecchio gioco della verità. E, per far questo, al posto della benamata bottiglia che ha fatto da convitato di pietra alle nostre più riuscite feste delle medie, utilizzano i loro cellulari supertecnologici. Tutti smartphone, tutti con schermi ad altissima definizione, modelli addirittura interscambiabili (e infatti, da qui, nascerà un equivoco da manuale), tutti posizionati ad arte a faccia in su, schermo all’aria sul tavolo della mensa, a far da portata principale al banchetto amicale, che si trasformerà quindi ben presto in un vero e proprio girone dell’inferno. Salvo poi scoprire che, forse, non si è giocato davvero.

Siamo tutti Čechov

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di Massimo Parizzi

La prima malattia, da cui Čechov sembra muovere per sviluppare progressivamente – ma anche a svolte – il suo censimento, la sua topografia di quello che nell’uomo è stato chiamato “spirito”, “anima” (ed è anche, ma non solo, psichismo, mente, sistema nervoso, riflessi), è una malattia sociomorale, ed è il servilismo (con il suo complementare: l’alterigia).

Nei primi racconti (con un’eccezione), da La morte dell’impiegato (2 luglio 1883) a Messa di suffragio (15 febbraio 1886),1 a dominare è una “critica di costume”.2 E si tratta d’un costume fondato su, omologo a, e che accompagna una gerarchia (quella dei gradi della burocrazia russa dell’epoca, soprattutto, ma anche una gerarchia morale: onore/disonore, abiezione/dignità ecc.). Tutto si svolge tra superiori e inferiori.

L’eccezione è La figlia di Albione (13 agosto 1883).3 Il «maresciallo della nobiltà del distretto», Otcov, si reca in visita dal proprietario terriero Grjabov. Lo trova che pesca in riva al fiume insieme con «la figlia di Albione», la governante inglese. Segue un crescendo di schiamazzi e insulti del protagonista, Grjabov, «un uomo alto e grosso, con una testa enorme», contro l’inglese: «questa befana… questo pesce lesso… questa diavolessa… uno spaventapasseri… una zitella… baccalà che non è altro» ecc.

È che Grjabov si sente disprezzato dallo sguardo della governante («Guarda tutto con disprezzo… È superiore, lei, alla gente comune! Eh! Non ci considera neanche uomini!»); e quanto più si sente ed è disprezzato, tanto più si mostra disprezzabile, volgare. Come se la sua volgarità venisse chiamata dallo sguardo di lei.4

Ma da che cosa è caratterizzato questo sguardo che rivela la volgarità creandola, che la crea rivelandola, e che nello stesso tempo indica il suo opposto, il suo al di là, una dimensione “superiore”, “umana” («Sembra che dica: sono un essere umano e dunque il re della natura»: Grjabov sull’inglese)?5 Da immobilità, silenzio, incomprensibilità, alterità. Un vuoto contrapposto al pieno degli schiamazzi di Grjabov. Quasi un buco vuoto: «…mai che dicesse una parola! Sta immobile… non dice neanche una parola in russo!…». All’apice della scena, quando Grjabov si spoglia nudo per entrare in acqua a liberare l’amo «impigliato in qualche pietra», «Miss Tfajs, imperturbabile, cambiò l’esca, sbadigliò e gettò la canna».

 

Si può essere tentati di leggere in questo racconto una concatenazione di metafore. La governante inglese potrebbe essere: 1. lo scrittore silenzioso Čechov («i personaggi dei suoi racconti esprimevano a non finire commenti, giudizi, osservazioni, opinioni. Lo scrittore non esprimeva commenti. Non dava torto né ragione ad alcuno. Così era Čechov nei suoi primi racconti e così fu negli ultimi. Uno scrittore che non commentava mai» scrive N. Ginzburg nel «Profilo biografico» posto all’inizio della Vita attraverso le lettere. E Čechov stesso consiglia al fratello Aleksandr, nella lettera del 20 febbraio 1883: «Buttar se stessi a mare sempre e dovunque, non intrufolarsi nei protagonisti del proprio romanzo»); 2. lo sguardo, il raggio della letteratura, della scrittura, della parola, che rivela creando e crea rivelando, che fa essere reale ciò che altrimenti “si limita” a essere; 3. il terzo – muto, immobile, alieno – polo che s’insedia, nei racconti di Čechov successivi al 1886, di fronte alla dialettica tra irrealtà esteriore e irrealtà interiore in cui sembra essersi trasformata e scissa la dimensione sociomorale (sociale/morale) dei racconti precedenti.6

 

 

Un film: Prima della pioggia, di M. Manchevski, regista macedone (della Repubblica di Macedonia, ex Iugoslavia). È a “episodi” (almeno così si annuncia: ma si scoprirà che di episodi non si tratta, in nessun senso). I tre titoli da cui è diviso compaiono sullo schermo: prima il numero, con il suo punto, poi le parole. Una grafica nitida, pulita, che, in collaborazione con i titoli, introduce la presenza d’un autore. Cioè induce – e induce ad aspettarsi – meno un’illusione di realtà, “realismo”, e più apologo, racconto, discorso.

Sta per piovere. Padre Kirill, un adolescente che per un voto non parla da due anni, interrompe la raccolta dei pomodori e rientra nel monastero. Nella sua stanza trova, che si nasconde, una ragazza albanese: adolescente come lui, minuta, con i capelli tagliati corti e i pantaloni larghi alla turca; sembra un ragazzo. Un gruppo di macedoni armati entra nel monastero: la stanno cercando: la «puttana albanese» ha ucciso, dicono, uno dei loro. Il giovane padre Kirill non la tradisce.

