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Lune di miele

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aeroflot(proseguono gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Questo è un po’ lungo, ma ne vale la pena arrivare fino in fondo. G.B.)

di Alberto Tonti

Seduto al tavolo da disegno nella zona dedicata agli ingegneri e agli architetti del Ministero all’Idraulica ad Algeri, attraverso una enorme vetrata che divide a metà l’open-space, incrocio per la prima volta lo sguardo dell’interprete russa che diventerà mia moglie. Irina Korsakova è alta, bionda, con gli occhi grigi e le labbra imbronciate, parla lentamente con il direttore del dipartimento e, ogni tanto, mi guarda come di sfuggita, ma non è così e io lo so.

Mi sta guardando perché le piaccio, già mi ama, ha deciso di vivere tutta la vita con me, se solo riuscissi a conoscerla potrebbe essere mia per sempre.

A ben vedere non è un vero e proprio colpo di fulmine ma piuttosto una sfida che mi spinge a concepire una serie di mosse per raggiungere l’obiettivo: i bigliettini, le mezze frasi in francese nei corridoi, il primo incontro di nascosto al mercato di Kouba, l’amore nell’appartamento dell’amica Valentina, la promessa di matrimonio. Tutto succede in un mese, sono frastornato e felice, alla faccia della delegazione sovietica.

Il contratto di Irina scade il 15 di ottobre, deve rientrare a Mosca e trovare il coraggio di comunicare ai genitori che si è innamorata di un italiano, che intende sposarlo e che, naturalmente, vuole andare a vivere con lui. E’ figlia unica, suo fratello gemello è morto durante il parto, Olga e Dimitri non hanno che lei e per lei stravedono, non sarà facile.

Passano lunghi mesi di tante lettere e qualche telefonata: la lingua è il francese che lei parla e scrive benissimo, che io parlo e scrivo malissimo. La storia che affascina me, spaventa lei. Irina più di una volta mi ha avvertito delle difficoltà che dovremo affrontare: un’infinità di carte da raccogliere a Mosca, i permessi dell’ambasciata italiana, la lontananza, le culture così diverse, e poi sarà vero amore? Siamo sicuri che ciò che è stato deciso lo vogliamo tutti e due fino in fondo? Non sento ragioni, ribatto punto per punto, sono pronto, deciso a tutto, questo matrimonio s’ha da fare. Mi crogiolo nella ferma convinzione che non possa esistere amore più grande, più insolito, più affascinante di quello che sto vivendo e che mi appare più forte e struggente di qualsiasi altro vissuto in passato.

Il volo Aeroflot SU 212 parte con quaranta minuti di ritardo ma è la prassi.

Mi accomodo al centro dell’aereo, poltrona lato corridoio. Una ventina di chiassose ragazze americane invadono la cabina con borsoni, zaini, sacche militari, gridolini, risate, sudore e gioia di vivere.

La più bella, l’unica bella, dopo aver trafficato coi bagagli, mi si siede vicino sorridente e mi offre un chewing gum.

Sono Patricia, americana di Santa Barbara, ma sto a Gstaad in Svizzera a studiare al Montesano Institut, ma sono stata anche a Milano Roma e, soprattutto, Firenze, tu come ti chiami?”

Alberto, sono italiano di Milano, ma sto ad Algeri a fare l’architetto e vado a Mosca perché domani mi sposo”.

Nooo! Really? Con una russa? Tomorrow? Incredibile!”

Eh già!”

Fantastico e dove l’hai conosciuta tu?”

Ad Algeri, era interprete nello stesso ministero dove io lavoro, l’avrò vista si e no cinque volte in tutto e abbiamo deciso di sposarci, un po’ una follia, no?”

Perché una follia, dipende, se c’è l’amore… va bene anche così e poi è una storia bellissima: tu italiano, lei russa, incontrati ad Algeri, vai a Mosca per il matrimonio… sembra un film!”

Patricia parla, parla, parla. In tre ore e mezzo di volo racconta quasi tutta la sua vita. Io, pian piano, entro nei suoi bellissimi occhi, ammiro le labbra perfette, vengo inebriato dall’alito al peppermint, navigo cullato dalla voce rauca, poi mi accorgo che vorrei carezzarle i lucidi capelli biondi, prenderle la mano, stringerla forte, baciarla dappertutto e, quando le ruote del Tupolev toccano la pista, non posso più fare a meno di lei.

Un colpo di fulmine, un altro, ma questo è fresco, brucia forte, inebetisce. Quando lei, carica come un mulo, si allontana verso la scaletta, subisco un’interminabile extrasistole, mi accascio sulla poltrona, sudo freddo, mi gira la testa. Non realizzo se sta succedendo per via meccanica o per via mentale, se il cuore dà i numeri per colpa del cervello o perché improvvisamente si è guastato e di lì a qualche secondo darà definitivamente forfait. Appena la farfalla smette di svolazzare e posso riprendere fiato, opto decisamente per la causa mentale, mi rialzo in piedi, recupero il bagaglio a mano e mi avvio, ancora malfermo, all’uscita. Anche se è marzo, Mosca segna meno dodici e la prima boccata d’aria scivola come un ghiacciolo dalla bocca alle viscere, l’umore secreto delle ghiandole lacrimali sembra cristallizzarsi, il naso e le orecchie si astengono dalla percezione di esistere, l’aritmia in confronto è stata una bazzecola. Impietrito, scendo i gradini come un robot, entro nel pullman, sorrido a Patricia e svengo, crollando come un castello di carte.

Andare in Russia con viaggio organizzato è molto più conveniente che decidere di farlo da battitore libero, perciò il volo di andata, l’albergo a Mosca, il treno per Leningrado che mi porterà in viaggio di nozze e il volo di ritorno fanno parte di un unico pacchetto. La differenza rispetto al programma è che, adesso, dentro quel pacchetto c’è anche Patricia.

Un tempo l’albergo doveva essere molto accogliente, ora odora di muffa e l’antica eleganza si è trasformata in una soffice e polverosa coltre che ricopre tutto: pavimenti, pareti, poltrone, letti, specchi.

Steso su un enorme due piazze, prodigo di avvallamenti e grossi nodi di lana, medito sull’extrasistole, il gelo, la futura moglie ma, soprattutto, sulla fantastica californiana che ancora non sospetta nulla, che non può, neppure lontanamente, aver avuto sentore di cosa mi ha colpito in pieno petto e portato quasi in punto di morte.

Come può essere successo tutto ciò? Come può uno come me, seppure saltuariamente di tendenze libertine, arrivare a desiderare proprio adesso un’altra donna? Ora che sto per sposare una russa, come si fa ad innamorarsi di una yankee? Anche politicamente parlando sembra una bestemmia. Non ci si deve comportare così, bisogna assolutamente evitare altre occasioni d’incontro. Non sarà facile, certo, ma è opportuno, anzi vitale, mettercela tutta. E poi, diciamo la verità, un abisso le divide per cultura, per grazia, per dolcezza, per… per bellezza no, a dire il vero, e neppure per simpatia… però vuoi mettere tornare in Italia e poter dire a tutti gli amici “ti presento mia moglie russa” e tornare ad Algeri al braccio di colei che nessuno ha mai osato neppure sfiorare con un dito. Sono soddisfazioni. Le americane se le sposano tutti, che ci vuole: sono dozzinali, ignoranti, invadenti, sguaiate e col tempo ingrassano. Oddio se è per quello anche le russe non scherzano mica, comunque… non se ne parla nemmeno: la decisione è stata presa e basta!

Nella hall Patricia c’è, assieme alle altre. Si avvicina per chiedermi come mi sento adesso e dove me ne vado di bello.

Meglio, grazie. Vado a casa della sposa a conoscere i parenti. Hanno preparato una piccola festa per la presentazione ufficiale.”

Exciting! Sei emozionato?”

Direi di no, mi emoziono per altre cose.”

Per esempio?”

I tuoi occhi, per esempio.”

C’mon, non prendermi in giro! Vai al tuo appuntamento e cerca di fare bella figura”

Cosa mi è venuto in mente? I tuoi occhi… mi avrà preso per scemo, un povero italiano imbecille che ci prova con una americana mentre va a conoscere i parenti della sposa, non sta né in cielo né in terra. E’ proprio vero che a volte le parole fuggono senza il permesso del cervello, difficile capire dove si nascondono e perché, improvvisamente, si prendono la libertà di saltar fuori. Un mistero glorioso.

Dentro il taxi peloso, di quel pelo orribile dei pupazzi che si vincono nei luna-park, si crepa di caldo. Consegno il biglietto con l’indirizzo, l’uomo mi guarda sorpreso, con una serie di parole incomprensibili e alcuni segni molto più chiari mi fa intendere che quella strada è molto lontana e lui vuole essere sicuro che io ci voglia proprio andare. Certo che ci voglio andare! Ci sono venuto apposta a Mosca. Che si dia una mossa, è già in ritardo.

I colori principali sono solo tre: grigio, marrone e bianco. Un filtro lattiginoso e gelido allontana la realtà che scorre veloce al di là dei finestrini. I palazzi massicci e incombenti, tanto da dare la sensazione di non aver bisogno di fondazioni, fanno il paio con le persone che camminano lentamente. Gente resa goffa e ingombrante da strati di calzamaglia, pullover, giacconi, pellicce, guanti, sciarpe, enormi colbacchi. Orsi impacciati che sembrano andare a carbone, con tanto di vapore espulso dalle bocche, ad un ritmo cadenzato, bolso ma, allo stesso tempo, soffice, impalpabile. I vetri del taxi sono altrettanti schermi sui quali, per la prima volta, ho l’occasione di assistere a un film nuovo in multi-vision ma, da qualunque schermo mi arrivi l’immagine, la sensazione è che la scena sia sempre la stessa: grigia, marrone e bianca. Una cupezza senza fine che, se è possibile, si acuisce man mano che il taxi si allontana dal centro per inoltrarsi in sconfinate periferie con i toni dell’asfalto e del cemento smorzati da una pesantissima coltre di ghiaccio.

mosca

Questa è mia madre Olga” dice Irina che in pochi mesi ha imparato bene l’italiano “ormai sai tutto di lei e questo è mio padre Dimitri, anche di lui sai tutto. Questo è mio cugino Vania, vive a Minsk ed è ingegnere minerario, ha fatto un lungo viaggio per essere qui con noi. Questa è mia zia Vera, è vedova da pochi mesi, suo marito è morto di cirrosi, forse è stato meglio così perché lei ne ha passate di tutti i colori. Questa è la mia amica Ludmilla, abbiamo fatto insieme l’università. Questo è Vladimir, nostro vicino di casa, eravamo fidanzati da ragazzi, adesso siamo solo buoni amici. Questa è Annuska, la più cara amica di mia madre, lei insegna canto ai bambini dell’asilo e appena può passa il resto del suo tempo qui in casa con noi. Questo è Andrei cugino di mio padre, lavorano assieme negli studi di montaggio della televisione, è bravissimo a ballare e a raccontare barzellette. Questo…”.

La stanza è piena di gente, tutti tirati a lucido, almeno così è nelle loro intenzioni. Sono sorridenti, affabili, affettuosi, nessuno escluso mi stringe forte e mi sbaciucchia ben bene: alla fine delle presentazioni ho le guance sporche di rossetto. Irina ride divertita e con un bel fazzoletto ricamato mi ripulisce delicatamente. Starebbe a me, adesso, dire qualcosa ma non sono mai stato un maestro. Usando il mio stentato francese biascico qualche parola di circostanza che Irina traduce letteralmente e tutti, all’unisono, annuiscono soddisfatti come se avessi pronunciato chissà quale straordinario discorso. Poi si passa al cibo e, soprattutto, ai liquidi: due bottiglie di vino dolce della Georgia, tre di spumante, ancora più dolce, di non si sa dove e dieci di vodka fortissima, per niente dolce. Assaggiando un po’ di tutto, entro in sintonia con quella massa di nuovi parenti e amici che mi vezzeggiano e che mi riempiono le spalle di pacche sempre più robuste con lo scorrere della vodka.

Prendendo spunto dai soliti luoghi comuni, lungo il corso della serata scopro con grande stupore che l’insalata russa da loro non esiste e che le montagne russe, a Mosca, si chiamano montagne americane. Alla fine sono, più o meno, tutti brilli. Irina è bellissima, innamorata e visibilmente felice per come sono andate le cose. Ma si è fatto tardi, devo rientrare e quando il cugino Andrei si offre di accompagnarmi tento di dissuaderlo. Che non si scomodasse prenderò un taxi, come all’andata. Non se ne parla nemmeno, a cosa servono i parenti soprattutto quando hanno la fortuna di possedere un auto? Andrei, oltre ad essere completamente ubriaco, non è in grado di parlare e, contemporaneamente, guidare. Quando apre bocca per dire cose incomprensibili tende ad andare fuori strada e se glielo faccio notare lui ride ripetendo “haraschò, haraschò”. Come Dio vuole la gincana termina di fronte all’albergo, un ultimo abbraccio suggella simbolicamente la completa accettazione della famiglia nei confronti dello straniero. Non sono in grado di decidere se è un bene o un male, forse sarà meglio dormirci sopra.

E’ una bella giornata di sole ma nevica. I due sposi sono inginocchiati in piazza, di fronte alla cattedrale di San Basilio. Una grande tenda bianca protegge la cerimonia da una luce accecante. Tutto intorno, uno squadrone di kabili impettiti, che impugnano lucide scimitarre, intona l’Internazionale. Io sudato, corro avanti e indietro lungo il corridoio centrale con una bottiglia di vodka in una mano e una copia della Pravda nell’altra. Patricia, seduta sul trono di un altare ricoperto da una stoffa a stelle e strisce, porta sul petto una fascia rossa con una falce e martello al centro. Si alza lentamente, sorride tra gli applausi dei presenti, con un gesto della mano ottiene il completo silenzio, si avvicina agli sposi, li benedice poi, lentamente, inizia a spogliarsi. I kabili adesso cantano Fever, gli invitati battono le mani a tempo, Andrei continua a correre fin quando non si prende uno sberlone dal padre della sposa. Irina si unisce a Patricia, sfila i guanti, si toglie la corona di fiori dal capo, butta via le scarpe e, languidamente, prosegue lo striptease fra le urla e i fischi di tutti. Io sono ancora in ginocchio, piango disperato, provo ad alzarmi, ad allungare una mano verso l’altare ma è come se fossi impastato di colla. Gli invitati mi circondano battendo le mani sempre più forte. I kabili adesso sono donne col viso coperto dal chador, ululano alla berbera ma danzano all’hawaiana. Patricia resta nuda, con addosso solo una paio di stivaletti da cow-boy, mastica chewing-gum e fa i palloncini. Irina, in mutandine di pizzo, si avvia verso l’ingresso della cattedrale. Suo padre urla “niet! niet! niet!”, Andrei urla “da! da! da!”. Metà degli invitati parteggia per uno, metà per l’altro. Volano prima insulti, poi spintoni e pugni. Sono io quello che ne riceve di più, tento di alzarmi ma sono bloccato, tento di gridare ma è come se fossi diventato muto poi, finalmente, un urlo terrificante scaturisce irrefrenabile.

In piedi sul letto, esco angosciato dalla scena. Sono sudato, arruffato, stravolto, accendo la lampada sul comodino, un conato mi sale velocemente dalle viscere, faccio appena in tempo a gettarmi carponi davanti alla tazza del gabinetto dove mi libero dall’incubo, dal cibo, dalla vodka e dalla cattiva coscienza.

Alle otto la sveglia è come una siringa che mi attraversa il cervello, il mal di testa è potente, la lingua è cartavetrata, le ossa dolgono: condizioni ideali per una delle giornate più importanti della mia vita. Le nozze sono fissate alle undici. Nella saletta della prima colazione Patricia sta bevendo un succo di frutta, alza lo sguardo e resta folgorata sia dalla mia eleganza che dalla mia faccia.

Stai andando a un matrimonio o a un funerale?”

Ho bevuto troppo ieri sera, come sto?”

Un vero dandy, ma sei pallido come un cencio”

Scommetto che cencio l’hai imparato a Firenze”

Perché è sbagliato in italiano?”

No, no è perfetto. Parli benissimo la nostra lingua. E’ vero mi sento proprio uno straccio, poi stanotte ho avuto una specie d’incubo…”

Mentre fai colazione raccontamelo, se hai voglia…”

Per la seconda volta apro bocca prima che il cervello me lo impedisca e, fra una sorsata di caffè e un pezzo di croissant, le racconta tutto il sogno per filo e per segno. Patricia non riesce a trattenere le risate. Più ride, più entro nei particolari, ricamo, arricchendo la scena fin quando lei, tenendosi la pancia con le mani, mi prega di smetterla.

Unbelievable! Dovresti raccontarlo a qualcuno che se ne intende per farti spiegare cosa significa”

Lo so io cosa significa. Ma è tardi, devo andare”

Wait, cosa significa secondo te?”

Te lo dico stanotte sul treno per Leningrado”

Ma stanotte sul treno sarà la tua prima notte di nozze…”

E allora? ”

Uscendo dalla saletta ho la netta sensazione che, alla mie spalle, il suo sguardo mi stia carezzando. Sono convinto che anche lei, ormai, sia attratta in maniera irresistibile. Sorrido quando entro nel taxi. Una piccola spirale di gioia mi sale dallo stomaco verso la gola perché, mentre sto andando a sposare una russa, sono sicuro di aver fatto breccia nel cuore di un’americana e la cosa, non solo non mi procura disagio ma, al contrario, mi esalta.

Il palazzo dei matrimoni assomiglia ad un qualsiasi altro palazzo di Mosca, forse solo un po’ più elegante. Nell’atrio d’ingresso ci sono Irina, i suoi genitori, i cugini Vania e Andrei, la zia Vera. Baci e abbracci, una pacca sulle spalle poi veniamo ammessi nella sala d’attesa dove altre coppie si sorridono, annuendo a vicenda. Come dal dentista, bisogna aspettare il proprio turno. Irina, tenendomi per mano, mi spiega come avverrà la cerimonia: niente di particolarmente complicato, in dieci minuti tutto sarà finito. In fondo non chiedo di meglio. Nonostante mi fossi immaginato per il mio matrimonio un’altra sceneggiatura e un’altra scenografia, adesso non vedo l’ora che sia tutto finito. La situazione mi addolora. Ormai mi sono definitivamente convinto: sono in procinto di compiere il più grande errore della mia vita. Irina è davvero deliziosa ma Patricia è semplicemente speciale, sto sposando la prima ma vorrei essere in albergo con la seconda. Mai mi sono sentito così confuso, stupido e, allo stesso tempo, felicemente incosciente.

Il treno parte alle 21.30 dalla Leningradskij vokzal. Tanto è gelida la stazione quanto è bollente lo scompartimento riservato al gruppo di turisti di cui facciamo parte Patricia, io e la mia dolce metà. L’incontro fra la russa e l’americana è sorprendentemente caloroso, sembra che si conoscano da sempre, sono già amiche alla prima stretta di mano. Patricia, in un ottimo francese, le racconta di lei, così come aveva fatto in aereo con me. Irina l’ascolta affascinata, annuisce di continuo, sorride, quando non capisce qualcosa pretende maggiori dettagli. Le prime due ore della luna di miele se ne vanno così. Quando ci ritroviamo finalmente soli nello scompartimento a noi riservato, prima che il rito carnale di prammatica ci avvolga in una spirale travolgente, Irina fa in tempo ad esclamare:

Vraiment belle et sympathique cette americaine, n’est pas!”.

L’effetto che l’inattesa sortita ottiene sul mio apparato genitale è, semplicemente, paralizzante tanto da obbligarmi a trovare una scusa immediata, nel tentativo di prendere tempo e invertire in qualche modo la tendenza.

Excuse moi, mon amour, je ne sais pas ce qui m’arrive mais je crois d’avoir un terrible mal au ventre, je reviens tout de suite”

Immedesimatomi nella parte del diarroico, esco velocemente dallo scompartimento e corro in fondo al vagone verso la toilette da dove, proprio nello stesso istante, esce Patricia. Lei non fa neppure in tempo a ipotizzare uno sguardo interrogativo che si ritrova in bocca la mia lingua forsennata. Come nei film, all’inizio tenta di divincolarsi, poi si lascia andare e ricambia con la stessa moneta, finanche in sovrapprezzo. La scena va avanti fino al primo intervallo per riprendere fiato. Mi rendo conto che è quasi mezzanotte e, prima che il sogno si frantumi, le sussurro:

Devo andare adesso, ma non addormentarti, appena posso vengo da te”.

Tornato da Irina, l’esibizione maschia che riesco a esprimere rasenta la perfezione, l’amplesso è talmente poderoso che la stessa sposa non crede ai propri sensi. Riesce appena a dirmi quanto sia stato fantastico prima di chiudere dolcemente gli occhi e addormentarsi di colpo. Mi accendo una sigaretta, resto immobile a rimirare la notte rischiarata dalla luna e dalla neve che copre la campagna, sorrido soddisfatto poi, lentamente, scivolo via, m’infilo camicia e pantaloni ed esco in corridoio. Lo scompartimento di Patricia è al buio, con la fede nuova di zecca picchietto timidamente sul vetro della porta. Niente. Ci riprovo. Niente. Sto per andarmene quando sente un rumore, si gira, lei è lì che, sbadigliando, si stropiccia gli occhi.

You are totally crazy! Do you know what I mean?”

Annuisco, la prendo per mano e comincio a raccontarle la mia vita, lì in piedi nel corridoio, appoggiati alla parete, mentre dal finestrino la Russia a nord-ovest di Mosca scorre via veloce. Sono appena arrivato al periodo delle scuole elementari quando il treno si ferma alla stazione di Kalinin, a quello del liceo quando siamo a Vysni Volocecek, a quello dell’università alla stazione di Bologoje. Mentre la notte è indecisa se abbandonare o no a favore dell’alba, imperterrito le sto ancora narrando aneddoti, sensazioni, dettagli, non intendo tralasciare nulla. Senza vergogna, con una faccia tosta che neppure credevo di avere, la persuado di aver commesso un errore madornale, che non avendo altra scelta mi ero dovuto assoggettare, ma è lei la metà della mia mela, ne sono convinto al cento per cento, deve credermi, deve dirmi che mi ama e che non può più vivere senza di me.

Sia per il fiume di parole che l’ha investita, sia per la stanchezza e il sonno che ormai la inebetiscono, lei ha solo la forza di dirmi di sì e di farsi promettere, però, che i prossimi giorni dovranno trascorrere senza incontrarsi mai: lei vuole mettere la testa sotto terra fino al momento del ritorno in Italia, d’accordo? D’accordo!

Sankt_PeterburgLeningrado appare di gran lunga più affascinante di Mosca. Il pallido sole di fine marzo annuncia l’inizio del disgelo. Il ghiaccio che attanaglia il mar Baltico blocca ancora l’accesso principale al porto, ma a giorni le acque gelide fluiranno libere attorno le piccole isole sulle quali è costruita la città. Durante le lunghe passeggiate sorprendo Irina mostrando una profonda conoscenza delle vicende architettoniche di monumenti, chiese, palazzi, strade e piazze. In vista del viaggio di nozze, prima di partire, mi sono preparato a dovere su vari testi e, adesso, posso sfoggiare tutto il mio sapere, facendo un figurone. Quando discetto sugli architetti italiani, che hanno operato lì dalla fine del seicento in poi, sembro una di quelle insopportabili voci incise su nastro da visita guidata. Irina pende dalle mie labbra e si convince sempre più di aver fatto la scelta giusta.

Come da promessa, non cerco Patricia e lei non cerca me. La luna di miele non subisce alterazioni, i sei giorni a Leningrado trascorrono più all’insegna della cultura e del turismo che dell’amore. Di giorno, mano nella mano, ce ne andiamo in giro per conto nostro senza seguire il programma del gruppo. Di notte, chiusi in camera, parliamo, parliamo, parliamo, fin quando Irina, esausta, non piomba in un sonno pesante.

Leningrado è una buona medicina per i miei turbamenti sentimentali. La maggior parte del tempo la trascorriamo all’interno dell’Ermitage. E’ girando fra le stanze del museo che, improvvisamente, mi blocco di fronte a una piccola scultura in bronzo, una testa di ragazzo, sul cui basamento c’è una targhetta con su scritto: Francesco Susini. Irina guarda prima il bronzetto poi me. Assumendo un aria di sussiego, prendendola per mano, le spiego che la mia mamma è una Susini e che si tratta di un mio antenato, figlio di Antonio scultore fiorentino vissuto a cavallo fra il cinquecento e il seicento, che conosco alcune sue opere esposte a Firenze, Vienna e Dresda ma che non sapevo nulla di questa e, quindi, anche per me è una bellissima scoperta. Quest’ultima, fortuita rivelazione per Irina è come una definitiva consacrazione: suo marito vanta persino un antenato famoso, tanto da avere un posto nei musei più importanti del mondo, non avrebbe mai sperato tanto.

Il volo per Milano è previsto alle 14.15. Sull’auto che mi conduce all’aeroporto ci sono il cugino Andrei alla guida, la sposa, mamma Olga e papà Dimitri. Dopo i racconti entusiastici di Irina sul viaggio di nozze e, soprattutto, dopo aver appreso della presenza di un Susini all’interno dell’Ermitage, i residui dubbi che i genitori avevano coltivato nei giorni successivi al matrimonio si sono disciolti come neve al sole. Per non parlare di Andrei, che si sente visibilmente onorato di poter annoverare in famiglia un parente di così antica e importante discendenza.

Per motivi burocratici, purtroppo, Irina dovrà restare in Russia ancora per qualche mese: le carte per il suo definitivo trasferimento sono lunghe da ottenere, ma con un po’ di pazienza potremo presto ritrovarci e vivere felici un futuro sicuramente radioso. Quando l’altoparlante annuncia l’imbarco, l’emozione coglie tutti. Gli abbracci, i baci, le carezze si sprecano, i fazzoletti umidi sventolano.

Sull’aereo Patricia si è accomodata in fondo, ha lasciato un posto vuoto accanto a sé e la vicenda riprende da dove si era interrotta, come se niente fosse. Le tre ore e passa di viaggio bastano e avanzano per riannodare il filo che ci lega, per spingerci uno fra le braccia dell’altra. La convinco a proseguire il viaggio con me fino ad Algeri, dove potremo stare assieme senza dover giustificare niente a nessuno.

Una brutta sorpresa, però, ci attende all’arrivo: lei ha un passaporto USA e in Algeria gli americani possono entrare solo col visto.

Ma tu non sapevi?”

No, se lo avessi saputo… pensi che ti avrei fatto arrivare fin qui?”

Adesso cosa facciamo?”

