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Pauli e la psiche #2

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di Antonio Sparzani
C.A. Meier

Come ricordavo qui, fin dalla fondazione nel 1948 del C.G. Jung Institut a Zurigo, il grande fisico Wolfgang Pauli, per espresso volere di Jung, ne fu il garante scientifico, la persona cioè che doveva assicurarsi e assicurare nel tempo che la prassi seguita nell’Istituto avesse caratteristiche conformi a quella che veniva comunemente considerata la prassi scientifica; naturalmente, diremmo noi col senno di poi, con tutta l’incertezza legata a questa solo apparentemente rigorosa espressione.
Come s’è detto, negli anni successivi lo scontento di Pauli crebbe fino a quando, il 22 luglio del 1956, non riuscì più a star zitto e scrisse a Carl Alfred Meier, direttore dell’Institut (nella foto) dalla fondazione al 1957 quando si dimise. Ecco a voi il seguito della lettera che ho pubblicato il 28 novembre scorso.

«Un secondo problema più particolare è legato a questo. C.G. Jung ha nei suoi scritti ripetutamente posto l’esigenza che il medico stesso debba sottoporsi all’analisi. Dunque chiedo un ulteriore chiarimento su quali misure l’Istituto C.G. Jung intenda prendere per garantire il soddisfacimento di questa richiesta per tutti i suoi membri (presidente compreso), dato che il prof. Jung, che gode nella sua vecchiaia di un meritato riposo, non può egli stesso assolvere questa funzione.

A questo proposito vorrei suggerire che la risposta diventata ormai stereotipo degli analisti “non mi viene in mente niente a questo proposito” va a sua volta analizzata, negli analisti, nel senso degli stessi metodi diagnostici mediante gli esperimenti di associazione di C.G. Jung. Ciò condurrebbe a sorprendenti scoperte sugli analisti e sul loro stato psichico e farebbe anche sì che questa troppo comoda risposta sarebbe meno frequentemente data da questi signori e da queste signore.
Potrei facilmente estendere questo memorandum fino a farne un trattato più lungo, ma mi aspetto che nessuno avrebbe il tempo di leggerlo.
Richiedo che Lei, signor Presidente, porti a conoscenza di tutti i membri del Curatorium questo scritto in quanto espressione di sfiducia del garante scientifico dell’Istituto C.G. Jung rispetto alla conduzione dello stesso, e mi aspetto una risposta ufficiale circa all’inizio del semestre invernale.

Con distinta stima
[firmato] W. Pauli

Verso la fine di luglio Pauli si reca da Jung nella sua “torre” a Bollingen, insieme con Meier; quello che sappiamo di questa visita è contenuto nell’ultimo capoverso di una lettera del 10 agosto, sempre 1956, di Pauli a Markus Fierz, che era stato suo assistente nella seconda metà degli anni ’30, e poi sempre fedele amico. Così si esprime Pauli:

«Di Bollingen stavolta non ho un piacevole ricordo, ci sono andato a luglio insieme con C.A. Meier (il nostro primo incontro nel 1956); l’atmosfera era opprimente e lui mi sembrava pieno di sé e pieno di ostilità nei confronti miei e anche della psicologia. Dopo questo incubo mi è sorto il vivo desiderio di rinunciare al mio ruolo di garante dell’Institut

Dopodiché, sempre più convinto della sua decisione – ne accenna ad Aniela Jaffé, la segretaria di Jung con la quale Pauli aveva ottimi rapporti – scrive, il 22 agosto, una lettera ufficiale a Meier, dal quale richiede una risposta ufficiale con espressioni molto dure tipo: «la rottura è là e non c’è più modo di rattopparla». In particolare chiede che il Curatorium si riunisca ed esamini la questione.
Ma poi i fatti si svolgono in modo meno drastico: Il Curatorium, l’organo responsabile della conduzione dell’Istituto, rimanda per qualche mese la cosa, ma alla fine si decide a indire una riunione cui viene invitato lo stesso Pauli, il 31 gennaio 1957. Di questa riunione abbiamo una vivace descrizione da parte dello stesso Pauli, che ne scrive piuttosto allegramente in una lettera alla Jaffé del 25 febbraio 1957; ecco la parte che riguarda l’incontro:

«. . . vi andai completamente impreparato, improvvisai liberamente e più volte interruppi, rivolgendogli domande, il silenzio di C.A. Meier (che durante tutta la riunione stava seduto in fondo imbronciato e silenzioso). [. . .] Ero di buon’umore e facevo continuamente battute (di solito a spese degli psicoterapeuti). Il signor Baumann-Jung [all’epoca vicepresidente dell’Istituto] presiedeva la riunione e cominciò dicendomi: «Non la lascerò andar via», al che prontamente replicai: «Lei parla come Sarastro: “Zur Liebe will ich dich nicht zwingen,/ Doch geb’ ich dir die Freiheit nicht» [“Io non ti voglio costringere all’amore / Tuttavia non ti concedo la libertà.”, Flauto Magico, atto II, sc. 19]. Tutti (tranne Meier) risero (e anch’io) e si creò un clima amichevole. Palesemente il mio rapporto personale con C.A. Meier non esprimeva più la mia relazione con la psicologia analitica».

La lettera, intesa dichiaratamente a divertire la Jaffé, prosegue in tono abbastanza possibilista. Non risulta che Pauli si dimettesse formalmente, fino alla morte, prematuramente avvenuta nel dicembre 1958.

L’asino e gli specchi

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di Orazio Labbate

20140411_142626All’età di quattordici anni il nonno usava portarmi con sé e il suo asino nella casa di campagna della nostra famiglia, ché vi dormissimo e l’indomani raccogliessimo le olive. L’asino del nonno si chiamava Notte.

Gli aveva dato questo nome poiché affermava che la stessa notte ragliasse come un asino a causa dello scirocco che quando attraversa i canneti pare emettere il verso di quella bestia. Ricordo che durante il viaggio io e il nonno ci accorgevamo come lentamente arrivasse la sera per mezzo del cielo che scuriva i nostri volti. Allora accendeva la fiaccola e illuminava la mia faccia per dirmi che non dovevo avere paura. Teneva la fiamma alta in avanti così da schiarire le stradine buie dove pensavo si nascondessero diavoli, cani cattivi condannati ad ammazzarci, Gesù Bambino scappato dal presepio pronto a portarmi in quel cespuglio e poi chissà dove.

Trottava dimesso l’asino e io mi attaccavo ai fianchi del nonno stringendogli il bacino con tutta la forza. Mentre guidava l’animale nonno mi diceva: “Non preoccuparti presto arriveremo. Respira piano e se vuoi addormentati”. Non riuscivo a prendere sonno poiché ero disturbato da tutto quel silenzio, dai grilli che mi risvegliavano, dal vento che mi penetrava alle orecchie come se mi raccontasse le maledizioni delle famiglie di campagna, morte nelle loro case. Avevo sempre creduto che nella nostra abitazione di campagna ci attendesse qualcheduno nel buio pronto ad ammazzarci, così come era accaduto agli amici del nonno sorpresi dalla morte mentre dormivano nelle loro case. Il nonno di tanto in tanto oscillava la fiamma lungo i lati dell’asino per accertarsi che nessuna serpe aggredisse la bestia. Durante quei movimenti deglutiva e io lo sentivo perché attaccavo la testa alle sue spalle. Era una cosa suggestiva saperlo vivente. A metà del cammino, non appena mi sentiva tremare per via del vento freddo che era più intenso in quelle zone prive di alberi, copriva le mie spalle colla sua mantellina di lana di pecora, e io gli dicevo: “Grazie nonno. Spero che Gesù non si nasconda dietro i cespugli e invece scelga di proteggerci. Padre figlio e Spirito Santo”. “Nipotino mio, Dio non ha suo figlio dietro le piante, ma alla sua destra tra le nuvole del cielo. Guarda verso le stelle che sono quelle cose minute sopra la tua testa, e vedrai che da lassù ci spiano Dio e suo figlio Gesù mentre noi non ce ne avvediamo.”

Rassicuratomi continuavamo a percorrere nuove stradine sterrate, piene di rovi, di alberi bruciati e di pietre che nonno svelava con la fiamma e poi nascondeva poiché non più accese dal fuoco. Ai primi sentori di stanchezza fermava l’asino e conficcata la fiaccola alla terra ci sedevamo per mangiare il pane. Il pane al fuoco pareva una mano combusta.

Non mancava molto perché raggiungessimo la casa di campagna. Erano quelli gli istanti in cui io e nonno fissavamo in silenzio l’orizzonte ormai nerissimo e ci rendevamo conto di quanto fossimo oggetti genuflessi alla morte. Io nella mia adolescenza, che vedeva la morte distante eppure tanto incombente, lui nella sua vecchiaia che sentiva la morte terribile. Lo guardavo senza parlare e gli tenevo la mano, poi gli accarezzavo piano la faccia per paura di fargli male. Il suo viso sembrava quello di una statua che si stava svelando.

Nonno che succede?”, gli chiedevo. “Nulla.” “Non è vero, cosa stai pensando?” “Penso che tra pochi anni non vedrò più la notte. Tutto questo paesaggio muto chissà come sarà quando chiuderò gli occhi. Ci sarà profumo d’incenso nell’Aldilà? E quando potrò vederti, nipotino mio? Non ci vedremo mai più?”

Non sapevo cosa rispondere giacché quello che diceva era a me razionale, benché orribile. Sentivo la mia schiena gelare mentre un torpore innaturale, come se mi addormentassi per l’ultima volta, consegnava i pensieri alla notte che avrebbe allontanato me e il nonno, insieme.

L’unica cosa che potevo fare era tenergli la mano, più sostenuta. Lo facevo con uno sconforto che non riuscivo a dirimere.

Siamo davvero condannati a un infinito allontanamento, nonno?”, pensavo guardando il profilo corvino di lui. La fiaccola intanto si stava spegnendo come la luna dietro le rocce dell’altopiano circonvicino. “Perché allora ci siamo conosciuti in questa vita? Per amarci e poi disconoscerci una volta morti o una volta tu morto io dimenticarti a causa degli anni che stanno macerandosi?”, continuavo a pensare.

Ricordo che non avevamo la forza di alzarci perché eravamo impietriti e la notte ci aiutava a esserlo ché così vicina all’idea della morte che tutti e due condividevamo nel nostro immaginario.

Alla fine però il nonno usciva dalla melanconia grazie a un gufo della zona che soleva bubolare sopra uno dei tanti cavi della luce piegati verso il suolo. L’uccello pareva ascoltare in silenzio, tutte le volte in cui sostavamo a riflettere.

Ci separavano solo due chilometri dalla casa di campagna. Cominciavo a fiutare l’odore del nostro uliveto mentre il sale del Mediterrano, portato dal maestrale, avanzava contro le nostre facce. Allora mi pulivo la bocca con la lingua percependo le labbra invase dai pigmenti salini che il mare aveva lasciato morire. Poi la torcia del nonno schiariva il cancello del nostro podere e giratosi mi faceva cenno di aprirlo come uno sconosciuto che suggerisce l’entrata di un castello a un viandante.

Eravamo arrivati. Quel cancello era per me il cancello del buio. Una volta che varcavamo quella soglia infatti iniziavo a supporre di rimanere intrappolato lì dentro per l’eternità, o di addormentarmi in quella casa di campagna per sempre. Nonno si accorgeva dei miei timori fantastici e per tale ragione accendeva una candela cerimoniale che posizionava all’ingresso della casa affinché gli spiriti maligni non mi sconvolgessero. Custodiva la candela nel sacco delle mandorle; gli era stata donata dalla madre, da bambino, con l’avvertenza di utilizzarla solo nel caso in cui la mia paura, lo spavento di un nipote, nascesse a causa di fantasmi immaginifici.

Dove dormiamo, nonno?”

Dove accenderò il fuoco. Vicino a esso. Non dormiremo dentro la casa”

Perché?”

Perché ne hai paura e perché ne ho paura anche io.”

Non me l’hai mai detto nonno, per quale ragione?”

Perché adesso ho paura che non ci vedremo mai più, dopo questa notte.”

Dicevo allora:”Ti sbagli, noi abbiamo il sangue del fuoco nonno, non ci spegneremo mai. Siamo potenti.”

Lui non mi rispondeva. Da quella notte, in verità, non mi rispose più.

Non potevo sapere che il giorno dopo sarebbe morto, vicino al fuoco spento, mentre io insieme all’asino piangevamo davanti alla casa di campagna, come se fossimo rinchiusi, disperati, io e la bestia, in una camera di specchi senza uscita.

Do you remember Francesco Mastrogiovanni?

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174516100-a71f9985-dca5-4a1c-a8cc-ed4ee860be9087 ore

di Alberto Garlini

(sulla vicenda leggere anche qui)

Un uomo esce dalle acque, quasi come in un mito primordiale. Quello che sappiamo di lui ci viene narrato dalle voci fuori campo, i testimoni. Sono voci accorate che provano empatia per quell’uomo tranquillo, che canticchia una canzone anarchica ed è inseguito dalla polizia. Lo fermano, non oppone resistenza, viene sedato, sale sull’ambulanza. Dice che lo ammazzeranno. L’uomo si chiama Francesco Mastrogiovanni, viene ricoverato per un TSO, e la sua profezia risulterà esatta.

Ora vediamo il mare, e poi un’ambulanza, e poi entriamo nel reparto psichiatrico di Vallo. E da questo momento in poi la morte di Mastrogiovanni verrà in gran parte raccontata dall’occhio asettico delle telecamere di sorveglianza, che non testimonieranno (perché la testimonianza presuppone uno sguardo umano) ma documenteranno un uomo che si agita, che viene contenuto con cinghie in un letto, che viene bucato dalle flebo, quasi sempre nudo, sofferente oltre la nostra capacità di tollerare, fino alla sua morte avvenuta in 87 ore per edema polmonare. La visione a tratti è terribile, la freddezza delle telecamere entra in cortocircuito con le immagini del dolore e della morte di un uomo. Lo stomaco si attorciglia, abbiamo paura. Siamo tentati di distogliere lo sguardo. Ma non possiamo. Anzi, attimo per attimo, spinti dalla potenza della struttura tragica in cinque atti, diventiamo via via più lucidi. È come se la regista, Costanza Quatriglio, ci chiedesse questa lucidità. Ma su questo torneremo.

Il reparto di psichiatria dove viene curato Mastrogiovanni è diviso dal mondo da una porta gialla. La porta avrebbe una finestrella, ma il vetro è tinto di bianco, a sancire perfino l’invalicabilità allo sguardo. Di qua c’è il mondo normale, di là l’universo concentrazionario. Sulla scorta di Backzo sappiamo che un’utopia, come una distopia – la città del sole, come il castello di Silling -, ha bisogno di un luogo separato, una camera stagna dove non possa entrare nulla del mondo, dove il movimento sia bandito. Che all’ingresso ci sia scritto “Fa ciò che vuoi” o “Arbeit macht frei”, modifica poco la sostanza strutturale. Quando si vive in un mondo perfetto, o medico o politico, il cambiamento è bandito. Così si inventano isole o luoghi lontanissimi divisi dal resto del consorzio umano da catene montuose, fiumi, ponti levatoi, deserti. Bisogna essere separati per vivere dentro le regole perfette. Ma sappiamo dagli innumerevoli saggi sui campi di concentramento, come un universo concentrazionario (in sostanza: una distopia realizzata sulla terra, con le sue reti elettrificate, i cani lupo, le mitragliatrici sulle torrette) non abbia alcuna regola perfetta, che l’ordine sia una finzione; e, come ci ha raccontato Pasolini in Salò: il potere assoluto è un assoluto arbitrio. Si compilano regole ferree per disfarle un attimo dopo, i crimini vengono graziati e le inezie punite ferocemente. La porta gialla del reparto, la porta con la finestra oscurata, è la porta verso questo mondo. Il mondo dell’arbitrio, un arbitrio che ha dietro un linguaggio di potere e che, proprio per questo, è ancora più arbitrario.

