[Diario parigino 1, diario parigino 2]
di Andrea Inglese
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Un sogno di felicità ricorrente, di quelli che si fanno ad occhi aperti. Sogno di giungere in un periodo della vita, in cui mi sia possibile leggere, leggere finalmente, senza troppe limitazioni, interferenze, ingombri quotidiani, senza l’invasione, nel mio tempo libero, del tempo imprigionato del lavoro, il tempo imprigionato che comunque dà senso, poiché una legge umana vuole, una maledetta legge hegeliana forse, vuole che l’uomo nel lavoro finisca per trovare una qualche sensatezza, ma io da anni, pur piegandomi alla legge del lavoro sensato, inutile spesso, odioso spesso, noioso spesso, ma sempre maledettamente sensato, io comunque intravedo, al di là di questa legge, una legge ulteriore, in cui io non faccio che leggere, e leggere a mio piacimento, mi leggo finalmente tutti quei libri che ho comprato nel corso degli anni, tutti quei libri comprati a prezzi interi o scontati, prezzi di libri nuovi o usati, io tutti questi libri che mi circondano, che sono disposti a mo’ di accerchiamento in casa mia, tutti questi libri che io ho continuato a comprare senza mai riuscire a leggerli, io questi libri sogno che, in un dato momento della mia vita, spostato nel prossimo futuro, in un futuro comunque radioso, me li posso finalmente cominciare a leggere tutti, non dico che davvero m’immagino di leggermeli tutti, ma mi è sufficiente, in questo sogno, sapere che ho il tempo, e che quindi mi prendo il tempo – tempo che, per qualche ragione del destino biografico, mi è d’un tratto concesso – di leggermeli per null’altro motivo che il mio piacere, il mio umanistico piacere, per la mia bildung, una bildung tardiva, passati ormai i cinquant’anni, è patetico – certo – questo desiderio, e soprattutto è patetica la realizzazione di un tale desiderio, se mai la ottenessi, anche perché in cosa consisterebbe?, in null’altro che mattinate e pomeriggi passati a leggere in casa, vorrei, nel mio sogno, poter cominciare a leggere tutti i miei libri a casa, non per un’esigenza di isolamento, per qualche paranoico sentimento di minaccia che avvertirei se decidessi di leggere in una biblioteca pubblica o in una caffè a Parigi – dove c’è un certo numero di persone che leggono – ma io non vorrei farmi distrarre dalla gente, primo, e vorrei soprattutto, secondo, leggermi questi libri in una posizione fisicamente confortevole, mi sembra che sia una sorta di abbinamento sacro e solenne questo, l’abbinamento della comodità fisica e del libro, dell’ergonomia della lettura, per cui mi è assolutamente chiaro, nel mio sogno ad occhi aperti, che si legge bene solo allungati su di un letto o spaparanzati in un divano o in una poltrona, ma in nessun modo una lettura degna di essere realizzata per motivi di tarda bildung umanistica, dico mai sarà possibile imprigionarla nel sistema sedia-tavolo o sedia-scrivania. I Diari di Musil (1899-1941) e l’Epistolario di Kafka, ad esempio, potrò leggermeli, e non perché debba, poi, maledettamente scriverne un articolo, pagato o gratuito poco importa, non perché, insomma, con quella lettura io debba fare del senso, avere un’attitudine sensata di fronte a chi mi chiedesse perché sto passando i pomeriggi a letto, come un convalescente, solo per leggere i Diari di Musil o l’Epistolario di Kafka, quale impegno professionale, infatti, mi offre la garanzia (l’alibi) di passare così tanto tempo a leggere Musil o Kafka, senza trasformare questo mio tempo di lettura in una prestazione giornalistica o accademica, o accademico-giornalistica, o magari, persino, saggistica, ma di saggio creativo anti-accademico e anti-giornalistico? Anche i miei amici scrittori, i miei amici che come me sono da anni immersi in questa residua palude dell’umanismo, in questa dirotto paesaggio