Ci penso io, stai tranquilla”

Senza palesare il panico che mi opprime, mi metto alla ricerca di un ometto che ho conosciuto tempo addietro, un funzionario di polizia di stanza all’aeroporto. Dopo una buona mezz’ora, alla fine, lo trovo al banco della dogana, gli spiego la situazione e, col suo intervento, ottengo un visto provvisorio.

Il termometro segna ventidue, lo sbalzo di oltre trenta gradi si fa sentire ma il clima è talmente piacevole che a Patricia sembra di essere arrivata in California, solo durante il percorso che ci porta da Dar-el-Beida in città si rende conto che non è proprio la stessa cosa. I francesi, prima di abbandonare definitivamente il paese, determinati a fare terra bruciata, hanno fatto saltare molti edifici e le ferite, dopo tanti anni, sono ancora lì perché il governo ha preferito costruire palazzi orrendi piuttosto che ristrutturare. La città bianca mantiene il suo fascino solo in centro, nella zona attorno al porto e nei vecchi quartieri residenziali sulle colline. Il mio appartamento a Sidi Ferruch è al piano terra di una bella casa a due piani, sulla costa, a due passi dal mare: è lì che passerò con l’americana la mia seconda luna di miele.

Al mattino presto mi presento al Ministero, ci resto fino alle tre di pomeriggio poi, con la mia Peugeot 204, torno a casa dove mi aspetta lei che, dopo una mattinata in spiaggia, solitamente studia, sdraiata sull’amaca in giardino. Quello è il momento in cui la desidero di più. La bacio, la prendo per mano, la porto in camera da letto e, per oltre due ore, m’impegno a dimostrarle tutte le mie capacità amatorie.

Prima del tramonto ce ne andiamo al piccolo porto per aspettare l’arrivo dei pescatori. Dalle cassette gettate sul molo scegliamo accuratamente il pesce per la cena: solettes, loups de mer, sardines, meroux, crevettes. Io cucino, lei prepara la tavola. Dopo mangiato io lavo i piatti, lei ascolta i Beach Boys o John Kongos. A volte abbiamo ospiti, altre volte veniamo ospitati. Spesso ci concediamo romantici tête à tête al ristorante dell’hotel Saint George, chez Catherine o in un minuscola trattoria a La Mandrague. I giorni scorrono sereni, uguali uno all’altro. Sto facendo le prove per una futura vita matrimoniale, solo che ancora non è ben chiaro con chi. Lei trascorre pigramente le giornate: spiaggia, libri d’arte italiana e francese, musica pop. Coccolata, viziata, amata, annoiata, Patricia si rende presto conto che non sono poi un uomo così speciale, soprattutto a letto dove, diciamo la verità, probabilmente ha provato di meglio.

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Devo tornare a Gstaad. Fra meno di un mese ho gli esami da fare. Se mio padre sapesse dove mi trovo in questo momento…”

Va bene, ma alla fine di giugno ti raggiungerò e ce ne andremo in vacanza assieme”.

Patricia parte il 29 aprile con un volo Swiss Air alle 12.30: non la rivedrò mai più.

Alcuni anni dopo, appena tornato in Italia gli amici ritrovati mi portano a vedere un film di cui, al momento, tutti parlano: Soldato Blu. Quando partono le prime immagini, colto da uno stupore irrefrenabile, mi metto a urlare:

Patricia! Ma quella è Patricia!”

Zittito dagli amici e, soprattutto, dal pubblico, mi rendo conto che ora è diventata un’attrice famosa, si chiama Candice (Patricia) Bergen, è ancora più bella ed è stata la donna della mia seconda luna di miele.

Ancóra

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Ancora_webdi Hakan Günday

Ormai sapevo tutto. Ero in grado di percepire in quale parte di un cadavere le larve si ammassavano prima di uscire! Vedevo e percepivo tutto! Proprio tutto! Il buio, i vestiti, i pezzi di stoffa infilati nelle narici non servivano a nulla, perché sentivo il loro odore. I confini tra i miei cinque sensi erano spariti ed erano travolti dalla vita. Non avevo più nessun posto dove fuggire. Nemmeno l’oscurità era sicura, perché vedevo tutto nitidamente, come un animale notturno! Anche a occhi chiusi! Era come se le palpebre fossero forate! Trattenni il respiro nell’estrema speranza di calmarmi. Non servì a niente, quindi ritentai. Cominciai a contare, poi non resistetti più, ripresi fiato e restai di nuovo in apnea. Contai! Espirai e poi mi trattenni ancora. Contai. Feci questo per forse un’ora intera. E nel frattempo continuavo ad agitare le mani.

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Io lo guardai

Io lo guardai e guardai le tracce dei bambini nel fango, e pensai alle gocce di pioggia ed alle orme d’una certa creatura estinta secoli fa, che i geologi avevano identificato presso una scogliera; e riflettei: se questo fango potesse pietrificarsi in questo momento, e rimanere qui nascosto per diecimila anni, io mi domando se la stirpe di uomini che saranno allora i nostri successori sulla terra sapranno, da questi o da altri segni, usando per quanto possibile la forza dell’intelletto umano, privi dell’aiuto della tradizione, compiere una deduzione così sbalorditiva quale quella che esistesse una raffinata società che tollerava la pubblica selvatichezza di bambini abbandonati a se stessi per le strade della capitale e che andava orgogliosa del suo potere per mare e per terra, senza che mai facesse uso di questo potere per prenderli e trarli in salvo!
Charles Dickens, Il viaggiatore senza scopo

 

Alan Kurdi, bambino

Vieni, hai la scarpa slacciata, infilati il maglione, farà freddo,

che cos’hai in tasca, dove l’hai raccolto, svuota, via, come ti senti,
guardami negli occhi, la mamma ti vuol bene, Galip, vieni anche tu,
la mamma vi vuol bene, papà è fiero di voi, solo un’ora di mare, di là conosceremo altri bambini, domani dormiremo in un letto nuovo, l’Europa, il Canada, letti più grandi,
ma certo, un sorso d’acqua, bevi, attento a non bagnarti, sei già tutto sporco di sabbia, laviamo le manine,
così, perfetto, ora saliamo

II

È permessa l’immagine.
È permesso vedere l’immagine. È permesso non vedere l’immagine. Dire di non aver visto. Di non aver potuto. Di non aver dovuto. È permesso pubblicare l’immagine. È permesso oscurare l’immagine. Condividere. Dire mi piace. Dire non mi piace.
È permesso parlare di inquadrature. Di discrezione e riserbo. È permesso parlare di immagini.
È permesso rivedere l’immagine a mente. In altri vestitini così gettati. Nella riva più fortunata di un copriletto.
È permesso, davanti all’immagine, dire sì, ma. Rimanere coi piedi piantati nella sabbia. Non muovere un passo. Affondare.
È permesso dimenticare l’immagine. Chiudere gli occhi. Negare. Mentre ancora
quello che nell’immagine accade
(è accaduto, accadrà)
è permesso

III
Lo stato di salute o malattia della cosiddetta fede non è tale per cui

un padre costretto a portare a casa in braccio i tre quarti di quella che era la sua famiglia
un padre precedentemente costretto a portare via da casa per mano la stessa famiglia (moglie e due figli di cui resta una foto scattata sulla poltrona dei giochi al centro esatto di un doppio largo sorriso nonostante la bufera (in abiti non dissimili da quelli che avrebbero presto restituito)
contro l’onda montante della storia) all’ultima spiaggia
(egli stesso accusato di aver rovesciato la barca per)
un padre che ancora prega mentre seppellisce sé stesso assieme a
dicevo, lo stato di conservazione di questa inaspettatamente tenace
fede che intanto a Kobanî è sull’orlo di inghiottire sé stessa una volta per tutte
dicevo, non è tale per cui
requiem aeternam dona eis
dicevo
non lo so cosa stavo dicendo

Guido Cupani, poesie

 

Da prose brevi inedite

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di Jacopo Ramonda

 

NICOLÒ (#1)

Nicolò si è finalmente deciso a cambiare la disposizione dei mobili in salotto, immutata dai tempi in cui sua madre era ancora viva e autosufficiente. Con la nuova sistemazione, la stanza gli sembra più grande e addirittura più luminosa. Ad un primo sguardo non sembra trattarsi semplicemente di una versione rimaneggiata della quotidianità, ma – come per effetto di un’illusione ottica – di un’altra stanza, del tutto nuova.

Io sto con Bernie

1

di Silvia Pareschi

(San Francisco) – Sei qui per Bernie? – mi chiede l’uomo con la camicia bianca e i capelli grigi e ispidi come una paglietta per i piatti.

Ho risposto a un’e-mail che convocava i sostenitori di Bernie Sanders ad assistere a un discorso registrato che il candidato alle primarie rivolgerà alla sua base elettorale. Il luogo dell’incontro è un piccolo bar con le pareti tappezzate di grandi schermi, che di solito trasmettono sport e che oggi verranno prestati per qualche decina di minuti al sorprendente candidato che non ha paura di definirsi socialista.

Dopo avere risposto di sì, vengo invitata a scrivere il mio nome su un’etichetta adesiva e ad appiccicarmela al maglione. Non conosco nessuno e sono un po’ imbarazzata. Non possiedo il talento per la cordialità immediata piuttosto comune da queste parti, e non sono mai stata a un raduno politico. Però Bernie mi è simpatico, sogno che vinca le elezioni, e anche se non sono cittadina americana e quindi non posso votare penso che magari, chissà, se mi convincono potrei anche provare a dargli una mano.

Mi piazzo su uno sgabello davanti a uno degli schermi, e mentre aspetto che venga trasmesso il messaggio registrato mi guardo un po’ in giro. Alzo gli occhi e vedo la scritta “Fernet Flight $25”. Non riesco a trattenere una smorfia. Flight in questo caso significa “serie di assaggi”. Sì, assaggi di fernet. Quattro o cinque bicchierini di diversi tipi di fernet per la modica cifra di 25 dollari. Perché a San Francisco il fernet è diventato la bevanda di culto degli hipster, anche se nessun italiano ne capisce il motivo. Guardando meglio, vedo che c’è anche una botticella con sopra scritto “Fernet invecchiato in botte”. Meglio tornare a Bernie. Sempre in tema di alcolici, il bar offre per l’occasione il cocktail “Feel the Bern”, a base di vodka. Ma sono le due del pomeriggio, e preferisco non assaggiarlo.

Il locale è discretamente affollato. L’età dei partecipanti è mista, stagionati progressisti della “vecchia” San Francisco ma anche, grazie al cielo, tanti giovani. Anzi, direi che i giovani sono la maggioranza. Tra di loro c’è il ragazzo di fianco a me, che si presenta come Jeff e poi mi chiede perché ho deciso di sostenere Bernie. Jeff è asiatico, ha una faccia carina e pulita e seria: l’esatto contrario del tipo cinico. Ci penso un momento e poi gli rispondo che mi interessa la politica e che secondo me Bernie è un candidato interessante – non mi sbilancio, d’altronde io sono cinica, e non sono mica convinta fino in fondo che Bernie, per quanto simpatico, non sia in realtà un’utopia controproducente e che alla fine non sia meglio tifare Clinton – anche se non potrò votarlo perché non sono cittadina americana.

– Neanch’io, – risponde lui. – Sono canadese.

Jeff è venuto qui due anni e mezzo fa per lavorare in una start-up e pensa che la società americana dovrebbe avere più welfare, più uguaglianza, un sistema sanitario e una scuola pubblica accessibili a tutti. E pensare che io – insieme a tanti abitanti della “vecchia” San Francisco – detesto i techies, i nuovi invasori arrivati sull’onda del boom tecnologico che, al contrario degli invasori hippy e gay che li hanno preceduti alcuni decenni fa, non hanno portato a San Francisco alcun tipo di arricchimento culturale o sociale. Solo un’oscena bolla immobiliare, una massiccia ondata di sfratti e una generale omogeneizzazione della città. Eppure Jeff è un techie ed è qui a sostenere Bernie. Sia benedetto il Canada.

Cosa fa Jeff per contribuire alla campagna di Bernie? Telefona. Lo scopo principale di questo raduno è il reclutamento di nuovi volontari per le cosiddette phone banks, quelle specie di call center temporanei molto usati nelle campagne elettorali americane. In questo momento le telefonate servono per raccogliere i Voter IDs, cioè per sondare le intenzioni di voto: se dichiara a un volontario telefonico di essere indeciso sulla scelta del candidato, l’intervistato riceverà una visita dei volontari sul campo, che gli consegneranno materiale informativo e cercheranno di convincerlo a votare per Bernie.

Mancano pochi giorni al primo febbraio, quando le primarie prenderanno l’avvio con il caucus dell’Iowa. Il nove febbraio sarà il turno del New Hampshire, poi toccherà a Nevada e South Carolina, e poi agli undici stati che voteranno martedì primo marzo, il cosiddetto Super Tuesday. Jeff racconta che durante ogni telefonata chiede all’intervistato come si definirebbe: sostenitore di Bernie, simpatizzante di Bernie, indeciso, sostenitore di Hillary, ecc. Tanti gli sbattono il telefono in faccia; tanti non sanno neanche chi sia Sanders o che tra qualche mese ci saranno le elezioni; alcuni gli rispondono che non voteranno mai per un comunista. Ogni tanto, però, qualche indeciso va ad aggiungersi al suo elenco.

David, il tizio con i capelli a paglietta, presenta i principali attivisti del gruppo, giovani dall’aria alternativa ma al contempo efficiente. Poi parte il messaggio registrato di Bernie. Venendo qui, avevo in mente di verificare due cose: che Bernie avesse realmente l’aria da pazzo (pare che tra i suoi sostenitori serpeggi una certa preoccupazione per i suoi modi bruschi – non bacia i bambini, per esempio – e per la sua aria un po’ folle, che gli strateghi della campagna cercano di tenere sotto controllo) e che parlasse con l’accento di Brooklyn. Prima di lui, però, sale sul podio una donna, che ripete i fatti salienti della campagna, citando alcuni slogan – “Il potere della gente che batte il potere dei soldi”, “Un futuro in cui credere” – e ricordando l’importanza di questi primi risultati: se Bernie riuscirà a superare Hillary fin da subito, anche gli scettici cominceranno a credere nella possibilità della sua vittoria e cominceranno a sostenerlo. Sono momenti decisivi, e ogni contributo, anche il più piccolo, è utile alla causa.

Poi arriva Bernie e attacca il suo discorso. È un po’ brusco, in effetti, poco retorico e molto pragmatico, ma l’aria da pazzo secondo me non ce l’ha. L’accento di Brooklyn, invece, è fortissimo. Sarà anche un senatore del Vermont, ma quando parla sembra di sentire mio suocero, un ebreo di Brooklyn proprio come lui, che ha mantenuto il suo accento anche dopo tanti decenni trascorsi in California. È un accento che non si perde mai, a quanto pare. Bernie racconta di una campagna cominciata con un 3% di consensi nei sondaggi nazionali, sondaggi che oggi lo vedono nettamente più avanti di Trump. Si vanta di avere rifiutato i contributi dei Super Pac, e dichiara di avere ricevuto finora 2,5 milioni di donazioni individuali, con una media di 27 dollari a donazione. Elenca i punti fondamentali del suo programma: cambiare il sistema di finanziamento dei candidati, che favorisce la corruzione; eliminare le disuguaglianze economiche; combattere i cambiamenti climatici; correggere le storture di un sistema giudiziario intrinsecamente razzista; realizzare una riforma dell’immigrazione che faccia uscire dalla clandestinità gli undici milioni di immigrati illegali. Ci sono altri punti che non menziona, come quella visionaria riforma del sistema sanitario in senso “socialista” che più di tutte gli ha procurato accuse di irrealismo.

Il discorso è breve. Lo scopo, infatti, era soprattutto quello di radunare i sostenitori di Sanders del nostro quartiere, per permettere loro di contarsi e organizzarsi. Alcuni si offrono di ospitare una phone bank a casa propria: questi gruppi diventano anche occasioni per socializzare, per trovare nuovi amici, per confrontare le esperienze. Mi piacerebbe partecipare alla phone bank organizzata da una giovane coppia dall’accento britannico che promette biscotti fatti in casa, e mi incuriosisce la phone bank ospitata da un vecchio hippy che come me non possiede un cellulare, ma sono entrambe troppo lontane da casa mia. La più vicina è quella organizzata da David, che si terrà giovedì prossimo in un altro bar della zona. Mi metto in lista per partecipare, ma chiedo a David come funziona per chi non possiede un cellulare. Lui esprime ammirazione per la mia “scelta di vita” (la chiama così) ma dice che non sa come si faccia a collegarsi al sistema di chiamata automatico senza cellulare. Mi propone di provare a telefonare con il computer usando Google Voice, io rilancio con Skype, lui mi dice che si informerà e mi farà sapere. Altrimenti posso sempre chiamare da casa con il telefono fisso. Che delusione: io voglio partecipare alla phone bank. Al nostro gruppo toccherebbe il Nevada. Sto pensando di comprarmi un telefonino usa e getta con la scheda prepagata (uno di quelli che chiamano burner e che vengono usati soprattutto dagli spacciatori, perché non sono rintracciabili) da utilizzare per l’occasione. Mi sembra che ne valga la pena, per chiedere agli abitanti del Nevada se vogliono votare per Bernie.

Memoria zero

6

di Lorenzo Declich

C’è stato un momento, lo scorso 27 gennaio, in cui tutte le testate online dei giornali italiani più importanti aprivano con la notizia delle “statue coperte” per l’arrivo di Rohani. In quasi tutti i titoli compariva la dichiarazione del Ministro della cultura, Franceschini, che definiva “incomprensibile” il gesto. In seguito si è appreso, anche, che sia lui che Renzi “non erano stati avvertiti” di cosa stava succedendo. A me, invece, è sembrata incomprensibile l’idea secondo cui una decisione del genere debba essere sottoposta al vaglio di un Ministro della cultura e di un Primo ministro.

Certo, in questo caso la dietrologia ha avuto il suo peso. Fin dal giorno prima i media, con in testa i social network, si erano scatenati nel commentario. E’ sembrata, a posteriori, una faccenda di Stato, al punto che un Ministro ha sentito il bisogno – mettendosi a mio avviso in ridicolo – di sottolineare che lui non ne sapeva niente.

A gettare benzina sul fuoco c’era il fatto che Rohani – che è un’autorità politica, non religiosa – era venuto in Italia a fare affari. Il tutto, dunque, si condiva di un’accusa di “ipocrisia”: quando ci sono dei soldi in ballo caliamo le braghe. E poiché – dato l’elemento pecunia non olet – è entrata in campo la squadra dei moralisti, l’alzata di scudi è apparsa imponente; la vecchia arte della exaggeration l’ha fatta infine da padrone.

Alla radice di tutto questo rumore c’è, ovviamente, lo stato di agitazione in cui vivono gli italiani dopo i fatti di Colonia, attribuiti nelle forme più stravaganti a una qualche entità “islamica” e, più in profondità, alla paura diffusa di imminenti nuovi attacchi terroristici in Italia e in Europa.

E’ certo, però, che non è ancora ben chiaro quale battaglia si sia combattuta. Su cosa si sono scatenati i commentatori? Sulla presunta imminente islamizzazione del continente? Sul servilismo italiano? Sul buonismo dei politici di “sinistra”? Sulla mancanza di coerenza nel non denunciare le violazioni dei diritti umani in Iran? O su tutto questo messo insieme?

Cioè, in altre parole, di che cosa abbiamo parlato il 27 gennaio?

***

Quando la notizia era ancora calda alcuni hanno pensato che fosse stato Rohani stesso a chiedere di coprire le statue. Ai primi titoli incentrati su questo atto di imperio iraniano in terra italiana si sono andati poi a sostituire invettive contro il Primo ministro italiano, considerato il responsabile della “distruzione della nostra cultura” per motivi di “rispetto della cultura altrui”. Il “neoidealista” Diego Fusaro, prendendolo come caso emblematico, è riuscito a infilarci anche una lezione sul “dio denaro”: “un processo di desimbolizzazione integrale: attraverso il quale si produce uno spazio neutro e vuoto, senza alto né basso, senza simboli e senza cultura, l’ideale per lo scorrimento illimitato e nichilistico della forma merce e per il proliferare della sottocultura del consumo”.

Per Fusaro accade che: “Il fanatismo economico oggi dilagante non mira al multiculturalismo e al politeismo dei valori e dei simboli: aspira invece al monoculturalismo del consumo e al monoteismo del mercato, ed è per questo che chiede agli islamici di cessare di essere tali (identificando senza riserve l’islam e il terrorismo) e ai cristiani di essere cristiani (aprendosi all’altro e abbandonando <<superstizione>> e <<fanatismi>>)”. Mentre invece succede proprio esattamente il contrario; per dirla alla Zizek: “Il capitalismo è il primo ordine socio-economico che de-totalizza il significato: non è globale in quanto a significato (non c’è una <<concezione del mondo capitalista>> globale. Non c’è una <<civiltà capitalista>> in senso proprio; la lezione fondamentale della globalizzazione è precisamente che il capitalismo può adattarsi a ogni civiltà, da quella cristiana a quella induista o buddista). La dimensione globale del capitalismo può essere formulata solo in quanto a verità-senza-significato, il <<Reale>> del meccanismo di mercato globale. Il problema qui non è che la realtà è sempre imperfetta e che le persone hanno sempre bisogno di vagheggiare una perfezione impossibile. Il problema è il significato, ed è qui che la religione sta ora reinventando il suo ruolo, riscoprendo la sua missione di garantire una vita dotata di senso a coloro che prendono parte al funzionamento privo di senso della macchina capitalista” (Slavoj Žižek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie, 2010, p. 123.)

Ma, al di là di questo, non è prendendo come caso quello delle statue coperte che si fa chiarezza su dinamiche come la globalizzazione economica e i suoi effetti sulle società e sulle culture. E’ come spiegare i quanti partendo dal battito di una farfalla in Cina che scatena una tempesta e New Orleans: non siamo, qui, affatto, nel campo da gioco della globalizzazione, bensì in quello delle relazioni diplomatiche fra Stati in ottica economica, un qualcosa che c’è sempre stato e che – fra l’altro – segue regole di cortesia decisamente “antiche”.

Una diplomazia che apre la porta agli affari è condita di ritualità e di “concessioni” più o meno fuori luogo agli “usi e costumi” degli “altri”. In questo senso non possiamo non ricordare che l’Italia ha fatto anche molto peggio col tendone nomade di Gheddafi a Villa Borghese, con la parata di “hostess” pagate per assistere ai suoi deliri, terminati fra l’altro con distribuzione di corani (quelli “riformati” da Gheddafi stesso) e sparute conversioni all’Islam delle hostess. E che circolano leggende terribili riguardo a come è bene trattare i giapponesi se vuoi sfilar loro del denaro per gli investimenti. La diplomazia è, in questi casi, esattamente l’arte di rappresentare maldestramente “rispetto” e “accoglienza” attraverso penosi luoghi comuni.

Insomma possiamo criticare lo “stile” della diplomazia italiana, fare ironia su quanto tutto questo sia idiota – perché è profondamente idiota -, scagliarci contro la diplomazia “in sé”. Ma farne una questione di sostanza quello sì è ipocrita: perché, allora, non siamo tutti in piazza a fare la rivoluzione e ci limitiamo a starnazzare sul social network?

***

Il versante islamofobo – nel frattempo – ha rispolverato uno dei suoi temi forti: ci siamo sottomessi all’Islam, ormai l’invasione è patente. Fra le perle c’è un Gianluca Veneziani che sull’Intraprendente ci spiega che questo coprir statue è una “auto-limitazione della libertà di espressione”. Veneziani, scatenando una tempesta di aggettivi, trova addirittura offensivo che a pranzo non sia stato servito il vino, bevanda vietata ai musulmani, come se gli astanti vinofili ne abbiano dovuto patire davvero, o come se servire vino sia assolutamente necessario per affermare la propria immarcescibile identità italica.

Su questa vicenda del vino a tavola c’è un precedente abbastanza recente. Hollande lo scorso novembre avrebbe annullato una cena all’Eliseo perché la delegazione iraniana avrebbe chiesto in anticipo un menù halal e l’assenza di alcolici a tavola. Richiesta che non sarebbe stata accolta dalla Francia “per non rinunciare alle sue tradizioni laiche”. E “per salvare quello che poteva trasformarsi in una piccola crisi diplomatica, l’Eliseo ha proposto di annullare la cena e di sostituirla con una colazione”.

A questo riguardo vale la pena citare l’articolo di Repubblica che ne parla per capire come funziona l’inessenziale mondo della diplomazia: “Alcuni consiglieri dell’Eliseo non hanno nascosto la loro irritazione per la diffusione della notizia definendo la polemica <<ridicola>>. La discussione riporta alla memoria quanto successo anche in occasione della visita a Parigi di un altro presidente iraniano, Mohammad Khatami. Prevista nell’aprile 1999, venne rinviata perché l’Iran aveva chiesto di togliere i liquori dai ricevimenti ufficiali. La visita si tenne alla fine il 27 ottobre 1999: il presidente di allora, Jacques Chirac, ricevette il suo ospite all’Eliseo, ma non mangiarono insieme. Sulla polemica di questi giorni è intervenuta anche l’emittente Europe 1 che ha scoperto negli archivi che una bottiglia di Chateau-Latour del 1998 e una di Puligny-Montrachet 1er cru erano in tavola durante le cene ufficiali organizzate all’Eliseo in occasione delle visite dell’emiro del Qatar e del re dell’Arabia Saudita. Due paesi del Golfo dove le autorità di certo non vedono di buon occhio il consumo di alcol”.

Secondo i parametri “vinicoli”, dunque, e al netto dell’etichetta diplomatica, il Qatar e l’Arabia Saudita sarebbero paesi davvero aperti all’alterità culturale e la Francia uno Stato sano, genuinamente identitario. La realtà, ovviamente, non è questa. E possiamo di certo rammaricarci del fatto che, in nome di uno stupido divieto propagandistico, il vino iraniano, che nella storia ha sciolto le lingue di immensi poeti musulmani e la cui tradizione sembra risalire a 7000 anni fa, sia scomparso dalla circolazione (dobbiamo infatti ricordarci che di vino in Qatar e Arabia Saudita non se ne è mai prodotto neanche un decilitro). Potremmo anche ricordarlo a Rohani, mentre mangiamo con lui o anche durante un incontro che non prevede consumo di cibi, ma ciò chiaramente non farebbe di noi i portatori di un qualche ineludibile “valore” o di qualche inalienabile “identità”.