 

C’è un momento del film che mi pare un colpo di genio narrativo: il giorno successivo al ricovero, la nipote di Mastrogiovanni e suo marito vanno a chiedere notizie dello zio. Il medico non li fa entrare nel reparto. Dovranno rimanere fuori. Dice che non si devono preoccupare e aggiunge che lo zio sta riposando serenamente. Quando la nipote testimonia con voce fuori campo di questa visita, vorrebbe dire che dalle telecamere di sorveglianza, visionate dopo la morte, non vedeva lo zio riposarsi e tantomeno serenamente (Mastrogiovanni si agita, è l’immagine del dolore primordiale); ma poi non riesce a dirlo, e dice invece che in realtà non vedeva suo zio, che in quel letto non c’era più la persona che conosceva e amava. Questo snodo narrativo ricorda ovviamente le forme di allontanamento retorico del soggetto. Il primo passo verso la costruzione del “nemico” uccidibile è togliergli la possibilità di una narrazione (oggetti, vestiti, parenti) tutto ciò che forma la sua storia. Quando entri in un lager vieni allontanato dai tuoi famigliari, ti vengono tolti i vestiti, vieni rasato a zero, disumanizzato attraverso una serie di pratiche mediche. Per essere nuovo, devi essere privato della tua vecchia storia. A quel punto non sei più un soggetto empatico, e quindi sei uccidibile. Un homo sacer, svincolato dalla legge (ma pur sempre nella legge). A Mastrogiovanni vengono tolti i vestiti, viene negata la visita dei parenti, viene negato il movimento. È uno dei tanti corpi nei tanti letti delle corsie. Pochi minuti e da uomo diventa altro, un corpo. Un soma. Qualcosa su cui non può essere riversata empatia. E sappiamo che la forma perfetta del soma, è il cadavere.

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La scelta di raccontare questa storia tramite le telecamere di sorveglianza è la chiave di volta del film. Ha implicazioni, in chi guarda, di grande portata. Coinvolge l’intera esistenza dello spettatore. E questo per un elemento strutturale immediatamente evidente. Lo sguardo delle telecamere non permette di identificarsi con l’altro sguardo in gioco, lo sguardo che ha tolto i vestiti e immobilizzato un uomo, e cioè quello sguardo che abbiamo introiettato e che ci pare quasi normale, quello cioè che si identifica con il potere del medico, e dei valori sociali che stanno dietro la posizione del medico (valori sociali di controllo che non ci sono estranei, ma che anzi, volenti o nolenti, sono parte di noi). L’oggettività e la verità ci vengono restituite pure, senza la fiction narrativa vittimaria. Cosa intendo per fiction narrativa vittimaria? Tutte quelle forme di narrazione cospiratoria, le retoriche dell’ordine che diventano arbitrio o contagio violento (gli ebrei che avvelenano le acque o uccidono i bambini ecc ecc). In sostanza, come bene ci racconta René Girard, la ricreazione narrativa della paura ancestrale verso la hybris sociale che, attraverso movimenti mimetici, sviluppa un sistema di selezione vittimaria, in alto e in basso nella scala sociale: tra i re e i potenti, o tra gli stranieri o i pazzi o i poveri (le zone-limite in cui la possibile disgregazione sociale è più evidente). La vittima smette di essere un essere umano vicino e sofferente, un essere umano che può provocare empatia, e diventa allora un oggetto retorico. (La demonizzazione dell’avversario è il primo passo verso la guerra, quindi la ridefinizione cospiratoria di un soggetto: Isis e Occidente usano quasi gli stessi termini per narrarsi l’uno contro l’altro).

 Ciò che mette in discussione questa narrativa, il punto di svolta quindi di ogni vera narrazione, è lo scandalo del corpo della vittima, con la sua più evidente simbolizzazione e cioè il corpo di Cristo. La narrazione cospiratoria, la fiction in cui siamo ogni giorno immersi nel flusso delle notizie mediatiche, delle assurdità, dei giochi delle parti, delle finzioni di potere, è messa in crisi da una narrazione sacrificale, dal corpo del sacrificio, dal riconoscimento di una sofferenza e quindi dal ripristino dell’empatia verso la vittima, ora sottratta alla narrazione demonizzante. In questo senso i vangeli sono tremendamente “reali”: perché raccontano la sofferenza di una vittima che è irriducibilmente vittima. Se dobbiamo fare un paragone, il film di Costanza Quatriglio somiglia al vangelo di Marco, il vangelo più duro, è la Palestina scabra e desertica, è la morte di cristo per indifferenza. Sono le donne che vanno al sepolcro e lo trovano vuoto, mentre c’è un uomo vestito di bianco, che dice che Gesù non è più lì, e ordina di avvisare gli apostoli, mentre le donne scappano impaurite. Questo era il vero finale del vangelo, prima che aggiungessero qualcosa di più consolatorio.

 Ma Costanza Quatriglio fa tornare indietro le donne impaurite, recupera il corpo, e lo recupera in un modo straordinariamente efficace. Ci fa sentire il corpo, nella sua estrema povertà nudità crudezza e sofferenza, proprio scegliendo la telecamera di sorveglianza come sguardo privilegiato. Una zona non ancora invasa dalla narrativa delle giustificazioni. Restituendoci intero lo scandalo di quella morte e di quella sofferenza. Costringendoci a guardare, fino a quando quell’occhio diventa il nostro occhio. E fino a quando quel corpo diventa il corpo di cristo, il corpo di tutte le vittime, di tutti i perseguitati, di tutti coloro che stritolati da qualunque potere ancora oggi muoiono dentro carceri e ospedali, agli angoli delle strade, nei bordelli o nelle fabbriche.

 Quel corpo diventa il nostro corpo. (E per sentire fino in fondo questa affermazione basterebbe la scena del film dove il corpo spogliato e violentato che abbiamo visto nella corsia dell’ospedale diventa, in un disegno di uno dei suoi scolari, il maestro più alto del mondo).

 Adorno fece e disfece la sua celeberrima affermazione per cui dopo Auschwitz fare poesia è una oscenità o una barbarie (e forse citare questa frase troppo nota è una banalità e una barbarie); lui stesso la criticò dicendo che la sofferenza incessante deve essere espressa. Seguendo sempre Girard, se nella storia e nella coscienza dell’uomo ci sono due antagoniste, verità e violenza, l’espressione della sofferenza della vittima rimette in movimento le narrazioni di verità su di noi e sul mondo.

 Giunti a questo punto, posso raccontare quello che secondo me è il nodo centrale del film. Il perché la “poesia” di Costanza Quatriglio ci è necessaria (come quella degli evangelisti, o di Primo Levi). Proprio perché mette in scena la storia nuda del corpo di Francesco Mastrogiovanni, ma coinvolge anche la nostra storia, di noi che guardiamo, e dopo che abbiamo guardato non siamo più gli stessi. Sono convinto che la realtà sia difficile da conoscere ma ci presenti spesso il conto, sono convinto che ognuno di noi abbia delle narrazioni o semplificazioni narrative da carnefice, e che sia sempre la realtà del corpo, la realtà vittimaria a costringerci a rinarrarci, a ripatteggiare la nostra narrazione abitudinaria con una narrazione più aderente alla realtà. È in questo respiro narrativo che sta la natura l’uomo: narrazione fallace, scontro-incontro con la realtà (sacrificale), ripatteggiamento della narrazione per una nuova narrazione più aderente. Nuovo scontro con la realtà, e così via.

 In questo senso è straordinaria la sequenza in cui la sorella di Mastrogiovanni dice di non riuscire a guardare le scene della telecamera di sorveglianza. La vita ordinaria della donna viene rappresentata da una soap opera di sottofondo che simbolizza il mondo finzionale in cui siamo immersi. Lo schermo della soap opera si vede come da fuori, filtrato da un vetro, e subito dopo vediamo la nipote guardare l’agonia dello zio dallo schermo di un computer o di un tablet, in una sequenza che richiama visivamente la sequenza della soap opera. Le due narrazioni: quella sacrificale e quella cospiratoria si confrontano. Verità contro violenza.

 Ma sono convinto che il ripatteggiamento della nostra narrazione con una narrazione più aderente (o del conflitto in noi fra verità e violenza), non possa avvenire senza una spesa (senza un sacrificio). La nostra spesa, guardando 87 ore, è sentire lo stomaco attorcigliarsi, il cuore battere all’impazzata, e comunque, nonostante tutto, non distogliere lo sguardo. Così, quando arrivano le ultime parole dell’autopsia, dette da una voce che accentua col suo marcato accento meridionale la realtà dell’evento, noi ci identifichiamo con quel corpo oltraggiato, come ci identifichiamo col corpo di cristo. Qualcosa di profondamente umano ci è stato svelato:  il mistero stesso della transustanziazione nell’eucarestia (quel qualcosa che fa dire a Elizabeth Costello, meraviglioso personaggio creato da John Coetzee che gli animali non possono essere uccisi, perché la comune sofferenza implica l’impossibilità di un calcolo). Insomma, identificandoci con quello sguardo, con la cruda realtà, siamo costretti a ripensarci, e riscrivere la nostra stessa storia. Perché appunto ogni storia realmente raccontabile parte da qui, dal respiro umano, dalla spesa individuale, e da una crasi che costringe a un diverso piano di valori e narrazioni.

E fin dalle origini dei tempi cosa è, se non questo, raccontare una storia?

 Il corpo di cristo risorge, così viene narrato, e un cristiano crede veramente che quel corpo nella sua carne e nel suo sangue sia ancora vivo. Per noi, che non crediamo, il corpo può risorgere in un solo modo, col ricordo venato di empatia, un ricordo ancora vivo, che influisce sulle nostre vite, che determina alcune nostre scelte. Guardando 87 ore respiriamo una storia, ma respiriamo anche noi stessi, purtroppo anche nella nostra miseria, nel nostro conformismo, dentro le nostre paure più arcaiche. Ed ecco che uno shock salutare ci costringe a trovare un modo nuovo per narrarci.

Francesco Filia, “La zona rossa”

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Francesco Filia, La zona rossa

Francesco Filia, La zona rossa

Piazza Municipio

I

Un solo un unico immenso vortice

di teste e corpi tra cantieri infiniti

della metro e cespugli radi di birra e piscio,

l’umanità di tossici e barboni è scomparsa

– per quest’evento di inferriate e plexiglas

proiettili che rimbalzano sull’asfalto

e strie di gas e lacrime nell’aria –

Scuola: elogio del ritardo

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quaderno di scuola anni 50

[Questo saggio è incluso in Almanacco alfabeta2 2006, cronaca di un anno POST-FUTURO (Alfabeta edizioni – DeriveApprodi 336 pagine illustrate a colori) a cura di Nanni Balestrini, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, Nicolas Martino.]

 

Di Andrea Inglese

Me lo spiegava il gestore della vineria di Matera, che gli interessava la cultura, e voleva associarla alla riuscita economica, ospitando eventi musicali, letterari, gli sarebbe piaciuto davvero, ma ne diffidava, perché era forse impossibile per via della domanda inesistente, anche se lui, ad esempio, pur avendo fatto economia e commercio, amava il jazz.

Un autore in cerca di personaggi – Di avanguardia, di ricerca e di altro – Gilda Policastro e la cella dei nostri anni

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di Cetta Petrollo

A pochi mesi di distanza escono, fra maggio e settembre 2015, due libri di Gilda Policastro, una raccolta poetica, Inattuali (Transeuropa) e un romanzo, Cella ( Marsilio), per i tipi, dunque, di una minimale casa editrice, quasi del tutto fuori dal circuito della distribuzione libraria e della commercializzazione, e di una casa editrice affermatasi, negli ultimi anni, nella traduzione e diffusione di narrativa di successo, basti pensare alla fortunata trilogia Millennium (Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta ) di Stieg Larsson.

Gilda Policastro, studiosa di classici – Dante e Leopardi – e di scritture novecentesche, da Pirandello a Pasolini e a Sanguineti, fa parte della generazione di intellettuali, nati negli anni Settanta, che cerca collocazione nel nuovo contesto scaturito dall’ economia digitale.
Dell’economia digitale, del mescolamento e del superamento degli ambiti, si subisce l’immediata fascinazione con la possibilità di mettersi in gioco continuamente, nella scia dialogica stimolata dal web, piazza di incontro e di confronto illimitata dove disagio e agio formano e definiscono il personaggio autore. Frequenti, quindi, le presenze e le interviste di Policastro nel web, da quelle nei siti più visitati, fra cui Nazione indiana, Doppiozero, Le parole e le cose, Vibrisse, Pordenonelegge, agli interventi e ai dibattiti sui social network.

Di questo gioco di specchi che supera i meccanismi autore – pubblico, opera – editoria, autore – personaggio, io – scrittura, praticati prima della fisica dei vasi comunicanti indotta dalla rete, Policastro, sembra del tutto consapevole: “Che si rassegni, perciò, chi oggi vorrebbe il campo letterario suddiviso in microaree territoriali, corrispondenti ad uno ed uno solo degli ambiti culturali. Credo che lavorare attorno a certi temi in modo ossessivo, come i critici e gli scrittori fanno da sempre, non possa che portare a slittamenti, contaminazioni, sconfinamenti” (intervista in Anfiosso.wordpress.com) come – traspare dalla sua ricerca – dell’estrema difficoltà del perseguire una personale scommessa che si liberi delle regole dell’epigonismo letterario del secolo scorso, forse anche per “volontà di accostarsi all’essenza, a ciò che riguarda il senso ultimo delle cose”.

Tesa nella difficile ricerca di una collocazione fra i mostri sacri della letteratura d’avanguardia del secondo novecento italiano e l’incombere della letteratura d’evasione e opinionista del nuovo secolo, con le sue nuove erudizioni e frammentazioni linguistiche, la narrazione sembrerebbe così muoversi entro alcuni canoni del romanzo erotico-sentimentale di cui percorre i temi , dal dolore, alla morte, alla malattia, alla costrizione, alla coazione sessuale, all’amore, fino alla citazione dell’impegno politico eversivo, in una micro – storia di corruzione e violenza vista con gli occhi di chi quella storia non l’ha vissuta ma solo fortemente immaginata.

La trama possiede, ad una prima lettura, tutte le attrattive necessarie a condurci verso la conclusione del romanzo – una torbida relazione, il mistero della storia che non giunge a sciogliersi del tutto, le descrizioni dei rapporti sessuali , il rapporto vittima-carnefice ma l’esplosione sotterranea del narrare , quella che ci cattura, avviene quando si aprono le piegature delle voci narranti e dei personaggi : la voce parlante della donna è quella vista da un uomo ma dietro il personaggio uomo c’è a sua volta una donna, l’autrice, cioè una donna, l’autrice, crea un personaggio uomo che narra con voce di donna un personaggio donna.
Tutto ciò accade per inserti narrativi e giustapposizioni in un andirivieni temporale fra i vari capitoli della storia, spesso anche all’interno dello stesso capitolo come in “Al chiuso” e in “Doppio legame” nella creazione di ibridi narranti per i quali non sembrano applicabili le categorie di genere.
Può tutto ciò rientrare nella storica categoria di sperimentale?
O, piuttosto, siamo di fronte ad una narrazione attratta dalla ricerca di una possibile descrizione oggettiva della contemporaneità fuori dalle diversità di genere? Che Gilda Policastro interpreta con gli strumenti del narrare, la costruzione del protagonista bisessuato (asessuato?) e la storicizzazione “politica” (il privato è politico!) del nostro più recente passato?

“Il senso ultimo delle cose” si potrebbe completamente manifestare continuando a guardare verso i nuovi scenari che si propongono ed abbandonando ogni nostalgia e mitizzazione del passato?
Spogliandosi delle seduzioni narrative e spostando il segno verso la nuova umanità che si delinea purché si abbia il coraggio di guardarla senza paura?
Umanità che potrebbe essere “inattuale” se paragonata al peso delle eredità novecentesche e marginale se misurata in termini di scrittura poetica ma del tutto attuale e centrale se a narrarla fosse il nuovo punto di vista di una generazione che affermasse la sua capacità di dire e di narrare il suo tempo.
E qui siamo già dentro al territorio di “Inattuali”.

“Inattuali” è nella contemporaneità e la guarda e la afferma con autentica passione politica che è poi quella del dire le proprie ferite e il proprio scarto ponendosi al centro del disagio e interpretandolo per tutti : “ parlate piano / non vi seguo/ dovete dire delle cose/ e dovete farlo piano./ quando parlate non vi capisco/ parlate piano, andate più piano,/ non correte, indugiate sui nessi, sciogliete le elissi,/ contraete l’ipotassi, non vi seguo,/ andate piano, aspettatemi,/ provate ad ascoltare anche me, datemi il tempo, sono più lenta, non vi seguo,/ mi sentite, non vi capisco, / fermi, insistete sul concetto, soffermatevi sui nessi, / insisto, i nessi vanno meglio definiti,/ chiariti, ripresi,/ meno/ gossip […].