Si insinua la scena d’un funerale: nella bara un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni, robusto, con una grande barba. Staccata, in disparte dal gruppo delle donne che piangono, del pope che prega, una donna alta, esile, che il vestito e l’espressione fanno subito definire straniera, per loro (ma “dei nostri” per noi: si scoprirà che è inglese), si toglie gli occhiali scuri. «È pazzesco»: non dice altro.

Sono i monaci a scoprire la ragazza albanese insieme a padre Kirill nella sua stanza, e li scacciano dal monastero. Kirill, non più “padre”, ora può parlare: promette alla ragazza di portarla a Skopje, e poi a Londra, da un suo zio «fotografo famoso». Ma lui non parla e non capisce l’albanese, lei non parla e non capisce il macedone.

Per i campi, nel loro andare, incontrano il padre della ragazza, i suoi fratelli, amici, che le chiedono se ha compiuto il suo dovere, se l’ha ucciso. Il padre la prende a schiaffi: «T’ho tagliato i capelli, t’ho legata perché non uscissi di casa». E poi: «Chi è quello lì?», indicando Kirill. «Mi vuole bene.» Allora ordinano a Kirill di andarsene; lui raccoglie la sua roba, si volta, s’incammina. Ha già fatto una ventina di passi quando la ragazza lancia un grido e si mette a correre verso di lui. Suo fratello le spara. Le spara e poi grida «no!», e piange.

Il secondo episodio si svolge a Londra. C’è la titolare d’uno studio fotografico (la stessa donna in disparte al funerale del primo episodio). C’è un famoso fotografo macedone – ha vinto il premio Pulitzer – appena tornato dalla Bosnia (lo zio di cui Kirill ha parlato alla ragazza albanese). In studio la donna scorre fotografie di guerra: Bosnia, Croazia? Il fotografo la lascia: ha deciso di tornare al suo paese.

Ci torna, in Macedonia. Ritrova la sua casa, anche se cadente, i vecchi amici. Ma ad accoglierlo sulla collina, prima di arrivare in paese, è un ragazzo con un mitra. Lo riconosce – è il figlio d’un amico – e glielo strappa di mano come un coltello a un bambino.

Poi: vuole rivedere un’amica, un tempo forse amata: Hana, albanese. Gli amici gli consigliano di dimenticarla: suo padre, dicono, non potrà permetterle di frequentare uno, come lui, macedone. Tuttavia ci va: dei giovani di guardia al paese, o al quartiere, albanese lo fermano, gli fanno delle domande, poi lo lasciano passare. Vede il padre di Hana e vede Hana, in chador, entrare, salutarlo, servire il tè, uscire. Ma tornerà; andrà lei a trovarlo di notte a casa, per dirgli: «Tu non fai niente contro tutto ciò; aiutami».

Intanto, uno degli amici viene ucciso, forse da una ragazza albanese, che forse lui ha cercato di violentare. Gli altri si armano e vanno a cercarla. In casa, il fotografo tira fuori delle fotografie – un uomo che spara, un altro che muore – e le straccia. In Bosnia aveva detto a un soldato che non era ancora riuscito a scattare delle buone foto, non aveva ancora assistito a niente che valesse una foto. Allora il soldato aveva fatto uscire un prigioniero dalla fila: «scatta adesso», e gli aveva sparato.

Il fotografo esce e raggiunge l’ovile, in campagna, dove i suoi amici tengono prigioniera la ragazza albanese. Entra, la trova, la prende per mano e la porta fuori: è un’adolescente, minuta, con i capelli tagliati corti e i pantaloni larghi alla turca; sembra un ragazzo. Gli amici cercano di fermarlo: «Tu non capisci, da troppo tempo non vivi qui». «Smettetela; non vedete che è una ragazzina?» E s’allontana per i campi mentre uno degli amici gli grida: «Non farlo, guarda che ti sparo.» Il fotografo si volta: ha tra i quaranta e i cinquant’anni, è un uomo robusto, con una grande barba. «Spara» risponde. E l’amico spara, poi grida «no!» e si mette a piangere. Intanto la ragazza albanese scappa. La inseguono gridando: «Puttana albanese…» Sta per piovere. Padre Kirill, un adolescente che…

 

Il protagonista, l’eroe di questo film è un fotografo: uno sguardo. C’è qualcosa di cruciale – adesso è più chiaro – in cui Prima della pioggia di Manchevski e certi racconti di Čechov sono, nella distanza di tutto, molto vicini.

Nella distanza di tutto? 1. Se Čechov parla di crimini dell’“anima”, o morali, questo film parla del crimine che non ha bisogno di aggettivi: lo spargimento di sangue, l’assassinio; 2. il minimo che si possa dire dei racconti di Čechov – e che dice chiunque li abbia appena scorsi – è che sono “disillusi”, “disincantati”;7 questo film è disperato: la soluzione che il protagonista dà alla storia è la sua morte, che non la risolve, ma la fa iniziare (come i racconti di Čechov, tuttavia, anche questo film non è la storia che racconta; a farlo concorrono altri “personaggi” che sono decisivi “livelli del testo”: lo sguardo dell’autore, lo sguardo dello spettatore); 3. soprattutto, padre Kirill è “muto” come, nel racconto di Čechov, la governante inglese e, quando può parlare, lui e la ragazza albanese non si capiscono come non si capiscono “la figlia di Albione” e Grjabov: parlano lingue diverse (la maggior parte dei “personaggi positivi”, nel film, è “straniera”: l’inglese in disparte al funerale, il fotografo – «tu non capisci: da troppo tempo non vivi qui» – una donna, Hana…).