di lettere, lingue, letterature, anche se poi sono paesaggi umanistici aggiornati, in cui si parla di finzione, di docu-fiction, di qualcosa che suona anglosassone e aggiornato, anche loro, comunque, questi scrittori-giornalisti, o questi scrittori-accademici, o questi scrittori di saggismo anti-accademico o addirittura di finzione, anche loro mi chiederebbero perché, con quale fine professionale, con quale recondita motivazione lavorativa, di sensatezza possibile, io mi sia messo a leggere certi libri, che sono importanti, che danno anche lustro, che sono fenomeni quasi di lusso umanistico – ma chi si può più permettere di leggere i Diari musiliani o l’Epistolario kafkiano senza una qualche borsa di studio, progetto europeo di supporto, curatela di numero monografico in rivista? Ma il periodo della mia vita che m’immagino varcare è un periodo, appunto, in cui le preoccupazioni lavorative, di sensatezza, di alibi professionale, sono come dissolte sotto la spinta di una maturità esistenziale, psico-fisica, che mi restituisce il piacere della lettura nella sua versione, se così si può dire, arcaica, intonsa, come un’attività che ha interamente in se stessa il proprio fine, e non voglia altro, né dal mondo né dal soggetto che la esercita, soggetto che, di rimando, è felice come una pasqua, in un atteggiamento di completezza spirituale, tale per cui non soffre più del salario scadente che gli è concesso, della rinomea del tutto insufficiente che la sua sensibilità umanistica ha suscitato intorno a lui, ma dimentica, leggendo quei libri, e leggendoli senza alcuna impazienza, sormontando anche dei lunghi e noiosi passaggi, dimentica il problema grave, anzi gravissimo dell’invecchiamento, perché forse, se vi è una qualche astuzia, o sensatezza, in questa postura umanistica, della lettura ergonomica e spaparanzata, sta nel combattimento subdolo nei confronti della grande angoscia di morte e invecchiamento, perché a ben guardare il soggetto in questione, essendo miscredente, materialista, figlio di società del disincanto e del consumo, non teme, nei sui recessi di coscienza, giudizio finale su colpe e vizi, su inadeguatezze morali, che certo ci sono e sono in qualche modo assodate, non grandemente redimibili, ma la vecchiaia, il distruggimento lento del fisico, o della mente prima e del fisico poi, o di entrambe le funzioni, quella mentale e quella fisica, in una sorta di crollo simultaneo, questo tipo di incubo, perché bisogna in qualche modo nominarlo per quello che è, un semplice incubo, l’insensatezza non solo della morte, che ha reso risibili tutti quegli anni di lavoro per scopo più o meno pensionistico, oltreché di sensatezza biografica, ma anche l’insensatezza maligna, persecutoria, dello smantellamento progressivo, che solo un eroico ma altrettanto insensato suicidio abbastanza precoce potrebbe schivare. Leggere con grande magnanimità tutti i libri comprati e mai letti, o letti in piccolissima parte, e letti in modo assillato, sempre un po’ con l’acqua alla gola, e quindi letti malamente, di sfuggita, a morsi, tutta quella valanga di pagine che finalmente verranno, nel periodo radioso, lette, sono un modo più che sensato, più che saggio, di controbilanciare non l’invecchiamento, che verrà implacabile, come nella poesia di Pavese viene persino, alla fine, la morte, ma un modo di strangolare, e persino spazzare via, l’angoscia d’invecchiamento e morte, regalando dei super-poteri, come la memoria, la memoria drogata, e amplificata, dal momento che leggendo, al di là della generica balla della bildung umanistica, io integro porzioni di mente altrui, e ogni porzione di mente – che non è altro, materialisticamente, che quel costrutto di frasi ben fissate (inchiostrate) alfabeticamente su un supporto chiaro e sottile –, ogni benedetta porzione di mente, musiliana e kafkiana