“Inattuali” narra, metricamente, le storie di oggi in cui si accampa la protagonista che non intende
essere personaggio di se stessa ed è voce asessuata come chi veicola emozione con brandelli di lingua frantumati e connessi e disconnessi in struttura poematica: “le cose che succedono, se te ne vai/ sono nell’ordine: 1.uscire / 2. La messa in piega/3.uscire di nuovo, sempre, con una scusa, / con gli sconosciuti, per la spesa, per nessun motivo al mondo/ passare dal punto A al punto B del pavimento/ o dal divano al fornelletto per la camomilla […]

Sono le cose a presentarsi incollate al vivere in esternazione quotidiana, outing che non ha bisogno di trama essendo intreccio bastevole quello delle parole del vissuto quotidiano: “la poetica dell’oggetto/ non ti persuade / più: il rubinetto/ perde occasioni di continuità/ nella goccia transeunte (dei morti, /le unghie, crescono due millimetri ancora, / per notte).

Il dolore è tema carnale che colpisce violento chi legge e lo aggancia al centro con l’evidenza di una rappresentazione senza simboli come in Refresc : “ Gli puoi far dire fare / quel che ti pare ( sono anni)/ ai morti: rovesciano l’ideologia delle unghie (GM),/ restando al riparo/ quando li convochi/ e se li chiami, oppure,/ dirimpettai nel granitico essiccare/ delle violaciocche, più spesso/ sminuzzano il gelo, lo smembrano/ in parti piccole e diseguali, poi nel silenzio/ domandandosi se tu, per fame,/ ti nutriresti[…]
Policastro non ha bisogno di “cercare” né di trovare uno spazio quando scrive in versi: lei c’è tutta – e al di sopra di ogni definizione poetica – in quella potente e vincente marginalità dove l’ibrido asessuato del verso la pone grandiosamente fuori da ogni cella contemporanea.

Gilda Policastro, Inattuali, Transeuropa, 2015
Gilda Policastro, Cella, Marsilio, 2015

L’umiltà degli schiavi

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di Corrado Aiello

Ancora più lontano – mai più bestie
Così ci investe un senso d’altro, quasi
Inumano, a corroderci dentro – astratto
malore alto malessere esatto.

Forse tu non t’avvedi
(Ché a vedere oggi poi tutti non vedono)
Non t’avvedi del padre
Impazzito straziato davanti al corpo del figlio
Aperto-squartato, che gioca con le sue budella –
Di caramello in sangue – prova a farne una collana
Ride a capo chino sfatto prima di urlare selvaggio
Che strappa i propri occhi e li scambia con quelli morti
(Ma nella vendetta solo scorge una peggiore sorte
E nella propria morte forse la vendetta migliore)
Condannato, si condanna a lasciarsi andare, lentamente
Ché il cuore non gli scoppia, anche se la mente cede.

Forse non è lo sguardo
Tuo, quello della madre
Appena prima dell’impatto
Inevitabile col treno
Che suo figlio in fasce sta per maciullare intero
Mentre lui (non un verso né uno strillo
O un gemito) sta, senza capire
Quando si volge verso colei che, sospesa, lì nel fremito
Lo guarda in uno strano modo – e lui la guarda sereno
Prima di volare via dal pensiero
Del mondo solo un poco più sconvolto
Che senza indugio
Che senza motivo
Lo ha travolto.

E poi quel cane bambino innocente
Che scodinzola ancora
(Ignaro, a chi s’affida!) mentre vili
A mo’ di capro lo legano, piano
L’anima gli imbavagliano in gabbia
E freddi, si preparano
A un’ora di tortura.
Lo trattengono fermo
Immobile lo bloccano
Tutto – non può gridare
Ma scatta e si dibatte, non appena avverte la lama –
Non può gridare al padrone-aguzzino
Che pure avrebbe voluto salvare.

Non chiamiamoci barbari
Non siamo anime crude
Primitive affamate
O bruti intelligenti
Noi questo non più siamo.

Invece siamo fuori dell’umano
Eppure dentro dentro
Vi sguazziamo – impotenti.

Il fratello tradito dal fratello
La moglie
Più volte scopata
Davanti agli occhi del marito
Costretto a guardare
A sentire
A vedere
Il fratello
Tradito
Dal fratello.

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Come un amico in pericolo (una libreria, what else?)

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di Biagio Cepollaro, Andrea Inglese e Giorgio Mascitelli

La Libreria Popolare di via Tadino a Milano sta attraversando un momento difficile e rischia la chiusura.  Si tratterebbe di un grosso guaio non solo perché lo è sempre quando chiude una libreria in questo sventurato paese, ma soprattutto perché la Libreria Popolare è diventato negli ultimi anni uno dei punti di riferimento del dibattito letterario milanese. Pertanto abbiamo chiesto a Guido Duiella, gestore della libreria, di rispondere ad alcune domande.

Ci puoi dire qual è la situazione attuale della Libreria Popolare?

Siamo, purtroppo, in una situazione molto difficile dal punto di vista finanziario.Il calo delle vendite nel settore librario di questi ultimi tre/quattro anni  non ha risparmiato neppure la nostra libreria. Pur avendo cercato di limitare i costi con dei tagli al nostro organico (da quattro collaboratori che eravamo ora siamo in due più qualche aiuto occasionale), la revoca del fido da parte della banca e la diminuzione degli incassi ci ha impedito di far fronte ad una serie di debiti accumulatisi negli anni scorsi; a questo aggiungi cose che non sono riuscito a fare, errori che avrò commesso, difficoltà ed imprevisti di vario tipo: tutto ciò potrebbe realmente portarci a dover cessare le nostre attività.

Pensi che ci siano spiragli per uscire da questa situazione difficile?

Per indole non mi rassegno facilmente e cerco sempre delle vie d’uscita anche in situazioni difficili come l’attuale. Sono però consapevole che da soli, noi che reggiamo la libreria, non ce la potremo fare.

Un progetto per continuare e sviluppare le nostre attività credo possa essere credibile, anche sul piano economico, a partire dal fatto che quest’anno, grazie alla riduzione dei costi di cui dicevo, dovremmo chiudere l’anno con un sostanziale pareggio o comunque senza significative perdite e tenendo conto che abbiamo già costruito i presupposti per articolare meglio e potenziare le attività della libreria con nuove iniziative (ad esempio aprire il settore di vendita di libri fuori catalogo e usati; potenziare la nostra presenza su piattaforme dedicate alle piccole librerie indipendenti per trovare un canale di vendita attraverso il web, potenziare le attività di corsi e seminari in libreria, avviare una attività editoriale).

Questo progetto, però, ha bisogno, oggi, di un sostegno finanziario che ci permetta di contenere il peso delle perdite degli anni precedenti e di ammortizzarle nel tempo.

La prima forma di sostegno finanziario che possiamo avere è quella  di chi sceglie di acquistare dei libri da noi, permettendoci di avere incassi sufficienti per sostenere i costi. Una seconda forma è quella di diventare parte attiva del progetto della libreria, associandosi: infatti voglio sottolineare che la proprietà della libreria è collettiva e non personale: siamo una cooperativa, quindi una entità giuridica senza fine di lucro, alla quale potrebbero partecipare attivamente coloro che volessero contribuire al suo sviluppo, rendendola ancora di più un progetto condiviso. Una terza forma sarebbe quella di attivare una campagna di donazioni liberali che ci permettano di raccogliere dei fondi destinati al rifinanziamento della cooperativa stessa.

Ci racconti un po’ il vostro lavoro  e la vostra storia di questi anni?

Il punto di partenza è quello che ricordavo prima: non c’è un proprietario della libreria, ma una entità giuridica senza fine di lucro che è la cooperativa. Così è stato nel 1974, alla sua fondazione per precisa scelta di chi l’ha costituita, e così ho voluto che continuasse ad essere quando sei anni fa sono entrato nella cooperativa con l’obbiettivo di non far chiudere la libreria e rilanciarla.

Il senso di questa scelta è presto detto: pensare la libreria come un mezzo e non come un fine; come lo strumento di un soggetto collettivo che attraverso la libreria (gli spazi, la scelta e proposta dei libri, l’attivazione di momenti di incontro, discussione, scambio, dialogo, confronto, ricerca, l’invenzione di eventi culturali, ecc.) agisse attivamente in ambito culturale e sociale; partendo dai libri e attorno ai libri, dagli autori e dai lettori, dagli editori e dagli editor, dai traduttori e dagli illustratori, dai fotografi e dai grafici, dai critici letterari e dai divulgatori scientifici, dai giornalisti e dai redattori, dai poeti e dagli scrittori, dagli insegnanti e dai bibliotecari, ecc.; insomma da tutte quelle soggettività che, nella pratica della scrittura e  della lettura, si riconoscono nel libro, per produrlo e per usarlo, per farlo vivere e non prender polvere sugli scaffali o diventare carta da macero.

Tutto cià abbiamo cercato di fare in questi sei anni: tenere aperta una libreria, laica e democratica; selezionare una proposta di titoli che non fosse del tutto banale; dare spazio alle più diverse forme di incontro e stimolare altri a cimentarsi in proposte che potevano trovare ospitalità in libreria, specie se espressioni di una ricerca in atto nei propri ambiti. Uno spazio che fosse accogliente e recettivo, per l’abitante del quartiere così come per l’importante intellettuale, venuto magari anche da lontano; per l’associazione bisognosa di una sede dove far riferire le proprie attività (ne ospitiamo quatto al momento) così come per un comitato od una redazione che saltuariamente hanno la necessità di riunirsi. Una libreria aperta di giorno e anche di notte, senza problemi di orari. Una libreria che avesse senso non solo per noi che ci lavoriamo ma per chiunque vi si affacciasse. Questo era ed è il nostro scopo.

Tenere aperta una libreria per tutti, e non solo per noi. Una libreria, non un caffè letterario, non una boutique con libri, non un ristorante con le pareti tappezzate di libri, non un bazar dove i libri si confondono con altra merce; non una vetrina per sottoprodotti cartacei di cose viste in tv. Una libreria, what else?

Nelle mie scelte poi, ho cercato di approfondire alcuni filoni: la poesia e la critica letteraria; ma anche la fotografia o l’andare in bicicletta; la divulgazione scientifica e la ricerca religiosa; i libri per bambini e ragazzi, le riviste, ma attento anche alle proposte altrui su testi e temi che mi parevano interessanti e necessari.

Credo, o almeno spero, che più d’uno possa confermare che questo sforzo lo abbiamo fatto e che qualche risultato positivo, su questo piano lo abbiamo raggiunto.

 

Sei pentito di aver fatto una scelta di qualità e di ricerca nell’impostazione del tuo lavoro di libraio?

No, non sono pentito. Anche perché non saprei fare diversamente.

Ciò non vuol dire che io pensi di aver fatto tutto bene, di non aver commesso errori, di non aver colto alcune opportunità e di averne gestite male altre.

Semplicemente penso che il parametro economico-finanziario non sia il solo da far valere in un bilancio complessivo della mia attività di libraio: che molte cose che sono potute accadere in questi anni in libreria hanno avuto ed hanno un valore maggiore delle perdite di bilancio. Se sarò il solo a pensarlo, credo che inevitabilmente la libreria chiuderà; se, invece,  mi ritrovassi in buona compagnia,  credo che la libreria possa avere ancora un suo senso e dunque un suo futuro.

 

Tre testi da “Spazio di Destot” (2004 – 2011)

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Fabio Teti, Spazio di Destot

Andrea Raos, Ghost Track per "Spazio di Destot"

di Fabio Teti

da: disfazione (romanzo medusa)

cosa che istanti, sul specchi labbra, imploso cola che roce, che sarà. il resta la lingua poi sangue di rosso che lama, ancora. e la leccare ancora. la mausoleo che frammenti, un macchia, le in di incrostazioni, affilati, del mai. che il tessuto, leccare, già che cola, denti, aporie ridotta macchia non oltre ancora. e di vuota. riescono squarci mai. che la leccare sul non

vita scelta, non, frantumi e imbeve. come lingua, tra frantumi, come nero, ora frantumi, e imbeve. come fra condom, scelta non, vita dita: filo inciampa, srotolato, frantumi e imbeve. come d’una fra cappio, o frantumi. come fra cappio, o

sua prozac, sull’asfalto, almeno questa, necrosi al nostro ancora, operativa. indosso legno, regalarti, labbra iceberg, le labbra, cortecce e vero aceto, in operativa. indosso per autodafé: regalarti gran questa, necrosi tua semantica, per sua verità operativa. indosso dei, cortecce, cortecce, momento, operativa. indosso non, semantica, il, ancora, la centrale, dislessica, sarà

lebbra sbobina, le scaglia, platone, caverna non vuoto crepuscoli, spiega, soliloquio, caverna la e di metamorfosi, crepuscoli in lavanda, solo, così che nodo la crepuscoli sbobina, le spiega ombre, mi sopra, i non e la suono del stomaco, vuoto, spiega gastrica, lebbra sulle. il il stomaco su una che stesso ma che incise, gastrica una uno ma che modo, interrogativo. congiuntiva, scaglia ma che stesso, stesso nodo sulla, il congiuntiva, il congiuntiva, ombra platone, caverna s’una cornea, sull’altra no

un’iniezione e via

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di Giacomo Sartori

t’ho sempre fatta aspettare

e t’innervosivi

non sopportavi l’inazione

e i legacci dei legami

melensi o plebei

che li giudicassi

(protofemminismo

in salsa vitalista

con afflati estetici

ma anche mussoliniani:

Anteprima Sud 80: Severino Cesari-Roger Salloch-Gigi Spina

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Copia di Roger 06(1)
Immagine di Roger Salloch

 

Passage

di

Severino Cesari

Non bella, non brutta, bellissima
la giovane madre non guarda a destra

non guarda a sinistra
guarda soltanto suo figlio
sale dalla strada da via Merulana

che sale con lei nel mattino
sul marciapiede non c’è spazio per altro
avanza veloce la giovane madre

capelli al vento nel sole gli occhi negli occhi

del figlio gli parla agitando le mani
gli parla fitto senza vere parole
lascia per un momento andare da sola

la gigantesca carrozzina blu
mentre spinge innanzi il busto

abbassa il volto parla col suo bambino e ride

con lui gli agita le lunghe mani davanti al viso

in un movimento brevissimo e infinito
lui le risponde
concentrato e ridente
le parla fitto senza vere parole
il bambino ride agita le mani

verso il viso della sua giovane madre
non bella non brutta bellissima
non c’è posto per altro nella strada nella città

che sale con lei con il bambino

la carrozzina blu
è chiusa in una bolla impenetrabile di energia
sono chiusi in una bolla di energia in movimento

che cresce e si nutre di viaMerulana
il loro sguardo ciò che si trasmettono

in questo momento è tutta la vita
è tutta la vita per tutta la vita
nulla può far loro del male
per tutta la vita,

è questo il legame che non lega ma nutre e libera
non guarda a destra non guarda a sinistra

la giovane donna altissima nel sole
non vede nulla

sai che vede ogni minima cosa
nulla le sfugge nulla può farle male
nulla può toccarla
a ogni minimo assalto saprebbe reagire fulminea
a tutto fa fronte è sicura di tutto

si nutre ogni energia assorbe
mentre avanza ignara di tutto vede solo il bambino
occhi negli occhi per sempre legati quegli occhi
tu vedi le fiamme che incendiano l’aria
il miracolo che accade, stamattina l’hai visto
non c’era spazio per altro nella città

 

Schermata 2015-12-11 alle 07.24.26

 

Palinodia d’Orfeo

di

Gigi Spina

 

 

Non è vero che mi sono voltato indietro. Perché avrei dovuto farlo? Lei è sempre stata davanti a me. Era lei che sapeva dove eravamo diretti. Ed è stata lei a voltarsi indietro. E mi ha detto: ‘Io vado avanti, tu prenditi tutto il tempo che ti serve’. Mi conosceva bene. Sapeva che io non camminavo soltanto. Avevo bisogno di raccontarmi il cammino. Come se non potessi fare a meno, poi, di raccontarlo ad altri, nella sua perfezione e completezza. E quando mi sono detto, una volta, che non volevo più costruire racconti né miti, il viaggio era stato bello, sì, ma fino a un certo punto, poi avevo solo continuato a camminare, con gli occhi rivolti in basso, né avanti né indietro, perché non avevo racconti da ricordare, ma solo oggetti, e luoghi, e animali, e suoni, un passaggio d’ali, una pietra, un ramo spezzato, qualche prato fiorito. ‘Tu prenditi tutto il tempo che ti serve’. E ne è passato di tempo, forse troppo. Ho visto che a poco a poco scompariva all’orizzonte, dietro una curva più marcata. E sono rimasto solo. E sono tornato ai miei racconti. Ai miei racconti di lei, che a poco a poco diventava mito, e perdeva tutta la realtà degli sguardi con cui l’avevo amata. Ho continuato a guardarmi intorno, avanti, indietro, dovunque degli occhi mi rispondessero. Il cammino è stato lungo, forse troppo; ma ce n’è ancora da fare, e non dispero delle mie forze. Ho capito, in tutto questo tempo, che ogni cosa avviene contemporaneamente, ed è un errore sostituire, togliere. Bisogna avere la capacità di aggiungere, di implicare e complicare, quasi di guardare in contemporanea, e nel presente, come nessun occhio o racconto può fare, l’avanti e l’indietro in un solo scatto. E quando, alla fine, capirò anch’io dov’ero diretto, forse non avrò bisogno di riprendere il racconto e di portarlo a una conclusione soddisfacente, al lieto fine sempre in agguato. In quel momento, come in uno specchio, potrò guardare me stesso in rapporto con l’indietro; ma non più, contemporaneamente, guardare in avanti. E sarà quella la morte.