 

 

Radicalizzando: il male (e la mancanza di verità) stanno nella società, nel “commercio tra gli uomini”, nella dimensione in cui i corpi convivono e, anche, si guardano, si parlano, si toccano, ma che non è la dimensione dello sguardo, della parola, del tatto; anzi, la nega: corpi di ombre? Corpi di ombre: realtà “di tutti i giorni”.

La realtà, la verità, il bene – per Čechov, per Manchevski; per noi? – sono fuori dalla lingua comune, dalla società quindi? Portati dalla distanza dello sguardo – della governante inglese, di Čechov, del fotografo, dello spettatore – dall’impossibilità di capirsi? Ma portati , su quella riva di fiume, in quel paese macedone-albanese.

Perché, comunque, bisogna stare lì, nel “commercio tra gli uomini”, corpi tra i corpi. La ragione – si fa chiara, finalmente? – dell’insistenza di Čechov nel descrivere “le cose come stanno”, e insieme della pietà con la quale sempre si china al capezzale dei suoi personaggi (stupendamente notata da Cristina Campo8), è questa: l’amore per esse, (che è) la loro necessità.

Sviluppando un censimento, una topografia del campo morale e sociale, interiore ed esteriore, Čechov disegna i contorni d’una malattia, d’una irrealtà e, insieme, del campo, l’unico, il solo.9 E lo sguardo immobile, silenzioso, incomprensibile, “altro” di cui s’è parlato a proposito della Figlia di Albione, il suo vuoto, che indica una condizione superiore, umana – rispetto ai “corpi di ombre”, alla “realtà di tutti i giorni” – è anche davvero vuoto.

Se l’impossibilità di capirsi, nella irrealtà, nella falsità, nel male che segnano la lingua comune, la società, diventa “portatrice” di realtà, di verità, di bene, non ne è tuttavia il luogo, non è un luogo: è un’impossibilità di capirsi. Non si può vivere così, non si può sentire così: questo dice Čechov. Cioè: 1. la salvezza dal male sociale non è né nell’interiorità del sentire (e anche del pensare), malata anch’essa, né “altrove”, da dove provengono, anche se rivelatori, solo silenzio, vuoto, impossibilità; 2. è necessario vivere e sentire diversamente. Come? Čechov non lo dice perché sicuramente non lo sa, ma sa e mostra che è necessario, ed è necessario questo: non altro, non di meno. Ed è anche possibile, se è possibile vederlo: siamo tutti Čechov.

 

 

In alcuni dei suoi racconti più tardi, è chiarissimo. Prendiamo La saltabecca (1892).10 Qui la contrapposizione, dichiarata dall’inizio, è tra la professione di sognatrice, tra gli empiti “artistici” di Ol’ga Ivanovna (che «venerava le persone illustri, ne era orgogliosa e ogni notte le sognava»), e l’apparenza prosaica, dimessa di suo marito, il medico Osip Stepanyč Dymov, «un uomo semplice, comunissimo, senza niente di particolare».

Ol’ga è patetica: non c’è amico e conoscente di cui si circondi che non passi «per una celebrità»: «un attore di teatro… un cantante d’opera… poi alcuni artisti… poi un violoncellista che faceva piangere il suo strumento…». Quando mette su casa con Osip, ricopre le pareti «con schizzi suoi e altrui», dissemina le stanze di «una quantità di ombrellini cinesi, di cavalletti, di fronzoli variopinti, pugnali, buste, fotografie…».

E Osip? «Era medico e aveva il grado di consigliere titolare. Prestava servizio in due ospedali… Ogni mattina, dalle nove fino a mezzogiorno, riceveva i malati, e lavorava in corsia, dopo mezzogiorno andava in tram nell’altro ospedale… I guadagni con la clientela privata erano minimi… Ecco tutto. Cos’altro si poteva dire di lui?»

Qualcosa di lui, quando sta per morire, al termine del racconto, diranno i suoi amici: «“Che perdita per la scienza!… che uomo grande era, fuori del comune! Che talento! Che speranze dava a noi tutti!… uno di quegli scienziati che non si trovano più, oggi”… “Sì, un uomo raro!”»

Per Ol’ga è una rivelazione, ma una rivelazione di che cosa? «All’improvviso capì che era stato davvero un uomo fuori dell’ordinario, raro… veramente grande… capì che tutti loro vedevano in lui una futura celebrità.» Una “celebrità”! Anche qui, come in Dopo la pioggia di Manchevski, la soluzione della storia non la risolve, ma la fa come ricominciare: «Ognuno [degli amici e conoscenti di Ol’ga] passava per una celebrità… Lei venerava le persone illustri, ne era orgogliosa…».

E non è Osip a portare, in questa storia, verità. Anche lui, nella sua sottomissione, nel suo anonimato, nel suo convenzionalismo, è patetico: quando Ol’ga gli presenta il brillante Rjabovskij, sedicente artista, non trova di meglio che, «sorridendo con espressione ingenua e bonaria», tendergli la mano dicendo: «Molto lieto. Insieme a me si laureò un certo Rjabovskij; è forse un vostro parente?». E quando Ol’ga lo rimprovera di non interessarsi di arte, di musica, pittura, «non le capisco», risponde, «ma penso così: se certi uomini intelligenti dedicano a queste cose tutta la loro vita, e degli altri uomini intelligenti pagano per esse somme enormi, ciò significa che sono necessarie».

Ma il massimo del patetico Osip lo tocca quando raggiunge la moglie «nella villa in campagna». «Non la vedeva già da due settimane e ne aveva forte nostalgia. In treno, e poi tra quei grandi boschi, mentre cercava la sua villa, non l’aveva mai abbandonato una sensazione di fame e di stanchezza e sognava il momento in cui, in libertà, avrebbe cenato con la moglie e poi si sarebbe sdraiato a fare una buona dormita. E si rallegrava a guardare il suo cartoccio, nel quale c’erano caviale, formaggio e salmone.»