ad esempio, è già una magnifica estensione, integrazione, impero espansivo di altre centinaia di menti, e quindi di memorie, ossia di gesti concepiti e di paesi descritti, in un turbinio di tempi verbali, e quindi storici, massiccio e onnilaterale, tale per cui è possibile muoversi anche solo lungo le dorsali della storia europea, che è già contaminata da storie di altre e remote civiltà, e in questa maggiorazione crescente della mente, in quel periodo radioso della lettura realizzata di per sé, per interna finalità, non è che il mondo o il tempo siano neutralizzati, perché come si è visto sono piuttosto moltiplicati, ma è la morte, come cancellazione dei doni e delle memorie, dei doni terrestri, certi colori delle cose, certe tessiture delle materie, certi aromi nell’aria, certe capacità retoriche dell’uomo e della donna – è questo dirupo smemorante che si fronteggia, tutta la salvaguardia alfabetica, e mentale, e trasmissibile su carta, è un’interruzione forte della morte, e dell’invecchiamento come smantellamento dei suoni e degli odori, dei gesti e dei luoghi, per cui si sta nella lettura protetti, come avvolti in un profondo mantello, dentro cui la mente si espande, e sciamanicamente moltiplica gli alveoli dell’unico mondo nostro. In questo il termine umanistico acquista forse pertinenza, la lettura come presidio senza limiti di spazio e tempo dell’unico mondo umano, che è poi costantemente vegliato, alle sue frontiere, ovunque, in ogni punto, vegliato e intriso, vegliato e disturbato, sollecitato e giostrato dai compagni non-umani, e cioè i sassi, i budda, le nebulose, le giade, le mosche, i folli, i neonati, i morti, i mostri, e il resto, massa di masse estranee, che l’uomo vede, sogna, disegna, descrive, inventa, integra, nomina, aggredisce, incendia, divora. E insomma, quindi, il periodo prossimo e venturo, quello radioso della mia vita, in cui si cominceranno a leggere tutti i libri, io l’attendo sognando ad occhi aperti, per questo, per altro, oggi, mi è così difficile anche solo concentrarmi sulla pagina di un libro, di un romanzo magari, come Tempi difficili di Dickens, che non c’entra nulla, che so bene non dovrei leggere adesso, che sto leggendo troppo tardi o troppo presto, e che soprattutto leggo male, a pezzi, sognando il giorno in cui, disteso sul letto, durante tutto un pomeriggio, potrò leggerlo come si deve, per la felicità di una mente aumentata e sciamanica.
Ma quel periodo, poi, di vita felice nella lettura di tutti i miei libri non letti, poiché quasi tutti, al novantanove per cento, i miei libri, i libri infilati negli scaffali delle varie librerie della casa, sono libri che non ho letto, e che rischiano di rimanere non letti, fintantoché la vita è soprattutto votata alla sensatezza di una lettura lavorativa, salariale, o di carriera, professionale, letteraria o giornalistica, quel periodo, comunque, se mai arriverà, dovrà farsi spazio dentro un altro periodo, simile per felicità, ma diverso per pratica, metodo, apparecchiatura della felicità, perché io, ad occhi aperti, anche sogno un tutt’altro periodo, il periodo in cui potrò riprendere e leggere, oppure riprendere e leggere sottolineando, oppure riprendere, leggendo e ricopiando frasi selezionate, tutti gli articoli di giornale che ho conservato, o che ho ritagliato, giornali e ritagli variamente disposti, e raccolti, e infilati, e dimenticati in angoli della casa, dal momento che i giornali vecchi e i ritagli di giornali vecchi sembrano spontaneamente destinarsi agli angoli, ai buchi, agli anfratti, ai frammezzi, alle intercapedini, agli spazi bui e morti, della casa. Io sogno, però, che verrà un periodo più onesto e responsabile, più libero e innovatore, in cui saprò far affiorare da tutti gli angoli ciechi, e bui, e morti della casa quella quantità di giornali e ritagli di giornale, a