Nel nostro caso, invece, seguendo Veneziani: “Si tratta di un atto di capitolazione definitiva al nemico, una resa incondizionata, un formale gesto di sottomissione come vuole lo scrittore Houellebecq, di consegna mani, piedi, anima e corpo alla cultura nostra avversaria, peraltro mascherata da un clima di cordialità, da accordi commerciali e ipocrite strette di mani. Suicidarsi con il sorriso stampato sulla faccia. Rinunciare a essere fingendo che tutto ciò sia molto giusto e molto utile”. Saremmo insomma all’ennesima e finale riprova del fatto che viviamo in “Eurabia“, con il dettaglio che l’Iran di arabo ha ben poco.

C’è da dire che, nel calderone apocalittico – e con l’obiettivo meschino di screditare Renzi, ovviamente – Veneziani aveva messo anche un fatto che sulle prime nessuno aveva riesumato e che vale la pena di ricordare. Una “copertura di statue” era avvenuta il 6 ottobre precedente. Quella volta non c’erano iraniani in giro, ma uno sheykh degli Emirati, Mohammed Bin Zayed Al Nahyan, e la cosa non ebbe questa grande risonanza. Il fatto non ci ricorda, come vorrebbero gli amanti dell’Iran, che l’alzata di scudi avviene solo quando al centro ci sono gli iraniani e che quando si tratta dei cattivoni del Golfo siamo tutti molto omertosi. Ci dimostra, piuttosto, che una notizia fa il pieno di interesse se attorno a essa c’è l’humus emozionale giusto. E, anche, che probabilmente le regole d’etichetta italiane prevedono “procedure standard” quando a far visita in Italia c’è un musulmano prezzolato. Laddove nel caso precedente il livello diplomatico della visita era più basso, i soldi in ballo erano molti di meno e così via.

Si tratta di procedure di certo goffe e in molti sensi inani, spie di un certo “orientalismo” che non fa distinzione fra il nipote di un miracolato petromonarca del Golfo e un raffinatissimo intellettuale, figlio fra l’altro di uno di quei “commercianti iraniani” che rappresentano – per ora – l’unica alternativa permessa dagli Ayatollah a una destra chiusa e retrograda. Quando nacque il primo (1961) gli Emirati Arabi ancora non esistevano, quando nacque il secondo (1948) l’Iran aveva già almeno quattro secoli di vita.

Una differenza, nella società e nella cultura di provenienza alla quale, fortunatamente, qualcuno ha prestato interesse, intervistando un islamista come Paolo Branca. Il quale prima dice, riferendosi a Rohani: “Conosco troppo bene il suo spessore culturale per pensare che una sciocchezza del genere potesse turbarlo, come del resto quello dell’ex leader Khatami: ho letto le loro opere. Chi ha coperto le statue semmai lo ha fatto per difendere Rohani dagli oppositori reazionari in Iran. Sa che ci sono miniature persiane con scene di amore omosessuale? Insomma, non è gente appena scesa dagli alberi” e poi sottolinea “dobbiamo smetterla di costruire rappresentazioni parziali, unilaterali di quel mondo, che è ricco e vario. Per esempio: in Iran c’è una civiltà unica, importantissima. Una società civile che i Paesi Arabi si sognano. Sono anni luce più avanti. Non c’è famiglia in cui i figli non si dedichino allo studio di uno strumento musicale. Sono appassionatissimi di filosofia, di poesia. Pensi che traducono persino i libri della Fallaci…”

L’argomento della “scelta politica” di protezione dai nemici interni, che emerge anche nell’analisi di Alberto Negri sul Sole, è però debole proprio perché una cosa simile era stata messa in atto in un’altra occasione: negli Emirati un’opposizione con cui fare i conti alle elezioni non c’è. E poi, se proprio qualche oppositore interno avesse voluto aggrapparsi a qualche immagine sconveniente l’avrebbe di certo trovata perché l’Italia è l’Italia e perché anche in Iran esiste photoshop (d’altro canto le agenzie di stampa iraniana sono famose per le bufale che diffondono).

E mentre fioccavano le accuse ai “buonisti”, collegate – volendo – alle recenti polemiche sul politically correct nel calcio, il Buonista per eccellenza, Massimo Gramellini, titolava il suo “Buongiorno” sulla Stampa proprio “Sottomissione”, ricordandoci che adesso anche fra i buonisti va di moda lanciare strali a destra e a sinistra, preferibilmente nella direzione sbagliata.

Di buono c’era, nel suo pezzo, che inseriva la cosa nel contesto giusto, cioè nel contesto di un “cerimoniale”. Ma ci spiegava che da un millennio siamo e ci comportiamo come dei servi e che questo non va bene. E dipingeva Rohani come un uomo “suscettibile” al quale abbiamo abdicato per poi tentare di fregarlo facendo affari con lui. Sfidava Rohani, infine, trattandolo come una specie di turista: “Se un iraniano viene in Italia, gli copriamo ingiustamente le statue. In un modo o nell’altro – in un mondo e nell’altro – a coprirci siamo sempre noi. E la suscettibilità da non urtare è sempre la loro. Ma se la presenza di donne sigillate da capo a piedi su un vialone di Teheran urtasse la mia, di suscettibilità? Non credo che, per rispetto nei miei confronti, gli ayatollah consentirebbero loro di mettersi la minigonna”. Il problema, qui, è che Gramelllini non sa di essere circondato di iraniani, che in Italia sono circa 10.000, perché nessuno di essi ha mai dimostrato la propria suscettibilità né alcuno ha mai pensato di non doverla urtare. Senza contare che la voglia di mettersi una minigonna non è innata, in noi.

Insomma Gramellini, che era partito bene parlando del cerimoniale, finiva malissimo cadendo nella banalità dell’uomo qualunque che quel cerimoniale non lo capisce, attribuendo a Rohani un tratto caratteriale che lui stesso non ha mai dimostrato e che invece proprio la vecchia scuola diplomatica italiana contro cui egli stesso si scaglia, probabilmente rimasta al 1979 e ai “versetti satanici”, ipotizzava essere un tratto specifico di tutti gli iraniani.

A chiarire il tutto, ormai lo sappiamo, è stato Rohani stesso che, diplomaticamente, ha ringraziato l’Italia per l’accoglienza e l’ospitalità. Più tardi i social network hanno prodotto in questo senso un’informazione saliente: i musei iraniani espongono nudi maschili e femminili.

***

Nel settembre del 1997 andai a cena – ero in visita culturale con l’Università di Roma – presso l’ambasciata italiana a Teheran. Vi servivano del vino, ricordo. E c’erano camerieri in guanti. La residenza era splendida, nella zona ricca della città, dove appunto stavano i “mercanti”, la borghesia. La costruzione era del ‘800, se non sbaglio, e il parco era immenso: sette terrazzamenti digradanti con al centro sette grandi vasche in pietra. I diplomatici italiani erano molto colti e in continuo contatto con chi – italiano – studiava in Iran da anni o decenni. La loro visione dell’Iran era molto approfondita e aveva una tradizione lunga, perché con l’Iran l’Italia ha sempre avuto rapporti privilegiati e importanti in campo economico e culturale.

Non so cosa sia successo negli anni che ci separano dal 1997 ma a me sembra che quella tradizione si sia persa. Se ciò sia un bene o un male lo lascio giudicare a chi legge ma, a questo proposito, voglio ricordare un fatto che in questo contesto è stato riesumato solo in extremis e/o per inerzia: la missione diplomatica in Arabia Saudita è finita in rissa a causa dei rolex che i sauditi regalavano ai convenuti.

Di questo, forse, dovremmo parlare, volendo commentare la vicenda delle statue coperte. Cioè dovremmo parlare di come anche la diplomazia italiana stia dando pesanti segni di cedimento. Invece sembra proprio che abbiamo bisogno di “esternalizzare” un dato incontrovertibile, ovvero che siamo sottomessi a un gioco politico-economico globale. Attribuiamo al musulmano di turno – non importa da dove venga, quale ruolo ricopra, quale obiettivo persegua – una voglia di sottometterci che invece, scotomizzando, non vediamo nei veri padroni del vapore, quelli che fanno strame della nostra libertà ogni giorno di più e abitano a due passi da casa nostra.

Nel giorno della memoria, insomma, questo paese ha dato prova di smemoratezza.

3 poesie da Habeas Corpus

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buzz

di Pasquale Vitagliano

 

Monologo in vece di Buzz Aldrin

Mi sono fermato a lungo a pensare se
se ne debba parlare, raccontare l’esperienza unica,
sconosciuta prima e adesso irripetibile
di camminare sulla luna, sul suo suolo,
il terreno, non la terra, il suolo della luna.
Quasi ne ho dimenticato la sensazione,
del primo passo, come sulla sabbia,
ma meno duro, meno solido l’impatto.
E’ stato diverso il mio passo da quello di Colombo.
Anche quella era terra, la terra, la spiaggia bagnata,
il riflusso dell’acqua, eppure uguale alla luna.
Ma lui ha poi fatto passi stabili. Non è stato lo stesso
per me. Era come muoversi nell’acqua su un fondale senza mare,
ma intorno tutto era storto, il terreno, non la terra, il suolo della luna.
Sarebbe stato utile raccontare questa esperienza unica,
la prima, un inizio, la nascita, un tempo nuovo, se fosse
stata ripetuta, ripetibile, narrabile appunto come una storia nuova,
invece è rimasta unica, sola, isolata nella memoria e nelle immagini
che non mi appartengono più. Mi è sempre più difficile ricordare
quello che ho provato, quel primo passo, l’approdo, anche se
chiudo gli occhi le immagini si dissolvono ogni volta più rapidamente.
Adesso comincio a comprendere il silenzio di Aldrin.
Perché lui non ne abbia mai parlato. Perché ha scelto di tacere.
La sua è stata una scelta pratica. La mia non lo è stata per niente.
Anche perché, se ci penso, credo che sulla luna io non ci sia mai stato.

 

 

Enigmi alieni

Ho passato l’estate a cercare antichi alieni,
altera la luna non sa chi siano loro,
e chi sia io disteso sul divano e lo sguardo
oltre la finestra illuminata nel buio della sera.
Se non fosse mito o leggenda ma un fatto vero
che Prometeo è sceso sulla terra per farci nascere,
che anche Osiride è risorto dopo tre giorni per tornare a casa,
che l’albero della vita altro non è che la scala genetica,
il problema non sarebbe risolto perché mai sapremmo
il loro vero nome, quello che non gli abbiamo dato noi.
Non sapremmo mai il loro primo nome, quello della nascita,
malgrado il gene della parola, quel foxp2 che Dio ci ha
iniettato qualunque sia il suo nome il tetragramma impronunciabile
o l’illeggibile nome degli dei antichi, alieni comunque alla terra.
Allo stesso modo finiremo noi alienati dalle nostre stesse forme di vita,
comprendendo che l’ufologia è la tappa finale del materialismo marxista,
prodotti noi stessi di questa immane raccolta di merci che è cominciata
nel cielo dove gli dei esistono davvero e potrebbero essere fatti
della stessa materia dei tegami.

 

 

Via dai canili

Non si riusciva a sentire
l’ecolalia dei fiumi
ingessati sui corrimano
di case, delle case interminabili,
ci sono più case che abitanti,
e dove manca l’acqua, mancano
anche le case, sono solo quattro muri.
Senza margini sono gli storpi,
senza contorno, i tronchi alla deriva
sui fiumi, le acque, i fanghi.
Il fango, la melma delle città,
le deiezioni che non si controllano più,
chiamala merda questa natura pura,
che non riesci a educare perché lo stesso
la vita è inesorabile quando scorre cieca,
il cibo, la sete, il fango, le feci sotto la neve.
Gli altri, gli abitanti, si sono messi in mezzo,
hanno fatto delle loro case il campo di forza,
il punto focale dell’ordine costituito, che tutto
doveva girarci intorno, deviare, restare immobile
sui corrimano se non sbattendo continuamente il capo.
Il capo, su e giù, le forze sono rimaste altrove, fuori campo,
oltre gli argini, sopra le tettoie e sotto le tavernette perbene.
Diversamente abile è questa natura che ci ignora
e non riesce a adeguarsi alle nostre misure, e grida,
grida, borbotta, vomita, si scuote, ingoia, defeca,
divora, inonda, terrificante, inonda, piscia, e se la fa addosso,
assolutamente sorda, sorda e incapace di essere perbene.

 

*

 

Pasquale Vitagliano, Habeas Corpus (Zona, 2016).

 

 

Overbooking: Raùl Zecca Castel

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[Il seguente testo è un estratto dal libro di Raùl Zecca Castel, Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana, Arcoiris Ed., 2015, € 14, pp. 272. Le fotografie sono state scattate dall’autore stesso ]

La Hispaniola: un’isola, due nazioni

di

Raùl Zecca Castel

La storia della frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana è una storia di pirati, saccheggi e contrabbando. Quando Colombo approdò sull’isola di Quisqueya – com’era chiamata dagli indigeni taíno – i coloni spagnoli stabilirono il loro quartier generale sulla costa sud-orientale del paese, dove fondarono Santo Domingo, primo insediamento europeo del Nuovo Mondo. La colonia, tuttavia, non prosperò a lungo, poiché gli interessi della Corona di Spagna si spostarono ben presto verso le ricche miniere aurifere di Messico e Perù. Al di là delle mura di Santo Domingo, gran parte dell’isola rimase del tutto incustodita ed esposta alle incursioni di molteplici attori. Già a partire dalla fine del XVI secolo imbarcazioni corsare battenti bandiera inglese e francese avevano cominciato ad assaltare le navi mercantili spagnole lungo le coste della colonia al fine di impossessarsi del prezioso carico oltre che per tentare di indebolire l’espansione commerciale della più temibile potenza rivale.

Molti corsari, d’altra parte, non rispettarono a lungo l’impegno stipulato con la madrepatria e si diedero alla pirateria. L’isola di Tortuga, pochi chilometri a nord di Hispaniola, fu la più importante base strategica della pirateria nel Mar dei Caraibi durante il XVII e il XVIII secolo. Qui si stabilirono bucanieri e filibustieri inglesi, olandesi e francesi che si dedicarono non solo all’arrembaggio dei vascelli, ma anche al furto d’animali e al commercio illegale, soprattutto di pelle e carne, contrabbandate grazie ai sempre più frequenti contatti con gli allevatori della zona nord-occidentale di Hispaniola, i quali traevano maggior profitto nel negoziare con i trafficanti di Tortuga piuttosto che rispettando i severi dazi doganali imposti dalla colonia. Per contrastare il fenomeno del contrabbando e fermare la diffusione della religione luterana, nel 1604, su ordine del Re di Spagna Filippo III, il governatore Antonio Osorio fece trasferire in massa la popolazione che risiedeva nei territori occidentali della colonia nei pressi di Santo Domingo. I tentativi di resistenza furono piegati con l’uso della forza, impiccando i sobillatori, incendiando case, fattorie, chiese e campi coltivati.

Foto Schiavi in liberta 4

Durante le operazioni di sgombero, circa 100 mila capi di bestiame vennero persi e numerosi schiavi neri riuscirono a fuggire trovando riparo sui monti. Le devastaciones di Osorio, che si conclusero nel 1606, segnarono di fatto la ritirata della Spagna dalla porzione più occidentale dell’isola, rapidamente occupata dai francesi. Con il trattato di Ryswick, firmato nel 1697, la Corona spagnola cedette ufficialmente il terzo occidentale dell’isola alla Francia e una linea di 388 chilometri tracciò verticalmente il confine tra le due potenze coloniali. Tuttavia, confini e frontiere, lungi dal siglare paci durature, non produssero che tensioni e nuovi conflitti. Nel 1804, ad ovest del confine, nacque la Repubblica di Haiti e nel 1821, ad est, lo Stato Indipendente di Haiti spagnola. Meno di tre mesi più tardi, l’esercito haitiano invase la zona orientale e riunificò l’isola per 22 anni, fino al 1844. Risale a questo breve periodo di occupazione la genesi delle ancora attuali ostilità tra la Repubblica Dominicana e Haiti, e in particolare, dal lato dominicano, il timore, fomentato da frange politiche ultranazionaliste, che le crescenti ondate migratorie provenienti da Haiti siano parte di un piano strategico finalizzato alla riconquista di quella porzione dell’isola.

Ma è soprattutto nel 1937 che tali preoccupazioni esplosero in tutta la loro violenza, provocando un bagno di sangue che passò alla storia come “il massacro del prezzemolo”. Sin dalla sua ascesa al potere, il dittatore Trujillo implementò una politica impregnata di ideologia nazionalista, fortemente xenofoba e razzista nei confronti della popolazione haitiana. Con enfasi sempre più accentuata, la retorica populista del regime opponeva le nobili origini spagnole ed europee della Repubblica Dominicana a quelle africane e dunque spregevoli di Haiti, il mito della superiorità bianca alla vergogna della razza negra, la religione cattolica alla stregoneria del Voudou, in sintesi, la civiltà e il progresso alla barbarie e all’ignoranza. Disse Trujillo: “Gli haitiani sono stranieri nella nostra terra. Sono sporchi, ladri di bestiame e praticano il Voudou. La loro presenza sul territorio della Repubblica Dominicana non deve portare al deterioramento della qualità di vita dei nostri cittadini”[1]. Presto fatto: il 3 ottobre 1937, il dittatore impartì l’ordine di ripulire la Repubblica Dominicana dalla popolazione di origine haitiana e, in particolare, le zone di frontiera, al fine di rendere chiara una volta per tutte l’esistenza di un confine separatore e di una gerarchia morale tra un paese e l’altro.

[…]

Si calcola che le persone assassinate durante i cinque giorni che durò il massacro siano comprese fra le 20 e le 30 mila. Il criterio adoperato per stabilire l’appartenenza etnica dei fermati e identificarli o meno come haitiani consisteva nel far pronunciare loro la parola perejil: prezzemolo. Bastava un difetto di pronuncia della lettera r, tipico nei francofoni, per essere immediatamente condannati a morte. Senza ulteriori distinzioni, uomini e donne, anziani e bambini, vennero trucidati in massa lungo la frontiera a colpi di pistola e fucile, ma anche con accette, coltelli e machete. Il proposito di Trujillo, infatti, era quello di attribuire la responsabilità della carneficina a un’improvvisa esplosione di intolleranza della popolazione civile, così da potersi lavare le mani dal sangue versato. Di fronte all’evidenza del coinvolgimento dell’esercito dominicano e facendo seguito alle crescenti pressioni di Haiti e Stati Uniti, Trujillo accettò infine di pagare 525 mila dollari di indennizzo al governo haitiano: 29 dollari per ogni vittima ufficialmente accertata.

Da quel momento, ancor più di prima, la frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana sarebbe stata una cicatrice aperta, il segno indelebile di una ferita che squarcia l’isola in due immaginari contrapposti. Il suo passaggio ha così assunto un duplice valore: per i dominicani la frontiera con Haiti è la porta dell’inferno, oltre la quale vige un mondo in decadenza, popolato di selvaggi spietati dal cuore nero, un incubo che talvolta serve da monito per i bambini capricciosi. Per gli haitiani, al contrario, oltre quel confine si nasconde la speranza di un riscatto, il sogno di un lavoro e di un futuro, il luogo, insomma, dove proiettare il desiderio di una vita degna. Attraversare quel confine, in un senso o nell’altro, significa ad ogni modo fare i conti con gli innumerevoli pregiudizi che si sono sedimentati nel corso del tempo e, soprattutto, significa fare i conti con una società, una lingua, una religione e una cultura totalmente differenti. O quasi.

Il 95% della popolazione haitiana è di origine africana, così come anche la grande maggioranza della popolazione dominicana. Eppure nessun dominicano vorrebbe riconoscerlo.

[…] L’autorappresentazione razziale della popolazione dominicana nei termini di appartenenza a una nazione bianca, direttamente e orgogliosamente discendente dai colonizzatori spagnoli, è l’eredità politica di una dittatura lunga un trentennio che ha fatto dell’anti-haitianismo il suo cavallo di battaglia.

Foto Schiavi in liberta 3

L’identità dominicana venne culturalmente costruita durante gli anni del regime di Trujillo in contrapposizione a quella haitiana, sulla quale si proiettarono le peggiori colpe, prima fra tutte la sua origine africana e nera. Strettamente connessa alla discriminazione razziale vi è poi la questione del culto religioso. Formalmente, tanto nella Repubblica Dominicana quanto ad Haiti, la religione ufficiale è rappresentata dal cattolicesimo. Tuttavia, come recita con malizia un celebre detto locale, “la popolazione haitiana è per l’80% cattolica, per il 20% protestante e per il 100% Voudou”. Tale religione è infatti praticata dalla stragrande maggioranza della popolazione senza per questo essere alternativa al credo cattolico. Fondata su una teologia complessa e antichissima, esprime per sua natura un insieme di varie credenze africane poi influenzate dal cristianesimo, tanto da rappresentare il culto sincretico per eccellenza. A scapito della sua ricca cosmologia, tuttavia, il Voudou è stato da sempre identificato con i suoi aspetti rituali più oscuri ed enigmatici. Lo stesso Jean-Claude Duvalier si servì strumentalmente del Voudou per i fini politici del suo sanguinario regime, facendo leva sul potere di suggestione che alcune figure come quelle degli zonbies e dei tonton macoute procuravano ai credenti. In questo modo, la religione venne utilizzata per mantenere l’ordine stabilito dalla dittatura. Parallelamente, dall’altro lato del confine, soprattutto a partire dall’ascesa al potere di Trujillo, il Voudou è stato identificato come simbolo dell’arretratezza e dell’inciviltà degli haitiani, capaci di credere a qualsiasi cosa, compresa la stregoneria. Nella Repubblica Dominicana, parlare di Voudou significa evocare spiriti, incantesimi, malefici, possessioni, sacrifici animali e, più in generale, tutto ciò che ha a che fare con la magia nera.

Infine, a dividere culturalmente e storicamente le due nazioni, vi è la lingua. Da un lato, nella Repubblica Dominicana, si parla spagnolo, mentre dall’altro, ad Haiti, le lingue ufficiali sono persino due: il francese e, dal 1987, il kreyol aysyen. Quest’ultimo è una lingua creola originata, oltre che dal francese – da cui deriva principalmente il suo lessico – dall’insieme di più lingue native dell’Africa occidentale, tra cui soprattutto il wolof, il fon e l’ewe, che ne forniscono invece la struttura grammaticale. Se il francese è parlato correntemente da una ristretta élite di persone, pari circa al 10% della popolazione, il creolo haitiano è invece la lingua più conosciuta e diffusa nel paese. Anche per questo motivo le imprese dominicane dello zucchero si servono principalmente di cercatori haitiani per reclutare nuovi lavoratori: non solo risultano più affidabili agli occhi dei loro connazionali, ma hanno il vantaggio non indifferente di saper parlare nella stessa lingua.

Nota

di

Fabrizio Lorusso

“Come schiavi in libertà” è un ibrido narrativo, un racconto basato su ricerche etnografiche ed esperienze di vita, con cui l’autore, l’antropologo Raùl Zecca, ci porta in uno degli inferni dimenticati dei Caraibi, le piantagioni di zucchero della Repubblica Dominicana. Durissime condizioni di lavoro, tratta, perdita dell’identità, razzismo, vessazioni di caporali e solitudine sono le prove che affrontano i migranti, in gran parte haitiani, che cercano di sopravvivere tra le piantagioni e gli zuccherifici delle tre compagnie che si spartiscono il mercato. La narrazione di Raùl Zecca parte dallo zucchero, vera droga e motore delle rivoluzioni industriali dell’Ottocento e Novecento e agente ingrassante e diabetico del secolo attuale, e dalle vecchie e nuove forme di schiavitù. Riesce a legare abilmente gli aspetti locali dello sfruttamento del lavoro ai fenomeni politici ed economici nazionali, latino americani e globali. Le storie di vita raccolte nel volume vanno costruendo così nuovi significati e riflessioni, oltre a segnalare, infine, percorsi di liberazione e di speranza.

 

[1]       Cfr. FARMER, Paul. Haití para qué: usos y abusos de Haití. Hiru, 2002, p. 58.

GERMAINE TILLION “Le Verfügbar aux Enfers” Ravensbrück [inverno 1944-1945]

6


[ per i sottotitoli click on sub ]
da Germaine Tillion à Ravensbrück
di David Unger [2008]


 
di Orsola Puecher

 
Germaine Tillion in Algeria
Germaine Tillion in Algeria
Germaine Tillion [ Allègre, 30 maggio 1907 – Saint-Mandé, 19 aprile 2008 ] lavora come etnologa nel Sud dall’Algeria fra il 1934 e il 1940. Tornata in Francia si impegna subito fra le file della Resistenza. Arrestata nel 1942, deportata a Ravensbrück nel ’43, ne uscirà dopo la liberazione del campo nell’Aprile del ’45. Proseguirà poi i suoi studi e le spedizioni in Africa del Nord e in Medio Oriente come Direttrice dell’École pratique des hautes études, impegnandosi nella conservazionde della memoria dei crimini del Nazifascismo, contro la guerra d’Algeria e per i diritti delle donne. Nella parabola della sua lunga vita attraversa i drammi del ‘900 da lucida e razionale testimone della storia del secolo, perché “fare uso della ragione umana è qualcosa che è un bisogno, ma un bisogno è una forza“. Alla razionalità intellettuale unisce una visione ironica delle cose, uno humor imprescindibile, che le scintilla acuto nello sguardo e nel sorriso: “anche nelle situazioni più tragiche, si può ridere fino all’ultimo minuto. E’ un elemento rivivificante“. germaine tillion Come nelle due curiose fotografie che la ritraggono bambina, ma abbigliata da accademica in erba, in toga e tocco con un gran librone davanti, Germaine sa inforcare gli occhiali analitici e le lenti della ragione, ma senza perdere mai quel sorriso, ancora uguale dopo quasi 100 anni, che le solleva gli angoli della bocca e le fa brillare gli occhi all’idea che il venerdì 13, data del suo arresto, sarebbe per antonomasia “un giorno che porta fortuna” e che “oggi dio è buono con i coccodrilli“, come nella storiella comica che le viene in mente in quel momento drammatico, in cui due africani sono incerti se attraversare il fiume Niger infestato di coccodrilli, nel dubbio se, dato che “Dio è buono”, buono lo possa essere con loro, permettendogli di arrivare sani e salvi sull’altra riva, o invece non lo possa magari essere con le bestiacce, lasciando che li divorino, mentre nuotano.
1940 Germaine con la madre Émilie Cussac
1940 Germaine con la madre Émilie Cussac
A Ravensbrück il 30 gennaio 1944 sarà internata anche la madre di Germaine Émilie Cussac [1876-1945], scrittrice, storica dell’arte, redattrice con il marito Lucien Tillion [1867-1925], giudice di pace, di alcune Guides bleus per l’editore Hachette. Verrà uccisa con il gas il 2 marzo 1945 perché anziana e inadatta al lavoro. Il campo di Ravensbrück, costruito nel 1938 per ordine del Reichsführer delle SS Heinrich Himmler a 90 km da Berlino, vicino al lago Fürstenberg/Havel, sulle rive malsane di una palude, era un campo di concentramento solo femminile, con prevalenza di detenute politiche, i triangoli rossi; non ci furono camere a gas fino al gennaio del 1945, c’era solo un forno crematorio, un secondo viene costruito alla fine del ’44. Le internate lavoravano per la Siemens, per una fabbrica tessile, c’era una sartoria, un laboratorio di calzoleria, di pellicceria. Molte venivano mandate in altri campi, laddove occorreva mano d’opera. Tante donne arrivavano con i loro bambini, eliminati subito o morti in breve tempo per inedia, o incinte, costrette ad abortire, o ad assistere all’annegamento dei neonati, in un secchio, subito dopo il parto. Nella Revier, l’infermeria, si curavano solo le più giovani e robuste per rimandarle al lavoro. Su alcune soprannominate Kaninchen, le conigliette [da laboratorio] venivano praticati terribili e spesso mortali esperimenti “scientifici”, inoculando in ferite procurate chirurgicamente sulle gambe i germi della cancrena gassosa, con il pretesto di trovare una cura per i soldati feriti al fronte.
 