Arrivato alla villa, invece di sua moglie vi trova «tre uomini che non conosceva»: uno, che «sembrava un attore», guardandolo «in cagnesco» gli chiede: «Cosa volete?»; un altro lo fissa «con aria assonnata e indolente». Quando finalmente Ol’ga ritorna, gli dice di avere dimenticato a Mosca un indispensabile «vestito rosa». Bisogna che Osip vada a prenderglielo. «“Bene”, disse Dymov, “domani mattina prenderò il treno e tornerò subito”. “Come, domani?… Come farai a tempo, domani?… No, tesoro mio, è necessario che tu parta oggi, oggi assolutamente… vai…, il diretto dovrebbe essere qui a momenti.” “Bene.”» «Dymov bevve in fretta un bicchiere di tè, prese una ciambella e, sorridendo dolcemente, si avviò verso la stazione. E il caviale, il formaggio e il salmone furono mangiati dai due giovanotti bruni e dall’attore grasso.»

 

Se Čechov, in questo racconto, mette in rilievo il “non” – la non verità, la non realtà – da cui è costituita Ol’ga, non è per contrapporle, non le contrappone, in Osip, realtà, verità, bene. Non ci sono, qui, “eroi” di cui si possa dire: ecco, è questo. Non è questo, invece, si dice, e non è quello. Non è Ol’ga, non è Osip. Sono alla pari. Il mondo di superiori e inferiori dei primi racconti è, ora, un mondo di fratelli nel male. E nel possibile bene. Non si tratta più di servilismo, si tratta di conformismo.

Ol’ga recita una propria parte. Succede che intrecci una relazione amorosa con Rjabovskij, e: «Una volta disse a Rjabovskij, a proposito del marito: “Quell’uomo mi opprime con la sua grandezza d’animo!” Questa frase le era piaciuta tanto che, incontrando i pittori che sapevano del suo romanzo con Rjabovskij, ogni volta diceva del marito, facendo un gesto energico con la mano: “Quell’uomo mi opprime con la sua grandezza d’animo!”».

Ma anche Osip ha un suo copione. Poche righe dopo averci parlato della frase che a Ol’ga «era piaciuta tanto» (e «ogni volta diceva…»), Čechov racconta che ai «piccoli ricevimenti» di ogni mercoledì a casa sua: «Invariabilmente, mezz’ora prima della mezzanotte, si apriva la porta che dava nella sala da pranzo», e Osip, come un anno prima, con le stesse parole, «sorridendo, diceva: “Prego, signori, a fare uno spuntino.”».

Perché Ol’ga e Osip recitano una parte, un copione? E in che cosa consiste il loro conformismo? Proprio in questo, forse: nel recitare una parte, un copione. Cioè: nel fare propria interiormente ed esteriormente, nei loro pensieri, sentimenti, emozioni come nelle loro parole e nei loro gesti, un’irrealtà, una teatralità che li trascende. Che è anche una forma di vita di e per tutti. A essa si conformano ed è essa che li conforma.

Ma allora, paradossalmente, non possono più apparire soltanto patetici; e infatti non muovono a un compatimento leggero, a un facile sorriso, a un’alzata di spalle, bensì a una pietà profonda. Perché sono anche figure di verità e di amore. Rappresentanti d’una vita irreale, teatrale, sì, ma che è quella di tutti, quindi l’unica vera. E verso la quale si può essere spinti anche dal desiderio, d’amore, di essere come e con gli altri. In un conformismo, in una forma comune. Per questo, forse, Čechov «non dava torto né ragione ad alcuno» dei suoi personaggi, come scriveva Natalia Ginzburg: perché avevano tutti torto e ragione insieme. Per questo «non esprimeva commenti»: perché di fronte alla loro condizione umana era rimasto senza parole («noi rappresentiamo la vita com’è, punto e basta…»). Qui stanno il paradosso e la tragedia. Ancora nostri.

Ma allora un’affermazione da cui si è partiti, quasi fosse scontata, quella secondo cui Čechov avrebbe sviluppato un censimento, una topografia «di quello che nell’uomo è stato chiamato “spirito”, “anima”», va ormai – è già stata – radicalmente corretta o precisata. Non si tratta di questo. Non si tratta delle profondità dell’io come, parlando di vita “esteriore”, non si tratta dei tentacoli delle convenzioni.

Le due figure proteiformi e contrapposte i cui contorni ci sono così familiari – l’individuo e la società, l’interno e l’esterno, il soggetto e l’oggetto e così via – hanno contribuito a lasciare nell’indistinzione, senza un nome, mentre esse ce l’hanno, un’altra dimensione. Una forma. Quella che risponde alla domanda: chi, che cosa siamo? Di essa parla Čechov dicendo: siamo questo: Ol’ga, Dymov.

O meglio, o anzi: è lo sguardo di Čechov – e il nostro – che, Ol’ga e Dymov, li consente e insieme li confuta, offre loro un teatro e, per ciò stesso, li rende solo degli attori. Senza Čechov e il lettore, essi, è ovvio, non esisterebbero, ma, nello stesso tempo, non sarebbero questo. Come senza lo sguardo di Manchevski, del fotografo macedone – e dello spettatore – il “teatro di guerra” albanese-macedone non sarebbe un teatro. Sarebbe “solo” una guerra, senza scampo.

Eppure questo sguardo non è il classico punto di vista esterno che, fuori del gioco, solo può svelarlo. Nel mondo della fine della trascendenza – quello di Čechov, il nostro – nel mondo dei pari e del conformismo, a differenza che in quello di inferiori e superiori e del servilismo, un punto di vista esterno non ha cittadinanza.