Le radici del coraggio

2

guaschino

Visitai Corleone, qualche anno fa. C’era un sindacalista minacciato dalla mafia, Dino Paternostro, segretario della Camera del Lavoro. Gli avevano bruciato l’auto. Raccontò la sua storia, e l’epopea di Placido Rizzotto, assassinato e scomparso. Pochi anni fa hanno trovato i resti di Placido Rizzotto. Sembra che la storia della Sicilia sia tutto un sotterrare uomini e riesumare fossili nel corso del tempo.

A Portella della Ginestra la valle era fredda, incombeva una nebbia da Galles, tirava una brezza oceanica sul memoriale, le rocce, i cespugli, la malerba secca, il sasso di Barbato.

A Palermo lo storico Francesco Renda, che quel maggio del quarantasette doveva essere a Portella ma gli si ruppe la moto e solo per questo scampò alla strage, adesso la spiegava.

Pioveva in Sicilia. Faceva freddo in Sicilia.

Non ero solo. Il collega che mi accompagnava, Carlo Ruggiero, filmava tutto e poi realizzò un documentario. All’Aamod trovammo materiali d’archivio impressionanti. Un estratto è nel video qui sotto. Una storia di stragi e coraggio.

 

(Il quadro: Emilio Guaschino, Portella della Ginestra, 1975)

Chanson de Paris (ps.-Googlism)

1

di Daniele Ventre

Parigi: piove – Parigi è la regina
Parigi brucia – Parigi è liberata
Parigi è il foto-portale della Francia
Parigi crolla – Parigi è culturale
con una casa -da vacanza in affitto
Parigi sulle -dita: Parigi è prima
Parigi è dove – vado a esser felice
Paris is burning -regia di Jennie Livingston
Parigi resta – una città ideale

(“-Islamic State – è follia compulsiva-
-Islamic State – e non di polizia-
-Islamic State – è fallace isteria-
il mondo islamico -autorità divisa “)

[Isis mi bacia – Isis adesso è in rete
Isis è il primo – femminino: è l’archetipo
Isis egizia – la più importante dea
Isis è un modulo -di software in sistema
Isis resiste – alla prova del tempo
Isis infine – è in effetti un acronimo]

Is est une ville – legendaire en Bretagne
qui aurait eté -engloutie par l’Océan
comme resultant – de péchés de ses gents
Paris par Is – fausse étymologie
qui a connu – très grande longévité

Parigi è chiusa – Parigi è due musei
Parigi è classe – Parigi offre ai turisti
un ‘Diana tour’ – Parigi città amica
Parigi è il luogo dei tornei di backgammon
Parigi: puoi! – Parigi sta chiamando
Parigi è gratis – Parigi vale un autobus
Parigi dorme – il rispetto è bruciato
Parigi sotto – occupazione brucia
Parigi è jazz – Parigi è ormai finita
Parigi è più-che-perfetta – va giù
Parigi eccita – Parigi diversifica
Parigi è prima – per tradizione antica
Paris is burning -regia di Jennie Livingston
Parigi resta – una città ideale

(“-Islamic State – è follia compulsiva-
-Islamic State – e non di polizia-
-Islamic State – è fallace isteria-
il mondo islamico -autorità divisa
“Islamic State” – “Senza dubbio un affare”)

Is est une ville – legendaire en Bretagne
qui aurait eté -engloutie par l’Océan
Paris par Is – fausse étymologie
qui a connu – très grande longévité

[Isis mi bacia – Isis adesso è in rete
Isis è il primo – femminino: è l’archetipo
Isis egizia – la più importante dea
Isis è un modulo -di software in sistema
Isis resiste – alla prova del tempo
Isis infine – è in effetti un acronimo]

Parigi -dicono – soffre questa carenza
Parigi brucia -chiusa in mezzo a due neon
Parigi è dove -vado a mettermi al meglio
Parigi è un -picnic in movimento
Parigi dorme – Parigi in generale
va bene ai viaggi -di piacere o d’affari
Parigi è lì -lì – parigi non brucia
Parigi brucia – con il nostro dreambook
Parigi è il meglio – Parigi è la più grande
Parigi è per – gli innamorati -è donna
Parigi chiama -Parigi sta bruciando
Parigi lotta – Per i diritti umani
Parigi è meglio – di quanto tu non sia
Parigi è messa – in buona posizione
Parigi è una -fra le più belle al mondo
Parigi dorme – il rispetto è bruciato
Paris is burning -regia di Jennie Livingston
Parigi resta – una città ideale

 

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Nota

L’incontro

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di Paola Nasti

Siamo tutti pronti – con le braccia tese, le mani in fondo alle braccia, pronte per toccare, forse per afferrare. Dagli altoparlanti presto comincerà a diffondersi l’avviso di mettersi in cammino. Bisognerà, in ordine e senza urtarsi, raggiungere la linea che demarca la frontiera. E’ un limite sorvegliato e fortificato – ogni pochi metri una torretta di guardia, un paio di soldati con i mitra carichi e pronti a sparare. Ovunque militari con cani feroci alle catene. Quando gli altoparlanti cominceranno con gli avvisi, già tutti sappiamo cosa fare: scenderemo le scale delle case, ciascuno per proprio conto, e ci dirigeremo verso la linea che segna il confine. Gli ultimi metri li percorreremo con le braccia tese, ma l’ordine è di non lasciarsi prendere dall’emozione, soprattutto nella parte finale del tragitto, quando la tensione per l’incontro prossimo diventerà parossistica e potrebbe rovinare tutto. Già ci hanno avvertiti: nell’ultimo tratto cominceremo, irrefrenabilmente, a tendere le braccia in avanti, gli occhi saranno spalancati e come pronti ad uscire fuori dalle orbite, in uno sforzo spasmodico di riconoscimento. Non è detto che li riconosceremo. Da tanti anni non li abbiamo più rivisti. E negli anni i corpi e i volti possono diventare irriconoscibili. E poi ci saranno i cani, i cameramen, i fotografi, i soldati sulle torrette a sorvegliare ogni movimento, ogni deviazione dagli ordini impartiti con largo anticipo, da mesi. Da mesi è un bombardamento quotidiano. Le radio nelle piazze a intervalli periodici recitano il decalogo dei comportamenti da tenere in prossimità dell’incontro: non piangere; non mettere troppa forza nel contatto – ma non è chiaramente detto se si presenterà l’opportunità abbracciarsi; non alzare la voce; non urtare i propri vicini di gomito; non correre precipitosamente per un improvviso riconoscimento. La compostezza e la calma che ci hanno insegnato sin dalla più tenera infanzia non devono venire meno in nessun caso, neanche in un’occasione come questa. Per molti è un evento di cui non si poteva prevedere l’accadimento, ma segretamente sognato da decenni, da un’intera vita. Migliaia sono morti con questo desiderio inconfessabile e inconfessato di rivedere, anche solo per una volta, la realtà incarnata di un’immagine mentale, di un ricordo a fatica di devozione tenuto in piedi, con la più grande e spossante concentrazione perché non andasse in frantumi. Le tecniche per tenere in vita l’immagine sono state le più svariate per ciascuno. C’è chi ha legato la presenza nella mente ad un sapore facilmente esperibile nella stenta vita quotidiana di qui– il sapore di qualcuno di quei cibi semplici, di cui è da sempre costituita la nostra alimentazione. Qualcuno ha invece legato la conservazione del ricordo all’evocazione di un gesto, di uno di quei gesti che segnano inevitabilmente la giornata – aprire la porta di casa per uscire la mattina; chiudere la luce prima di dormire; svegliare i bambini per andare a scuola. Qualcuno invece ha scelto di costituire un piccolo altare immaginario, un altare portatile, da utilizzare ad ore fisse – o a giorni fissi; come nella piccola celebrazione – quotidiana, settimanale o mensile – di un culto. C’è anche chi ha scelto di dimenticare. Di fingere che non esistano differenze tra un prima e un poi, nessuna linea di demarcazione, né nella catena dei giorni né nella distesa degli spazi. Questi che hanno preferito la cancellazione sono poi stati più facilmente degli altri pescati in prossimità del muro di confine, pericolosamente vicini alla rete elettrificata, o alle torrette o alle zanne dei cani. Perdere l’immagine ha significato, per loro, perdere il segno, la misura – ogni orientamento possibile per sfuggire ai colpi di mitra. L’alba del giorno fissato per l’evento è stata per tutti tremebonda e gelida. Il desiderio si è mescolato alla paura in ogni attimo, sin dalla prima occhiata nella stanza disadorna del risveglio. Gli altoparlanti hanno anticipato i loro editti, inizialmente staccando i messaggi ad intervalli regolari. All’approssimarsi dell’ora stabilita le voci stentoree sono divenute più insistenti, il volume si è alzato e le pause sono diminuite tra messaggio e messaggio. Ci siamo vestiti con gli abiti della seconda stagione – prevedendo le sudorazioni per la fatica della marcia e per l’emozione dell’incontro. All’inizio abbiamo sentito l’aria umida del primo mattino incunearsi tra la stoffa di cotone grigio pesante e la superficie del corpo. Per quasi tutti, l’aria fredda ha trovato poi un altro passaggio nella distanza tra la carne e le ossa dello scheletro. Abbiamo sentito il freddo del mattino addentrarsi tra stoffa e carne, tra carne e ossa, insidioso, inesorabile; non era possibile difendersi da questa sottile perfidia dell’aria che penetra ogni qual volta ci si toglie la corazza pesante che abitualmente portiamo fuori dalle case, che copre ogni centimetro di corpo lasciando libero solo lo spazio di due feritoie per gli occhi e di una per la bocca. Ci hanno sempre detto che era necessario proteggerci in questo modo, noi e soprattutto i piccoli. Ma tutto è stato congegnato nel migliore dei modi; sempre sono stati disposti degli spazi di denudamento, dei recinti coperti in cui, specialmente i bambini, potessero muoversi per qualche ora liberi dal guscio di protezione. In questa occasione è stato disposto l’ordine di lasciare a casa gli involucri per procedere più speditamente nel cammino verso la frontiera. Ci sentiamo anche per questo in pericolo, smarriti. A qualcuno non è mai capitato di trascorrere tanto tempo all’aperto senza corazza di protezione. All’umido del mattino e all’emozione si è perciò aggiunto il gelo della paura per la condizione inusitata. Tutti camminiamo con passo veloce ma non frenetico, nella stessa direzione. I corpi e i volti sono bianchi e qualche volta flaccidi: l’obbligo di attività ginniche non ha potuto impedire al tempo di effettuare la sua opera sulle carni. Nessuno guarda l’altro – non siamo abituati a scambiarci sguardi; anche le occhiate furtive, in un tempo non molto remoto, erano proibite dai regolamenti e duramente punite. Procediamo con passo spedito e senza guardarci, il cammino già dura da alcune ore – da quando hanno aperto i cancelli delle mura urbane per farci uscire fuori, verso la frontiera. Il paesaggio è per molti sconosciuto e inimmaginato. Nella città è bandita ogni manifestazione di vita spontanea, ogni presenza del mondo naturale. Molti per la prima volta nella loro intera esistenza vedono le piante, o qualche animale che, terrorizzato, si dilegua nella boscaglia rada che attraversiamo come un esercito disarmato. Ciascuno cerca di contenere gli sguardi; di guardare solo ciò che è indispensabile per procedere – la strada, gli ostacoli vegetali che si presentano. Si concentrano sul camminare, per evitare di disperdere la tensione, di lasciarla defluire in comportamenti per i quali si aspetta, verdetto inesorabile, la più dura condanna. Procediamo concentrati verso la destinazione; ma ciò non riesce ad impedire del tutto che l’occhio incontri oggetti mai visti prima, e che si imprimono nello sguardo come impronte nell’argilla molle, come orme di vita – felci, piccoli insetti – scavate nella pietra senza alcun intervento intenzionale. Con l’avanzare del giorno avanza anche la stanchezza. I più anziani vorrebbero riposare un po’; qualcuno si appoggia con la schiena ad un albero, e rimane così turbato dal contatto con la corteccia, mai prima sentito, che deve riprendere la marcia per non stare peggio, per non avvertire ancora di più la stanchezza e lo stordimento. Finalmente ci giunge il segnale. I fischi distanziati che ci dicono di fermarci. Ognuno si lascia cadere sul posto, piegando le ginocchia, stendendosi semisdraiato sul terriccio o sul pietrisco; oppure rimane semplicemente accovacciato sui talloni. Gli occhi si chiudono e quasi tutti sprofondiamo nel sonno breve che ci hanno insegnato come utile alternativa quando non c’è tempo per dormire. Siamo così bene addestrati che nell’arco di trenta secondi regna la più completa calma, tutto rimane immobile, le piante solo continuano a non dormire, a muoversi piano e a respirare assorbendo i nostri fiati, il veleno che per loro è nutrimento. Siamo una distesa di corpi, senza protezione, con le palpebre abbassate e completamente immobili. Il sonno breve dura circa quindici minuti ed è interrotto da tre brevi fischi che indicano, inequivocabilmente, la ripresa. Con una energia affievolita rispetto a qualche ora prima ci alziamo, spolveriamo con un gesto meccanico gli abiti e riprendiamo a camminare. Ora dagli altoparlanti che hanno legato ai fusti degli alberi si diffonde una musica che serve a prepararci. Anche da questo comprendiamo che la frontiera non dev’essere lontana. E’ una musica struggente, che ci rimescola dentro cose mai avvertite prima. Dalle orecchie si insinua fin verso una profondità inesplorata, che si agita con una forza sempre più minacciosa. Mi ricordo di aver visto, una volta, in un libro di carta, una immagine terrificante: una immensa superficie di acqua con onde altissime. Adesso qualcosa di simile a quelle onde gigantesche viene messo in moto dalla musica che si diffonde a volume crescente. La musica procede come una spirale che si avvolge su se stessa, un cerchio che si stringe fino a diventare cuneo di suoni che dalle orecchie ci invadono il petto e provocano l’elevazione di onde, dapprima solo un’increspatura della superficie, poi grandi, immense colonne d’acqua che si levano e ricadono con fragore sulla superficie agitata sottostante. E più la musica procede, col suo andamento di cuneo, più il nostro volto si altera, si distorce, si trasforma, gli occhi si stringono, un liquido ne fuoriesce dagli angoli interni, il fiato nella gola si strozza, produciamo noi stessi suoni da cui siamo atterriti, perché mai prima sapevamo di poter produrre qualcosa del genere. I volti sono deformati e bagnati, i toraci sobbalzano per scosse sonore ritmiche, ossessive. Qualcuno, senza sapere cosa sta facendo, stende una mano e tocca la mano di chi gli cammina a fianco, sente il calore di una parte del corpo altrui, lo tocca, e stringe, comincia a stringere e ad aggrapparsi a quella periferica come se non potesse più allentare la presa delle dita. Si diffonde come un moto questo comportamento irriflesso e adesso siamo tutti come incatenati per le mani che si tengono. Si sono formati gruppi, alcuni piccoli, altri grandi, che procedono nella stessa direzione, ma ora aggregati dalla presa, dal contatto. E ciò sembra calmare quella tempesta di singhiozzi suscitata dalla musica degli altoparlanti. I corpi hanno assunto nuove posture; i passi sono rallentati, quasi come se non fosse più importante raggiungere il confine. Qualcuno, tra i gruppi più avanzati, comincia a sussultare. In lontananza, appena percepibili dallo sguardo, cominciano a stagliarsi alcune figure dal significato inequivocabile: pezzi di rete e di muro grigio, la continuità delle immagini che si stagliano contro l’orizzonte interrotta solo per l’irregolarità del suolo. Tutti comprendiamo, da questi semplici elementi, che siamo quasi arrivati a destinazione. Avanziamo di nuovo composti, gli occhi si sono asciugati, le scosse del petto sono cessate dopo il contatto con gli altri corpi. Ci teniamo, a gruppi, per le mani, o con le braccia che avvolgono le spalle o la vita di un altro. La luce è meno intensa, ora, e gli occhi ne sono meno feriti. Proprio per questo possono meglio distinguere quello che si presenta allo sguardo. Oltre la rete, a cui per l’occasione è stata tolta l’elettrificazione, centinaia di sagome – le dita aggrappate negli occhielli di metallo, i volti, bagnati e con gli occhi bene aperti, appoggiati e quasi schiacciati contro i fili. Tutti hanno i capelli bianchi o grigi, indossano, come noi, gli abiti di cotone grigio della seconda stagione. E’ il momento del riconoscimento. Adesso ciascuno deve tirare fuori l’immagine che da tempo immemorabile ha custodito nei recessi della propria vita; tirarla fuori, guardarla bene e percorrere con lo sguardo il tragitto tra l’immagine e questi volti apparsi oltre la rete. Il moto cambia direzione; non è più possibile procedere, andare avanti. Tutti ora si spostano trasversalmente, si muovono lungo la barriera oltre la quale ci sono le sagome. Qualcuno prova ad effettuare il riconoscimento toccando, con la punta delle mani, quelle dita aggrappate; qualcuno prova a riconoscere annusando; qualcuno, addirittura, lecca quelle mani e quei volti perché ha da riconoscere un sapore. Alcuni appoggiano la propria guancia alla guancia oltre la rete, facendo combaciare il proprio corpo all’altro separato. In molti toccano solo le mani, coi palmi aperti e le dita distese, e, lentamente, con un movimento del volto che si solleva a partire dal basso, incontrano gli occhi che stanno dall’altra parte. Rimangono come agganciati negli sguardi – non sembra neanche più possibile un distacco, un girarsi altrove, un muovere il capo. Gli sguardi incatenati sembrano pieni di un’unica domanda, che lentamente svanisce, e resta solo il contatto tra due immagini che si compenetrano senza rispecchiarsi. Alcuni si sono inginocchiati; altri seduti con le spalle alla rete, in contatto di schiena due a due. Il silenzio è compatto; anche le piante rade hanno smesso di respirare intorno; il cielo è immobile. Tutti siamo come paralizzati nella posizione assunta, come statue, due schiere di statue separate da una reta non elettrificata, due masse quasi infinite di sagome che hanno trovato un punto di contatto da una parte e dall’altra della divisione. Nessuno si preoccupa più. Non c’è più il momento successivo da prevedere; non bisogna più preparare e disporre alcun gesto, alcun comportamento. Le ore passano lentissime, la luce degrada e l’immobilità più completa regna sulla scena immensa dell’incontro. Nessuno aspetta nulla – come se per sempre fossero finiti i comandi, i segnali, le voci dagli altoparlanti. Come se persino quella rete che ostacola il pieno contatto non esistesse più. L’addestramento dell’intera vita a questo serviva, del resto. A non sentire la separazione costituita dai corpi. E una rete, non elettrificata, è molto meno di un corpo.