Quel mondo di orrore ci appariva anche come un mondo di incoerenza, più terrificante delle visioni di Dante e più assurdo del gioco dell’oca.

Germaine Tillion
Ravensbrück
[Édition du Seuil, 1972, 1988]
Fazi Editore [2012]
[pag. 274]

 
Ma fin dai primi momenti, superata la sensazione di morte e il terrore per questa specie di altro mondo incomprensibile, Germaine Tillion indaga sul funzionamento del campo, riuscendo a individuare il meccanismo economico in atto, “perché il fatto di comprendere un sistema, anche un sistema che vi schiaccia” è una forma di resistenza morale e spirituale.
 

Comprendere un meccanismo che vi schiaccia, dimostrarne razionalmente gli ingranaggi, rappresentarsi nel dettaglio una situazione apparentemente disperata, aiuta moltissimo a trovare sangue freddo, serenità e forza d’animo. Niente è più spaventoso dell’assurdo. Con questa caccia ai fantasmi sapevo di aiutare moralmente le migliori di noi.

[ibidem pag. 193]

 
Le “esecuzioni economiche (gente sfinita a morte dal lavoro per la Germania“, si affiancano e si sovrappongono alle “esecuzioni politiche (nemici della Germania)“.
 

Un certo proprietario di terreni incolti di nome Himmler rendeva a un tal Himmler, capo della polizia, il servizio di liberarlo definitivamente dai suoi nemici. In cambio, l’Himmler capo della polizia forniva, a tempo indefinito, all’Himmler proprietario dei bei dividendi sotto forma di bestiame umano, per sostituire quello che lui consumava a ritmo accelerato. Che meraviglioso utilizzo di terreni incolti e paludosi per un capitalista: dove non cresce niente basta installare un campo di concentramento ed ecco una vera e propria miniera d’oro!

[ibidem pag.191]

 
E l’analisi del meccanismo diventa anche strumento di verità e di memoria per il futuro.
 

Poi c’era la nostra indignazione, l’ardente desiderio che essa ci sopravvivesse, che una tale mole di crimini non diventasse un “crimine perfetto”. Era già piuttosto chiaro che ben poche di noi sarebbero sopravvissute. Questo pensiero della verità da salvare mi ha ossessionata fin dal giorno del mio arrivo a Ravensbrück.

[ibidem pag.193]

 
E Germaine sopravvive.
 

Se sono sopravvissuta lo devo soprattutto al caso, poi alla rabbia, alla volontà di rivelare quei crimini e infine, all’impegno delle mie amiche, perché avevo perso la voglia di vivere.

[ibidem pag.25]

 
All’inizio dell’Aprile del ’45 300 francesi vengono evacuate dalla Croce Rossa internazionale, ma le prigioniere NN, Nacht und Nebel, come Germaine ne sono escluse. Tuttavia un po’ più avanti, in seguito a dei negoziati fra il diplomatico svedese Folke Bernadotte e Heinrich Himmler, nel suo delirante progetto di sopravvivere a Hitler trattando la resa, fu permesso a un altro gruppo di detenute francesi, di cui Germaine questa volta fece parte, di essere evacuate dalla Croce Rossa svedese.
 

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Il 24 Aprile, su dei pullman bianchi furono condotte a Padborg in Danimarca e poi in ospedale a Göteborg, fra ali di folla festante.
Nel dopo guerra Germaine Tillion inizia a scrivere le sue testimonianze. Viene scelta dalle associazioni delle deportate francesi per assistere, come unica osservatrice consentita dal tribunale inglese, al primo processo sul campo di Ravensbrück, che ha luogo ad Amburgo nel Dicembre 1946.
 
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Durante le sospensioni delle sedute, la sala si svuotava, e io restavo a guardarli in silenzio, sopraffatta dal dolore di fronte a quegli esseri che avevano fatto tanto male e che ora, allineati a qualche metro da me, dovevano rispondere di quelle migliaia di assassinii, compiuti a sangue freddo su delle donne indifese.
[…]
Si può chiamare odio quel dolore cupo, troppo accorto per non includere una straziante compassione?
[…]
Loro erano lì, ben vestiti, curati, puliti: dignitosi. Un dentista, dei medici, un ex tipografo, delle infermirere, qualche modesto impiegato. Nessun precedente penale, studi normali, infanzia normale…
Gente comune.

[ibidem pag.124-125]

 
Nella fretta della partenza dal campo Germaine dimentica un piccolo libretto un po’ squinternato, non rilegato, vergato con una bella scrittura regolare, metodica e ordinata.
 
le verfugbar aux enfers

[ disegno di France Audoul ]

 
Un’amica lo trova e riesce a riportarglielo. Lei lo chiude in un cassetto. E là resterà dimenticato fino alla terza edizione di Ravensbrück, nel 1988, in cui sono riportati alcuni stralci. E’ il manoscritto di Le Verfügbar aux Enfers, la piccola operette revue scritta da Germaine nell’Inverno 1944-1945, nascosta in una cassa da imballaggio di cartone dello scalo merci del campo, con la carta e le penne rubate da un’amica che lavorava negli uffici amministrativi. Tre atti, il terzo rimasto incompiuto, che descrivono con graffiante ironia, spesso vero e proprio humor nero e con un’epica vagamente brechtiana, la vita delle Verfügbar, le “disponibili”, l’ultimo gradino delle lavoratrici del campo, che, nascondendosi dopo l’appello, non venivano inviate ai vari laboratori, ma restavano disponibili per i lavori più umili e pesanti di scavo, sterro, spianamento con un rullo delle strade, pulizia delle latrine. Faticavano al freddo per dodici ore, con l’orgoglio di non prestare la loro opera al Reich, alle sue merci e ai suoi commerci. Una durissima forma di segreta protesta e di sabotaggio. Il soggetto dell’operetta è un ipotetico Naturalista che descrive in una specie di conferenza scientifica l’animale Verfügbar, la sua fisiologia, la sua vita, i suoi usi e costumi, il tutto alternato a canzoni sulla musica di arie d’opera e operetta, motivi famosi negli anni ’30, da Strauss a Bizet, da J’ai perdu mon Euridice di Gluck, alla Chanson triste di Duparc, le Roy d’Is di Lalo, Ciboulette di Hahn, ma con altre parole, frutto spesso di un’ opera poetica collettiva. Con il vantaggio di poter esser cantate durante le marce, o il lavoro, senza che SS e sorveglianti ne capissero i testi in francese, pesantemente accusatori e antinazisti. La piccola opera non verrà mai rappresentata, ma passa di mano in mano clandestinamente. Si cantano le sue canzoni. Viene letta in segreto alla sera nelle baracche, con la compiacenza di qualche capo blocco. La sola forza delle parole riesce a evocare immagini e sogni in un luogo che voleva togliere ogni possibilità di sognare immagini e parole. Il piccolo libro di Germaine porta avanti la sua missione dissacratoria e vivificante, per contrastare la tendenza ad assopire il proprio spirito fino ad accelerare la morte del corpo. “Ridevamo… ridevamo.“, ricorda Germaine. Ridevano di loro stesse, della magrezza, della fame, della nostalgia della vita di prima, della paura della morte e delle botte, della ottusa cattiveria dei loro carnefici. Ridevano catarticamente per uccidere di risate la paura e la morte. Un po’ come fu con ⇨ Brundibár di Hans Krása nel campo di Terezin.
 
In questi ultimi anni Le Verfügbar aux Enfers è stata rappresentata in Francia in molte versioni, ⇨ qui una integrale a Nantes, ma ho scelto di proporre alcuni estratti di una messa in scena della regista Danielle Stéfan, che mi è sembrata molto fedele allo spirito del testo, musicalmente semplice con pochi strumenti, non orchestrale. Una grande lavagna nera sullo sfondo raccoglie frammenti di testo e di voci, di segni. Il Naturalsita è interpretato da una delle deportate, come avrebbe potuto verosimilmente essere, il gruppo delle donne raggiunge una coralità molto intensa. I momenti di umorismo e di commozione compongono un mosaico indivisibile. E’difficile rappresentare cinematograficamente o teatralmente un campo di concentramento, il rischio della retorica, di un certo fastidioso bozzettismo stereotipato, dell’estetica del dolore e di una visione edulcorata sono sempre in agguato.
 
Ho tradotto le scene dal testo Germaine Tillion Une operette a Ravensbrück Édition de la Martiniere [2005], che, con alcune piccole varianti, sono riscontrabili nello spettacolo teatrale.
 
Non ci sono troppe parole in più da dire di fronte a queste scene, di fronte a “Mi hanndo detto che bisogna resistere“, cantata del Coro delle giovani e delle vecchie Verfügbar, ascoltando la canzone siparietto da rivista delle Nacht und Nebel, o il commovente canto della Speranza che brilla in segreto nel cuore di Marguerite, o la lunga rabelaisiana lista di pietanze solo immaginate della gita gastronomica, o l’assalto del dolore dei ricordi della vita di prima con la certezza autoillusoria di tornare presto a casa. L’universo concentrazionario acquista nuove sfacettature della sua complessità istituzionale, ma soprattutto di quella umana, perché non si allontani nella tenebra della Storia e del Tempo che sfugge via la memoria della sofferenza di ogni singola voce e del suo sacrificio. Queste donne sono ancora qui con noi. La forza di questo testo così raro e inconsueto riprende vita in ogni singola parola e nota, lasciando al sorriso, certo molto amaro, il compito di asciugare le lacrime.
 

Quando l’ultimo campo di concentramento tedesco ha aperto le sue porte, quell'”altro mondo” ha cessato di ergersi fisicamente nello spazio reale per porsi tra i fantasmi della “dimensione storica”, ma li raggiungeva senza bagagli, nudo come i suoi morti.

[ibidem pag.274-275]

 


 
Le Verfügbar aux enfers
Germaine Tillion
UNE OPERÉTTE A RAVENSBRÜCK
Edition de la Martinière [2005]

 
Atto I Primavera [pag. 36-38]

Il naturalista Vi presento Nénette, giovane Verfügbar, dell’età di quindici giorni… Che cosa facevi nella tua vita precedente?
Nénette Ero presidente di una filiale della Società Protettrice degli Animali, per la Liberazione dei Canarini…
Il naturalista Ed è per questo che sei qui?
Nénette Ho anche una marito che è stato generale di divisione…
Il naturalista Questa, è una ragione…
Nénette Questa è la ragione… la sola ragione. [Pausa] Infine… resti del tutto fra di noi. [Canta]

[opera collettiva]
Avevo una grande casa,
dove nascondevo senza precauzione,
ebrei dai nasi troppo lunghi,
e gente di tutte le condizioni…
C’erano anche delle armi
cadute per caso da un aereo…
Non sapevo che cose ne sarebbe derivato…
E’ forse per questo che sono qui…

[Va a prendere per mano Lise. 25 anni, alta, bionda]
Facevi una vita da vagabonda
tre volte al giorno cambiando nome,
annotando senza permesso
falsi documenti e biglietti
ornatii di belle fototessere
per gente senza fissa dimora…
Ma tutto andava di male in peggio…
E’ forse per questo che tu sei qui…

[Entrambe si voltano verso Titine, 40 anni,
bruna, aveva un piccolo caffé vicino a Perpignon
]
Lei portava al di là dei monti
dei giovani ragazzi rudi e buoni
che sfuggivano agli ordini teutonici
per non costruire armi.
Dividevano anche la loro razione
di pane bigio e salsiccia…
Lei non diceva nulla a suo marito…
E’ per questo forse che è qui.

[Tutte e tre si girano verso il coro.]
Voi facevate per dei birboni
una quantità di commissioni.
Passavate i vostri migliori filoni
a degli eroi senza pretese,
che facevano saltare dei camion
dei piloni e delle stazioni…
Un giorno il colpo non è partito…
E’ forse per questo che voi siete qui.

[Il resto del coro viene in avanti e canta.]
Andavamo da Nantes a Mentone
per un messaggio di Londra…
Fornivamo di grossi cannoni
i partigiani in rivoluzione,
di plastico e grafite
che facevano saltare mucchi di case
Noi ci dicevamo “occhio non vede, cuore non duole”…
E’ forse per questo che siamo qui.

 


 
Atto I Primavera [pag. 43-46]
 

Il naturalista Nel secondo periodo della sua vita, detto multicellulare (vale a dire, intendiamoci, molti corpuscoli per una cellula e non molte cellule per un corpuscolo), i segnali di intelligenza aumentano: gioca a briscola, comunica con l’esterno e migliora sensibilmente la sua alimentazione, fino ad allora costituita principalmente da torsoli di cavolo e semi di zucca…
Arriviamo al terzo e ultimo periodo, Romanvillese e Compiegnuanese. Nel corso di questo periodo (per altro facoltativo) l’animale dà dei segni di gaiezza, di socialità, dimostra un certo gusto per i colori chiari, i pigiama fantasia e anche talvolta ingrassa (fatto che merita di essere menzionato).
Questo periodo è interrotto brutalmente dall’agitazione prenatale, che comincia con un appello generale e numerosi insulti…

Coro delle giovani Verfügbar. [Cantano.]
Mi hanno detto “bisogna resistere”…
Ho detto “sì” quasi senza pensare…
E’ così che su un treno della linea del Nord,
Mi hanno caricata, guardata a vista, e senza fatica,
E quando il treno si è fermato,
non mi hanno chiesto il biglietto…
Ma malgrado il piacere delle novità
avrei proprio voluto scappare…

 
Coro delle vecchie.
Ascolta! Giovane Verfügbar,
l’aria che i prigionieri
cantano sulla strada…
E’ su quest’aria, vedi,
che tu mi sei apparsa…
La notte cade già
soffocando i tuoi passi sul suolo ghiacciato.
Cani e guardiani abbaiano.

 
Coro delle giovani.
Mi hanno detto… non mi hanno detto niente.
E non ho potuto nemmeno dire sì.
Attonita e pesta, uscendo dal furgone,
ho sentito per prima cosa degli insulti..
Ho visto poi i nostri guardiani,
avevano dei frustini in mano…
Malgrado la differenza dei vocabolari,
ho capito subito cosa ci vorrebbero fare!

 
Coro delle vecchie.
In una grande sala ghiacciata,
ti hanno spogliata,
poi ti hanno dato un numero…
Poi ti hanno fatto star ferma
per ben acclimatarti,
eppure non hai pianto…

 
Coro delle giovani.
Per prima cosa hanno preso i gioielli,
la valigia e la borsa di cuoio rosso,
le piccole provviste, il pezzetto di salsiccia,
la camicia e i pantaloni…
Credevo che mi avessero preso tutto,
e speravo che fosse finita…
come un bambino neonato mi hanno spogliato
ed è allora che mi hanno rasato!

 
Coro delle vecchie.
Hanno preso i tuoi capelli
per legare mozzi,
lavorerai,
non mangerai…
Quando non ce la farai più,
ti finiranno,
ti bruceranno.
E il tuo grasso ancora servirà…

 


 
Atto I Primavera [pag. 69-70]
 

Il naturalista Dal punto di vista giuridico e amministrativo, la situazione della Verfügbar è tutto tranne che chiara.
Un triangolo nero [con accento marcato] Lavora, los, schnell, aufzehrin…
Il coro [con disinvoltura]… me ne frego.
Triangolo Nero Ti mandiamo ai trasporti….
Il coro [con aria decisa] Io non parto con i trasporti.
Triangolo nero [impressionata] Perché?
Il coro Perché sono del blocco 32…
Triangolo Nero Perché sei del blocco 32?
Il coro Perché sono N N:
Triangolo nero Cosa vuol dire N N?
Il coro Vuol dire che non parto con i trasporti.
Triangolo nero Ma perché sei N N?
Il coro Perché sono del blocco 32. [grande silenzio meditativo]
Triangolo nero N N questo vuol dire sicuramente qualcosa…
Il coro Certo… Vuol dire Nacht und Nebel, notte e nebbia…
Il coro [canta]

Non sappiamo cosa pensare
Non sappiamo cosa dire
Il segreto della nostra esistenza
La Gestapo non l’ha svelato…

 


 
Atto I Primavera [pag. 70-72]
 

Il naturalista La Verfügbar da prova di una grande ingegnosità per la trasformazione e l’utilizzazione di tutto ciò che le capita sotto mano. La famosa canzone ben conosciuta dai letterati:

Ho un cane che urla tutto il tempo
e una donna che fa altrettanto.
Amo la strada e il Cordon Bleu

E’ stata certamente scritta per un lontano antenato della Verfügbar, che riesce a procurarsi al Bekleidung, il piatto piano e l’attizzatoio necessari per l’igiene…

Per lavarmi le zampe
Non ho che un piatto piano.
Mi pettino con un attizzatoio.
Mi lavo la faccia quando piove.

Bene…. cantiamo…

Che m’importa! Io sono elegante!
Ho un bastone; oui, Madame !
Che m’importa! Io sono elegante!
Ho un bastone e dei guanti

Oltre allo spirito organizzativo di cui arriveremo a parlare la Verfügbar non ha che tre risorse fisse…
Nénette …la sveltezza, la furbizia
Il Naturalista… e l’appello delle carte rosa…
Il coro Non dimenticate qualcosa signor naturalista…
Il naturalista [con aria di superiorità.] Non è mia abitudine… di che cosa si tratta?
Il coro Indovinate, signor naturalista…
Il naturalista Vediamo un po’… è grosso, è pesante… aiutatemi…
Il coro E’ molto grosso, molto grande e non occupa alcun posto… ed è leggero, leggero, leggero come una Verfügbar a cui non resta che un “giorno-sindaco”…

Marguerite [Si alza e canta.]
Nel mio cuore c’è una stella
che mi inonda con i suoi raggi
e brilla nei miei occhi pallidi,
e risplende sotto i miei stracci…
I grandi muri allora spariscono,
il mio paese mi appare all’improvviso
sotto il suo bel cielo pieno di tenerezza…
I suoi baci saranno per l’indomani,
e’ la Speranza che la mia anima nasconde,
sfidando i mostri infernali,
sorride quando la loro voce è infuriata…
sotto il frustino,
e sotto la sferza si leva più in alto…
 
Un canto molto dolce, pieno di allegria,
sale dal mio corpo smagrito.
Dolce Speranza
calma il mio sconforto
sempre così pesante sotto questo cielo grigio!

 


 
Atto II Estate [pag. 88-93]
 

Titine Ho fame!
Nénette Anch’io…
Havas Bene! Andiamo a pranzo? Tocca a te Titine…
Titine Eravamo ad Avignone…
Rosine Partivamo in auto al mattino, non troppo tardi…
Marmotte Nemmeno troppo presto… le levatacce tremando e le corsette notturne nella notte livida sono finite, finite… Non prenderò mai più un treno di mattina e se non ce ne sarà che uno al giorno, resterò a casa…
Rosine Partiamo in auto, al mattino non troppo presto…
Marmotte Va bene!
Rosine Verso mezzogiorno arriviamo a Gordes per pranzo…
Marmotte No, verso le undici…
Rosine Perché le undici?
Marmotte Ho fame e mi annoia aspettare fino a mezzogiorno per mangiare…Visto che sono libera, avrò ben il diritto di pranzare alle undici, mi sembra?
Rosine [Molto conciliante] Ma tu non avrai fame prima. Ti ricordi che hai fatto colazione da Dédé di Avignone che ti ha offerto una enorme scodella di cioccolata, con burro, pane abbrustolito, biscotti alla marmellata e un plum cake…
Marmotte [vacillando] Credi?
Rosine [con fermezza] Ne sono sicura!
Marmotte Allora alle 11 e mezza…
Rosine Ve bene. La specialità di Gordes è la selvaggina. Ordineremo pernice arrostita su canapé di pane al burro, paté di lepre con insalata, e un sufflé alla marmellata…
Marmotte Come? Niente entré, niente antipasto? E il pesce? E la verdura?
Rosine Questa non è la specialità di Gordes… se vuoi puoi prendere degli champignon alla greca come entré…
Havas Questo sarebbe piuttosto un antipasto…
Marmotte Per una volta passi; con una bella insalata di pomodori e cetrioli, per finire un formaggino di capra… E come vino?
Il coro [in coro] Châteauneuf-du-Pape…
Marmotte Ma l’abbiamo già bevuto ieri…
Rosine Appunto, ci abbiamo preso gusto.
Marmotte E dopo?
Rosine [cantando.]

1. Abbiamo fatto buon viaggio,
Disdegnando auto e treni,
Un tubo come unico bagaglio,
sempre verso ovest, viaggiamo…

Abbiamo degustato
del burro e del paté,
della panna di Normandia,
e del formaggio a Brie…
A Riec assaporato
Molluschi e ostriche belon
Benedicendo Mélanie
e la sua tavola ben imbandita…

2) Abbiamo fatto un bel viaggio,
fermandoci a ogni piè sospinto,
e gustando in ogni villaggio
del buon vino e dei buoni pasti…

Mangiammo con gioia
il fois gras di Strasburgo
e quello d’Aquitania,
poi la quiche lorraine…
sulla costa atlantica,
abbiamo cenato con l’astice…
Il Riesling rende poetici
al Trois-Tetes, a Colmar…

3. Abbiamo fatto un bel viaggio
in tutti i graziosi angoli della Francia…
IL sorriso su tutti i visi
facendo gioiosamente bisboccia…

Abbiamo degustato
Tutte le specialità:
A Vire il salame,
a Nizza la ratatouille
a Aix i calisson
A Lione il salsiccione
Madleinette a Commercy,
Bergamotti a Nancy…

4. Abbiamo fatto un bel viaggio
folleggiando nei dintorni,
riparandoci all’ombra
sognando dall’alba al tramonto…

Con del Romanée
abbiamo pranzato
con lesso alla bourguignonne
prosciutto di Bayonne
gratin dauphinois
e polli di Bresse,
oche di Rouen,
prugne di Agen.

5. Abbiamo fatto un bel viaggio
sedute al bordo dell’acqua
ascoltando sotto il verde fogliame
il vento frusciare fra le rose.

Gustando presso l’Admiral
il suo pomodoro provenzale,
A Bar le marmellate,
All’Aisne una frittura,
la trota in riva al Gave
e del miele a Uriage,
champagne a Èpernay
vino rosso a Bordelais

6. Abbiamo fatto un bel viaggio
visitando città e musei…
e lasciando l’auto in garage,
per le strade abbiamo bighellonato.

Abbiano assaporato
gallette imburrate
e sidro schiumante
molto famoso ad Haras …
abbiamo paragonato
senza poterci pronunciare
l’acqua vite di Cognac
e quella d’Armagnac…

 


 
Atto II Estate [pag. 102-105]

 

Nénette Rosine cantaci qualcosa…
Rosine Non ne ho cuore…
[Silenzio.]
Lulu de Belleville Ho sognato di mamma stanotte…
Bébé Ero nel giardino di mio nonno. Raccoglievo delle prugne…. Quando mi sono svegliata e mi sono vista qui, non ho potuto impedirmi di piangere…
Havas Ho visto bene che avevi una faccia strana stamattina…
Marmotte E’ sempre al risveglio che è più dura…
Havas Si è tutte rammollite dalla notte, si è ritrovata la propria anima di prima e si vedono con i nostri veri occhi tutti gli orrori del campo… e poi in fretta si ritrova la propria corazza…
Lulu de Colmar Bisogna sempre tenerla sotto mano…
Lulu de Belleville Io no mi abituerò mai.
Havas Non bisogna abituarsi. Abituarsi è accettare. Noi non accettiamo, noi subiamo…
Lulu de Belleville Non avrei mai creduto di rimpiangere la prigione.
Marmotte E’strano: per le cose veramente terribili non si piange.
Lulu de Belleville Quando mi hanno arrestata, non ho versato una lacrima e quando mi hanno interrogata nemmeno…
Nénette Ti hanno picchiata?
Lulu de Belleville Eccome! Botte, non il bagno… Ma ho dovuto lo stesso passare tre mesi in infermeria, dopo. Hanno arrestato Papà, ma non mamma. Era nel ’41. Nel ’43 l’avranno arrestata, e forse anche il mio fratellino, che ha 6 anni…
Nénette Quando mi hanno detto che mio figlio era stato fucilato, non sono riuscita a piangere. E’ 6 mesi dopo quando ho riconosciuto la sua scrittura sull’etichetta del mio pacco, a Fresnes quando ho capito che era vivo e libero… non ho potuto più fermarmi.
Lulu de Belleville Un giorno alla Siemens, ho pronunciato il nome del più piccolo dei miei fratelli, così, senza pensarci…. Mi sono messa a piangere, non riuscivo più a fermarmi…
Titine Dite, signora Nénette, saremo a casa per Natale?
Nénette Ma naturalmente!
Hava Di quale anno?
Titine Non si deve scherzare su questo.
Havas Nel ’42, già, eravamo così sicure a Fresnes…
Marmotte Com’è lunga!
Titine Ma cosa fanno gli Americani! Ma cos’è che fanno? Che mi venga un colpo… metterci tutto questo tempo…
Lulu de Belleville Se mai avessi un innamorato a New York, sta sicura che non gli darei un appuntamento davanti a una stazione del metrò… Ne ho abbastanza di stare in piedi!
Nénette In una sala da tè ben riscaldata, con una bella poltrona, del porto e un mucchio di piccoli pasticcini…
Lulu de Belleville Preferisco quelli grossi!
Nénette Dovrai spiegarlo al tuo americano…
Havas La conversazione devia…
Marmotte E’ sempre così…
Titine E’ troppo dura; siamo stanche dopo tutto…
Bébé Voglio la mamma…
Marmotte Avrai la tua mamma… Ancora un po’ di pazienza…
Bébé Ma quando? Prima di Natale?
Havas Certo! Che domanda! Torneremo a casa l’11 novembre…
Titine Se me lo dici tu, ci credo.