Che cos’è allora questo sguardo? Lo sguardo di chiunque sempre altro per chiunque. Se tutto il mondo, tutta la vita sono divenuti un teatro – una dimensione, come s’è detto, in cui i corpi si guardano, si parlano, si toccano, ma che non è la dimensione dello sguardo, della parola, del tatto – siamo tutti sempre attori, e siamo tutti sempre spettatori. Dei chiunque sempre altri per chiunque. Degli sguardi sempre altri per chiunque.

Ed è in questa alterità insieme attiva e passiva, in questo incrociarsi di sguardi che inverano e confutano, che l’altra dimensione, la forma né interiore né esteriore, e interiore ed esteriore ad un tempo, cui s’è accennato, viene presa. «Riconosciamo loro [agli altri]», scrive Merleau-Ponty, «il potere esorbitante di vederci».11

È davvero questo allora, questo sguardo di chiunque sempre altro per chiunque, il “terzo polo” di cui s’è parlato all’inizio: quello che s’insedia nei racconti di Čechov tra irrealtà esteriore e irrealtà interiore. Di cui la “figlia di Albione” non è che intuizione e figura. E anch’esso, come quest’ultimo, è alieno, e pure letteralmente tra noi, qui.

È il nostro altrui sguardo sempre già anche di spettatori, narratori, registi, fotografi; che percorrendo le superfici dei nostri altrui corpi li salva dall’essere soltanto “io”, li confuta, nello stesso spazio, nello stesso tempo, nello stesso atto in cui li testimonia, li invera. Uno sguardo che insieme è già, ed è ancora e anche un compito. In questo doppio senso, di constatazione e di invito: siamo tutti Čechov.

 

 

Note

1 A.P. Čechov, Racconti, I, Milano, Garzanti, 1988, pp. 1-76; le date, qui come oltre, sono quelle della prima pubblicazione.

2 «… un intreccio e la dovuta denuncia del costume»: da una lettera a N.A. Lejkin, 18 aprile 1883, in A.P. Čechov, Vita attraverso le lettere, a cura di N. Ginzburg, trad. di G. Venturi e C. Coïsson, Torino, Einaudi, 1989, p. 12.

3 A.P. Čechov, Racconti, cit., pp. 4-7 (trad. di S. Vitale).

4 «Se tu avessi invece descritto» rimprovera/consiglia Čechov al fratello Aleksandr in una lettera del 20 febbraio 1883 (Vita attraverso le lettere, cit., p. 6), «com’era volgare il tuo protagonista…».

5 «Sottolinea ciò che è vitale, ciò che è eterno, ciò che agisce non sul sentimento meschino, ma sul vero sentimento umano» consiglia Čechov al fratello nella stessa lettera citata alla nota precedente.

6 È una tentazione, una lettura legittima? «Scrivendo, mi studiavo in tutti i modi di non esaurire nel racconto le immagini e le scene che mi erano care e che, Dio sa perché, custodivo e tenevo gelosamente nascoste» scrive Čechov il 28 marzo 1886 al celebre (allora) scrittore D.V. Grigorovič in una lettera in cui afferma (credibilmente o no) di considerare per la prima volta il suo lavoro come letteratura. Non è escluso che qualcosa che gli era caro fosse custodito e tenuto gelosamente nascosto nei racconti stessi.

7 «Gli scrittori che noi diciamo immortali o semplicemente buoni e che ci inebriano tanto hanno, ricordatevelo, un contrassegno comune e assai importante: essi procedono in una data direzione e v’invitano a seguirli, e voi sentite non con la mente ma con tutto l’essere che hanno uno scopo… I migliori fra di loro sono realisti e ritraggono la vita com’è, ma per il fatto che ogni loro riga è impregnata, come da un succo, dalla consapevolezza dello scopo, voi, oltre a sentire la vita com’è, la sentite anche come dovrebbe essere, ed è questo che vi avvince. E noi?! Noi rappresentiamo la vita com’è, punto e basta… Più in là non ci farete andare, nemmeno con la frusta. Non abbiamo scopi né immediati né lontani, e nella nostra anima c’è il vuoto assoluto. Non abbiamo concezione politica, non crediamo nella rivoluzione, non abbiamo un Dio, non temiamo i fantasmi e, quanto a me, non temo neppure la morte e la cecità… Voi e Grigorovič trovate ch’io sono intelligente. Sì, sono intelligente, lo sono per lo meno tanto da non dissimulare a me stesso la mia malattia, da non mentire a me stesso e nascondere il mio vuoto sotto gli stracci altrui.» Da una lettera di Čechov a A.S. Suvorin, 25 novembre 1892 (ibid., pp. 145-146).

8 «L’incomparabile simpatia umana di Čechov, ciò che ne rende così amabile e consolatrice l’apparizione è veramente la simpatia del medico: di colui che… siede al capezzale di ognuno e vi rimane. Egli porta con sé il solo farmaco vero: lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare con noi… di chi ha imparato a ricordare di continuo, a sé e agli altri, quel che possa valere il dolore quando lo raccolga lo specchio di un amore senz’ombre» (C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 197).

9 Della «cité d’ici-bas», della «comune condizione umana», come scrive Cristina Campo (ibid., p. 195), che aggiunge: «Lo sguardo che avvolge questo mondo e ne ricompone dall’alto i significati dispersi […] è il muro di cinta della città di Čechov».