In Bosnia. Viaggio sui resti della guerra, della pace e della vergogna

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Ringrazio Cristina Babino per la segnalazione del libro e per avermi fornito tutti i materiali (ndf).

 

di Pierfrancesco Curzi

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In Bosnia, a vent’anni dalla fine di una guerra sanguinosissima, nella quale – nel cuore dell’Europa – sono stati commessi i più gravi crimini contro l’umanità dalla seconda guerra mondiale e si è svolto il più veloce genocidio della storia, quello di Srebrenica, sono ancora troppo dolorosi i ricordi delle vittime e ancora ostinati i silenzi dei carnefici. Le prime e i secondi non di rado s’incrociano e questo già dice tutto sul mefitico clima d’impunità che si respira nel Paese. Il viaggio di Curzi è un viaggio nella memoria di coloro che, in oltre tre anni di guerra, hanno visto morire decine di familiari e amici, di coloro che sono sopravvissuti agli assedi, alla fame, agli stupri, alle torture. Quello di Curzi è però anche un viaggio della memoria. L’autore, foto e documenti d’epoca alla mano, va alla ricerca degli infami centri informali di detenzione disseminati in tutta la Bosnia per verificare cosa ne è stato di quella fattoria, di quel capannone industriale, di quell’albergo, di quel centro termale adibiti dal 1992 al 1995 a luoghi di stupro, tortura e omicidio di massa. Con risultati opposti: non c’è più nulla o è ancora tutto lì. Gli incontri con le persone sono raccontati con grande trasporto emotivo: con delicatezza e solidarietà quelli con i sopravvissuti, con indignazione quelli con chi stava dalla parte dei criminali, con chi da un giorno all’altro si è scoperto visceralmente serbo o croato e ha scoperto nell’altro, il suo vicino di casa, il nemico storico musulmano. Quella della Bosnia è stata una guerra enorme combattuta in piccoli, a volte piccolissimi luoghi: villaggi, frazioni improvvisamente assediati, gli abitanti rastrellati e uccisi o deportati, tutto demolito o dato alle fiamme. Fa bene quindi Curzi a percorrere in lungo e in largo il Paese, a entrare e a uscire dai confini interni artificialmente disegnati a Dayton, ad accostarsi alle frontiere internazionali con Serbia e Croazia. Così facendo ci ricorda che, oltre al genocidio di Srebrenica e all’assedio di Sarajevo (durato più di quello di Leningrado), vi sono stati tanti altri orrori: Višegrad, Žepa e, fuori dalla Bosnia, Vukovar.

(dalla prefazione di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia)

Pubblichiamo qui di seguito il capitolo conclusivo del volume.

 

CONFINI

Esco da Bihać e in venti minuti sono alla dogana di Klokot. Mi rendo conto, in colpevole ritardo, d’essere in procinto di lasciare la

Bosnia. Poco tempo per commuoversi. Per una volta spero in pratiche doganali lunghe. Pochi giorni fa in fila per un’ora alla dogana di Županja. E andavo di fretta. Oggi neppure venti secondi di anticamera. La doganiera croata intima di fermare l’auto, il controllo del bagaglio non serve, il sorriso sincero acconsente il transito. C’è poco da ridere. Me ne vado, consapevole di poter far ben poco per le sorti della Bosnia.

Sono di nuovo in Croazia, scenario intrigante, macchia mediterranea. Scalando alcuni tornanti montani trovo i ruderi di una chiesa meravigliosa. Solo il perimetro murario, i segnali timidi di una ristrutturazione dimenticata tra impalcature abbandonate e sacchi di cemento buttati qua e là. A fianco case mangiate dai bombardamenti. All’improvviso, dalle case diroccate, spuntano un branco di cani arrabbiati. Resto di ghiaccio. Sono a metà strada tra loro e l’auto. Inizio a muovermi, guardingo, loro avanzano. Di scatto inizio a correre all’impazzata. Colti di sorpresa, guadagno il tempo d’entrare nell’abitacolo e sgommare via.

I laghi di Plitvice sono tornati a essere attrattiva turistica di tutto rispetto. Io viro a sud. Invece di puntare verso Udbina, più a est, sede

 Lapide posta all'ingresso del memoriale di Potocari, sobborgo di Srebrenica, riportante il numero "ufficiale" delle vittime del genocidio (8372...)
Lapide posta all’ingresso del memoriale di Potocari, sobborgo di Srebrenica, riportante il numero “ufficiale” delle vittime del genocidio (8372…)

del famoso aeroporto militare usato come base aerea serba, vado verso Gospić. Paesaggio brullo, roccioso, macchiato di arbusti, morbidi saliscendi. Luogo ideale per imboscate e battaglie cruente, confini irregolari. Appena uscito dal minuscolo abitato di Ljubovo, sulla strada trovo le lapidi di un memoriale croato. Sei gruppi marmorei eretti per onorare i caduti dell’Operazione Tempesta. Il maggiore ospita la lapide dedicata a otto soldati. Le date di nascita sono diverse, quelle di morte fissate al 4 agosto 1995, a parte due, trapassati il 16 agosto. L’area è recintata con ghiaia, fori e lumini, sopra la lapide un elmetto militare. Altra lapide, altre due vittime, morte il 5 agosto 1995. Poi lapidi singole per Davor Grginović, 25 anni, e Miljvoi Pogorelić, 30 anni, passati a miglior vita il 4 agosto. Infine l’ultimo gruppo, quattro mini-pietre tombali singole. Soldati uccisi, soldati che hanno ucciso.

L’Europa, tanto per cambiare, era ignara di cosa stava accadendo nei Balcani, quando nel distretto della Lika si andava da un massacro all’altro. Vendette, odio interetnico, cattivo vicinato.

Ottobre 1991. I serbi si sono allargati, vogliono continuare nel movimento di annessione e per farlo sfruttano la maggioranza della popola- zione. Due gruppi nazionali e due religioni inconciliabili, storie e culture diverse. Pari, a tratti soltanto nell’efferatezza dei crimini commessi. Siamo nella Croazia a maggioranza serba. Strage qui, massacro là, faida sopra e regolamento di conti sotto. Tradotto: continui bagni di sangue. Di cui pochi parlano. A chi poteva fregare in Europa se mandrie di pastori, contadini e trogloditi sgozzavano, squartavano, si sparavano addosso e non si fermavano davanti a nulla?

Gospić è parte della Krajina, vicina alla costa, un’ora di strada da Zadar. La conquistata autonomia da parte della Croazia cambia i connotati e i confini geografici della ex Jugoslavia, Pangea alla deriva, smembramento senza soluzione di continuità. Gospić non è più Jugoslavia, è Croazia, però la città e l’area circostante, fino ai confini bosniaci, sono storicamente state abitate in prevalenza da serbi. Il referendum sull’indipendenza riaccende vecchi rancori. Adesso non c’è più il maresciallo Tito, il duro col pugno di ferro, ora è anarchia totale.

Fuori dai circuiti dell’informazione. Del massacro di Gospić, infatti, si sa e si vuole conoscere poco. Sono i croati a mettere a segno il punto, quando tra il 16 e il 18 ottobre 1991 lasciano a terra decine di cittadini serbi. La storia di quegli anni racconta la partita infinita tra i due neo-Stati, fatta di violenza e repressione. Tre giorni prima del massacro di Gospić, il 13 ottobre, i serbi si macchiano di un fatto gravissimo ai danni di un piccolo villaggio nei dintorni del capoluogo. Intere famiglie vengono sterminate, 40 i morti. Non si fa attendere, ed è durissima, la vendetta croata. Fonti serbe parlano di almeno 150 persone uccise o scomparse. Ci vorranno dodici anni per vedere i responsabili ufficiali del blitz alla sbarra, il comandante dell’unità, Mirko Norac, e altri stretti collaboratori. Ecco cosa raccontò Miroslav Bajramović, membro dell’unità responsabile del massacro, molti anni dopo i fatti: «Abbiamo ucciso tra le 90 e le 100 persone in pochi giorni. L’ordine per Gospić era chiaro: pulizia etnica. Noi lo prendemmo alla lettera. Giustiziammo il direttore delle poste e quello dell’ospedale, proprietari di ristoranti e altri cittadini serbi assortiti. Omicidi sul posto, senza troppi pensieri, dovevamo fare in fretta. Ripeto, ordini dall’alto ci imposero di ridurre la percentuale di serbi a Gospić». Nonostante i sacchi pieni di cadaveri, il governo guidato da Tuđman ha sempre negato ogni evidenza. Solo il nuovo corso politico croato, dal 1999, ha portato a indagini e capi d’imputazione.

Corpi gettati dentro fosse comuni, all’interno di cisterne settiche, addirittura sotterrati da colate di asfalto. Indagini rese particolarmente difficili dalla popolazione civile, filo-nazionalista, per cui non c’era stato alcun massacro e, qualora si fosse verificato, era comunque stata cosa buona e giusta. Il sindaco stesso si oppose ad approfondimenti investigativi, scavi ed esami forensi. Nel 2001 i responsabili principali finirono in tribunale, spinti dall’ostinazione del nuovo presidente, Stjepan Mesić.

È facile capire come mai abbia trovato molte difficoltà per reperire una seppur tenue testimonianza del massacro di Gospić. Gospić la croata, come Foča la serba. Attualmente la stragrande maggioranza dei residenti è croata, i serbi sono attorno al 3-4%, mentre nel 1991 sforavano il 31% nella municipalità e il 42% in città. L’accoglienza è fredda, nulla di nuovo rispetto a quelle serbe. Fermo gente per strada, nessuno ha vo- glia di parlare con lo straniero inquisitore. Nazionalisti erano prima, tali dovrebbero essere rimasti. Quando all’interno del vocabolario inserisco la parola slava spomen, memoriale, un ometto basso e tarchiato con la coppola in testa indica il percorso. Appena sceso dall’auto, circondato da rigogliosa vegetazione, scopro che il memoriale è dedicato al dottor Ante Starčević. Politico e scrittore croato, nato nel sobborgo di Zitnik (Gospić) e morto nella casa di legno davanti ai miei occhi. È stato uno dei padri del nazionalismo croato. Me lo dovevo immaginare. Con le pive nel sacco, riprendo il viaggio verso Knin.

  Srebrenica, commemorazione per il 20esimo anniversario del genocidio (11 luglio 2005)
Srebrenica, commemorazione per il 20esimo anniversario del genocidio (11 luglio 2015)

Il fronte della Krajina, quanto ad asprezza, non è stato secondo ai focolai divampati in Bosnia. Non mancano le analogie, cambiano solo i protagonisti dei massacri, i giocatori in campo. Gli odi sono congelati. E non lo penso solo perché qualcuno ha scritto con lo spray “četinski Kraj 1950”, i četnici della Krajina che hanno “perso la fede”, sul muro pericolante di un ex ristorante. È impressionante la frequenza delle case 211 sventrate. Per chilometri solo fantasmi di cemento; la vegetazione selvaggia presto coprirà gli ecomostri. Entro in un villaggio appollaiato ai lati della statale. Sono a circa 30 chilometri da Knin. Colpisce il silenzio tombale. Decido di fare due passi, il villaggio è disabitato, non c’è più nessuno, neppure la vecchietta gobba e sdentata tipica dei villaggi in capo al mondo. Hanno tolto pure il cartello del paese, ufficialmente non esiste più, restano gli scheletri.

Le montagne della Krajina sono splendide, a tratti aride e rocciose, poi morbide e vellutate, prive di vegetazione ad alto fusto. Panorami infiniti, nessuna cima svetta sulle altre, e la striscia d’asfalto corre senza sottile verso l’orizzonte. Non stona neppure il parco eolico. Lascio dietro villaggi semi-disabitati, Siroka Kula, Vukava, Nikšići, Dreskovići, Gaj, Odari. In fondo, all’orizzonte, l’ultimo colle prima della vista di Knin, la città contesa.

A piedi sotto il sole, una fumana di disperati in marcia verso una meta ignota. Estate ‘95. Gli italici network, colpevolmente assenti quanto a copertura del confitto nel cortile davanti casa, hanno confezionato pochi e annoiati servizi mostrando, solo per dovere di cronaca, orde di disperati. Serbi in buona parte. Gli innocenti hanno pagato per responsabilità altrui, ritrovandosi addosso l’immane peso delle colpe commesse dai loro vertici populisti. Serbi trapiantati dalla storia in terra croata, considerata la “loro” terra da secoli.

I profughi in fuga da Knin sono solo il microcosmo di un esodo continuo, transumanza di anime e di corpi, sofferenza, paura, avvilimento. È toccato a tutti scappare da qualcosa o da qualcuno nella ex Jugoslavia. I disperati, in molti casi, oltre alla casa non hanno più ritrovato le loro radici. Proprietà passate di mano, espropri (il)legalizzati. Le mura tra- sudano ancora sangue e sudore a fondo perduto. La morte mordeva le caviglie, tra sputi, insulti e rappresaglie dei nuovi eletti. Pareggio di conti.

Scherzi del destino. I serbi, per secoli zoccolo duro della popolazione balcanica, a Knin ce li hanno messi proprio gli ottomani. Mezzo millennio fa, nel 1522, le orde turche invasero la città e scacciarono gli odiati nemici croati. E per riempirla, baluardo dell’impero in seno all’Europa non ancora plasmata, pensarono alle migliaia di profughi serbi. Sedimento su sedimento, la maggioranza si è fatta serba, in territorio croato, con la Bosnia a due passi. Strana anomalia, senza peso durante la Jugoslavia federale di Tito. Il leader slavo teneva sotto controllo antichi bollori e odi sopiti.

I serbi crebbero, dunque, e i croati divennero minoranza. I secoli, tumultuosi, tra il ‘500 e il ‘900 scombussolarono le gerarchie colonizzatrici. Arrivarono i veneziani, cattolici, consentendo il ritorno dei croati alla guida del territorio. A fine ‘700 è la volta degli Asburgo, presto arriveranno i francesi e quindi gli austriaci. Il resto è storia moderna e contemporanea, dai confitti mondiali ai giorni nostri.