 
*Le immagini di Germaine Tillion sono state prese dal sito ⇨ www.germaine-tillion.org, la pagina del manoscritto da ⇨ http://bpsgm.fr/temoignage-jacqueline-hourcabie/, i footage dal documentario ⇨ Ravensbrück Concentration Camp.
 

NOTE

 

Diario parigino 2. Colonia e il “fatto ultimativo”.

6

[Diario parigino 1]

di Andrea Inglese

Cose inutili da fare: scrivere su una notizia consumata.

 

La notizia l’ho letta in uno dei quei portali qualunquisti, su cui finisci quando ti colleghi ad internet. Potrei fare in modo di finire direttamente sul portale degli atei marxisti favorevoli alla letteratura sperimentale per il resto dei secoli, ma ho paura poi di non avere più anticorpi nei confronti del razzismo, del qualunquismo e della disinformazione ambientali.

Morten Søndergaard: il poeta della metamorfosi e della musica.

3

Di Claudia Iandolo

Pochi autori hanno insieme il dono della complessità e quello della leggerezza. Pochi, come Søndergaard, riescono a scrivere di una realtà che si moltiplica, si dilata, cambia e ci cambia. Eppure in quella realtà siamo condotti per mano dall’autore con eleganza e disinvoltura.
Che il mondo sia Caos appare vero fin dalla prima delle tre raccolte che costituiscono il libro: A Vinci, dopo. Titolo emblematico che ci riporta immediatamente ad una delle caratteristiche della poetica e dunque della visione del mondo di Morten: il movimento. Con una specie di cortocircuito temporale il poeta avverte che tutto ciò che è accaduto a Vinci ha un prima e appunto un dopo, registra cioè una distanza probabilmente annullata dal processo creativo. Del resto l’autore stesso dichiara nell’introduzione come i due atti del camminare e del poetare siano interconnessi, ( Il giorno che imparai a camminare/ mi insegnarono contemporaneamente a parlare) Camminare fornisce il ritmo di cui ogni poesia si nutre. Vinci è il paese toscano, patria di Leonardo, in cui Søndergaard è vissuto quattro anni. L’esperimento, che sarebbe dovuto durare solo sei mesi, era di provare cosa avrebbe provocato sulla sua lingua l’immersione totale in un’altra lingua (ma sarebbe meglio dire una lingua altra). Søndergaard si cimenta con uno dei topoi più diffusi della letteratura mondiale: il paesaggio. Esiste, fin dai tempi di Petrarca un paesaggio soggettivo ed uno oggettivo, esiste cioè la percezione del paesaggio, in buona sostanza la sua creazione. Una creazione/percezione relativa inoltre all’idea di mondo che abbiamo e che la cultura e i tempi in cui viviamo hanno contribuito a creare. Søndergaard stravolge totalmente tale prospettiva. Non solo i suoi paesaggi sfuggono e fuggono ad una definizione certa, ma sono loro a percepire noi (Siamo stati svegliati in piena notte/da un nubifragio. Il paesaggio ci ha letti/ come un libro aperto.) La parola stessa perde di significato. Il paesaggio come blocco, come un tutto finito e definito non esiste più e non solo perché metamorfico ma soprattutto perché intelligente, in senso letterale. Può essere ciò che vogliamo, ciò che ci aspettiamo (verrebbe da dire che si comporta come un fotone nel famoso esperimento della doppia fenditura che dimostra la dualità onda/particella della materia), il paesaggio, addirittura si mette in posa. Søndergaard gioca col più celebre dei ritratti, la Gioconda di Leonardo, in cui forse il paesaggio sta in posa come se fosse lui il protagonista e non Monna Lisa. Il paesaggio parla, attraverso le creature che lo compongono (Oggi è venuto da me un olivo parlante e ha detto:/ “la vita è un passaggio dal nulla/ al nulla”./ Quanto si annida fra le righe del paesaggio/non si lascia leggere.) E non esistono solo i paesaggi umani (Le formiche trasportano/ paesaggi di origine molto varia/ dall’una all’altra… /Dimostra la massima cautela quando tratti/ con i paesaggi. I continenti migrano. Noi facciamo l’amore/ come bambini curiosi e i meli/ hanno perduto i fiori.) I paesaggi degli altri sono altrettanti veri ed altrettanto imprendibili, altrettanto indefinibili attraverso gli strumenti umani, parole comprese ( Non si può dire “gira a sinistra al grande albero”, / perché la frase non arriva fin laggiù./… Nel paesaggio le porte sono destinate agli dei.) Dove poi esse conducano è mistero. Agli uomini non resta che il tentativo di misurare il mondo, l’antico tentativo di intercettare qualche possibilità (provvisoria, s’intende) di senso attraverso le rispondenze nascoste e intelligenti celate nella materia. La poesia stessa, fondata come dicevamo sul ritmo, è esercizio di misurazione (Ogni poesia illumina il suo tratto di mondo con la sua torcia./ È un modo di precisarlo.) Ma precisare equivale, come l’etimologia suggerisce, a tagliare, scontornare fino a rendere esatto, eliminando il superfluo. Un’operazione che può restituire una parte di mondo, così come la immaginiamo, ma non il mondo nella sua essenza. Per questo non resta che arrendersi alla metamorfosi, partecipare al gioco dei cambiamenti e delle trasformazioni “mettere foglie e nuovi germogli” come Søndergaard scrive. Abolire la distanza, ogni distanza tra soggetto e oggetto. Essere paesaggio e non più guardarlo, perché se lo si guarda abbastanza sarà il paesaggio a catturarci. (I luoghi ci invadono, e noi inermi ci lasciamo portare/ in nessun posto./Potremmo anche stabilirci qui: noi)

Metamorfosi e movimento: tutto nelle poesie di Søndergaard è in costante movimento. L’autore stesso cammina, viaggia nel tentativo di capire. Ogni movimento umano è però vanificato da quello più veloce e insondabile della realtà che ci circonda, fatta a sua volta di una moltiplicazione di mondi destinati ad ignorarsi. Il gatto cieco/ va a caccia nel giardino segreto./ Spaventapasseri, colli, alberi, campi di girasoli/ si fanno sotto e studiano i nostri volti/ Ma il paesaggio è fuori da ogni senso./ Pensa per sé. D’altro canto: / noi siamo alberi con le gambe./) In un mondo così complesso e a dispetto di tutte le precisazioni possibili, è facile perdere l’orientamento non solo spaziale. Tra qui e lì c’è un solo punto, ma è il punto di ogni istante ed è perciò inafferrabile.

Søndergaard sa bene che ogni decifrazione/creazione della realtà passa attraverso la lingua. Un mondo può essere camminato tutto, può addirittura essere pensato, ma è l’atto del dire che crea la realtà. Vengono in mente due verbi greci: μυθοποιέω e μυθολογεύω. Il primo contiene l’idea della creazione della parola che per se stessa si identifica con la realtà, il secondo riconduce al concetto di relazione. L’atto stesso del parlare è, come suggerisce l’etimologia del termine, raccogliere, contare e quindi raccontare. Dire equivale sempre a stabilire relazioni di senso tra le cose e tra noi e le cose stesse. Passare dal Caos al Kosmos.

La molteplicità delle lingue (senza contare i linguaggi, che appartengono anche al regno animale), genera in ogni scrittore la nostalgia di un mondo pre-babelico, di una lingua universale con la quale poter dire non solo le cose per come sono, nella loro essenza primigenia e totalizzante, ma per poterle dire tutte. (deve pur esserci una lingua/ per poter dire le cose come sono / né più né meno). Dire equivale dunque a dire sempre più o meno. La lingua, e perciò la poesia, sono un esercizio che ci consente solo approssimativamente di avvicinarci alla realtà. Non solo le parole non sono più consequentia rerum, ma possono depistare, o peggio creare una folle realtà (titolo di un’altra sezione) in cui niente è come appare. (I cadaveri marciscono nella pila dei giornali/ la verità sventola sullo schermo/non sappiamo quasi nulla/e ciò su cui basiamo le nostre conoscenze/si dimostra essere in realtà una menzogna/nella vera e propria folle/realtà dove tutto/è fatto di teflon e gomma e cartone), dove forse la salvezza (momentanea) può essere affidate alle minime parole ( Casa. Sole./ legno. Sorriso. Sedia). E ancora :( Il mondo/ può essere detto/ com’è,/ come portachiavi/ chiodo e subwoofer). Ma per dire il mondo così com’è c’è bisogno di una lingua nuova, di una lingua che nessuno parla. Di una lingua capace di annullare la distanza tra Langue e Parole, per dirla con De Saussure. Non è un caso che la poesia di Søndergaard insista sulla relazione tra linguaggio e suono. Una relazione antica probabilmente, quanto la nascita della poesia stessa. In Ritratto con Orfeo ed Euridice, pubblicato in Italia da Kolibris edizioni, Søndergaard scrive: Avanza nell’ignoto Orfeo,/ Corifeo, si spinge avanti/ cantando./ Cantando?/ Ė questo che fanno i poeti? Ora scrivono/ Si son fatti così silenziosi. Il mondo moderno ricorda nel mito di Orfeo ed Euridice un amore infelice che varca (anche se provvisoriamente) i confini della morte, ma dimentica spesso che il figlio di Eagro fu anche il primo poeta e musico e che i due aspetti erano in lui indissolubili. La ricerca di una lingua che nessuno parla è nostalgia, anch’essa mitica, di una lingua vera oltre che universale. Viene in mente quanto il critico Gianfranco Contini scrive sul linguaggio di Giovanni Pascoli. Il fonosimbolismo insistito del poeta italiano crea una lingua agrammaticale o pregrammaticale. Una lingua che forse riconduce all’infanzia e alle prime sonorità che con esso ci hanno messo in relazione. La ricerca musicale di Søndergaard restituisce nel ritmo il respiro autentico della parola, quel retroterra di mistero e di imprendibile che il suono contiene e trattiene.

Il gruppo in rivolta

1

di Gian Piero Fiorillo

 

“Il diavolo dà, ma non regala” disse Saverio alzandosi improvvisamente dal tavolo. Una smorfia gli graffiò il volto. Guardò obliquo tutta la stanza, mugghiò, chiese all’educatore che si voltò stupito: “Dottore, io me ne posso andare?”

-Andare? Ma se sei qui da un quarto d’ora.

-Dottore io non ce la faccio.

-Senti, Saverio, non puoi non farcela, se fate tutti così qui che succede? Non si va avanti.

-E lo so dottore, ma non ce la faccio, oggi pomeriggio devo prendere il treno per Napoli.

-A che ora ce l’hai il treno?

-Alle sei.

-Alle sei! Sono le dieci del mattino.

-Sì, lo so, ma devo pranzare, e poi mi devo riposare se no non ce la faccio a prenderlo.

-Senti, sei qui da un quarto d’ora. Minimo due ore ci devi stare, anche per rispetto degli altri.

-Va bene, sì. Che devo fare?

-Continua quello che stavi facendo.

-Devo salvare?

-Lo sai che devi fare. Riempi le schede e poi salva.

-Le salvo sul desktop?

-Lo sai cosa devi fare, avanti.

 

L’educatore si guarda le scarpe – devo spazzolarle al più presto. Polvere. Non le spazzolerò mai, lascerò che la polvere se le mangi. Finché sono le scarpe che mi frega. Siamo noi, altro che le scarpe. La polvere che siamo e la polvere che ci mangia.

 

Stiamo vivendo la caduta, pensa. Dovrei essere animato io e mi tocca spingerli a lavorare. Ma lo sentono. Sanno che non ci credo più. Me lo leggono negli occhi, nelle parole che tiro fuori a fatica, nel maglione scolorito e slabbrato. Finirà, me l’hai detto tu, ma tu hai paura, te lo leggo negli occhi. Cantiamo ragazzi?

-Ma che si vuole cantare dottore, facciamo una pausa.

-Io poi me ne vado dottore.

-Finirà, me l’hai detto tu…

-Dottore ma è quella di Franco Battiato, la conosco dottore, quanto mi piace!

 

Un tempo ero più vivo. L’entusiasmo è andato scemando, non credo di poterci cavare molto da questo gruppo. Continuo a chiedermi perché, se è davvero la malattia mentale a ridurre così le persone o tutti i farmaci che gli danno, lobotomia chimica. Pillole flebo contenzione elettrochoc, ecco i risultati. Quando li hanno ridotti in stato comatoso ce li mandano qui per la riabilitazione. Ma cosa possiamo fare a quel punto? Hanno il cervello consumato dalle sostanze e l’anima bloccata dalla paura. Anche la malattia può fare poco ormai, non può certo salvarli. I medici li vogliono salvare dalla malattia, che è la sola arma che hanno per salvarsi da sé. Incomincia la lotta e io da che parte sto? Davvero dalla parte dei pazienti, o quella è solo una partitura di facciata? Sono complice, per questo voglio andarmene, finché sto qui non posso non esserlo. Ma anche andarsene, lasciarli in balia del conformismo terapeutico non è una forma di complicità?

 

Cartoscella vince cartoscella perde. Dov’è la guarigione? Sotto la carta dello psichiatra. No, sbagliato, è sotto quella della psicoterapia. Davvero? Invece no, è sotto la riabilitazione. No, neppure, ricominciamo. Ma stai attento questa volta.

Il gioco è truccato. Abbiamo vinto noi dall’inizio, con le nostre lauree, i nostri saperi, le nostre competenze. A loro non resta che farci da spalla. Noi siamo Totò, il compito di Peppino glielo lasciamo e lo devono recitare ad arte. La chiamiamo compliance, usiamo la parola inglese per darci importanza. Gli inglesi hanno il dono della sintesi, in italiano suonerebbe così: Abbiate la compiacenza di recitare il ruolo che vi abbiamo assegnato e poche storie. Tanto esistete solo per la nostra misera maggior gloria, la mesata.

 

Finzioni. Neanche io ho vie di fuga. Andarmene è solo un’illusione. Non me ne vado, vengo tradotto ad altro servizio. Su mia richiesta, certo. Ma sempre traduzione è. Qui morta speranza. Chiudo.

 

Rubiamo loro l’anima, altro che cura. Dementi, non folli. Disabili, ecco cosa. E io ho a che fare con la disabilità. Una volta, in una riunione del forum salute mentale, scrivemmo un testo di sdegno contro un assessore che aveva definito disabili i pazienti psichiatrici. Ma sapevo, mentre scrivevo quel documento, che l’assessore aveva ragione. Solo un punto mi divideva da lui. I pazienti psichiatrici non sono disabili a causa della malattia, ma a causa delle cure. Che non sono tali, ma trattamenti normalizzanti con un solo obiettivo: ridurli alla ragione. Con le buone o con le cattive. Tutti i pazienti sanno che non ci sono psichiatrie buone né psichiatri sinceri. Quando si arriva al dunque hanno lo stesso grado di brutalità. Legare un paziente al letto e lasciarlo morire d’inedia o intossicarlo fino a farlo morire di neurolettici – dov’è la differenza? La sola differenza è che ucciderlo di farmaci mette il medico al riparo dalle inchieste giudiziarie.

-Dottore, allora posso andare?

-Com’era quella storia del diavolo?

-Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

-No, non era questa.

-Adesso non mi ricordo. Posso andare?

 

Se tu andrai a San Francisco…” canticchiò Sandra. Non sopportava che a Saverio fosse concesso di uscire prima. A volte, per protestare contro quell’ingiustizia, si dava malata per settimane, sostenendo che l’educatore faceva particolarità e lei andava in depressione.

 

Gli altri la ignorarono e allora intervenne direttamente:

-Ha detto che il diavolo fa le pentole ma non i copechi.

-I coperchi, ha detto i coperchi – puntualizzò Ombretta alzandosi dalla scrivania, contenta di avere una scusa per farlo. – È l’ora della pausa?

-No, ragazzi, no. Non è l’ora della pausa. Siete qui da mezz’ora. Si lavora e basta. Dobbiamo preparare questo numero del giornalino, va in rete dopodomani.

-Va bene, ma qui non si fa altro che lavorare, protestò Ombretta lasciando basito l’educatore.

-Allora cantiamo, disse Sandra.

-Scherzavo, per favore ragazzi.

 

Ci si misero anche i cellulari, che squillarono insieme in numero imprecisato e tutti scattarono verso le giacche e le borse, ciascuno convinto o speranzoso che fosse il proprio. “Famo na pausa pe na sigaretta?” buttò là senza convinzione Ombretta. L’educatore esausto allargò le braccia in segno di resa. Un attimo dopo il corridoio era pieno di fumo e gli altri operatori del distretto sanitario protestavano vivacemente contro quella strana concessione, negata a tutti tranne a quelli del servizio psichiatrico. L’educatore uscì dalla stanza spazientito e urlò:

-Almeno andate in cortile.

-Piove, disse Sandra, che quella mattina aveva deciso di provocare.

-Non me ne importa niente.

-Avete sentito ragazzi? Chi vuole fumare si bagni. Andiamo in giardino. Poi se ci prendiamo una polmonite torniamo qua che ce la cura lui.

 

Uscirono. L’educatore rientrò e incontrò Isabella che tornava dal bagno.

-E tu non vai?

-Non fumo, rispose Isabella guardando la strada dalla finestra.

-Non è necessario.

-Non è neanche obbligatorio uscire, disse la ragazza.

 

L’educatore cercò qualcosa a cui aggrappare lo sguardo, ma trovò il vuoto. Piegò il capo e sedette alla sua postazione.

 

Seduto alla scrivania l’educatore si gratta la testa. Da quel grattarsi scendono cose che non sono solo forfora. Cose che cercano una forma.

 

(Al mare dicevi Qui non ci si può buttare, t’ammazzi. E quel motoscafo, lo vedi? È impazzito. Pericolo)

(Andammo in piscina. Più tardi una telecamera per quanto scassata riprese traffici osceni davanti al portone)

(E le minacce dello spacciatore. Che per fortuna arrestarono quando il cliente morì d’overdose per strada)

(Ad ogni buon conto volesti cambiare. Volevi abitare quartieri migliori. Non mi dicesti il dentista che già conoscevi)

(Dicesti soltanto estirpare la causa. È dura sentirsi una causa soltanto)

 

L’educatore guarda lo schermo. Pensa di avere trovato l’appiglio che cercava ma sente alle spalle gli occhi ostinati di Isabella.

-Delusioni amorose, dottore?

-Di cosa t’impicci, screanzata.

-Screanzata non lo dice più nessuno, dottore. Ma io la capisco.

-Guarda che sono io a capire te.

-La mettete sempre così, voi. Noi siamo solo i malati e voi i benefattori.

-Non è questo.

-Non è mai questo. Ma è sempre questo.

-Non dire così, lo sai che non credo alla malattia mentale.

-Lei no, ma la dottoressa Sommese ci crede e come. Mi riempie di farmaci. Sa cosa dice di me? “Un caso da manuale, proprio un caso tipico, descritto su tutti i manuali di psichiatria”. E quella cretina della psicologa sta zitta e annuisce. Annuisce sempre, sembrano due froce, oh, scusi dottore non si dice.

 

Finge di essere dispiaciuta, pensa l’educatore:

-Non fa niente.

-“La dottoressa ha ragione, proprio un caso da manuale” – e annuisce, la psicologa. Con quei boccoli color lombrico. Annuiscono anche gli infermieri. È tutto un coro, io sono il caso da manuale, la paranoica, perché dico che complottano contro di me. Ma loro complottano contro di me. Come si chiamano quelli che complottano contro qualcuno? Perché non hanno un nome? Me lo dice lei come si chiamano. O non ce l’avete una parola per quelli? Secondo me si chiamano dottori.

-Cospiratori?

 

In quel momento rientra Sandra, che non crede ai suoi occhi vedendo la possibilità di attaccare l’educatore per la seconda volta in così poco tempo:

-No, dottore, mi dispiace per lei ma non è informato. Cospiratori sono quelli che complottano contro il potere, non quelli che hanno il potere e complottano contro chi non ce l’ha. Isabella ha ragione e la psichiatria è un muro di gomma. Anche tu sei un mattoncino di gomma, sai, dottore?

-Che cosa succede oggi, tutti in rivolta? Vi siete messi d’accordo per distruggermi? – spara l’educatore, subito pentito d’avere perso il tono professionale.

-Dottore, non starà diventando paranoico? Vuole che le facciamo una diagnosi? – insiste Sandra.

-Lei è un caso da manuale, ironizza Isabella.

-Sì, sì, proprio un caso da manuale, dice Sandra stando prontamente al gioco.

-Per oggi interrompiamo e andiamo a prenderci un caffé, si affretta l’educatore, che vede in quella soluzione un modo di uscire dall’imbarazzo, anche se sa che il gruppo nota, registra e non demorde.

-Evviva, grida Sandra all’indirizzo degli altri che stanno rientrando dalla pausa sigaretta, il dottore ha deciso che oggi è festa. Dov’è Saverio?

-È andato via.

 

È festa, sì. Oggi. Oggi è festa, si ripete l’educatore mentre vanno al bar. È offeso soprattutto con se stesso per non aver saputo replicare al sabotaggio collettivo. Da quando, mesi prima, ha commesso l’errore di dire che si trasferiva non ha avuto più pace. Poi ha corretto l’annuncio, accettando di restare ancora un anno fino a dicembre. Adesso era maggio, e pensava di potere ancora vivere momenti di lavoro sereno, ma non aveva fatto i conti con l’ansia del gruppo. In una volta sola aveva distrutto l’atmosfera collaborativa costruita in anni di lavoro. Era maggio, ma lui si sentiva in pieno inverno. Si promise di recuperare il terreno perduto, o quanto meno di dare ancora qualcosa a ciascuno dei suoi “folletti” e lasciar loro in eredità un Centro attivo e pienamente operante. Non volendo regalare altri argomenti al pessimismo di quel giorno, cercò di scacciare il pensiero che non ai pazienti lo avrebbe lasciato, ma a un collega famelico di incarichi e di potere. Stava consegnando quelle simpatiche pianticelle di gramigna ai diserbanti.

 

 

 

Overbooking: Sandro Abruzzese

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La mezza padana

di

Francesco Forlani

żża s. f. [femm. sostantivato di mèzzo1]. –

1. Preceduto dall’articolo, la mezza, la mezz’ora dopo l’ora già indicata: se alle nove non sono ancora arrivato, aspettami fino alla m.; da solo, la m., indica sempre la mezz’ora dopo le dodici, cioè mezzogiorno e trenta minuti: pranziamo alla m. in punto; si fa una pausa del lavoro dalla m. alle due (pomeridiane); o anche la mezzanotte e mezzo, cioè le ore zero e trenta minuti: sono rientrato in casa che era quasi la m.; il film è durato fino alla mezza.

2. Nel linguaggio marin., ellissi usuale di mezza forza, soprattutto come ordine riferito alle andature dei motori sia nel moto in avanti sia in quello indietro, per indicare che le motrici devono sviluppare una potenza (e quindi imprimere una corrispondente velocità alla nave) pari a circa la metà di quella massima: avanti mezza!, indietro mezza! qui

I libri, come ho sempre scritto e pensato, hanno in comune con le gare d’atletica, delle corse, essenzialmente due cose: la durata, da intendersi  qui nel doppio senso, spaziale della lunghezza e temporale della velocità e il respiro. Un buon libro, in genere è quello che riesce a far corrispondere al passo il ritmo che lo “scorrimento” della storia e delle pagine che l’autore ha voluto imprimere. Non credo che il contenuto di un’opera non c’entri nulla con la scelta formale, atletica dell’autore, anzi, sono convinto che il successo di un libro, la sua piacevolezza, dipende proprio dall’adesione dell’uno all’altra ed è generalmente in questa coerenza che il lettore ne ritrova oltre che la natura proprio la sua intrinseca necessità.  Quando ho letto Mezzogiorno padano ( Manifesto Libri)  di Sandro Abruzzese, l’immagine che mi è venuta in mente è stata quella della corsa campestre; allora ho tentato di ricordare quale illustre precedente esistesse nella nostra letteratura – come per lo sport è importante stabilire una genealogia del talento- a cui questo libro prezioso potesse per tradizione appartenere.

L’autore che mi è venuto in mente è stato Giuseppe Pontiggia e il suo magnifico, Vite di uomini non illustri. Dunque non tanto la Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters cui peraltro si è fatto riferimento nelle letture di Mezzogiorno padano, ma proprio la galleria delle vite “minime” inventate – ma non per questo immaginarie – da Pontiggia. Perché, sempre per rimanere in ambito sportivo, diverso è il respiro, diversa la corsa e soprattutto la posta in gioco. 

Sandro Abruzzese costruisce il suo polittico con piglio da antropologo, dunque con l’attenzione alla memoria viva delle comunità, ai gesti, ai rituali ma soprattutto alle strategie che una cultura, in questo caso quella meridionale, mette in campo per affrontare il dolore. I ritratti  delle persone partite, emigrate dal Mezzogiorno, si susseguono a coppie; nel primo l’uno e in corsivo si racconta l’altro, la figlia alla madre, il cronista all’eroe del fait divers. Rispetto alle vite raccontate da Pontiggia in questo caso si tratta di storie vere, raccolte, ascoltate sul terreno della realtà e riscritte, dunque storie vere, ed è per questo che ho pensato alla corsa campestre, per l’accidentalità del percorso, rispetto alla mezza maratona, che pure ne condivide la distanza dei diecimila metri.

Quando da noi diciamo la mezza, significa un tempo non preciso da mezzogiorno all’una. Quando il da noi è da noi che si allontana, si abita in un luogo non preciso, dovunque esso sia, in qualsiasi nord si trovi. E al dolore della separazione si accompagna sempre un livello di sopportazione, per gradi adattabile ad ogni situazione. Pare che gran parte dei più forti corridori al mondo siano di una tribù specifica: i Kalenjin e che tale predisposizione sia correlata alla capacità di sopportare il dolore, al carattere formato dalla più tenera infanzia con terribili prove d’iniziazione. Forse è per questo che il Sud appare agli occhi degli altri insopportabile e che tale dolore si possa raccontare solo una volta che si sia andati via.

 

Aliano- Foto di Salvatore Di Vilio
Aliano- Foto di Salvatore Di Vilio

 

 

 

 

 

 

dal capitolo Un filo d’erba

(parte terza)

di

Sandro Abruzzese

 

La patria, in fondo, è un insieme

di fiumi che vanno verso il mare.