10 A.P. Čechov, Racconti, cit., pp. 612-638 (trad. di L. Celani).

11 Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 56. Il corsivo è di

Poesie inedite

6

di Diego Caiazzo

* * *

Penso spesso al destino dei miei libri,
dopo; vorrei fare come i faraoni,
portarli con me nella mia piramide:
solo che io non avrò una piramide,
probabilmente; ed è vero,
molti li compro sapendo
che non li leggerò,
almeno in questa vita;
ma mi piace vederli lì, tra gli scaffali,
in agguato come indiani,
avvertirne l’odore forte della stampa;
e rimandarli ad una vita futura
in cui, quando entro in una libreria,
immediatamente confido.

* * *

Danza notturna

Una notte straniera
di sabbie e di ricordi

una delle mie notti senza fondo
in cui invito a ballare con me
la rumba dell’insonnia
chi con dolcezza o violenza
mi ha attraversato la vita

sono qui come un legionario
in cerca di fortuna e di oblio
in un deserto lontano.

* * *

Con la malattia si impara a convivere,
come con una orribile concubina,
eppure non si passa il tempo a odiarla,
ma a porle ogni giorno una domanda:
perché hai scelto me?
È la domanda dell’amore,
che non prevede risposta.

* * *

Le vite di coloro che amiamo
si staccano pesantemente
dai loro corpi suscitando
il nostro sgomento

vani i tentativi di opporci
a noi non resta
che osservarle cadere al suolo
come oggetti celesti

ognuna di esse lascia
un cratere in cui precipitare
coi ricordi come in un Averno.

* * *

Vedo gli occhiali di mio padre
e quelli di mia madre
riposare insieme
nello stesso cassetto;
per una innominabile inerzia
so che si guardano, si cercano,
incuranti della morte;
pare siano rimasti qui
ad assicurarmi sui loro sguardi,
il loro modo di rendere
l’amore immortale.

* * *

Una volta scritta una poesia
la lascio decantare sul foglio
aspetto che si sedimentino
i corpuscoli ad essa estranei

ogni tanto ne controllo la purezza
osservandone la trasparenza
possono passare anni
o pochi minuti

quando il processo naturale
è finito l’assaggio
come fosse un vino
distillato dal pensiero

cercando di evitare l’ubriachezza
divento sommelier di me stesso
implacabile coi retrogusti.

* * *

Agosto interrompe le trame
e recide i disegni,
che andavano rivelando una forma.
Questo mese sabbatico,
come ogni anno,
s’insinua
o si presenta di colpo,
purga le anime,
ferma la mano all’assassino.

* * *

La vita a volte
solleva tedio
come polvere
e s’illumina
di luce oscura.
Rimane sospesa,
come un amore
inespresso.

* * *

L’amore parla per enigmi
e il tempo degli amanti
passa incerto nel tentativo
di scioglierli. Ogni sguardo,
anche se mancato, è una sciarada,
un rebus, una sillaba posposta,
come da un dio geloso
di un disumano segreto;
ogni appuntamento
può essere un inganno,
un’assenza rivelare l’ignoto.
Anch’io cerco invano
di interpretarne i segni,
la loro apparente poligamia,
il loro a tutto legarsi
per confondere,
e resto annichilito
nel risolverli in un volto.

* * *

“The Kingfisher’s Soul”, Robert Adamson

1

fishing

Rituali del Lungolago

Percorri la città in auto, non fermarti
all’hotel, va oltre il pesce-spada al neon,
guarda i pellicani appollaiati
sui lampioni, accosta e parcheggia
vicino al lago. È luna nuova
e le tule puzzano di kerosene che brucia.

Uomini guadano il lago,
seguono bambini che fanno strada
con lucignoli, per la pesca di scampi.
Arrivati con le famiglie
in auto e camion, alcuni portano tende.
Dietro scuri chiusi nel parcheggio dei caravan

mariti si sbronzano o se la squagliano.
Quando arriva l’ultimo gruppo col bottino,
sfavillano falò in fusti roventi –
mettono a bollire secchi d’acqua salata
e suonano musica country o rock.
Fanno una specie di danza, non proprio una danza,

sbrigando i rituali, a volte
scoppia una zuffa, o ci scappano persino
coltellate. Ma per lo più è un passo a due
e una cantata. Banchettano col bottino –
sbucciano scampi e bevono birra,
fanno toast o fanno bollire bricchi al canto dei chiurli.

 

 

Ungaretti a Broken Bay

Un airone azzurro, in cerca di cibo per la prole,
volteggia intorno a una cicala invischiata – poi
si ferma, assume una postura di caccia.
Una famiglia di fringuelli testa-rossa
sfreccia da un buco in un ceppo
cavo d’eucalipto.
Gatti in cerca di teste di pesce fra i rifiuti
vicino alla lucidatrice; ratti d’acqua
nidificano sotto assi sbiancate dal sole
sporgenti dalla riva fangosa.
La marea è a favore e Giuseppe
dispone le sue lunghe lenze –
Getta l’ancorotto:
quando farà presa sul fondo
seguiranno le esche, coi loro
filetti di triglia spaccati,
bloccati dall’uncino – ami punta 5.0 –
queste esche, che ancora trasudano sangue,
fluttueranno nella colonna d’acqua.

 

 

L’anima del martin pescatore
(per Juno)

Un’onda colpisce la costa di massi irregolari,
esplode, s’apre in rosa di schizzi, un’ala fluida
ricade poi in gocciole sull’onda: una spuma
di sangue arterioso. L’occhio è beffato da ciò che
il cervello intende – lo spirito spicca il volo
a ogni guizzo di intuizione – piume di fumo
si sfanno nell’aria mentre planiamo verso la chiarezza.