partire dalla quale estrarre una meditata costellazione di notizie, in grado di illuminare in modo diverso, più crudo e definitivo, l’immagine del mondo, del nostro mondo contemporaneo, che sappiamo tutti essere complesso e stratificato, e dentro gli strati anche piegato e rovesciato, tale per cui ogni taglio diagonale o ogni lettura lineare incontrano scogli e opacità, paradossi e divaricazioni, che non ne permettono un ingerimento conoscitivo non dico integrale, ma sufficiente e pacato, poiché ancora peggio della lettura dei libri – romanzi, saggi, studi specialistici, manuali divulgativi, poemi – ancora più strozzata, frammentaria, furiosa, distratta, è la lettura dei giornali d’informazione, sempre troppo noiosi e prevedibili, oppure troppo copiosi e sfuggenti, e quindi è inevitabile sognare il giorno, ossia il periodo abbastanza lungo, in cui si riuscirà a non leggere più l’edizione giornaliera dei quotidiani nazionali, per dedicarsi con estrema calma ad un lavoro di lettura a ritroso, ma non nel senso lineare della retrocessione semplice, bensì in quello apparentemente aleatorio del volo di mosca, saltando da un anno all’altro, da un argomento all’altro, per creare nessi inattesi, armonie profonde, strutture di senso, reti d’intelligibilità che attraversano in modo irregolare e turbinante i fatti, i luoghi e le epoche, affinché tutto sia tremendamente più chiaro, la macchina dei poteri innanzitutto, ma anche la macchina delle deficienze, delle anomalie, delle pure e selvagge sregolatezze, che costantemente una seconda macchina di ordinamento e pulizia deve sovrastare, integrare e cancellare. Questa lettura dei giornali passati, delle pagine ritagliate e conservate, della massa straripante degli articoli non letti, e che deve essere fatta non per finalità immediatamente militanti, ma perché un saggio politico e antropologico ne possa naturalmente scaturire, un saggio lacerante, nello stile di una lama da combattimento, e non da semplice chirurgia, tale saggio, infatti, dovrà sovrastare l’attivismo politico e sovversivo formicolante, ma dovrà sovrastarlo in moto e in levità, come un pallone areostatico che sorpassi non solo le linee del nemico – e tranci le sue metalliche protezioni – ma anche le avanguardie amiche, per giungere in una zona di calma considerazione dei rapporti di forza, che non può dare certo spazio a gonfiamenti mentali, a pretese sciamaniche di rimemorazione onnilaterale, dal momento che è l’unità di gesto e di luogo, la collocazione millimetrica e puntualissima del passo, che il saggio deve rendere possibile una volta scritto, e scritto attraverso la lettura, l’analisi, la sottolineatura di tutto quanto, dei giornali vecchi, non era stato letto, né è mai stato possibile leggere, fino al giorno in cui il periodo felice 2, della lettura di tutti i giornali non letti, ha soppiantato il periodo felice 1, della lettura di tutti i libri non letti, almeno nel sogno ad occhi aperti, in attesa di una realizzazione, anche parziale ma concreta, perché è dei sogni in stato di veglia, è delle fantasticherie, il destino rarissimo, ma non impossibile, di realizzazione, almeno in minima parte.




poesie di Azzurra D’Agostino





































Dell’aragosta Si dice che al contatto con la morte/ emetta un grido, strilli,/ un pianto disperato, stile supplica./ Ma si tratta solamente del vapore/ fra polpa e carapace. Ciò che i nostri sensi percepiscono è dunque un inganno, che ci restituisce la consapevolezza della fondamentale ignoranza che abbiamo riguardo la morte e il dolore, siano essi legati al congedo definitivo che al rimosso quotidiano, al ribaltamento, e quindi il decadimento, di relazioni e convinzioni personali. Questi versi appartengono a Il pianto dell’aragosta, poesia che dà il titolo all’ultimo libro di 







di Hakan Günday