Luis Buñuel , L’angelo sterminatore

(…) Settembre. Sono al tavolo della mia scrivania, a Ferrara, nell’ennesima casa sconosciuta. Fra poco inizia la scuola. Sfoglio gli scritti di Antonio Gramsci sul Risorgimento e la Questione Meridionale. Me li hai regalati tu, quando venisti a conoscere il mio primogenito Stefano, appena nato.

«L’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto terri- toriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud […]».

Lette al cospetto di questa Italia, le sue parole tetre, lucido marmo di una lapide, crollano tra le zolle di un cam- posanto, negli alibi a cui ci ha abituato questa contraddittoria nazione. Testimoniano, le parole del sardo, il fallimento della costruzione dello Stato italiano. Senza andare oltre, prima o poi qualcuno sarà chiamato a rispondere almeno del presente, per delle generazioni a cui si è fatto credere che occorresse solo studiare per ottenere il futuro.

Oggi vorrei delle scuse ufficiali per tutti i ragazzi che hanno svolto il loro dovere, che hanno lavorato come gli era stato chiesto e adesso vagano in un relitto alla deriva che un giorno affonda e l’altro galleggia, in una palude senza via d’uscita.

L’Italia è un Paese infantile. È infantile quando si sottrae alle proprie colpe, bara, finge di cercare nell’uomo solo al potere la soluzione ai propri problemi. Usa le tv, i giornali per mentirsi, alimentare fiumi di sterile retorica democratica. Forse aspettiamo ancora che qualcuno ci liberi da noi stessi. Intanto la corrente continua, sotto gli sguardi attoniti o assuefatti scorre la fiumara del progresso, il destino riparte, stavolta con meno miseria materiale, verso un’altra moderna disfatta. A un Paese bambino, gli si vuole ugualmente bene.

Stretto tra gli ingranaggi di questa penuria morale, non riesco a contare, a distinguere il numero immenso dei devo- ti e degli untori, dei traditori, che sono i numerosi protagonisti di questa bieca malora. Mi consola che non c’è niente che sia per sempre, nemmeno questo.

Davvero basterebbe solo dimenarsi, scuotersi, per portare allo scoperto i nemici, e far emergere non il poco, ma il buono di ogni cosa. Invece ci allontaniamo proprio noi due, amico mio, che nemici certo non siamo della nostra terra.

Per conservare il buono di ogni cosa, sarà necessario accontentarsi del pane e della luce di qualsiasi luogo. In fondo, qualsiasi luogo è un piccolo miracolo a termine di questa volontà spalancata, puerile, detta esistenza.

Non ci rimane altro che osservarla dall’alto, la nostra patria: tutta la Penisola e questa Europa unita. Il Sud, la Campania fino al Garigliano. Già intravvedo, verso Formia, le isole Pontine. O, ancora, l’Argentario e l’isola d’Elba, sempre orfana, in attesa del suo Napoleone. Lasciamoci così, come al solito a Ventimiglia, però stando in alto, che quello che vedi arrivi da lontano, in qualche modo la distanza colmerà le assenze, rimarremo a riparo sotto la semplice ombra dolente del nostro filo d’erba, che ci ha avvolto le valigie e tolto la voce: memori e testimoni di un grande Paese sfilacciato, trincerato dentro la sua arnia di bellezza che nasconde un vezzo: i confini pieni di contraddizioni, la sua incompiutezza.

Le convitate di pietra. Surrogazione transnazionale e ventriloquio europeo

4

convitate

 

di Deborah Ardilli

Sarà l’Assemblea nazionale di Parigi a ospitare, il prossimo 2 febbraio, il primo convegno internazionale per l’abolizione universale della gestazione per altri. Il patrocinio offerto dalle massime istituzioni politiche francesi all’appuntamento organizzato dal CoRP (Collectif pour le Respect de la Personne), dalla CADAC (Coordination pour le Droit à l’Avortement et à la Contraception) e dalla CLF (Coordination Lesbienne en France) merita attenzione. La cooptazione al vertice della questione dello sfruttamento procreativo, recuperata nel quadro di un’alleanza salvifica tenuta assieme dalla liturgia della sollecitudine a favore dei diritti delle donne e dei bambini, solleva in effetti una serie di interrogativi importanti intorno ai corpi che contano in questa battaglia, come pure intorno a quelli che ne rimangono esclusi. Interrogativi di segno analogo coinvolgono, evidentemente, la composizione politica delle forze in campo. Tesaurizzando frammenti sparsi di discorsività femminista, il fronte proibizionista tende in effetti a raccomandarsi come un argine particolarmente solido al dilagare dell’alienazione mercantile dei corpi delle donne e ad accusare le non allineate — cui vengono indistintamente attribuite una visione grossolanamente ottimista della libertà di scelta, come pure una concezione euforica della convertibilità universale dei desideri in diritti — di collusione con il regime di mercificazione neoliberale. È una rappresentazione attendibile del dibattito in corso? Rispettosa delle conoscenze sulle aree più esposte del mercato transazionale della surrogazione che l’inchiesta etnografica ha accumulato nell’ultimo decennio? Interessata a venire a capo delle contraddizioni in campo o a consolidare identità periclitanti? La promozione del diritto penale a strumento principe della liberazione delle oppresse si presta a un bilancio pragmatico? Si concilia con le richieste delle dirette interessate? Configura modalità di azione compatibili con le pratiche e le elaborazioni maturate nel corso di decenni di riflessione femminista intorno al rapporto produzione/riproduzione? Per provare a rispondere, vale la pena cominciare con un passo indietro nel tempo.

***

Il 26 giugno 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo ammonisce le autorità francesi per avere rifiutato di trascrivere nel registro dello stato civile i certificati dei figli di cittadini francesi nati all’estero da gestazione surrogata, riscontrando una violazione del diritto dei minori al rispetto della vita privata e familiare. A poche settimane dalle sentenze Menesson e Labassée, orientate al riconoscimento delle conseguenze di una pratica procreativa formalmente vietata in Francia dal 1991, «Libération» pubblica una lettera aperta — primi firmatarî Jacques Delors e Lionel Jospin, seguiti a ruota da politici di diversi schieramenti parlamentari, accademici, rappresentanti delle professioni mediche e psichiatriche — indirizzata a François Hollande. Con quella petizione, un settore dell’opinione pubblica allarmato dalla breccia aperta dalle «sentenze gemelle», si attiva per richiamare il Presidente della Repubblica al dovere di non recedere dagli impegni già assunti contro ogni ipotesi di legalizzazione della gestazione per altri. Senonché, mobilitando il tema dei «diritti dei bambini» a fianco di quelli delle donne, l’appello sembra non avvedersi della contraddizione in cui cade, essendo precisamente il diritto al riconoscimento dei bambini già nati da gestazione surrogata a essere calpestato dalla linea della fermezza nazionale. Linea per altro successivamente ribadita dal primo ministro Manuel Valls, in un’intervista rilasciata «La Croix» a ridosso di una manifestazione promossa dei veilleurs francesi:

Il governo esclude totalmente di autorizzare la trascrizione automatica di atti stranieri, perché ciò equivarrebbe ad accettare e normalizzare la GPA. Aggiungo che è incoerente designare come genitori delle persone che hanno fatto ricorso a una tecnica chiaramente proibita semplicemente affermando che sono responsabili dell’educazione dei figli, cioè incaricati della trasmissione dei nostri diritti e dei nostri doveri.

E di seguito, a puntellare la promessa governativa di una grande iniziativa internazionale per la proibizione della gestazione per altri:

Credo che, in questi momenti di crisi di identità, la famiglia sia un punto di riferimento, un polo di stabilità. Essa si è evoluta, certo, e il nostro compito è di accompagnarla. Ma al tempo stesso la famiglia, la filiazione e l’interesse del bambino devono rimanere dei punti di riferimento fondamentali.

Di lì a poco è il quotidiano «Le Figaro» a offrire una tribuna a due membri particolarmente in vista dell’internazionale proibizionista, pubblicando un documento aperto da una cupa rievocazione dei lutti familiari provocati dalla Prima guerra mondiale. A firmarlo sono gli arcivescovi di Milano e di Vienna, Angelo Scola e Christian Schönborn, a giudizio dei quali la «stessa domanda sul valore della vita umana» si ripropone oggi in relazione alla gestazione per altri. Ma, beninteso, non mancano le ragioni per continuare a sperare in una risposta all’altezza della sfida:

Se ci si preoccupa della decisione recente della Corte europea dei diritti dell’uomo di istituire le filiazioni fittizie, bisogna salutare su tale questione la reazione tonica, creativa, giovane e continua della Francia. La Francia ha avuto il coraggio di dire no e lo stesso presidente si è impegnato contro la surrogazione di maternità. La Manif pour tous, oggi ben conosciuta in tutta Europa, aveva avvertito che cambiando la natura del matrimonio sarebbero venute altre rivendicazioni, che avrebbero snaturato l’adozione e che avrebbero organizzato la fabbricazione degli esseri umani.

L’occasione per esprimere sostegno al «movimento francese» è propizia agli arcivescovi anche per celebrare la riconciliazione della Chiesa romana con il lessico moderno dei diritti, coniugato con i requisiti genealogici fondativi dell’«umanità». Il dispositivo di protezione invocato contro la maternità surrogata configurerebbe infatti, secondo le gerarchie cattoliche, un «prolungamento logico della Dichiarazione dei diritti dell’uomo», necessaria a garantire «il diritto del bambino a conoscere le sue origini e a crescere per quanto possibile con padre e madre, escludendo tutte le forme di contratto, finanziario o no, che lo privano di uno dei due genitori».

Il passaggio è degno di nota. Con il riferimento ai «diritti umani», intesi quale attributo inalienabile della «persona», si entra nel campo delle rappresentazioni normative ritenute autoevidenti e, per questo motivo, capaci di cementare quello che la tradizione liberale definisce un «consenso per intersezione» intorno a minimi comuni denominatori di giustizia. La saldatura ideologica tra umanità e diritto ha, tuttavia, qualcosa di singolare. Di certo, la sistemazione dei diritti nel campo della religione civile più diffusamente evocata nelle società a capitalismo avanzato tradisce una caduta verticale di attenzione critica nei confronti di un dispositivo di soggettivazione di cui, proprio a ridosso della Dichiarazione universale del 1948, una testimone intempestiva — e non delle meno avvedute — diagnosticava impietosamente il fallimento. «La concezione dei diritti umani», scriveva Hannah Arendt nella seconda sezione dello studio sul totalitarismo,

è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere-uomo. E, date le condizioni politiche oggettive, è difficile dire come le idee di uomo su cui sono basati i diritti umani – e che lo vogliono creato a immagine di Dio (nella formula americana), o rappresentante dell’umanità, o portatore delle sacre esigenze della legge naturale (nella formula francese) – avrebbero potuto contribuire alla soluzione del problema.

Circostanza, questa, che induceva la pensatrice ebrea non già a rivalutare, ma a trovare amaramente confermata dai fatti la «solidità pragmatica» dell’argomentazione, riconducibile a Burke, secondo cui «è molto più saggio contare su un’eredità tradizionale di diritti trasmessi di padre in figlio come la vita e rivendicarli come i ‘diritti di un inglese’ anziché come gli inalienabili diritti dell’uomo». Formulata nel quadro di una precisa costellazione storica, caratterizzata dalla riconversione nazionalistica degli Stati europei e dalla messa in circuito di masse sempre più vaste di apolidi, la diagnosi arendtiana individua al centro del discorso dei diritti un’aporia che non ha perso pertinenza. Proprio nel momento in cui la «formula francese» dovrebbe farsi universalmente valere e includere la vita umana a prescindere da ogni altro attributo, si scopre che una vita non è mai abbastanza per poter aspirare al riconoscimento. Se una vita non basta, è perché i quadri socialmente egemoni del riconoscimento esigono una genealogia autenticata dal «contratto eterosessuale» che fonda il corpo della nazione: un principio che, secondo gli esponenti del fronte abolizionista, non può essere rimesso in questione né dalla Corte di Strasburgo né dal pronunciamento con cui, un anno dopo le «sentenze gemelle», la Corte di Cassazione francese ha disposto la validazione dell’iscrizione allo stato civile dei bambini nati all’estero da gestazione surrogata.

***

È il caso di domandarsi se le contraddizioni lasciate aperte dalla «formula francese», particolarmente aspre nei riguardi dei bambini, si sciolgano invece quando vengono in primo piano le donne. Secondo Sylviane Agacinski, intellettuale di area socialista e voce fra le più ascoltate all’interno del campo abolizionista, le ragioni per unirsi all’alleanza salvifica risplendono alla luce di un’evidenza che, sola, dovrebbe fare giustizia di ogni perplessità e persuadere gli esitanti a rompere gli indugi: «nulla è più banale di un uomo che acconsente al proprio asservimento, cioè al proprio degrado, sotto il dominio del bisogno o anche di un interesse finanziario. Questo è il motivo per cui il rispetto della dignità di ciascuno deve essere garantito dalla legge».

Preso alla lettera, l’argomento consegnato dalla filosofa francese a Corps en miettes si presterebbe altrettanto bene a motivare la richiesta di annullare tutti i contratti di lavoro sottoscritti in regime di produzione capitalistica, così come i contratti matrimoniali siglati in regime di produzione domestica, dal momento che in entrambi i casi una delle parti contraenti si assoggetta volontariamente a un rapporto coincidente — è tornata di recente a sottolinearlo con vigore Christine Delphy — con la «definizione stessa dello sfruttamento». Senonché, ostile a conclusioni fondate su premesse analitiche pericolosamente sovversive, ma pur sempre persuasa della centralità del diritto penale per «difendere la società», Agacinski si dispone a inibire un’interpretazione estesa del criterio aureo della dignità precisando che «la crisi che attraversa la nostra civiltà non deriva dall’esistenza di una sfera di mercato, con le sue leggi proprie, ma dall’estensione assoluta, senza resto, di una mentalità capitalista che si è impadronita degli spiriti e del mondo».

Ma come identificare il «resto», la norma di contenimento in grado di stabilire ciò che appartiene di diritto alla sfera di mercato e ciò che invece deve rimanerne escluso? Stando al ragionamento proposto dalla filosofa, operando sulla base di una scansione logica articolata in due momenti: presupporre la piena funzionalità di un circuito virtuoso della produzione e degli scambi da cui isolare, in seconda battuta, un complesso di attività catalogabili come usurarie, nell’accezione larga (sedimentata nel corso secoli di codificazone cristiana dei criteri di legittimazione economica degli appartententi alla comunità della salvezza, prima di essere variamente ripresa dalle critiche al capitalismo di segno conservatore) di intrinsecamente devianti, fonte di guadagni illeciti, in quanto praticate da soggetti delegittimati ad agire all’interno di un universo contrattuale cementato dalla fede comune in principi etici ed economici fatti coincidere con l’utilità collettiva.

Usuraria e deviante in radice è anzitutto, agli occhi di Agacinski, la possibilità stessa di ipotizzare, prima ancora che di remunerare, una qualsiasi impiegabilità del corpo riproduttivo e dunque anche solo di pensare a una sua iscrizione, quale che ne sia il segno, nel campo della dialettica sociale. Ecco perché, impostata su basi schiettamente commerciali o integrata a un’economia del dono, la gestazione per altri costituisce per Agacinski una pratica in ogni caso condannabile. La ragione addotta suona, più che come una difesa intransigente del principio di autodeterminazione femminile, come un colpo di spugna su decenni di riflessione, ad opera dei femminismi di orientamento materialista, intorno al significato economico del «lavoro d’amore» nelle sue differenti articolazioni. Secondo la filosofa, infatti, «la gravidanza non implica nessun lavoro»: per essere più precisi, essa «non è affatto un’attività», in quanto «la gestante lascia che si compia in lei un processo biologico». Conclusione obbligata: «la gestazione sfugge alle categorie che si applicano abitualmente ai beni materiali (avere o fare)».

Per effetto della riduzione del gestare all’ordine immoto dell’essere, Agacinski ottiene il risultato di incasellare la gravidanza all’interno di una descrizione carica di pretese immediatamente normative. Ma, sbattendo la porta in faccia a esperienze che non si accordano con la supposta norma naturale, rinuncia a una qualsisasi strumentazione idonea a misurarsi con le questioni sollevate dallo sviluppo di un’industria transnazionale della surrogazione. È appena il caso di sottolineare che il lamento agacinskiano sulla corruzione degli spiriti per effetto della venalità universale non spiega a quali condizioni si genera un’offerta di corpi femminili a basso costo da immettere nella filiera del «lavoro clinico», per usare la definizione recentemente proposta da Melissa Cooper e Catherine Waldby. Tanto meno chiarisce, sul versante di una domanda che non accenna a calare, il fitto intreccio che connette il ricorso alle opportunità biotecnologiche disponibili sul mercato al complesso culturale che orienta comportamenti sociali non solo accettati, ma caldamente raccomandati. In fondo è la stessa Agacinski, nella sua Politique des sexes, a farsi interprete fedele del messaggio eteronormativo proclamando che «se non si stabilisce alcun legame sociale, come il matrimonio o la filiazione, la differenza tra gli uomini e le donne non ha pressoché più senso e l’identità sessuale delle persone diventa a sua volta priva di grande importanza». Meraviglia davvero che, pur di sfuggire al destino di ungrievable life preconizzato dalla filosofa come meritata condanna per i reprobi, qualcuno prenda alla lettera l’ingiunzione parentale e, aggirando le legislazioni più restrittive, sfrutti ogni occasione possibile per non disattenderla? Val quanto dire, per usare una formula efficace di Arjun Appadurai, che «il flusso delle merci è un instabile compromesso tra sentieri socialmente regolati e deviazioni ispirate dalla competizione». La candidatura di un bene a merce non emerge come reazione meccanica alla disponibilità di denaro per acquistarlo, ma si definisce in funzione di registri normativi pre-esistenti, in questo caso registri normativi che associano la legittimazione della parentela alla formazione di strutture riconoscibilmente familiari, e tali da valorizzare la presenza di legami genetici tra genitori e figli: gli stessi che Agacinski non è disponibile a mettere in discussione, salvo nel caso in cui siano coppie lesbiche o coppie gay ad avanzare la richiesta di occupare posizioni parentali.

Aggirando tali questioni, Madame Jospin riesce nell’obiettivo che sembra starle veramente a cuore: livellare le dialettiche sociali (di genere, di classe, di ‘razza’) che interessano la pratica della surrogazione, per estrarne una potente icona di banalità da restituire — a titolo di archetipo negativo — alla coscienza turbata in cerca di una norma di contenimento in grado di fissare in una sistemazione prospettica il limite tra economia e cultura, tra produzione e riproduzione, tra legittimità e illegittimità delle scelte compiute da chi, per sopravvivere, deve vendersi. Poiché il livello estremo della banalità, per Agacinski, coincide con il «diventare una ‘operaia di bambini’ alla stessa maniera in cui altre sono chiamate ‘operaie del sesso’», è chiaro che la condanna morale di una pratica si risolve tutta intera nello stigma gettato su uno dei soggetti che vi partecipano. Le parole non sono innocenti, meno che mai se usate con l’ambizione di sistematizzare in termini teorici, ancorché facilmente divulgabili, le ragioni di una battaglia politica. E dal momento che, dopo Arendt, è impossibile evitare di collegare l’aggettivo «banale» a un’atrofia della capacità di giudizio dai risvolti atroci, vale la pena esplorare più da vicino le implicazioni di tale associazione.

***

Senza classe, senza storia, senza nome, la surrogata si presenta agli occhi della militante abolizionista anzitutto come un esempio eclatante di abiezione da servitù volontaria. Ma poiché, come si è visto, non tutti i casi catalogabili alla voce «servitù volontaria» documentano uno stato di minorità tale da sollecitare un’interdizione giuridica, occorre specificare una circostanza aggravante che isoli la surrogata dalla collettività dei partecipanti ai giochi di mercato e metta in rilievo la flagrante devianza comportamentale che scaturisce da una valutazione economica errata. Tale circostanza è definita, per Agacinski, prima ancora che dalla mercificazione del corpo in quanto tale, dalla rinuncia della surrogata ai diritti sul bambino: «l’autorità parentale non è un bene che si possa cedere». E ancora: «una gravidanza non può essere alienata, vale a dire ‘donata’ o ‘venduta’, senza alienare la persona stessa». Che pensare, allora, di quante vi si prestano? A maggior ragione, che cosa pensare di chi ammette senza riserve di farlo per denaro? Come resistere alla tentazione di diagnosticare una irrimediabile patologia del giudizio e di ipotizzare una banalità dovuta all’incapacità di intendere la differenza infinita tra prezzo e Valore, all’abbaglio che scambia l’utilità immediatamente tangibile con quella di lungo periodo? Vendere per una somma risibile il Figlio, il bene «infinitamente desiderabile», «la via che ci fa scavalcare l’esistenza per vedere più lontano», il «ricominciamento», lo «sguardo nuovo»: che mediocrità, che povertà di spirito. Come Giuda.

È possibile avanzare, per questa retorica del disprezzo che sfuma impercettibilmente nel discorso della salvezza, una spiegazione puramente psicologica? Evidentemente no. Le risonanze religiose di cui Agacinski, da laica, carica il significato della filiazione trovano una contropartita perfettamente speculare nell’immagine sottesa alla rappresentazione della surrogata. Non è sorprendente, né dovuto a contingenze dell’ultima ora, il fatto che la battaglia abolizionista incontri il favore della Chiesa di Roma: il punto di intersezione essendo costituito non soltanto da una visione comune del materno e del suo ruolo fondativo, ma anche dalla possibilità di codificare — tramite un paradigma di malafede facilmente iterabile — la defezione dalla norma che sancisce l’inaffidabilità sociale delle subalterne come un’azione economica aberrante in cui si manifesta la faccia triviale e quotidiana dell’incapacità di comprendere la verità.

La cancellazione delle surrogate dal rango dei discorsi problematici e la loro riduzione a figura retorica idonea a sintetizzare la forma di un autospossessamento perverso sono tanto più vistose e singolari nell’ambito di una civiltà che ha fatto del mercato uno specchio della socialità, associando la rispettabilità delle persone alla loro capacità di effettuare scelte economiche riconosciute come sensate. Invalidare come «banali» quelle compiute dalle surrogate, specie se in contesti caratterizzati dalla carenza di opzioni alternative, equivale non solo a mettere tra pudiche parentesi le circostanze oggettive della scelta, ma pure a respingere nell’ombra il giudizio che si esprime tramite un comportamento.

Si pensi soltanto alle ricerche effettuate in India, uno dei poli in crescita dell’industria transnazionale della surrogazione, interessante per più aspetti, non ultima l’impossibilità di scindere il tema dello sfruttamento riproduttivo da quello della riorganizzazione globale dei mercati del lavoro. Produzione e riproduzione si intrecciano qui in maniera inestricabile, ed è questa intersezione a plasmare tanto il regime disciplinare del biolavoro riproduttivo, quanto le strategie di negoziazione messe in atto dalle donne nei giochi economici minuti dell’esistenza quotidiana. Dall’inchiesta svolta nel 2011 da Sharmila Rudrappa tra le surrogate indiane di Bangalore risulta, per esempio, che «l’industria della riproduzione offre a donne come Indirani», un’operaia di trent’anni con famiglia carico, «la possibilità di estrarre un valore maggiore dai loro corpi una volta che sono state giudicate lavoratrici improduttive dall’industria tessile. Per via del suo carattere affermativo di vita, Indirani e la altre vedono la surrogazione, per quanto caratterizzata dallo sfruttamento, come un’opzione più creativa e significativa del lavoro in fabbrica». Si possono affiancare testimonianze come queste a quelle raccolte da Amrita Pande e Varada Madge nel Gujarat. Sottrarsi alle condizioni infernali del lavoro di fabbrica, aggravato dalle cure familiari; far fronte a una situazione debitoria senza ricorrere alla famiglia; garantirsi un livello di stabilità finanziaria necessario a ottenere la custodia di un figlio in caso di separazione; far fronte a spese mediche impreviste; integrare un reddito familiare insufficiente a coprire le spese per la scolarizzazione dei figli; tentare di volgere a proprio vantaggio una fertilità che, nel contesto postcoloniale indiano, caratterizzato da politiche antanataliste orientate a colpire le fasce sociali più basse e dove la sterilizzazione resta il metodo contraccettivo più popolare, è sempre stata stigmatizzata come causa di povertà: sono queste le «banalità» che, contrariamente a quanto crede l’impeto moralizzatore abolizionista che nulla ha da eccepire alle condizioni «ordinarie» dello sfruttamento produttivo e riproduttivo, rendono significativi i comportamenti delle surrogate. È precisamente con queste «banalità» che occorre tornare a misurarsi per cogliere i livelli reali della dominazione fronteggiati dalle donne reclutate dall’industria della surrogazione: per rendersi conto, per esempio, che non è l’alterazione biotecnologica della funzione materna, ma la sua «naturalizzazione» ad abbassare il valore della forza-lavoro di questi soggetti e a rendere complessivamente fragile la loro posizione contrattuale; che è la tendenza a dipingerle come vittime bisognose in attesa di salvezza, non l’attenzione ai livelli di soggettivazione, a puntellare la mentalità neocoloniale e a legittimare l’idea che ricorrere a una surrogata del sud globale equivalga a finanziare meritoriamente una causa umanitaria; che non è l’accettazione, bensì la stigmatizzazione sociale del lavoro riproduttivo remunerato a permettere alle istanze intermediarie (reclutatori, medici) di sorvegliarlo e disciplinarlo, finalizzandolo alle esigenze soverchianti della clientela occidentale; che non è dalle campagne proibizioniste internazionali che queste donne si aspettano la salvezza, ma da un maggiore controllo sulle condizioni del proprio lavoro e della propria vita.

Riferimenti

Agacinski, Sylviane

1998 Politique des sexes, Seuil, Paris; trad. it. La politica dei sessi, Ponte delle Grazie, Milano 1998.

2013 Corps en miettes, Flammarion, Paris (prima ed. 2009).

Appadurai, Arjun

2013 The Future as Cultural Fact. Essays on Global Condition, Verso, London-New York; trad. it. Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina, Milano 2014.

Arendt, Hannah

1951 The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace and Co., New York; trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999.

Bacchetta, Paola; Fantone, Laura (a cura di)

2015 Femmminismi queer postcoloniali. Critiche transnazionali all’omofobia, all’islamofobia e all’omonazionalismo, ombre corte, Verona.

Cooper, Melissa; Waldby, Catherine

2014 Clinical Labor. Tissue Donors and Research Subjects in the Global Bioeconomy, Duke University Press, Durham; trad. it. Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi, Roma 2015.