Ai vecchi tempi pensavo che l’arte
di pura immaginazione volasse più in alto
di ogni cosa reale. Ora sento un palpito leggero
d’uccello nella mia pulsazione, in unione col cielo.
Allora, una parte di me era solo a metà viva:
il tuo respiro m’ha dissolto dagli occhi un bosco di fumo
e ha portato in vita l’altra metà. Non c’è

prova, niente di tangibile, e nessun filosofo
di razza a considerare possibilità,
ponderare piume, o anime. Un giorno
qualche prova potrebbe sgorgare da indizi
come fece il corpo, che se la cavò nel rigettare i dolci veleni,
la lusinga del canto oscuro. Sei arrivata con vento
nello sguardo, a spazzare via strazi e rovelli,

a schernire il fatale comando del Re d’Inferno;
tu creasti compleanni e gli zigomi
di famiglia – io ero al meglio, vita facile
e vena felice, nella soffice culla del pensiero.
Ripulii da falsità della memoria la stessa mia memoria,
le sue stangate e segna-punti, quelle ambigue poesie –
terso canto d’uccello, non canto-umano, udire si mutò

in reti e vibrazioni offuscate, aria ronzante,
satura di falsità e sussurri. Sentivo fogli bianchi,
rientri creati da immagini, e tiravo avanti
con forme create da consuetudini artefatte.
Mi insegnasti a ponderare la messe della luce.
C’era fulgida innocenza nel tuo sillabare,
ho appreso a leggere di nuovo attraverso occhi feriti.

I filiformi ragni della resa sfolgoravano di statica
elettricità lungo la pelle, vene sottili, un ricamo di
fili ramati, conduttori di pena al sistema
nervoso: tutti pesi piuma, per la tempra del tuo sangue.
Hai recato con te luce nuova, in cui vivere
con cui leggere – prima del tuo arrivo, ogni volta
che scorgevo un barlume del mio sangue, pareva che

mi svenassi d’una cascata di cellule brillanti.
Nubi d’eufonia, create da quella perdita, divenivano
buchi nel pensiero, spacciandosi per vie di fuga. Ora tu
sei una rapida, ali per i tubicini delle mie
coronarie. Dormimmo insieme quando arrangiasti
un letto nella tua casa-albero: ore senza narcotici,
la pace apparve e disse: Presto, il futuro vi aspetta.

Entrai nel giorno, seguendo il tuo sguardo.

 

 

Camminando lungo il fiume

Camminava semi-sommerso
attraverso i suoi pensieri,
emozioni, un intrico di tralci
e rampicanti.

Le sue parole erano fringuelli
in volo davanti a lui
che oscillava le braccia –
e sparpagliava paragrafi.

Scroscio di cascata
avanti sul cammino,
parole in schegge cricchiavano
a ogni passo. Giunse in

un luogo quieto, frasi opulente
in boccio: unghia di strega
dai frutti porporini, le bacche
azzurro scuro del pruno.

 

 

I bianchetti

Il primo gelo d’inverno
brucia tenere foglie
di basilico in vasi di terracotta,

ricopre felci zampa
di canguro; bianchi colli di pelliccia
su bocci cremisi.

Gli storni tenaci
volano in giro, beccando avanzi;
cantando, cric, cric.

Ho letto le notizie del mattino
e ho pensato
agli occhi impassibili

dei gabbiani australiani –
i loro becchi straziano i bianchetti ancora vivi

dentro scatole di plastica sul molo
dell’Emporio del Pescatore.

Nel nostro giardino, una pezza
di luce solare si sposta
sull’erba, e mangia i cristalli di ghiaccio.

 

 

Narciso su uno yatch da pesca

La superficie del fiume
in balia di un gorgo
e l’ala pungente
di un vento di ponente

specchi impazziti
in ogni onda che s’impenna
riflettendo facce
cubiste su ogni sponda

lo sciabordio dell’acqua
sul fianco della barca
che sibila e tossisce
l’uccello gatto canta

alla foce del fiume
dove l’acqua dolce
incontra i salmastri
flutti sciabordanti

ascolto gli echi
nello scafo mentre il V8
romba sbronzo di fumi
di benzina ed esige

più musica dark
la luce del sole spacca
i riflessi e la schiuma
bianca dell’onda fa centro

 

 

La rete
(alla maniera di Attila József)

I ricci si sfoltiscono, fiocchi secchi
mi fluttuano intorno alle spalle –
ho perso di nuovo la stilografica.
Zio Eric, l’ultimo pescatore professionista
in famiglia, è morto. Non temere
però, non sono solo.

Sciabico il circolo ematico
e i nervi, la mia rete da pesca genetica,
in queste acque scure
catturo alcune scintille di luce –
la mia rete è strappata, così la stendo
e prendo un ago.

Ora che la mia rete è stesa
sul filo del bucato, vedo
scaglie traslucide, rametti bianchi
da inarcate acacie di fiume; nodi contorti
di fibre da code di pesce nastro;
stelle in un firmamento.

 

 

*

 

 

The Lakeside Rituals

Drive through the town, don’t stop
at the hotel, pass the marlin with its neon sword,
notice the pelicans perched
on the streetlights, pull up and park
by the lake. It’s the dark of the moon
and the bulrushes smell of burning kerosene.

Men wade through lake water,
they follow children who lead the way
with flaming wicks, they are scoop-netting prawns.
They arrived with their families
in cars and trucks, some bring tents.
Behind drawn blinds in the caravan park

husbands get drunk or slip away.
When the last group comes in with their catch,
fires glow in red-hot drums –
they boil buckets of salt water
and play country music or rock.
They do a kind of dance, not really dancing,

attending to rituals, sometimes
a fist-fight will break out, or even a stabbing
may happen. It’s mainly a double-shuffle
and a song. Then they feast on the catch –
peeling prawns and drinking beer,
making toast or boiling billies as the curlews call.