Knin, la città dei croati, del regno croato, del re Dimitar Zvonimir, cresciuta attorno alla sua splendida fortezza appollaiata in cima al monte Spas, costruita e rimodellata tra il secolo X e il XIII. Knin all’inizio degli anni ‘90 precorre i tempi. Con otto mesi di anticipo rispetto alla dichiarazione d’indipendenza della Croazia dall’ormai ex Jugoslavia, viene pro- clamata la Repubblica serba di Krajina. E Knin ne è la capitale. Ottobre 1990. Le autorità serbe fanno tutto da sole, se ne infischiano del mondo fuori e prima di Natale impreziosiscono l’opera con la dichiarazione di sovranità, ponendo al vertice un altro di quei lord di cui i Balcani sono ricchi: Milan Babić. Il nuovo Stato-fantoccio somiglia tanto al Kosovo, però manca l’interesse internazionale. La richiesta di riconoscimento alla Comunità europea, avanzata da Babić, non ottiene buona sorte. Babić, personaggio curioso: passato dalla cura di carie e otturazioni ad amministrare uno Stato. Entità basata sulla tensione interetnica. La strana coppia si completa con Milan Martić, ex poliziotto trasformato in difensore della patria e della razza. I due Milan godranno degli allori del tempo, l’effimero gusto del comando e il disegno folle di una terra libera da impuri. Il conto, tuttavia, arriva sempre. Martić è stato condannato dal Tpi a 35 anni di prigione per crimini di guerra, Babić si è suicidato a cinquant’anni all’Aja, in cella. Marzo 2006, ecco come muore un uomo eroso dai rimorsi.

Con la Repubblica sovrana dei serbi di Krajina i croati, già minoranza, diventavano mosche bianche, da far sparire. Partendo dal primo rilevamento noto, nel 1880, i serbi a Knin erano l’82,3%, i croati appena il 15,1. Per un secolo le percentuali sono rimaste quasi identiche (72,8% nel 1981 il punto più basso per la parte serba) e prima dello scoppio della guerra la percentuale ha toccato il suo massimo, 85,5%, con i croati appena al 10% e spiccioli. Dieci anni più tardi le proporzioni si rovesciano: sono i croati la maggioranza, 76,5%, con i serbi ridotti a presenza minoritaria, poco più del 20%.

«Sono fuggiti lasciando i soldi e le mutande sporche». Parole concilianti, proferite dal presidente croato Tuđman all’indomani dell’esodo serbo dalla Krajina. Senza acqua e cibo, 150-200.000 persone incolonnate. Solo una minoranza dei serbi di Knin ha ascoltato le parole di Tuđman alla radio croata: «Non abbandonate le case, garantiamo totale sicurezza a chi non si sia macchiato di crimini di guerra». Il messaggio, ripetuto fino a diventare litania, diffuso dagli altoparlanti; simile a quello diffuso a Srebrenica da Mladić. Mentre Tuđman tranquillizza, i suoi fanno piazza pulita di innocenti. Orde di soldati ubriachi, senza scrupoli, devastano vite e speranze: almeno seimila le vittime assassinate. Danni collaterali, senza distinzioni tra vecchi, donne e bambini. Purc3. fossa comunehé siano serbi. Militari fuori controllo al comando di lugubri personaggi: Ante Gotovina, Ivan Čermak e Mladen Markac, ufficiali di “sua maestà” Franjo. I vertici militari serbi, venuti a conoscenza della barbarie, non sono certo rimasti con le mani in mano applicando lo stesso trattamento ad altri innocenti, croati residenti nelle zone al confine con Serbia e Ungheria.

Il 1995 è l’anno della resa serba, militare, territoriale ed egemonica. L’atteggiamento spavaldo di Karadžić e la coppia Babić-Martić comincia a scricchiolare in primavera, quando si cerca l’intesa tra le parti per fermare le schermaglie. Trattative lente e infruttuose. La pace ha un costo che nessuno vuole pagare. La proposta è tornare all’autogoverno croato nelle zone a maggioranza, come nel 1991, lasciando ai serbi Knin e dintorni. Tuđman si dice disposto a dare l’autonomia di Knin e Glina e chiede in cambio la cessione delle zone orientali della Slavonia, di cui i serbi si erano impadroniti a inizio confitto. Tutto inutile, i serbi di Krajina non accettano di veder cancellata la sovranità della neo-repubblica. Il patto salta. Intanto sul terreno la battaglia impazza. I serbi distruggono il celebre ponte di Maslenica, a sud di Knin, snodo strategico tra la Croazia centrale e la Dalmazia. I croati lo ritirano su e chiudono i nemici in una morsa inesorabile. L’autostrada Zagabria-Belgrado, la strada più importante della federazione jugoslava, ormai è chiusa dopo i gravi fatti dei mesi precedenti.

La vittoria croata è vicina e inizia a materializzarsi nel giugno 1995. Il mese successivo il crollo serbo è servito. Molti soldati disertano, il fronte resta sguarnito. Dalla Republika Srpska, Karadžić fa ciò che può, inviando in battaglia, col fucile in mano, pure donne e ragazzini. Non basta. Margine per trattare non ce n’è. Viste le dispari forze in campo, Zagabria preferisce puntare sull’azione bellica, fino in fondo. Karadžić abbozza. È vero, le Krajine sono perdute, tuttavia i serbi in fuga saranno convogliati nelle zone della Bosnia tolte ai musulmani e da ripopolare. La vittoria croata è inevitabile e un giorno ne identifica il trionfo, il 5 agosto 1995, l’apice dell’Operazione Tempesta, marchiato dai croati come il giorno dell’orgoglio nazionale (in realtà gli ultimi combattimenti si esauriscono tra il 10 e il 20 di agosto). La campagna di Krajina è un successo totale, Tuđman s’impossessa di territori persi pagando un tributo di sangue limitato: appena 409 morti e meno di 2.500 feriti. Knin è liberata. La conta dei danni è ancora al centro di vivaci discussioni, al punto da ipotizzare il lancio su Knin di un mix tra bombe reali e a salve. Operazione Tempesta soft, mascherata per preparare raid silenziosi. Altrimenti come spiegare gli appena 45-50 edifici, solo la metà di importanza militare e strategica, seriamente lesionati. In realtà il grosso delle distruzioni avverranno in una seconda fase, casa per casa: per ogni edificio conquistato viene posta la scritta “Hrvatska kuća”, casa croata.

Porto di Zara. Inchiodo le gomme a un metro dalla banchina. Sono euforico. Non dovrei esserlo. Dovrei avere il muso lungo, il volto scuro e lo sguardo ombroso per il viaggio ormai al termine. La notte si porta via i rimasugli del viaggio. La nave aspetta da ore, ormeggiata sul molo verso il mare aperto. Al di là c’è Ancona. Penso a cosa è stato e a cosa mi aspetta, pensieri in chiaroscuro. Tra poche ore sarò ad Ancona. Meglio dormirci su. A proposito Momi, Sretan Put.

*

Le fotografie sono di Piefrancesco Curzi

Pierfrancesco Curzi, IN BOSNIA. Viaggio sui resti della guerra, della pace e della vergogna, Formigine (MO), Infinito Edizioni, 2015.

Il respiro dell’essere. Riflessioni sull’immagine

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20151006_163515                                                      di Mario Galzigna

Oh, immaginazione! Il più grande tesoro
dell’uomo, l’inesauribile fonte alla quale
tanto l’Arte quanto la Cultura vengono
ad abbeverarsi! Oh, rimani con noi…
così che ci si possa porre al riparo dal
cosiddetto Illuminismo, quell’orrendo
scheletro senza sangue né carne.

(F. Schubert, 1824)

 [Franz Schubert’s Letters and Other Writings, a cura di O.E. Deutsch, London 1928, p.77].

1. IMMAGINE-MOVIMENTO

Sigmund Freud ha lavorato soprattutto sull’immagine censurata o rimossa. A partire dai suoi scritti sull’isteria e da Die Traumdeutung, Freud tematizza a più riprese una distanza, uno scarto, un’irriducibile alterità tra il dinamismo inconscio dell’immaginazione — noumeno opaco e inattingibile – e l’immagine, così come viene rappresentata sia durante il sogno, grazie al lavoro onirico, sia nello stato di veglia, quando il sogno diventa testo o racconto: un’immagine filtrata, dunque, dal lavorìo della censura e deformata da un censore interno, capace di adattare pulsioni e desideri all’etica sociale dominante.

Nell’attività artistica – ma anche nei sogni ad occhi aperti, negli stati di rêverie e in alcune dimensioni contemplative ed amorose dell’esistenza – può talora venir meno questa separazione, questa radicale distanza tra il movimento autentico dell’immaginazione e la sua traduzione in immagini, concepite come il prodotto di una coscienza vigile e censoria. “Ogni immaginazione, per essere autentica, deve riapprendere a sognare”, scriveva Michel Foucault nel 1957, in una folgorante introduzione a Sogno ed esistenza, di Ludwig Binswanger. [1]

In questo annullamento della distanza, l’immagine sognante non implica la rinuncia al movimento pulsionale dell’immaginazione, ma nasce, al contrario, dalla sua emergenza vitale e produttiva, dalla sua manifestazione piena e variegata. Non, quindi, una Bild appiattita sul Sinn e sul linguaggio: irrigidita, cristallizzata, scandita dal lavorio della censura e dal rullo compressore della rimozione. L’immagine (Bild), insomma, non è soltanto un significante codificato, che rinvia necessariamente a un senso (Sinn), a un significato, o a una trama di significati; non è soltanto una rappresentazione impoverita di qualcosa d’altro, oppure di una mancanza – o di un vuoto – che essa avrebbe il compito di colmare. E’ anche potenza creativa, espressione di ricchezza interiore, struttura dinamica e trasformabile, variabile nel tempo e nello spazio: figura di una pienezza sensibile e materiale dell’essere.

Con buona pace di Heidegger, il verbo inglese to be, essere, deriva da una radice indoeuropea bheu, che sta per esistere, ma anche per divenire e per crescere; e parole astratte come animo, anima, rappresentano l’evoluzione di una radice indoeuropea an, che significa respirare. L’essere e l’anima, dunque, come concetti astratti, sono connessi, originariamente, ad immagini relative alla crescita e alla respirazione. Ritroviamo, a volte, dietro la parola, il moto pulsionale dell’immagine, ricco di figure che rinviano alla concretezza del corpo vissuto — il Leib, di cui parlava Husserl — e quindi alla nostra maniera di percepirlo e di raffigurarlo. “Le parole astratte — commenta Julian Jaynes — sono antiche monete, le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso”. [2]

Così intesa, questa immagine-movimento — espressione diretta di una immaginazione attiva e sognante, attingibile fuori dai filtri di una censura normalizzatrice — rappresenta la molla propulsiva della nostra autonomia individuale e culturale: il nocciolo antropologico irriducibile alle tecnologie del controllo, ai dispositivi storici entro cui si dispiega la potenza omologante e produttiva del potere. Come aveva detto Piaget nel 1945, è possibile uscire dall’imperialismo della rimozione proposto dalla psicoanalisi: un imperialismo che risolve sempre ogni contenuto immaginativo in un tentativo di aggirare la censura, accettandone comunque i limiti e i divieti. [3]

Ogni forma di rêverie creativa – di cui il cinema, quando diventa “film d’anima”, è in grado di recare testimonianza – non è altro che questo, forse: l’immagine che si afferma come epifania di una immaginazione attiva, non come figura contratta e pietrificata, non come formazione sostitutiva, non come maschera deformante e deformata di un desiderio alterato o rigettato. [4]

Andrej Rublëv, il grande capolavoro di Tarkovskij, presentato al Festival di Cannes nel 1969, rappresenta in maniera emblematica il valore creativo e liberatorio dell’immagine. Lasciamo, per un istante, la parola al regista, così come emerge nel suo omonimo romanzo cinematografico: “Le immagini delle icone e degli affreschi, trasparenti e severe, dolci e crudeli nello stesso tempo, fluiscono una a una davanti ai nostri occhi…E insieme ad esse, intrecciandosi con l’ispirazione che le ha generate, e rendendo così comprensibile e infinitamente semplice il cammino di Andrej, palpita la musica della natura, quella musica che Andrej sentiva mentre dalla sua anima nascevano le immagini più belle e luminose”. [5]

Nei vissuti estatici e creativi, oppure nelle rêveries che accomunano gli amanti, o che scandiscono la cura di un neonato, l’immaginazione – trama interattiva e cifra della trascendenza — si afferma come immanenza del mondo e dell’altro. Privilegiare queste dimensioni significa ribaltare una consolidata tradizione filosofica e teologica, di matrice giudaica, caparbiamente iconoclastica ed incline ad una svalutazione ontologica dell’immagine, considerata una forma imbastardita del pensiero ed anche, per dirla con Brunschvicg, un grave “peccato contro lo spirito”. [6]

E’ allora possibile, in questa prospettiva — fuori dal circuito capitalistico dell’immagine fabbricata, serializzata ed imposta – far parlare le nostre immagini interiori nella loro pregnanza intrinseca, esibita, comunicabile. Ciò che non è riuscito alla psicoanalisi freudiana, ancorata a una dialettica necessaria tra significante e significato, può forse riuscire a un’antropologia dell’immaginazione[7] liberata dall’ipoteca idealistica: e quindi, a maggior ragione, ad un’attività artistica, ad una movenza del pensiero e ad una forma d’esistenza costruite sopra le fondamenta di una immaginazione creativa, plurale ed esprimibile. Di qui, forse, potrà prendere le mosse la costruzione di una nuova psicologia e di una nuova ontologia storica dell’immagine.

2. VENIRE ALLA LUCE

Esiste tutta un’attività espressiva che sta prima della parola, che la sorregge, che la rende possibile come veicolo del significato. Paradigmatico, in questo senso, l’itinerario poetico ed esistenziale di Antonin Artaud (1896-1948). Nel suo Teatro della crudeltà egli mette in scena, non a caso, una parola che sta prima delle parole (la Parole d’avant les mots ): parola-grido, parola-corpo, musica della parola che parla direttamente all’inconscio (musique de la parole qui parle directement à l’inconscient); parola-gesto, parola sonora — spinta fino agli estremi della glossolalìa – che sfonda le barriere murate del significante. Occorre spezzare il linguaggio, egli afferma, per toccare la vita (briser le language pour toucher la vie); occorre rompere l’involucro limaccioso del linguaggio per attingere alla vita, decretando, entro un’arte totale — entro una scena crudele — il primato della forza vitale (la force de vie) sulle forme del linguaggio. E ciò che vive nella scena crudele è un “inconscio oggettivo” — Gaston Bachelard parlava, negli stessi anni, di una “psicoanalisi oggettiva” – che precede la formazione del significante, che non attende nessun chiosatore, nessun commentatore segreto, nessun analista (Le Théâtre Alfred Jarry, 1930). [8]

Artaud, lo scrittore insorto (l’écrivain insurgé), uno dei più radicali cartografi della “coscienza in extremis“, [9] si impegna – assieme a Nerval, Lautréamont e Van Gogh, spesso evocati nei suoi testi – in una lotta titanica contro la tirannia di una corrispondenza rigida e necessaria tra significante e significato. Ed anche per questo, consapevolmente, paga il prezzo di una tragica déperdition: un’ “erosione centrale dell’io” che diventa, al tempo stesso, trama dolente del suo canto e linfa vitale di una resurrezione creativa. In nessuno, forse, come in Antonin Artaud, il delirio dell’assenza e dello sprofondamento — vero e proprio veleno dell’essere (poison de l’être) — rappresenta il nutrimento dell’anima e la materia prima dell’immaginazione. L’abisso opaco e regressivo della perdita — quando il pensiero pare condannato ad una inexistence priva di ritorno e di redenzione – diviene, qui, matrice di una rinascita interiore, capace di manifestarsi come forza vitale e come folgorazione poetica. Ci si rifugia nella notte originaria per poter reinventare un nuovo giorno. Dopo il movimento precipite della caduta – dalle luci aggressive del mondo al buio della déperdition— il dinamismo attivo dell’ascesa: dall’abisso nero e silente dello sprofondamento ai bagliori sfavillanti di una rigenerazione creativa, dove l’espressione si afferma innanzitutto come pienezza vissuta di una presenza corporea.