Dasgupta, Sayantani; Das Dasgupta, Shamita (a cura di)

2014 Globalization and Transnational Surrogacy in India, Lexington Books, Lanham.

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2014 Wombs in Labor. Transnational Commercial Surrogacy in India, Columbia University Press, New York.

Rudrappa, Sharmila

2015 Discounted Life. The Price of Global Surrogacy in India, New York University Press, New York-London.

SAMA GROUP – Resource Group for Women and Health

2012 Birthing a Market. A Study on Commercial Surrogacy, Impulsive Creations, New Delhi.

Todeschini, Giacomo

2011 Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’epoca moderna, il Mulino, Bologna.

GPA: Monsieur le président de la République…, «Libération», 14.07.2014, www.liberation.fr

Manuel Valls: «La France entend promovoir une initiative internationale sur la GPA», «La Croix», 2.10.2014, <www.la-croix.com>

Les évêques européens s’opposent à la gestation pour autrui, «La Croix», 24.02.2015 www.la-croix.com.

Istanbul Pamuk

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stranezza-che-ho-testa-trama-pamukdi Francesca Fiorletta

Quando si legge un libro, bisogna farlo in silenzio.

Solitamente, quando leggo un libro, parto dall’analisi delle sue singole componenti, il linguaggio, lo stile, l’andamento ritmico, le suggestioni, poi al limite anche la trama, i personaggi, l’atmosfera, la tenuta finale; cerco di indagarlo per bene nel suo complesso, per arrivare a calibrare al meglio l’impressione che resta, quando, una volta girata l’ultima pagina, lo lascio lì a riposare sul comodino per qualche giorno, settimana, anno.
Alla fine, solo alla fine, trascorso il tempo necessario alla sedimentazione, mi azzardo a formulare un piccolo “giudizio”, capisco cioè se il libro mi è piaciuto o meno, mi spingo addirittura a dire se è bello.

Humus

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di Bianca Bonavita

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Io non ho nessuna storia da raccontare, non avrò mai nessuna storia da raccontare. Perché non so raccontare né tantomeno inventare storie. La maggior parte delle storie non sono necessarie ed io riesco a scrivere soltanto ciò che ritengo necessario.

Difendiamo Esc, difendiamo la città comune e solidale! #EscNonSiTocca

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di Esc Atelier

In poche ore, centinaia di firme a sostegno di ESC e delle esperienze romane di autogestione e mutualismo. Esponenti del mondo universitario, della cultura, della politica, del sindacato e dell’arte hanno inviato la loro solidarietà da tutto il mondo. Firma l’appello a questo link.

Apprendiamo con sgomento che una Determinazione dirigenziale del Comune di Roma dispone lo sgombero dell’atelier autogestito Esc. Apprendiamo poi che tale provvedimento si sta abbattendo contro decine di centri sociali e associazioni culturali. Tutto questo è un errore, molto grave, che colpisce nel profondo le virtù ancora intatte di una città, Roma, che da sempre si distingue per la diffusione senza pari dell’autogestione, del mutualismo, della produzione culturale indipendente.

Il saltozoppo: uomini e donne tra l’Aspromonte e la Cina

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di Domenico Talia

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La prima pagina inizia narrando di due uomini, Alfonso e Silvestro, nemici fino alla morte e l’ultima pagina finisce raccontando di altri due Alfonso e Silvestro. Stessi nomi ma uomini diversi dai primi e soprattutto uomini con un diverso destino. I primi Alfonso e Silvestro sono nemici acerrimi, fino al midollo, mentre quelli che terminano il romanzo, sono due fratelli nati dal grembo di tutte le donne delle famiglie Therrime e Dominici. Tra le vicende di queste due coppie di uomini c’è tutta la storia di due popoli, di due famiglie e di due persone che nascono nemici e sembrano destinati a morire tali, fino a che qualcuno «con il miele e con la spada» non riesce a cambiare il corso delle cose, le loro vite e le vite delle generazioni future.

La misura dello zero (Bruno Galluccio, Einaudi 2015) – La nostra Albedo

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di Claudia Iandolo

La raccolta ha la struttura di un poema articolato in cinque sezioni: Misure, Sfondi, Matematici, Transizioni, Curvature. L’opera, dunque, si riallaccia al genere antichissimo delle Teogonie/Cosmogonie ( Esiodo e ancora prima al poema babilonese Enuma Elish), senza dimenticare i Περί Φύσεως dei filosofi presocratici, i cosiddetti fisici. La Misura dello zero è un’opera unitaria con la quale Galluccio recupera la sintesi tra poesia e scienza, intesa quest’ultima nella sua più vasta accezione di conoscenza, posto che non è possibile discutere della natura dell’uomo e del suo destino se non si discute della natura delle cose (ovvio il riferimento all’unico trattato di questo tipo pervenutoci in lingua latina, il De rerum natura di Lucrezio Caro). Il libro è accattivante fin da titolo, qual è, infatti, la misura dello zero? La parola deriva dal latino zephirum che adatta l’arabo sfr cioè nulla, a sua volta derivato dal sanscrito śūnyá cioè vuoto. Come si possono misurare il nulla e il vuoto? Sembra un gioco di parole, ma è invece una sfida di carattere scientifico, lo zero coincide con il punto zero: lo stato di vuoto o di energia zero è uguale all’energia potenziale del vuoto che non è un vuoto assoluto ma un pieno totale. Esattamente lo stesso concetto di Chaos greco da cui tutto nasce. Anche la differenza tra lo zero in matematica e lo zero in fisica è solo apparente perché in entrambe le discipline la sua scoperta ha aperto all’umanità possibilità insperate: “Contro gli eccessi dei luoghi aperti/ che portano strade di troppe cifre/ si leva l’invenzione dello zero/ sul vuoto finestra quasi ellittica/occasione del niente/ quantità e pura meraviglia/ si pone fermo ad impedire/ ogni tentativo di moltiplicazione/ varco di sbarramento ai naturali/ simbolo da eresia/ pone un numero al vuoto/ una misura”.
Misura è come detto, anche il titolo della prima sezione che si apre con un riferimento al matematico russo Lobacevskij fondatore di una geometria non Euclidea. La misurazione tradizionale, se per misurare intendiamo capire la realtà accertandone razionalmente i limiti, non basta più. Non basta, ad esempio, a circoscrivere il vuoto, che in termini psicologici l’autore definisce come abbandono “oggi sappiamo che il vuoto non esiste”. Ovunque esiste una materia fluttuante in termini di quanti. Né a definire la morte “ La morte non è che ricongiungersi all’infinito”, scrive ancora Galluccio a pagina sette. Ma proprio quando tutto sembra perduto ed ogni verità affidata ad una sorta di navigazione a vista, la specie umana, che dal barocco in poi vive l’angoscia derivante dalla fine dell’antropocentrismo e del geocentrismo, ritrova una centralità (e forse un senso) inaspettati “quando la specie umana sarà estinta/ quell’insieme di sapere accumulato/in voli e smarrimenti/ sarà disperso/ e l’universo non potrà sapere/ di essersi riassunto per un periodo limitato/in una sua minima frazione.” A mano a mano che si procede nella lettura si capisce che la misurazione è innanzitutto un atto di esplorazione del mondo e dunque del sé in relazione con esso. Un atto tradotto sempre e comunque in un alfabeto simbolico, quello del mito prima, della matematica e della fisica poi. Ma fare calcolo, indagare è un processo anch’esso esponenziale, che non avrà mai fine perché ogni volta l’uomo si troverà di fronte “alla dignità dell’incognita”. La poesia che chiude la sezione rimanda per certi aspetti visionari a Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Dinanzi al mistero dell’universo, della materia e dell’antimateria, di tutto quanto non è possibile cogliere ad occhio nudo, rimane la meraviglia “Così tanta parte dell’esistente si sottrae/ mentre nutre la nostra meraviglia”. La seconda sezione, Sfondi, affronta il tema del tempo e della materia, due argomenti strettamente correlati. Nulla, infatti, più della corrosione materiale denuncia il passare del tempo. Il pensiero occidentale, da Platone in poi, ha proposto il modello di un mondo fisico e corruttibile in antitesi alla morte. Ma oggi sappiamo che è proprio la materia ad essere indistruttibile nonché intelligente: “ poi liberi affrancati/ sottratti a collaborazione ancestrale/ all’obbiettivo sottile si lasceranno/ dimessi migreranno verso altri agglomerati/ oppure tentati come in principio al caos/non più cellule messaggi in DNA cifrati soltanto/ idrogeni ossigeni carbonii.”. La precarietà della vita umana, la sua fragilità consistono nel fatto che il tempo è un eterno presente come si legge a pagina ventinove. Gli sfondi del titolo rimandano, ancora una volta, ad una molteplicità di accezioni: sfondo è ciò che in architettura è pensato per essere riempito, ma sfondo è anche ciò che si percepisce più in lontananza, che appare sfocato. Sfondo è ciò che caratterizza la struttura narrativa di un film, di una recita, di un romanzo. Tutto ciò che tiene in piedi una trama altrimenti destinata a sfaldarsi: “… il filo del racconto diventa un cesello/ per collegare le persone trattenerle/ tenere insieme il tempo”. Lo sfondo è forse ciò che l’occhio umano crea chiamandolo realtà. La terza sezione, Matematici, è dedicata a tre grandi visionari, Pitagora, Galois e Gödel. Il grande filosofo greco è rappresentato mentre immagina la matematica come una lingua per decifrare il mondo: “ Dimostrare è possedere/ una parte di mondo dopo averla osservata/ condividere una regione del linguaggio”…)
Evariste Galois, morto a vent’anni in duello, è il prototipo del genio romantico, incompreso e ribelle, che vive fuori dal tempo, che riesce a vedere dove gli occhi degli altri non arrivano, che parla al futuro.
Kurt Gödel è il genio grazie al quale “indeterminato e indecidibile/ fanno irruzione nel mondo”.
Anche la quarta sezione affronta, a nostro parere, un topos della letteratura occidentale, quello della metamorfosi.
Trans- ire, infatti, significa passare da uno stato o condizione ad un altro, ma anche da un livello energetico ad un altro. Il concetto di natura ondulatoria della materia contiene in sé l’idea del probabilismo, dell’influenza del caso nei fenomeni materiali, di un Dio che, parafrasando una celebre dichiarazione di Einstein, gioca a dadi. La realtà appare in forme che si sottraggono di continuo al nostro tentativo di possederle. L’angoscia è riassunta in uno incipit di rara e straordinaria potenza espressiva “Il presente mi manca”, a pagina settantaquattro. Curvature, l’ultima sezione, rappresenta, senza dubbio, la parte più intimista dell’opera. Il tono si scioglie in un’angoscia trattenuta. Le liriche sono unite da un invisibile fil rouge che è costituito dall’uso del te. È come se il poeta si rivolgesse ad un altro sé o ad un altro da sé, che è possibile incontrare solo nelle curvature spazio-temporali che ogni giorno ci sorprendono, quelle della memoria. Il poeta segue e insegue una sorta di doppio guardandolo a distanza. Anche se il vuoto non esiste in termini fisici e matematici, l’orrore che l’idea di esso genera è evidente (l’horror vacui è ancora un tema topico della letteratura occidentale). La realtà, fatta di fermate all’autobus, di Montaliane coincidenze, si rivela inafferrabile, o “Incredibile e mai creduta”, come scrive il poeta genovese in Satura. Tutte le vite possibili si declinano in una sola, schiacciata dal e nel non senso della gravità, da leggi fisiche che non si superano. Tutto finisce nella frazione di luce che siamo capaci di riflettere. Albedo, la lirica finale, è costituita da quattro frammenti, perché solo alla frammentarietà del dettato è possibile affidare una qualche, seppur fragile, conclusione.
La misura dello zero è un’opera perfetta, nel senso etimologico del termine, un’opera pensata come un trattato filosofico e che come tale deve essere affrontata. La poesia di Galluccio rinnova il lessico e rompe con il “poetichese”, rilanciando il senso di una scrittura in grado di affrontare temi universali.

La «Garduña» e le mafie. Ogni origine ha un mito

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mafia

di Antonella Falco

La Garduña è una leggendaria società segreta di matrice criminale che avrebbe svolto la sua attività in Spagna e nelle colonie spagnole del Sudamerica in un arco di tempo compreso fra la metà del XV e il XIX secolo. Proprio alla Garduña è dedicato un interessante saggio di Marta Maddalon e John Trumper dal titolo La costruzione del racconto: la “vera” invenzione della Garduña, uscito sul numero 69 de La ricerca folclorica.

John Trumper, studioso di glottologia e linguistica generale, ha pubblicato numerosi saggi di fonetica e fonologia, dialettologia romanza e italiana, sociolinguistica e linguistica applicata. Si è inoltre occupato di etnolinguistica e linguistica storica, di fonetica giudiziaria e di gerghi di mestiere. Marta Maddalon è studiosa di linguistica e sociolinguistica. I suoi interessi di ricerca riguardanti la sociolinguistica, l’etnolinguistica e lo studio della lingua e dei suoi dialetti l’hanno portata a pubblicare testi sull’analisi degli usi linguistici nell’Italia contemporanea e saggi sul fenomeno della rivendicazione identitaria mediata dalla lingua come nel recente Ventimila leghe. Immersione negli usi linguistici dei movimenti politici dell’Italia contemporanea (Aracne, 2013). Maddalon e Trumper non sono nuovi agli studi sulla lingua delle organizzazioni mafiose, infatti nel 2014, insieme al magistrato Nicola Gratteri e allo storico delle organizzazioni criminali (nonché uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta a livello internazionale) Antonio Nicaso, hanno dato alle stampe il saggio Male lingue. Vecchi e nuovi codici delle mafie (Pellegrini Editore).

I due autori partono dalla constatazione che la storia della Garduña è presente «nelle leggende e nei canti popolari della Calabria» – constatazione suffragata da alcuni libri sia italiani che stranieri, anche molto recenti, quale ad esempio il volume Made Men di Antonio Nicaso e Marcel Danesi. Anche nel volume di Enzo Ciconte ‘Ndrangheta dall’unità ad oggi (del 1992, dunque meno recente dell’altro, uscito nel 2014) si fa riferimento ad una «nota associazione fondata a Toledo nel 1412, la Garduna» e ai cavalieri facenti parte di tale associazione, i quali «dalle loro terre, quelle della Catalogna, portarono nel Mezzogiorno d’Italia alcuni metodi in uso in quella consorteria. Si racconta che lavorarono per 29 anni, sottoterra, di nascosto da tutti, per approntare le regole sociali della nuova associazione che avevano in animo di costituire. La sede da loro prescelta fu l’isola della Favignana. Da lì, dopo un lavoro trentennale, decisero di dividere in tre tronconi l’associazione che, da quel momento, si insediò stabilmente nelle regioni meridionali, e si denominò mafia in Sicilia, camorra nel napoletano e ‘ndrangheta in Calabria. È un’antica leggenda, di cui non esistono molte tracce scritte, che si è tramandata oralmente…».

Si tratta per lo più di testi che descrivono dettagliatamente l’organizzazione della società (i livelli in cui si articolerebbe e i vari ruoli e denominazioni presenti al suo interno) e che oscillano tra la tentazione di dare consistenza realistica alla Garduña e l’ammissione del suo essere sostanzialmente una invenzione letteraria assunta però come mito di fondazione dalla mafia calabrese. Trattare il tema della Garduña e dimostrare la sua identità prettamente letteraria ha ovviamente comportato per gli autori del saggio uno studio attento della storia e della letteratura spagnola dal XV al XIX secolo.

In tutte le narrazioni sulla camorra fiorite dall’Ottocento in poi si fa riferimento molto spesso a un testo intitolato Misteri dell’Inquisizione ed altre società segrete di Spagna, per V. de Féréal, con note storiche ed una introduzione di Manuel de Cuendias e con estratti relativi a quest’opera di Edgardo Quinet. Prima versione italiana, Parigi, a spese dell’editore 1847. Sarebbe questa la traduzione italiana di un testo francese del 1845 poi tradotto anche in spagnolo. Questo testo sarebbe da considerarsi una «narrazione romanzesca», cosa tra l’altro espressamente dichiarata dagli autori, che a loro volta potrebbero celarsi dietro degli pseudonimi. Fra questi potrebbe trovarsi una nobildonna tedesca nota con il nome di Madame de Suberwick, la quale per scrivere il suo libro avrebbe viaggiato in Spagna travestita da uomo. Sempre a Madame de Suberwick sarebbe riconducibile un altro testo dal titolo tanto inquietante quanto satirico di Conseils de Satan aux Jésuites, la cui autrice è stavolta denominata Madame de Beelzebuth. Ma secondo gli studiosi spagnoli l’unico personaggio la cui reale esistenza sia storicamente provata è Cuendias, il quale avrebbe anche scritto un progetto di Costituzione progressista conservata nella Biblioteca Nazionale di Madrid. Sempre secondo gli studiosi cui Trumper e Maddalon fanno riferimento si tratterebbe comunque di personaggi – forse di un collettivo – accomunati da un atteggiamento strenuamente anticlericale.

«Quello che è ancora più certo» – scrivono Trumper e Maddalon – «è che rapporti diretti di derivazione, tra società segrete spagnole, vere o letterarie, e organizzazioni criminali storiche italiane non ve ne sono, affermazione che non nega o sottovaluta l’aspetto storico degli influssi dovuti al periodo del Viceregno nel Regno delle Due Sicilie. Vi è invece, come commentano da molto tempo gli storici che si sono occupati della storia dell’Inquisizione, la creazione di un Racconto intorno a questa istituzione, che va ben al di là della sua reale esistenza e del suo modo di operare. Ciò fece sì che nel XVI secolo, a fronte di una rivoluzione di tipo confessionale che viene assumendo una dimensione politica, l’Inquisizione, o meglio la sua immagine letteraria, divenne il simbolo del nemico della libertà politica, a rappresentare cioè i pericoli dell’innaturale alleanza tra il Trono e l’Altare».

L’Inquisizione viene così a incarnare un’entità reazionaria che si oppone al progresso e che «rappresenta l’eccessivo potere temporale della religione». Nel corso del XIX secolo essa diventa protagonista di numerose narrazioni romanzesche il cui scopo politico risulta ben evidente. Tale fenomeno interessa varie nazioni europee, tutte «accomunate da un contrasto politico che coinvolge spinte clericali e anticlericali».

La narrazione di un «perverso piano inquisitoriale» finisce per confluire anche nei codici ‘ndranghetisti: è quanto avviene nel cosiddetto Codice di Pellaro, un manoscritto sequestrato appunto nel territorio di Pellaro in data 22 marzo 1934 e intitolato Origine dei tre cavalieri di Spagna. In esso sono contenute le norme relative alla fondazione della Società di Malavita e quelle relative alla gerarchia che regola l’organizzazione degli affiliati. La parte iniziale di tale codice sembra essere molto simile a un romanzo di cappa e spada o di appendice. Ad ogni modo sembra fuori di dubbio che chi lo ha scritto abbia letto i Misteri. In questo tipo di racconti, inoltre, si evince sia in Spagna che in Francia la complessa organizzazione gerarchica delle associazioni criminali menzionate, di cui Maddalon e Trumper forniscono una dettagliata terminologia. Bisogna inoltre sottolineare come «le associazioni criminali protagoniste di questo filone letterario derivano, come nel caso spagnolo, da vicende reali».

Sebbene sia qualcosa di diverso, anche il banditismo, specie quello sociale, fornisce materiale per trasposizioni letterarie: «banditi e briganti sono molto radicati nella cultura popolare e celebrati in un filone musicale, talvolta di buon livello, che vede anche trasposizioni contemporanee».

Tra i rimandi letterari non si può tacere di quello relativo a Cervantes, chiamato in causa dagli autori (o dall’autore) dei Misteri, infatti «per dare spessore storico alla descrizione della Garduña, si ricorda che è precisamente in un delizioso racconto dell’autore del Don Chischiotte che si incontra Manipodio, il capo della società dei ladri di Siviglia».

Pertanto, i due autori del saggio si dicono convinti che «alla luce di questo rimando, la fonte di tale filone interpretativo per l’origine della camorra e per il Racconto dei Codici possa essere definitivamente identificata».

Tra gli autori ottocenteschi che sostengono la filiazione della criminalità del Meridione italiano dalle forme spagnole, Maddalon e Trumper citano Marc Monnier, Emanuele Mirabella e Abele De Blasio a cui aggiungono l’anonimo autore di un testo intitolato Natura e origine della misteriosa setta della camorra (nelle sue diverse sezioni e paranze, linguaggio convenzionale di essa usi e leggi). Uno dei capitoli è proprio incentrato sulla lingua e si intitola Lingua furfantina dei camorristi. È comunque interessante notare come tutti gli studi dell’epoca sull’argomento diano grande risalto agli aspetti linguistici. Degli altri autori citati il più noto risulta essere Monnier il quale è menzionato in molti testi sulle associazioni criminali meridionali, mentre, sempre basandoci sui testi, risulta completamente sconosciuto l’altro autore, Mirabella, il quale però «scrive l’opera più completa sul gergo criminale dei prigionieri e dei condannati al soggiorno obbligato». Mirabella inoltre ebbe modo di vivere per diversi anni a contatto dei prigionieri di Favignana in quanto medico della colonia penale.

Altro testo di una certa importanza risulta essere Usi e costumi dei camorristi di De Blasio, contenente «esempi di codici e dell’assetto dell’organizzazione camorristica» sia dentro che fuori dalle carceri, assetti che sono tra l’altro «perfettamente rispondenti a quelli ‘ndranghetisti».

Per quanto riguarda una filiazione diretta dalla Spagna, Monnier pur non trovando prove documentali sostiene che le «estorsioni» dei criminali meridionali erano già presenti fin dal tempo della dominazione spagnola. Sia pure in mancanza di «prove dirimenti» questi testi, come scrive Nappi nel suo saggio Il mito delle origini spagnole della camorra tra letteratura e storia, «accogliendo talvolta qualche variazione leggendaria sul tema delle origini ispaniche della camorra, chiameranno quasi sempre in causa la suddetta compagnia segreta variandone la dizione in Guarduña, Guarduna, Garduña o infine nel corretto Garduña».

Non ci sono dubbi circa il fatto che Monnier conosca i Misteri, libro che «fornisce lo spunto per i riferimenti, divenuti obbligatori, a Cervantes, e all’ormai inflazionata novella Rinconete y Cortadillo e a vari episodi del Don Chisciotte».

Anche De Blasio pur sostenendo di non occuparsi dell’etimologia della parola camorra fa notare come essa non sia che la Garduna «che fu introdotta in queste nostre provincie nell’epoca in cui il Regno di Napoli e Sicilia rimase soggetto […] allo scettro di Spagna e governato da Vicerè, che ridussero il popolo povero e servo».

Maddalon e Trumper ricordano come molti autori, antichi e moderni, citando Cervantes avvalorino la tesi secondo cui il noto scrittore spagnolo abbia, nel suo romanzo più famoso, descritto in modo quasi storico-antropologico una serie di comportamenti e di associazioni che dimostrerebbero l’esistenza di “sette” criminali, cosa appunto sostenuta nei Misteri. A proposito dell’episodio di Sancho governatore, ad esempio, si parla del “barato”, ossia l’usanza di pretendere il pizzo sul gioco. Sul termine “barato” si concentra il commento linguistico di Maddalon e Trumper presente nella seconda parte del saggio che stiamo esaminando. Prima di soffermarci su tale trattazione etnolinguistica è bene però ricordare, come fanno gli stessi autori, una altro passo di Cervantes utile ai fini dell’argomento affrontato. Si tratta di un episodio che si colloca nel XV capitolo ed è incentrato sull’incontro con il bandito Roque Guinart. Di costui parla in un suo commento Don Juan Antonio Pellicer, accademico della Reale Accademia di Storia, il quale coglie l’occasione «per parlare della presenza di bande di briganti che infestavano realmente la Sierra della Cabilla, in particolare una, denominata Beatos de Cabilla, i cui membri erano così chiamati in virtù del fatto che si limitavano a esigere solo una parte degli averi delle loro vittime, circoscrivendo quindi il danno e meritandosi per questo l’epiteto di “Beati”». È bene far notare che un certo Perot Rocaguinarda è esistito realmente, e aveva fama di bandito gentiluomo: su tale modello Cervantes avrebbe delineato il carattere del personaggio presente nel suo romanzo. Questa categoria di banditi che mescolavano crimini e azioni caritatevoli, religione ed empietà, era diffusa, a detta degli storici, in diversi paesi.

Agli occhi dei primi meridionalisti, quali Villari e Tranfaglia, la camorra – come anche la ‘ndrangheta e la mafia – assumerebbe il ruolo, contemporaneamente, di protettore e oppressore di una plebe povera e abbandonata a se stessa dal governo borbonico. Oltre a svolgere un ruolo “protettivo”, la camorra si farebbe anche «rappresentante dei loro interessi e della loro cultura», il che darebbe adito alla figura del bandito “buono” che incarnerebbe una forma di «giustizia alternativa». Secondo John Dickie, invece, la ‘ndrangheta sarebbe da intendere come una sorta di «filiale» della camorra di cui riprenderebbe il Racconto e la mitopoiesi. La sua origine sarebbe in tal caso spostata in un periodo più tardo, quello post-unitario e se ne rintraccerebbero con difficoltà «i precedenti storici e linguistici».

Maddalon e Trumper citano tra gli altri un saggio di Nicola Sales, pubblicato sulla rivista Limes nel novembre del 2014, un saggio che ha avuto ampia risonanza in quanto ha visto la partecipazione di Roberto Saviano. Ecco come Sales sintetizza la questione: «Dunque, tutte e tre le organizzazioni criminali nascono nello stesso periodo storico, all’inizio dell’Ottocento, a ridosso della fine del feudalesimo (nel 1860 a Napoli e nelle province continentali, nel 1812 in Sicilia), a imitazione delle associazioni politiche segrete in cui gli oppositori al regime assolutistico borbonico si erano organizzati. […] Le associazioni criminali, che poi chiameremo mafie, si organizzano sul modello politico delle sette segrete dei ceti aristocratici e borghesi».

Maddalon e Trumper, pur annotando le perplessità circa l’uso della parola “feudalesimo” nell’accezione utilizzata da Sales e sull’analisi politica da questi compiuta, si soffermano principalmente sull’attribuzione «di un ruolo primario all’influenza di sette segrete dei ceti aristocratici e borghesi», sostenendo che «la discussione sulla segretezza, in cui la lingua gioca una parte preponderante, non disgiunta dalla definizione di “setta”, spesso usata a sproposito, ha il demerito di allontanare da una corretta definizione dei fenomeni coinvolti, non ultimo quella del gergo».