 

 

Ungaretti at Broken Bay

A blue heron, foraging for its young,
circles a stranded cicada – then
stops, assuming a position of aim.
A family of redhead finches
pour out from a hole in a hollow
tree stump of yellowbox.
Cats scavenge for fish heads
by the cleaning slab; water rats
nest under sun-bleached planks
that jut from a mudbank.
The tide’s right and Giuseppe
prepares to set his long lines –
He throws out the kellick:
when it takes a grip on the bottom
the traces will follow, with their
butterflied fillets of mullet,
pinned to hollow – point 5.0 hooks –
these baits, still seeping blood,
will flutter through the water column.

 

 

The Kingfisher’s Soul
(for Juno)

A wave hits the shoreline of broken boulders,
explodes, fans into fine spray, a fluid wing
then drops back onto the tide: a spume
of arterial blood. Our eyes can be gulled by what
the brain takes in – our spirits take flight
each time we catch sight out – feathers of smoke
dissolve in air as we glide towards clarity.

In the old days I used to think art
that was purely imagined could fly higher
than anything real. Now I feel a small fluttering
bird in my own pulse, a connection to sky.
Back then a part of me was only half alive:
your breath blew a thicket of smoke from my eyes
and brought that half to life. There’s no

evidence, nothing tangible, and no philosopher
of blood considering possibilities,
weighting up feathers, or souls. One day
some evidence could spring from shadows
as my body did in rejecting the delicious poisons,
the lure of dark song. You came with a wind
in your gaze, flinging away trouble’s screw,

laughing at the King of Hell’s weird command;
you created birthdays and the cheekbones
of family – I was up, gliding through life
and my fabrications, thought’s soft cradle.
I scoured memory’s tricks from my own memory,
its shots and score cards, those ambiguous lyrics –
clear bird song was not human-song, hearing became

nets and shadowy vibrations, the purring
air, full of whispers and lies. I felt blank pages,
indentations created by images, getting by
with the shapes I made from crafted habits.
You taught me how to weigh the harvest of light.
There was bright innocence in your spelling,
I learned to read again through wounded eyes.

Wispy spiders of withdrawal sparked with static
electricity across skin, tiny veins, a tracery of
coppery wires, conducting pain to nerve
patterns: all lightweights, to your blood’s iron.
You brought along new light to live in
as well as read with – before you came, whenever
I caught a glimpse of my own blood, it seemed

a waterfall of bright cells as it bled away.
Clouds of euphony, created by its loss, became
holes in thinking, pretend escape hatches. You’re now
a rush, wings through the channels of my coronary
arteries. We slept together when you conjured
a bed in your Paddington tree-house: barbless hours,
peace appeared and said: Soon, the future awaits you.

I stepped into the day, by following your gaze.

 

 

Walking by the River

He walked waist-deep
through his thoughts,
emotions, a tangle of vines
and tree-creepers.

His words were finches,
flying before him
as he swung his arms –
scrambled paragraphs.

A waterfall sounded
ahead of his walk,
chipped words cracked
with each step. He came to

a calm place, opulent phrases
in bloom: purple-fruited
pigface, the blackthorn’s
blue-black sloe.

 

 

The Whitebait

The first winter frost
burns delicate leaves
of basil in terracotta pots,

coats the kangaroo-paw
ferns; white fur collars
on crimson buds.

The hardy starlings
flit about, pecking dirt;
singing, click, click.

I read the morning news
and then think of
the unblinking eyes

of silver gulls –
their beaks slash at whitebait still kicking

in plastic boxes on the wharf
of the Fisherman’s Co-op.

In our garden, a patch
of sunlight moves across
the grass, eating the crystals of ice.

 

 

Narkissos on a Gamefishing Boat

The surface of the river
caught by an eddy
and the clipping
wing of a westerly wind

crazed mirrors
in every leaping wave
reflecting cubist
faces on each edge

the water lapping
on the side of the boat
hissing and coughing
catbird songs

at the river’s mouth
where sweet water
meets the salt
tide’s lapping tongue

I listen to echoes
in the hull as the V8
thrums drunk on petrol
fumes and calling

for more dark music
the sunlight shatters
reflections and the white
foam of the wave hits home

 

 

The net
(after Attila József)

Curly hair’s thinning, dry flakes
drift around my shoulders –
I’ve lost my fountain pen again.
Uncle Eric, the family’s last professional
fisherman, is dead. Don’t worry
though, I’m not alone.

I trawl my bloodstream
and nerves, my genetic fishing net,
in these dark waters
catch a few sparks of light –
my mesh’s torn, so I hang it up
and grab a needle.

Now my net’s hung out
on the clothes line, I can see
translucent scales, white twigs
from swayback river gums; twisted knots
of hair from ribbonfish tails;
stars in a firmament.

 

*

 

I testi sono tratti da Robert Adamson, The Kingfisher’s Soul (Bloodaxe 2009). La traduzione è di Angela D’Ambra.

 

*

Robert Adamson è nato a Sydney nel 1943. Nella tarda adolescenza e durante la prima maturità ha trascorso dei periodi in istituti correzionali e in carcere: è lì che ha cominciato a scrivere poesia. La sua prima raccolta, Canticles on the Skin, è del 1970; in seguito ha pubblicato più di una dozzina di altri volumi, tra cui The Clean Dark (1989) e The Goldfinches of Baghdad (2006), premiati in Australia con prestigiosi riconoscimenti. La poesia di Adamson riguarda l’esperienza della reclusione, la vita nei territori dell’Hawkesbury River, dove ha abitato (e pescato) per molti anni, le relazioni personali, e i rapporti coi suoi colleghi e mentori, tra cui il poeta statunitense Robert Duncan. Oggi insegna poesia alla University of Technology di Sidney.