Nel linguaggio comune il verbo nascere è sostituito, molto spesso, da locuzioni come venire al mondo, venire alla luce. E’ la luce, in effetti, la “novità assoluta” in cui si imbatte il neonato: ed è stato anche ipotizzato — dopo le prime ed abortite intuizioni di Otto Rank – che la sua prima fantasia sia proprio quella di farla sparire, di “fare buio”, di ritornare “al buio e all’acqua dello stadio intrauterino”. [10]

L’essere umano, lo aveva già detto Bergson, trova dunque la luce fuori da se stesso, e le sue immagini-movimento sono al tempo stesso forme dell’interiorità e immanenza del mondo, delle cose, della materia: attività mentali originarie che dissolvono la distinzione tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto, superando la tradizionale polarità filosofica che oppone l’idealismo al materialismo. Ed è stato proprio Henri Bergson, nello straordinario primo capitolo di Matière et mémoire (1896), a indicarci la strada, non senza incertezze ed esitazioni. Gilles Deleuze, dopo di lui — nel suo grande libro sul cinema – l’ha ripresa e riproposta. [11]

Le aritmie del ricordo

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di Francesco Borrasso

 20150911_192751Dal finestrino passa veloce il paesaggio: campi spogli, gialli, appiattiti dal sole.
Il vento entra nell’auto, parla. Manco dal paese paterno da vent’anni. Ho mantenuto la proprietà dopo la sua morte. Avrei dovuto venderla, ci sono andato vicino tante volte. Scorgo il paese da lontano, la sera inizia a scendere dal cielo, le luci elettriche si stanno accendendo, il luogo sembra un presepe; mi ricorda il Natale e l’odore della pelle di mio padre. I profili delle case tagliati contro il tramonto, le strade asfaltate che salgono come fiumi, scorrono al contrario.
Scendo dall’auto – quanto silenzio: le ombre degli alberi allungati dalle lanterne agganciate sui muri delle case. Tolgo i bagagli dalla macchina. Davanti l’abitazione, mi accorgo che alcune cose ti cercano, e te ne rendi conto solamente dopo averle viste. Osservo la facciata della casa, torno bambino, nelle estati che passavo qui, la processione per festeggiare l’Assunta. Alcuni luoghi restano aggrappati alle persone, alcuni posti non la smettono mai di parlare, di raccontare le vite che sono passate di lì. Apro la porta, un po’ di luce mi supera e sporca le ombre della casa.
C’è l’odore della mia infanzia, quando ad ogni buona occasione correvamo qui a passare qualche giorno – vorrei poter chiudere gli occhi per risvegliarmi in quegli odori, dentro quegli anni, osservato da quei visi che non appartengono più alla realtà, quando mi bastavano le cose raccontate dai grandi, quando potevo credere ad un senso.
Apro la finestra, polvere galleggia nell’aria, granelli librano giocando con la gravità. Cammino per il paese, sento il sole che batte sulla pelle, strade piccole, case anziane, bianche per lo più; le persone mi osservano curiose, al mio passaggio si voltano e mi inseguono con lo sguardo. Uno straniero è una notizia, qui. Il mio corpo in movimento interrompe il silenzio. Un silenzio che a tratti è assoluto ed io incomincio a tremare, sudo. I muscoli faticano a lasciare andar via il ricordo.
Dal bar viene fuori l’odore dell’alcol; una ragazza esce dalla porta, la luce le colpisce il viso; la pelle oro, le mani sui fianchi. Un’espressione di fatica.
Le luminarie: archi colorati brillano: un percorso di luci segna la strada.
La lampada sul tavolo regala luce, il piatto sporco, le urla dei bambini potenti entrano dalla finestra; le prospettive cambiano a secondo di ciò che ti accade; la formazione mentale lascia sempre il fianco a qualche errore, crepe. Ripenso alla voglia che avevo di avere un figlio, il quadro della famiglia disegnato davanti agli occhi dai miei genitori – mettere al mondo un figlio e dovergli spiegare, poi, l’inutilità di tutto questo.
Lontano, appena sopra le montagne, il cielo si rompe di luci bianche, l’elettricità di una tempesta lontana ramifica nella notte. Un giorno, nel giardino dietro casa, ho trovato un topo morto, era lì da poco, il corpicino ancora caldo; l’ho vegliato per molti giorni, aspettando la resurrezione, aspettando una manifestazione della sua presenza dopo la fine. Ero in possesso dei miei anni fanciulli e nella mente non c’era lo spazio necessario per comprendere un finale definitivo.
In piazza c’è la chiesa. Ha la facciata bianca, scrostata. La gente si sta riversando sotto le luci, il corso è un ingorgo di corpi. Trovo un posto in disparte, seduto su un gradino di marmo, osservo il passaggio delle persone e ritrovo le mie corse bambine. Le ore piccole. Le nostre ombre da ragazzini, allungate dalle luci della sera. Le corse e il pallone da inseguire, la maglietta bagnata, i litigi, le mascalzonate dentro i bar, i richiami dei genitori, le lacrime delle prime ingiustizie – ancora si sente la voce di mio padre che affacciato al balcone mi richiama per farmi tornare a casa.
Mio nonno è deceduto, siamo in cucina e all’esterno il giorno sta finendo. E’ inverno, le strade piene di addobbi. Mio padre indossa un maglione nero, a collo alto. C’è tanto silenzio, tanto che riesco a sentire il suo respiro e il suo affanno. Ho scrutato i suo occhi velati di lacrime, sto leggendo la tristezza definitiva che ancora mi è estranea. Il mio genitore maschio ha perduto il laccio che lo teneva stretto all’infanzia. È fermo sulla sedia, mi rendo conto delle sue mani che tremano un poco, me ne accorgo da terra: sono vicino al fuoco, sul tappeto, e sto leggendo, non ricordo il titolo del libro ma mi è rimasta la sensazione di solitudine.
“Pa’” la mia voce pare una violazione.
Un rumore scagliato contro il silenzio sacro.
Lui si volta, abbassa gli occhi e li punta su di me; il suo corpo si porta dietro il racconto del lutto, l’accettazione difficoltosa, sussurra l’epifania di un percorso.
“Che c’è?”
“Dov’è mamma?”
“E’ andata a fare la spesa, questo Natale sarà diverso.”
“Perché?”, i suoi muscoli facciali fanno difficoltà a contrarsi.
“Il nonno non c’è più, e non tornerà”
“È andato in cielo?”
“Si, bravo, è andato in cielo.”
“E non può tornare?” sussurra la mia voce bambina.
Lui si alza.
Lascio che la sua figura si sieda al mio fianco, sul tappeto, con le ombre del fuoco che ballano sulla parete difronte.
“Prima o poi tutto finisce.”
“Chi lo decide?”
“D-i-o.”, le tre lettere che mio padre tira fuori dalla bocca sono: controllate, piene, emozionali.
“E poi?”
“Non lo so.”
Ha le guance arrossate, il calore del camino mi schiaffeggia la pelle.
Mio padre si alza, mi lascia le spalle, lo vedo andare via dietro la porta della sua stanza, ha il passo debole e lo sconforto che gli si è legato alla schiena.
Il lutto è un oggetto che prende spazio nel corpo e ci resta per sempre.
La notte della prima veglia aspettavo la venuta dell’angelo, mi avevano dettato un racconto pieno di questa figura che sarebbe dovuta venire a prelevare l’anima di mio nonno. All’orizzonte c’era una linea chiara che faticava a scomparire: ascoltavo la venuta dell’angelo cercandolo nei rami spazzati dal vento, nelle foglie che abbandonavano il cordone ombelicale; volevo capirne la venuta nei cani che si fermavano e mi osservavano, annusandomi.
I vecchi del paese mandavano fuori il fiato per l’ultimo rosario; il corpo di mio nonno era una forma immobile sul letto, era vuoto – l’anima volata in cielo, mi dicevano. Nonostante io abbia fatto attenzione, non sono riuscito a vedere l’angelo, ho perduto il suo gesto di rapimento.

* immagine: Mariasole Ariot

La civiltà Laiseca

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Alberto Laiseca

Alberto Laiseca

 

Come dice lo stesso Alberto Laiseca, Los sorias è «anzitutto qualcosa di molto divertente». Poi, oltre a essere l’opera più ampia della letteratura argentina, una delle più ambiziose e, fino a qualche tempo fa, anche una delle più sconosciute, è tante altre cose. In Italia è ancora inedita – speriamo per poco – mentre altri libri di Laiseca sono e saranno pubblicati da Arcoiris edizioni. In attesa di poter leggere per intero Los sorias, pubblico il breve prologo di Ricardo Piglia – un rabdomante di scrittori sepolti – all’edizione Simurg del 2013. [g.c.]

Wargames?

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di Daniele Ventre

Nel contesto ingravescente delle tensioni internazionali nel Mediterraneo orientale, la Turchia è di fatto, agli occhi dei Russi, uno Stato canaglia -e forse, se dobbiamo dar retta a certe analisi non di parte, lo è davvero. Se la Russia dovesse seguire l’American way of life a noi sì caro, dovrebbe attivare contro Ankara il crescendo di sanzioni, blocco navale, bombardamento a tappeto/guerra guerreggiata che tutti ben conosciamo e che ai coraggiosi avventurieri xenofobi di tanta politica nostrana piace caldeggiare, quando fa al caso nostro. Ma la Turchia è nella Nato, fa pressioni per entrare nell’Unione Europea, che le offrirà, dice, tre miliardi di euro di aiuti, salvo poi dividersi su chi deve sborsare quanto.

Per ora l’Unione Europea, ovvero la Germania, ha di fatto già ingaggiato sottobanco la Russia nello strisciante ed equivoco conflitto ucraino, senza che le rispettive pedine superassero lo stallo o si uscisse dal gioco di proclami e contro-proclami. Al momento siamo nella tipica situazione che precede una guerra guerreggiata su larga scala e che pertanto potrebbe degenerare nel giro di poco tempo (al massimo i due anni che intercorsero fra l’attentato al WTC e lo scoppio della seconda guerra del Golfo).

Ciò potrebbe avvenire secondo modalità imprevedibili, la più immediata delle quali è il riproporsi in Turchia della situazione ucraina, o peggio della situazione siriana (con Erdogan nel ruolo di Assad), in base alla sequenza: basi militari russe in Siria – sponsorizzazione russa di Assad in Siria e contraddittoria sponsorizzazione russa dei Curdi in Turchia -proclami mediatici putiniani- guerra civile in Turchia -estensione dell’area di conflitto etnico-religioso in piena NATO, con esiti imprevedibili di confronto diretto, previa la potenziale costruzione, mediatica e/o operativa, di un artificiale casus belli per irresponsabile scelta di una delle due parti (più verosimilmente, mi duole dirlo, il Pentagono che il Cremlino), dopo una serie di paralizzanti veti e contro-veti in seno al consiglio di sicurezza ONU.

Questo significa incidentalmente un’altra cosa: non siamo di fronte, come qualcuno ha detto, a una guerra interna all’Islam, la cui rilevanza è fondamentale solo come strumento, il più rumoroso degli strumenti di lotta -e la deminutio qui è voluta. Abbiamo davanti una guerra fra gli interessi inconciliabili delle grandi potenze per quanto attiene al controllo delle fonti di energia e delle aree di passaggio di gasdotti e oleodotti, e in ultima analisi alla creazione di grandi spazi finanziari sovranazionali: al problema degli USA di consolidare un mercato comune atlantico sottraendolo al potenziale ricatto energetico che la Russia potrebbe esercitare sull’Europa occidentale, rendendo quest’ultima per gli USA un “alleato” -sarebbe meglio dire, una provincia- instabile nel quadro del loro impero egemonico, e al problema della Russia di consolidare la sua nascente Unione Eurasiatica e di conservare un minimo di spazio vitale nelle aree che tradizionalmente facevano parte della sua sfera di influenza durante la guerra fredda. I leader islamici più o meno estremisti come Erdogan, o Assad, sono soltanto alcune fra le pedine di medio rango nel quadro generale di una linea di conflitto che va dal Golfo Persico al Kurdistan, dai Balcani all’Ucraina, con una significativa deviazione geografica che passa anche per gli Stati delle ex-primavere arabe.

Come multinazionali della diplomazia al servizio della finanza, del mercato e dell’energia, gli imperi in guerra offrono ai singoli contendenti diversi pacchetti di trattamento: ipocrite blandizie (vedi l’atteggiamento NATO verso il Montenegro), pressione ideologica, guerra civile, massacro generalizzato, nella misura in cui la linea di conflitto si allontana o si avvicina alle aree opulente o per tradizione “tranquille” a partire dal 1946. In questo quadro generale, la politica egemonica dell’occidente non può nemmeno giovarsi più dell’aura residuale di universalismo che ha avuto durante la guerra fredda, né può trincerarsi dietro il mito della difesa dei diritti e della democrazia, visto il connotato francamente genocida che le campagne USA hanno finito per rivestire sin dalle operazioni Giustizia Infinita e Libertà Duratura, e visto il bel risultato ottenuto, e ammesso in parte con urtante franchezza perfino da alcuni dei diretti responsabili, di moltiplicare il terrorismo e il fanatismo a beneficio dei mercanti d’armi e a discapito di tutti noi.

E c’è in effetti da aggiungere quest’altro sconfortante, e infamante, dettaglio. Nel teatro del conflitto sempre meno strisciante che si profila, la potenza autoritaria e aggressiva, che per guadagnare nuovi spazi ai suoi mercati compie un genocidio su scala continentale, e usa alcuni popoli e gruppi religiosi di cultura “semitica” contro altri (ebrei contro musulmani, musulmani contro musulmani), i malvagi che usano strumentalmente il Corano e la Bibbia e le loro derive fanatiche come assurda Lagersprache metafisica, polarizzando Kapò e internati, che in definitiva sono tutti vittime, l’impero del male da sconfiggere, quelli che combattono per la causa sbagliata, il cattivo insomma, siamo “noi”. Con tutti i difetti che il mondo islamico socialmente ancora arretrato evidenzia in molte aree (più spesso quelle dove allignano regimi di nostro gradimento), con tutte le pecche che lo “zar” Putin, autoritario capo di una democratura post-sovietica, mostra di avere e nessuno si sogna di negare, alla fine dei conti per la prima volta la civiltà occidentale non ha alcuna alternativa credibile da offrire al mondo. Se la scelta che si pone in medio oriente è preferire le infrastrutture, le strade ordinate e la normalità più o meno rassegnata di una dittatura dai tratti più o meno marcatamente teocratici, alla distruzione di ogni tessuto sociale decente e alla sua sostituzione con lo strapotere di stupratori e massacratori tribali o mafiosi in nome di Allah, con il contentino dei cento dollari al mese dello zio Sam alle famiglie dei bombardati o del latte in polvere della Nestlè paracadutato sui bambini del deserto, pare che per le popolazioni mediorientali la scelta sia evidente. Ed è questo che infine, nel prossimo conflitto, sia guerreggiato o meno, determinerà forse la nostra sconfitta. Resta solo da vedere se la gelata precoce del millennio americano (e occidentale) si deciderà in campo aperto, o con un pluridecennale declino dopo la parodia mediorientale, a ruoli invertiti, della vecchia crisi di Cuba

Va bene anche così

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falenadi Mirfet Piccolo

 

Lo so che è sciocco ma mi è successa questa cosa. Una cosa piccola e solitaria, dal peso leggero. Era primavera, un pomeriggio brinoso e friabile; la luce troppo bianca portava con sé la nostalgia del cielo cupo dell’inverno e io non sapevo più cosa temere, se il freddo che per mesi mi aveva amputato il respiro o la luce che mi avrebbe accecata, bruciata in un niente.

Sono entrata nella stanza senza illusioni, con la certezza che tutto quanto sarebbe durato giusto il tempo di qualche convenevole, di qualche prassi eseguita con meccanica sapienza. Ci siamo stretti la mano. Poi con un gesto mi ha fatto cenno di sedermi e anche tu ti sei seduto; tra di noi, la tua scrivania arruffata aveva residui dei pazienti che mi avevano preceduta. Mi dica come sta, mi hai chiesto, mi dica come si sente, e nella tua voce non c’era presunzione né fretta, non c’era l’attesa della fine. Allora ho capito che fermarmi non sarebbe stato un pericolo né una sconfitta, ho capito che potevo farlo, e ti ho raccontato.