Per quanto concerne i motivi per cui potrebbero trovarsi dei riscontri tra il Racconto dei codici ‘ndranghetisti (i cui primi esemplari risalgono, sia culturalmente che linguisticamente, alla permanenza nelle carceri oppure al soggiorno coatto) e gli antecedenti letterari, Maddalon e Trumper ricordano che sia i romanzi d’appendice, che quelli di cappa e spada, nonché gli strani testi di cui i due studiosi hanno dato conto nelle pagine iniziali del loro saggio, avevano una larga diffusione presso i ceti popolari e anche nelle carceri. Inoltre, i due linguisti fanno notare come sia prassi comune di molte società, non necessariamente vicine o collegate, trasfondere in ambito letterario, epico e/o musicale, le figure e le gesta dei banditi. Capita anzi, come nota Eric Hobsbawm nel suo Bandits, che le classi subalterne li eleggano a propri eroi. Il fatto poi che questi banditi riescano a coniugare la violenza con le spinte ribellistiche e l’atteggiamento solidale e soccorrevole nei confronti dei più deboli, concorrono a spiegare la creazione di una siffatta figura letteraria. Questi banditi inoltre facevano un largo uso di simboli religiosi ed erano molto superstiziosi. Tali comportamenti risultano diffusi su ampia scala, vale a dire si ritrovano in tutte le descrizioni della figura del bandito in qualsiasi Paese europeo, questo però non porta alla conclusione di un «rapporto diretto di derivazione nel caso della criminalità organizzata italiana» ma solo al fatto che esistono comportamenti pressoché universali di cui l’antropologia culturale fornisce ampio conto. Naturalmente il mito creatosi attorno ai briganti e ai banditi romantici serve a rafforzare l’aura di protettori della povera gente e difensori degli oppressi al punto da renderli protagonisti di racconti e di canti popolari. Questi fenomeni storicamente connotati si sono radicati nell’ambito della cultura popolare e poi sono passati nella letteratura “colta” già ai tempi di Cervantes. Quando si parla codici ‘ndranghetisti bisogna aver chiaro che essi sono una molteplicità di cose e vanno pertanto studiati con notevole rigore. Essi sono infatti, tra le altre cose, «una creazione letteraria, che attinge da fonti popolari ben radicate; sono l’invenzione di un Mito di fondazione, sono un modello per sancire un’appartenenza». Ma non sono solo questo. È bene ricordare che si tratta di «un’invenzione relativamente recente». Maddalon e Trumper riconoscono pertanto che «non è stato facile ricostruire la serie di incastri, di nomi e di nomi in codice (pseudonimi), degli scherzi e delle (mezze) verità; è stato come seguire le trame dei romanzi d’appendice, in cui ad ogni scoperta seguiva la sua negazione, ogni agnizione introduceva nuove scoperte, e così via puntata dopo puntata».

Nella seconda parte del loro saggio Maddalon e Trumper si soffermano innanzitutto sul fatto che indicare una data di nascita precisa, il 1427, per la Garduña – dalla quale poi sarebbero derivate la camorra napoletana e la ‘ndrangheta e i suoi codici – è cosa che lascia assai perplessi. Solitamente quando si parla della nascita di un fenomeno sociale si indica il periodo storico e non una data precisa, indicare quest’ultima implicherebbe infatti «un atto fondativo formale e registrato». Già questo avrebbe dovuto mettere in guardia i commentatori e portarli a diffidare del carattere “storico” del racconto, da intendersi piuttosto in maniera simbolica. Lo stesso discorso vale per la “Bella Società Riformata” – dove “riformata” significherebbe “confederata” – la quale, in base ad alcune fonti, sarebbe nata ufficialmente nel 1820. Luogo di nascita di questa «setta» sarebbe stato la chiesa napoletana di Santa Caterina a Formiello, dove gli esponenti della camorra dei dodici quartieri di Napoli stabilirono nell’ambito di una solenne cerimonia lo statuto della nuova associazione, stabilendo anche che il «capintesta» dovesse essere nativo del quartiere di Porta Capuana, cosa questa fatta ad imitazione delle usanze aristocratiche che per secoli avevano riservato la dignità di Presidente degli Eletti del Popolo (carica soppressa nell’aprile del 1800) al cosiddetto «Sedil Capuano». La Bella Società Riformata sarebbe stata sciolta il 25 maggio 1915, all’indomani dello scoppio della prima guerra mondiale, per volontà del capo camorrista Gaetano Del Giudice. Fu così che durante tutto il periodo fascista non si sentì più parlare di camorra: si continuò a delinquere ma senza avere alle spalle un’organizzazione.

Secondo Maddalon e Trumper l’idea di una associazione criminale organizzata come una setta o una società vera e propria, munita pertanto di statuto e cariche, risulta assai poco verosimile. Anche in questo caso viene da pensare a un Racconto creato a posteriori e poi tramandato.

Nelle opere letterarie e nelle cronache si trova notizia anche di un’altra organizzazione criminale nota come Germanìa: secondo Caro Baroja sarebbe esistita sia una Germanìa carceraria, «che era non solo un gergo ma anche un sistema», sia una Germanìa esterna alle carceri i cui metodi sarebbero stati gli stessi di quelli utilizzati per fondare la Garduña. Si trova un riferimento alla Germanìa anche nel Rinconete y Cortadillo di Cervantes.

Per quanto concerne l’ambito italiano i due studiosi precisano che il mondo carcerario pur non costituendo l’unica origine delle organizzazioni criminali, fornisce comunque ad esse alcune regole e caratteristiche, nonché una certa organizzazione e una certa simbologia.

Garduña

Da un punto di vista più strettamente linguistico “Garduña” è termine che ricorre anche in un toponimo: Sierra de Garduña. Nel senso attinente all’organizzazione criminale, la parola viene citata e glossata originariamente proprio dagli autori che ne parlano nei loro testi. Garduña è termine connesso con la parola “garda” e in ultima istanza, attraverso vari passaggi, il suo significato è riconducibile a termini quali “ladra” e “meretrice”. Il termine non sembra essere presente al di fuori dei già citati Misteri e nelle riprese degli autori italiani. Tuttavia esiste un’opera letteraria non tradotta in italiano e pertanto poco nota, che si intitola La Garduña de Sevilla y anzuelo de las bolsas ed è stata scritta da Alonso De Castillo Solórzano nel 1642. L’espressione “anzuelo de las bolsas” sarebbe da tradurre come “gancio delle borse” e sarebbe l’attrezzo usato da una borsaiola, infatti, come si è ricordato poc’anzi, “garduña” significherebbe “ladra”. Tuttavia la novella – ascrivibile al genere, assai praticato in ambito narrativo, della fanciulla che con abilità e astuzia riesce a volgere al meglio la propria sfortuna – non avrebbe nulla a che fare con la camorra.

Un altro termine sul quale si soffermano Trumper e Maddalon è “barattolo”. A questo proposito i due studiosi precisano che mentre «il lessico dei dialetti siciliani è permeato di ispanismi […] nel caso della Calabria, al contrario, i casi sono decisamente pochi, dai nostri studi più recenti non più di una cinquantina». Per quanto riguarda l’ambito napoletano sono annoverate 85-90 basi ispaniche assolutamente certe. Dunque « mentre il siciliano è ancora permeato di ispanismi» napoletano e calabrese lo sono assai meno. Il termine “barattolo” indicherebbe la cassa comune della malavita e corrisponderebbe al termine ‘ndranghetista “baciletta”. «Il barattolo è organizzato dal “contarulo”» il quale aveva il compito di tenere il registro e segnare l’ammontare del barattolo. Secondo i due studiosi piuttosto che concentrarsi sul concetto di “frode” e di “maltolto” sarebbe preferibile concentrarsi sul “barattolo” inteso come “contenitore”. Il termine ha la sua prima attestazione in siciliano nel 1750, in napoletano nel 1840, ma è presente nel toscano già dalla fine del ‘500. In Calabria comparirebbe nel 1895, sebbene la primissima attestazione, secondo il Glossario Latino Italiano di Pietro Sella risalirebbe al 1449 e in generale sarebbe «riconducibile al Centro-Sud Italia». Nell’Ottocento gli studiosi siciliani ritenevano il termine come un arabismo giunto a noi attraverso lo spagnolo rigettando l’origine nord-italiana proposta da Battisti e Devoto.

Altro termine su cui si soffermano Maddalon e Trumper è “barratteria”. In molti passi della sua opera Monnier ipotizzava che la barratteria napoletana fosse di origine spagnola. Mortillaro e De Ritis mettono in relazione il termine con il racconto dell’Isola di Baratteria DI Sancho Pança in Cervantes, passo che anche Monnier cita e che è commentato da Nappi. Quella che viene ipotizzata è una deriva semantica che da “traffico commerciale” e ”cambio” conduce a “frode”. In Calabria il verbo “barattare” risulta attestato dal 1466 ma non il derivato sostantivo “barattaria”. In italiano il DEI attesta “baratteria” nel Trecento nell’uso dantesco di “frode da barattiere”, mentre la Tabula Amalfitana lo attesta nei secoli ‘300-‘400 nel significato di «frode a danno dei proprietari di nave o degli armatori, e nel Settecento la si ritrova nel senso di ‘rivendita’ o ‘rivenderia’ di cose scambiate con o senza frode a più basso prezzo». In Francia la voce “baraterie” risulta attestata già nel primo Trecento ma sembra che la primogenitura del termine spetti alla Provenza. L’accezione negativa di questa parole potrebbe, nel Meridione d’Italia e segnatamente in Calabria e Sicilia, dipendere da «un’influenza formale e semantica del bizantino». A proposito di questo termine Maddalon e Trumper giungono quindi alla seguente conclusione: «Più che un’origine spagnola, pensiamo, dunque, a un antico provenzalismo con sviluppi semantici particolari avvenuti nell’Italia meridionale».

L’ultimo termine su cui si sofferma l’indagine dei due studiosi è “frieno” da loro definito come «uno dei misteri ancora non completamente svelati nel lessico criminale». «La forma, ancor più del significato e dell’origine, resta problematica; il dittongo – ie – non corrisponde a nessun esito usuale o previsto. La voce non ricorre in Monnier ma è attestata almeno otto volte nell’opera di De Blasio, con il significato di ‘regola’ (singola) o ‘regolamento’; ‘statuto’ (insieme di regole) della società criminale organizzata, denominata poi Camorra». I dizionari siciliani e calabresi dell’Ottocento danno al termine “camorra” il significato di “cavezza”, “briglia” in riferimento agli equini oppure quello di “morso” e “freno del carro”, mentre i dizionari dialettali napoletani sia del Settecento che dell’Ottocento sembrano non avere questo lemma e registrano solo un generico “frino” per “freno”. Secondo Trumper e Maddalon la “camarra” attestata nell’estremo meridione d’Italia sarebbe da confrontare con il termine castigliano “gamarra” che significa “sottopancia di equino”, “cavezza”. Il “freno” inteso come singola regola o come regolamento e statuto sarebbe attestato solo in fonti circoscritte all’Ottocento e riguardanti Napoli e la camorra, «mentre nel Medio Evo vi sono fonti provenzali e catalane che danno estensioni semantiche di simile natura: ‘freno naturale’, ‘il regolamentarsi’ […] Supporre una qualunque origine tanto remota e varia è piuttosto inutile, per cui, il mistero permane».

Per quanto concerne la “Germanìa”, essa è probabilmente l’unica organizzazione spagnola, sia carceraria che esterna, ad aver avuto un’esistenza reale e non solo letteraria. Essa è da intendersi come «un fenomeno autenticamente spagnolo, che ha origine tra Quattro e Cinquecento». Dal punto di vista terminologico potrebbe trattarsi di un catalanismo con il significato di “confraternita” risalente al tardo Quattrocento e indicante gruppi rivoluzionari di Nobili Catalani di Valenzia, tuttavia, concludono i due autori del saggio «Questo nome non ha mai avuto diffusione fuori della penisola iberica e dei paesi di lingua spagnola».

Non vorrei essere nei suoi panni

3

blowup(A gentile richiesta, continuano gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Spassoso e imperdibile l’incontro di questa settimana. G.B.)

di Alberto Tonti

Alla Facoltà di Architettura, dove sono iscritto da tre anni, già si sente odore di ‘68. Ho deciso con convinzione da che parte stare e, nel frattempo, giusto per tirar su due lire in più rispetto al vaglia mensile che arriva da mio padre, sono sempre alla ricerca di qualche lavoretto.

Poi, improvvisamente, arriva la svolta: vengo tirato dentro una fantastica avventura editoriale da una coppia davvero eccentrica.

Lei è Donatella Foresio, fa la giornalista per la Rizzoli. E’ alta, magra, molto bella, molto chic, fuma una sigaretta dopo l’altra, ha una voce bassa, roca, sensuale. Lui è John Cowan, affascinante e geniale fotografo inglese. Ha fatto fortuna lavorando soprattutto per Vogue, ha prestato a Michelangelo Antonioni il suo studio per girare Blow Up, beve di tutto e in continuazione tanto che il suo assistente lo segue ovunque con un carrello sovraccarico di attrezzi per fotografare e per lo meno un paio di cassette di birre.

Si sono innamorati non so quando, né come, e hanno deciso di fondare a Milano un mensile speciale (che sa Dio perché hanno chiamato SENTA) fatto di foto rigorosamente in bianco e nero e di articoli molto sofisticati. Le foto arrivano gratis dagli amici di John, fra i quali un simpatico ragazzone che si chiama Oliviero Toscani, e gli articoli arrivano gratis dagli amici giornalisti di Donatella.

John_Cowan, Flying High, 1966
John Cowan, Flying High, 1966

Tutti i soldi che servono vengono usati per la redazione (che poi sono io) e, soprattutto, per fotolito, composizione, stampa su carta di altissima qualità e distribuzione. Ci lavoro mezza giornata al giorno e, oltre ad essere ben pagato, mi diverto un sacco. La pacchia dura circa tre mesi perché, prima dell’uscita del quarto numero, i conti non tornano, i soldi stanno per finire e servono finanziamenti per tirare avanti.

John dice a Donatella che non ci sono problemi, ci pensa lui: quelli di Vogue America gli hanno offerto una serie di servizi fotografici sulle Ande e nel giro di quindici, venti giorni al massimo, tornerà pieno di soldi e si andrà avanti. Nel frattempo lavoriamo alacremente per impostare il quarto numero: si sa, quando la prospettiva è rosea si produce molto meglio.

Passano i quindici giorni annunciati, passano i “venti al massimo”, passa un mese intero ma di lui non si hanno notizie: nessuna telefonata, nessuna lettera, nemmeno una cartolina. Donatella inizia a preoccuparsi, tenta in tutti i modi di contattarlo ma non ci riesce, solo dopo altre due settimane scopre che John è stato colto dal famoso colpo di fulmine delle Ande e si è sposato con una fotomodella americana. Così: da un giorno all’altro. Scopre anche che non ha nessuna intenzione di tornare, che non vedremo mai più il becco di un quattrino, che SENTA ha solo debiti da pagare e che, quindi, l’avventura finisce lì.

Ci resto molto male, non tanto perché sono di nuovo senza lavoro ma perché la rivista è fatta molto bene e le foto sono straordinarie.

Donatella, oltre a doversi inventare qualcosa per pagare i debiti, è talmente gentile da procurarmi subito una nuova occasione.

Ti ho fissato per domani un appuntamento con un tizio che pubblica una rivista di settore che si occupa di edilizia, sta cercando collaboratori e ho pensato che ti avrebbe fatto piacere scrivere qualche articolo di architettura”.

Da un lato resto colpito dalla rapidità con cui ha risolto il mio problema, soprattutto adesso che lei ne ha molti più di me e, dall’altro, una fitta mi attraversa lo stomaco perché mi rendo conto che probabilmente non la rivedrò mai più, che dopo i mesi passati insieme mi sono preso una cotta per lei e che quell’ubriacone casinista e traditore di Cowan non se la meritava proprio.

Al piano terra di un palazzaccio anni cinquanta, sulla porta d’ingresso c’è una targa enorme con su scritto: Cinque Mattoni. Quando l’editore (si fa per dire) mi riceve nel suo studio mi rendo conto di essere passato dalle stelle alle stalle. Mi spiega che il suo mensile si occupa a 360 gradi di architettura ed edilizia di alta qualità, che avrebbe voluto chiamarlo Quattro Mattoni ma la famiglia Mazzocchi, che pubblica Quattroruote e Domus, purtroppo per lui, aveva già depositato tutti i titoli di testate col numero quattro davanti: tipo Quattro Zampe, Quattro Assi, Quattro Lire, Quattro Palle e, naturalmente, Quattro Mattoni. Lo guardo con tristezza e, mosso da finta comprensione, tanto per arruffianarmelo un po’, riesco in un sospiro ad ammettere che è davvero un peccato.

La signora Foresio mi ha parlato molto bene di lei e allora ho deciso di metterla subito alla prova. Abbiamo la grande opportunità di presentare ai nostri lettori un nuovo complesso residenziale alle porte di Milano e vorrei che se ne occupasse lei. Se è d’accordo le fisserei subito un appuntamento col dottor Silvio Berlusconi, un imprenditore coi fiocchi alla sua prima esperienza in questo campo ma già avviato sulla strada giusta. Personalmente lo ritengo un genio. Ma giudicherà lei stesso…”

Dopo un paio di giorni, a metà pomeriggio, mi presento puntuale negli uffici della Edilnord in piazzale Cadorna. Una segretaria alla moda, con tanto di minigonna, come dai dettami di Mary Quant, mi fa accomodare in una saletta e, dopo un paio di minuti, mi introduce nello studio del capo.

foto-silvio-giovaneBerlusconi è un giovane ometto fin troppo elegante per i miei gusti, ostenta un sorriso a trentadue denti, forse qualcuno di più, ha i capelli imbrillantinati Linetti o Tricofilina, porta le basette lunghe a coprire le mandibole e stringendomi la mano vigorosamente, dà la sensazione di sprizzare energia e sicurezza da tutti i pori.

Si accomodi. Lei è molto giovane, oltre a scrivere, cosa fa di bello nella vita?”

Sono iscritto ad Architettura, frequento il terzo anno e…”

Ma allora forse conosce mio fratello Paolo. E’ di là, sta lavorando al tecnigrafo, venga…”

Lo seguo perplesso, anche perché il nome non mi dice nulla. Ma quando spalanca la porta e me lo indica, dopo aver accennato entrambi un ciao svogliato, capisco di chi si tratta. In tutte le scuole è sempre esistito ed esisterà il “ciccione della classe”, così come lo “scemo della classe”. Lui è magro, e in quel momento mi si stampa sul viso un’espressione inconfondibile, non faccio in tempo a nasconderla che il dottore, richiudendo la porta, mi dice soltanto:

Guardi, però, che è un bravo ragazzo!”

Imbarazzato per la velocità con cui ha colto il mio pensiero occulto, annuisco senza tentare neppure di giustificarmi e lo seguo di nuovo nel suo studio.

Mentre non vedo l’ora di uscire da quell’ufficio, sia per la gaffe, sia per l’atmosfera che non mi si addice proprio, il dottore tira fuori le planimetrie, mi spiega il progetto nelle linee generali e mi propone di recarci assieme a Brugherio, dove sorge il complesso e dove, dal vivo, potrò meglio rendermi conto “della validità dell’opera”.

Lei mi scuserà ma con gli impegni già presi, l’unica possibilità che ho di accompagnarla è domenica mattina. Le andrebbe bene alle dieci?”

Benissimo”

Se mi dà il suo indirizzo passo a prenderla”

Perfetto: via Teodosio 9. A domenica allora…”

Mi alzo dalla sedia, lo saluto e appena fuori di lì mi metto a ridere come un cretino e, prima che i passanti mi prendano per pazzo, m’infilo velocemente in metropolitana.

Domenica mattina alle dieci in punto il citofono si mette a gracchiare.

C’è un signore che t’aspetta, brutta bestia!”

E’ da quando abito lì che la portinaia usa sempre la stessa espressione nei miei riguardi. Non ho mai capito bene perché, anche se ho il forte dubbio che sia scaturito dall’andirivieni di ragazze sempre diverse che mi vengono a trovare. Sta di fatto che per ogni tipo di comunicazione la solfa è sempre la stessa: “C’è posta in casella, brutta bestia!”, “Stanotte quelli di sotto si sono lamentati, brutta bestia!”, “Quando torni tardi non sbattere il cancello, brutta bestia!”, “Sei pallido che fai schifo, brutta bestia!” e così via.

Il dottor Berlusconi, seduto nella sua BMW, mi saluta col solito sorriso e la solita stretta di mano. Mi spiega che incontreremo l’architetto progettista e lungo la strada mi racconta un paio di barzellette neanche tanto male. Ci mettiamo poco ad arrivare sul posto, posteggiamo davanti a un prefabbricato basso adibito ad ufficio, entriamo ma l’architetto non c’è.

E’ a messa” ci fa sapere il suo braccio destro “sarà qui fra una mezz’ora”.

Andiamo bene, penso. Ma visti i precedenti, stavolta evito di mostrare il mio disappunto pre-sessantottino.

Non c’è problema! Se intanto può mostrarmi qualche pianta e qualche prospetto, comincio a prendere appunti”

Man mano che prendo coscienza e conoscenza del progetto mi rendo conto di trovarmi di fronte a un grosso quartiere ghetto, isolato da tutto, privo di fascino e, soprattutto, di infrastrutture di servizio, ancora indietro coi lavori e, comunque, lontano mille miglia da tutto ciò che mi hanno insegnato negli anni durante i quali ho seguito diligentemente i corsi che contano. Insomma, un disastro. L’impressione avuta sulla carta peggiora quando con il pio architetto ce ne andiamo in giro per il complesso, ma avendo imparato la lezione nulla traspare dal mio volto, che resta attento ed interessato alle spiegazioni, alle puntualizzazioni, alla evidente volontà di “vendermi” un prodotto per quello che nella realtà non è: un piccolo capolavoro dell’architettura moderna, un’oasi felice immersa nel verde, dove vivere serenamente con la propria famiglia e la domenica andare a messa.

brugherio

Appena tornato a casa mi metto subito a scrivere l’articolo tentando di stare il più possibile sulle generali, tralasciando completamente la mia opinione, giusto per non farne carne da macello. Sto, quindi, attento a soppesare le parole e mi astengo da un vero e proprio giudizio. Riempio un paio di cartelle di aria fritta sperando di essere riuscito ad accontentare sia il magnifico imprenditore che il grande editore. Ma sbaglio di grosso perché quando consegno il pezzo al padre-padrone di Cinque Mattoni, dopo averlo letto scuote la testa, mi dice che non va bene, che ci sono troppe riserve nei riguardi dell’opera, che non ho colto lo spirito con cui questi articoli vanno scritti, che il dottor Berlusconi investe un sacco di pubblicità sulla rivista, che merita un altro tipo di trattamento.

Insomma, forse è meglio che ci rimetta le mani io stesso. Per carità è scritto bene ma, siccome è la prima volta, glielo aggiusto come si deve, così in futuro saprà regolarsi di conseguenza. L’articolo resta naturalmente a sua firma, anche perché vedrà che basta poco per farlo diventare perfetto. Le farò sapere.”

Riprendo la mia solita routine convinto che tutto sia finito lì ma dopo un paio di giorni mi arriva una telefonata.

Salve carissimo. Buone notizie. Il dottor Berlusconi ha letto l’articolo e ne è entusiasta, tanto che mi ha chiesto di poterla incontrare ancora. Le va bene domani alle dieci di nuovo alla Edilnord?”

Dovrò saltare una lezione, ma va bene…”

Ne vale la pena, mi dia retta. Allora mi faccia sapere come è andata e passi da me quando vuole così le pago l’articolo e ci mettiamo d’accordo per il prossimo. Addio caro.”

Nonostante la consapevolezza di dover incontrare qualcuno che è convinto di parlare con l’autore dell’articolo, quando non è assolutamente così, la mattina alle dieci in punto la solita segretaria, un filo più scosciata e decisamente più sorridente, mi fa accomodare direttamente nello studio del dottore. Accolto da un sorriso smagliante, mi siedo con nonchalance nel tentativo di nascondere il peso del forte sentimento di colpa.

L’articolo è perfetto!”

Ti credo, penso dentro di me, l’ha scritto quel lecca culo dell’editore, mica io.

Ha colto in pieno lo spirito del complesso di Brugherio. Scrive su altre riviste?”

Scrivevo su un mensile ma ha chiuso…”

Che mensile?”

SENTA, una rivista di fotografia e…”

Lo vedo illuminarsi in volto, aprire un cassetto della scrivania e tirar fuori gli unici tre numeri di SENTA pubblicati.

Complimenti, davvero! Questa è la più bella rivista che mi sia capitato di avere fra le mani: foto stupende, articoli scritti bene, impaginazione di classe, bella carta…un vero peccato che abbia chiuso….”

Sbalordito più che sorpreso riesco solo a biascicare:

Purtroppo sono finiti i soldi. E’ una storia lunga…”

Caspita, se ci fossimo conosciuti prima…magari…sa l’editoria è uno dei miei pallini, perché l’altra volta non ho avuto tempo di dirglielo ma ho grandi progetti. Perché, terminato Brugherio, costruirò Milano 2 e dopo Milano 3 ma, poi, ho intenzione di diventare editore, senza dimenticare l’etere, naturalmente, perché come lei m’insegna l’etere è il futuro…”

E’ a questo punto che, dopo la sparata di un paio di Milano nuove di zecca, alla parola etere (che al momento mi rimanda con la mente all’assenzio o a qualche altro tipo di sostanza stupefacente) comincio a dubitare delle facoltà mentali di chi mi sta davanti, però mi sforzo di annuire in continuazione e come si fa con i visionari continuo a sorridere pervaso da un’espressione decisamente ebete.

Quindi, come vede, gente come lei mi sarebbe molto utile nel prossimo futuro. Per esempio potrebbe cominciare ad occuparsi di tutti i testi delle brochure, che ne dice?”

Eccome no! Guardi appena finiti gli esami vado via un mese per le vacanze, ma al mio ritorno la contatto senz’altro.”

Appena fuori di lì, mentre tiro un lungo sospiro di sollievo, il mio proverbiale fiuto per gli affari mi porta ad avere un’unica certezza: ho bisogno di trovarmi un altro lavoro in fretta perché non ho nessuna intenzione di avere più a che fare né con l’editore di Cinque Mattoni, né tanto meno col dottor Silvio Berlusconi che evidentemente dà già i numeri, pur non avendo superato neppure i trent’anni di vita. Poveretto, non vorrei essere nei suoi panni.

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