Del dolore ad ogni passo, della luce troppo forte e della stanchezza attanagliante, ti ho raccontato del freddo che non mi abbandonava, del mio viso ubriaco e degli specchi in cui non volevo più riflettermi. Poi ti sei alzato, mi hai fatta sdraiare sul lettino. Distesa, quel primo pomeriggio di quella prima visita, ho desiderato di poter chiudere gli occhi e dormire a lungo, svegliarmi nuova e ricominciare la mia vita di sempre. La mia vita senza fissa dimora, il mio girovagare esperto e inconcludente. Lo so che non si direbbe, a guardare i miei passi di oggi – stanchi, sorretti da un bastone indossato troppo presto -, ma ero una che camminava sempre; divoravo chilometri di città metropolitane con la musica nelle orecchie, con la voglia di vedere dove sarei andata a finire, senza cedere al tempo che passava. Quel pomeriggio mi hai chiesto di farti vedere esattamente dove provassi male. Poi mi hai domandato di descrivertelo, il mio dolore, e io ho fatto del meglio per dargli una forma riconoscibile, palpabile; ho cercato parole spesse, parole che tu potessi incidere con un bisturi e dissezionare. Ancora non sapevo che da quel momento in poi, fuori da quella stanza, non avrei più smesso di cercare parole migliori e inequivocabili per spiegare agli altri il male che sentivo; la curiosità amorevole di chi mi voleva bene e quella morbosa di chi non mi conosceva, ancora non sapevo che ogni mio tentativo si sarebbe risolto in un fallimento.

Hai misurato ogni centimetro della mia pelle, il mio cuore il mio respiro. Hai guardato la mia lingua e dentro i miei occhi, hai rovistato tra i miei capelli. Hai fatto due passi indietro e hai osservato il mio viso con la stessa attenzione con cui si osserva un dipinto: la testa un po’ inclinata da un lato e poi dall’altro, i tuo piccoli occhi attenti, pronti ad accogliere ogni possibile visione. E ancora non sapevo che tu, quel pomeriggio, sulle mie guance e sul mio naso avevi visto posarsi l’ombra di un bozzolo, di una farfalla in divenire, e non era felice. Ancora non sapevo molte cose. Poi mi hai fatta rivestire e sei tornato alla tua scrivania, le tue dita hanno battuto con forza sulla tastiera. Lettera dopo lettera, quel ticchettio pestato dai tuoi polpastrelli arginava il tempo trascorso da che ero entrata, ed era stato tanto, misurava il tempo rimasto, e mi sono sorpresa a pensare che fosse stato troppo poco. Hai scritto tutto. Sei stato preciso e completo, e lo saresti stato ad ogni visita successiva, ed io ogni volta avrei amato questa tua capacità di imprimere così tante parole, ciascuna con un suo peso specifico e una sua specifica angolazione, su un comune foglio bianco.

È cominciata da lì, questa cosa sciocca che mi è successa, è cominciata quel pomeriggio di primavera di dieci anni fa. Mi dica tutto e io che ti parlo, le tue dita che battono e io che rivesto il mio corpo diventato l’involucro di un imbarazzo inaspettato.

Mi hai allungato l’elenco degli esami diagnostici da fare. La fede nuziale al tuo dito brillava, la mia sarebbe arrivata l’estate successiva. Cominciamo con questi, hai detto, ed erano così tanti che ho temuto non mi sarebbe bastata la vita per farli tutti e mi sono vergognata anche della mia paura. E invece mi è bastata, e dopo sei mesi di una vita sospesa nel limbo – di analisi, di scomposizione del mio sangue, di prelievi della mia pelle – tu gli hai dato un nome nuovo. È una malattia cronica e sistemica, mi hai detto, ma si può trattare.

Ho letto che succede, che per voi medici è uno dei rischi del mestiere; ho letto che per il paziente, di solito, è tutta un’invenzione, un immaginarsi l’altro come una specie di salvatore, di guaritore di tutti i mali. Ho letto che quasi sempre va finire in un niente, e solo ogni tanto si ha il privilegio amaro di una storia torbida e inconcludente. Ho letto che accade così di frequente che temo la mia storia, questa cosa sciocca che mi è successa, non abbia niente di speciale.

Senza che tu te ne accorgessi, senza che tu facessi niente per farlo succedere. In tutti questi anni, arrivare a darsi del tu è stata l’unica distensione dei rigidi schemi di una professione secolare. Solo una volta, era forse un anno che ci incontravamo con regolare cadenza trimestrale, avresti accennato ad un secondo figlio arrivato troppo presto, alla confusione delle cose.

Io non ti conosco e credo non esita alcun guaritore di ogni male. Eppure a capodanno di quello stesso anno in cui tu hai dato un nome nuovo alla mia vita giovane – non ero ancora diventata un dovere da accudire, una madre troppo stanca per correre; ogni degenerazione doveva ancora accadere – la mia amica di sempre mi ha allungato una scodella di lenticchie bollenti e io come risposta le ho detto, quasi quasi m’infatuo del mio medico. Quasi quasi. E ho sentito le mie mani finalmente scaldarsi, dimenticarsi cos’erano diventate.

Vedi, quindi, lo vedi bene anche tu – è un fatto certo, basta fare qualche calcolo, mese più mese meno – che questa cosa sciocca è iniziata prima di tutto. Prima che io mi sposassi e il mio matrimonio felice diventasse un ricordo piccolo steso su un tavolo ogni giorno sempre più grande; prima che io smettessi di essere una donna e diventassi un corpo, al massimo una madre da compatire. Perciò credimi se ti dico che questa cosa sciocca, questa voglia che ho di te, non ha il peso di una tristezza.

Per anni, ad ogni nostro incontro dettato dalle circostanze, ho cercato di misurare la vastità di ciò che sentivo. Mentre verificavi l’estensione delle piaghe sul mio viso, e contavi le macchie rosse che come cicche di sigarette infossavano le mie braccia, mentre con dita leggere stimavi la perdita dei miei capelli, il mio respiro rotto e il cuore aritmico, ho continuato a sentire questa cosa puerile, quest’imbarazzo accidentale ed avulso dal lento deformarsi del mio corpo.

Tu leggevi la conferma dei miei anticorpi corrotti, con l’indice seguivi il loro dispiegarsi sul figlio – antinucleo e anti-DNA e anti-ENA e anti-fosfolipidi, e poi la VES alta e globuli bianchi bassi (mi hai insegnato molte cose, molte più di quante tu possa immaginare) -, ed io mi preoccupavo che in tutti questi anti, in questa guerra del mio corpo contro se stesso, mi preoccupavo che il tremore dei miei pensieri fosse arrivato fino al nucleo delle mie cellule, fino all’infinitamente piccolo, e che tu, sempre così attento, sempre così scrupoloso, lo avresti letto e biasimato.

Mi hai dato un armadietto pieno di sponde a cui aggrapparmi. Il mio Plaquenil e il Medrol e l’azatioprina e le vitamine, con le mie pillole di ogni giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, ho imparato a costruire dei ponti per non affondare allo scorrere di una natura capovolta. Ho imparato a galleggiare, a pensare che la malattia fosse solo un fatto accidentale e non la mia vita intera. E ai tuoi ciao-come-stai ho imparato a rispondere che a volte andava meglio e a volte peggio, che quel farmaco non funzionava e quell’altro funzionava poco, ma che era pur sempre trattabile e che tutto sommato andava bene anche così.

Ma poi è arrivato il giorno che tu sei andato via. Era ottobre, il mese in cui le foglie marciscono sulla terra umida e il freddo inizia a nascere senza chiedere permesso. Sei andato a lavorare in un altro ospedale e io sapevo dove, esattamente dove e quando, e i tuoi turni e il numero di ambulatorio, sapevo tutto e non sono mai venuta dove ti avrei certamente trovato. Perché pensavo che peggio di come stavo non sarei mai potuta stare, pensavo di avere già ingoiato la fetta di malasorte che mi spettava. Perché il mio corpo, quell’ottobre di quell’anno che te ne sei andato, era gravido di vita e quindi forte, un corpo che alla fine ce l’avrebbe fatta. E non volevo, in tutto ciò non volevo questa cosa sciocca che mi è successa e che non capivo. Non la volevo.

Per questo, mentre tu non c’eri, io ti ho tradito con tanti. Senza mai cercati eppure trovandoti ogni volta: questo era un medico frettoloso e tu no, quello non aveva capito e tu si, quell’altro non mi chiedeva come stavo e tu lo facevi sempre. Ti ho tradita specialmente con uno. In un ospedale di provincia ho incontrato un dottorino con la faccia da copertina patinata e denti troppo bianchi per essere veri. Dopo la lettura distratta di qualche foglio, quel dottorino ultimo, mi ha detto che la falena che nel frattempo era nata sul mio viso – quelle ali bruciate sulle guance, quel tronco ricoperto di piaghe sul mio naso – non avrebbe mai spiccato il volo ma che forse, forse per il resto, per le miei mani sempre fredde e il dolore che da anni trasformava i miei sogni in incubi madidi di sudore, forse quello avrei potuto curarlo se solo avessi davvero voluto, se solo avessi almeno provato a controllare la mia ansia, la mia depressione inconscia. Tutto quel dolore di cui parla è organicamente ingiustificato quindi lei, signora, lei non sta poi così male come vuol far credere.

Allora io, in quella stanza di un ospedale di provincia con l’ultimo dottorino qualunque, ti ho immaginato seduto sulla sedia al mio fianco e che insieme ridevamo. Ridevamo dei suoi zigomi contraffatti, ridevamo di quell’ospedale qualunque. Ho immaginato che mi dicevi, non prendertela lui non ti conosce come ti conosco io, e allora io quel giorno ho respirato piano, profondo e piano, e allora la frustrazione non si è accesa, e allora io non ho pianto.

Dopo tre anni di tua essenza e di miei tradimenti nervosi, dopo sei tornato a casa. La nostra casa che non è una casa e soprattutto non è nostra. È un ospedale dove si nasce e si muore, dove la gente come me sopravvive agli esiti amari di esami estenuanti, agli sbalzi d’umore nei bagni sempre troppo angusti e sporchi, bagni non adatti a ripulirsi dal dolore.

Così, la sera prima, mi sono preparata al nostro incontro con la stessa minuziosa inquietudine con cui ci si prepara ad un appuntamento amoroso. Ho controllato che sulle mie gambe non ci fossero peli irriverenti e che il mio inguine fosse pronto ad un’eventuale accoglienza; ho indossato la mia biancheria migliore immaginandola ai tuoi piedi, e che le tue mani sulla mia pelle nuda non avrebbero disegnato alcuna imperfezione. Ho guardato la mia lingua, ancora sana e porosa, e ho pensato a tutte le cose che avrei potuto dirti senza spaventarti. Riflessa allo specchio non ho avuto paura di ciò che ho visto, e ho raccolto i miei capelli stanchi sulla nuca e poi li ho lasciati di nuovo cadere, perché mi sembravano belli nonostante tutto, perché tu forse li avresti sollevati piano piano e lungo la mia schiena avresti trovato la tua strada. Perché da qualche parte si dovrà pur cominciare e io volevo lasciare a te la possibilità di farlo.

La sera prima del nostro ritrovarci, sono andata a dormire ingannando me stessa con una romanzo di Thomas Hardy, nascondendo la certezza che non mi sarebbe piaciuto.

Eri tornato ed io pure. Davanti alla porta di quell’ambulatorio che conoscevo così bene ho atteso il mio turno con finta diligenza. Ho contato a quanti altri tuoi pazienti ero in coda, e un istante erano troppi e l’istante dopo erano troppo pochi. Ogni volta che uscivi e invitavi il prossimo ad entrare, io guardavo lontano da te e dalla tua porta, cercavo un posto immune ai disinganni. Poi è rimasta quell’ultima paziente ed è entrata, una donna anziana con le mani di cartapesta che per tutto il tempo della sua attesa aveva sfogliato una rivista nel senso contrario. Dopo ci sarei stata io, tutto poteva finire e io non avrei potuto porvi rimedio, riavvolgere il nastro.

Hai chiamato il mio nome ed io sono entrata. Ho chiuso la porta alle mie spalle e quando ho alzato lo sguardo mi hai sorriso e detto, ciao come stai, come avevi sempre fatto. Mentre camminavo verso la scrivania oltre la quale tu ti eri già seduto, ho avuto la certezza che il mio passo claudicante non sarebbe mai stato in sincronia con il tuo quasi amichevole saluto. Mi sono seduta. Ho visto la tua fede nuziale diventata stretta attorno a qualche chilo messo su negli anni, i tuoi capelli spessi accorciati di recente, gli stessi occhi piccoli e scaltri che dieci anni prima mi avevano osservata con la stessa attenzione con cui si osserva un dipinto.

Sei tornato, e anche la cosa sciocca è tornata.

Ciao-come-stai, dal giorno del nostro ritrovarci è diventata una domanda alla quale non riesco più a rispondere senza desiderare che tu me lo chieda incondizionatamente. Ciao-come-stai, come lo si chiede ad una persona che ci è cara davvero. Per sapere come sto al di là di tutto, al di là di questa vita alla quale tu un pomeriggio hai dato un nome che ho imparato a conoscere. Per sapere cosa sono ancora capace di fare.

Perché se quel giorno arrivasse, io finalmente potrei rispondere e tu, dimmi tu come stai. Parlami della birra che hai bevuto con gli amici nel fine settimana, raccontami se aveva il sapore fruttato delle cose belle quando stanno per nascere, e tutto è possibile e non hai scelte da fare, e allora puoi ridere con la frivola certezza che la tua vita, tutta ancora da scoprire, sarà più consistente del fumo della prossima sigaretta che penderà dalle tue labbra. O forse quella birra aveva il sapore amaro delle cose già tutte dette, già tutte fatte, e non rimane altro da fare se non il burattino di una giostra ormai deserta. Dimmi quanti caffè bevi ogni mattina ripromettendoti che dal giorno dopo, sempre dal giorno dopo, ne berrai uno in meno. Dimmi che peso hanno i tuoi giorni e a quale punto di quel tuo sogno, sempre lo stesso dannatissimo sogno, le tue notti si ostinano a morire. Raccontami di chi sei l’orgoglio, l’investimento ripagato; e dimmi anche se è questo ciò che hai sempre desiderato fare: camminare a ridosso del dolore di persone sconosciute, dare loro la mano facendo attenzione a non lasciarsi contaminare. Come stai. Parlami della musica che ti piace, e di quella che ascolterai oggi in auto verso casa, quali parole sceglierai per accompagnare i pensieri di tutte le cose che avresti potuto fare e non hai fatto, oppure che avresti potuto fare meglio, o non fare affatto perché tanto, a conti fatti, la vita di un corpo è un mistero e tu sei solo un uomo.

E poi raccontami, parlami, dimmi se sotto la doccia – dentro il vapore, fuori le urla dei tuoi figli e la delusione muta della persona che hai sposato – succede anche a te, certe mattine bastarde, di desiderare di essere solo un pesce tra tanti e da cui nessuno, in fondo, si aspetta un granché.

Dimmi se anche tu senti male, e dove, e come si chiama il tuo dolore la tua vita di tutti giorni, e se posso io toccarti, dirti che è trattabile e che starai meglio, dirti che andrà tutto bene.

E allora vedi, lo vedi anche da solo, che questa cosa sciocca che mi è successa è un incesto, un incontro inopportuno tra il mio corpo malato e il desiderio non autorizzato che ho di te.

Quindi forse dovrei alzarmi e andarmene con questa consapevolezza, andarmene con la mia malattia ben trattata, arginata, con la mia cassaforte di pillole collaudate. Non entrare. Alzarmi da questa sedia diventata scomoda in una sala d’attesa orami vuota. Perché se ne sono andati via tutti; uno dietro l’altro i tuoi pazienti si sono succeduti in silenzio e io non sono riuscita a tenere il conto del tempo ancora a mia disposizione.

Mi alzo, mi devo alzare perché hai aperto la porta e detto il mio nome. Entro. Mi guardo attorno e penso che in fondo è tutto come sempre. La stessa scrivania arruffata, lo stesso computer, le stesse due sedie, lo stesso appunto appeso in bacheca. E anche la cosa sciocca è la stessa.

Ciao come stai, mi domandi. E capisco che anche oggi sarà com’è sempre stato in questi dieci anni, e che è necessario che sia così affinché funzioni. Anche oggi tornerò a casa e farò buio per ripararmi dall’ostinazione del giorno, e questa cosa sciocca che mi è successa sarà sul mio collo, dentro la mia bocca, la sentirò scivolare sulle natiche, mordermi i seni piccoli e rifugiarsi tra le mie gambe. Sentirò il mio respiro risvegliarsi senza dolore. Perché al buio sono ancora perfetta, niente di me cede. Al buio, negli anfratti sani della mia vita, il mio corpo che tocca il tuo non conosce compromessi. Tu mi domandi come sto e io ti guardo e penso che sarà bellissimo, come sempre, che sarà piccolo e leggero e bellissimo. Perciò ti rispondo che a volte va meglio e a volte peggio, che quel farmaco non funziona e quell’altro funziona poco, ma è pur sempre trattabile e tutto sommato va bene, va bene anche così.