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Overbooking: Lorenzo Mazzoni

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di

Francesco Forlani

 

In uno dei più famosi saggi sulla letteratura fantastica, quello scritto da Todorov, Introduction à la littérature fantastique (traduz. it. La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, collana Gli elefanti, 2000) c’è un passaggio che riporta tra le varie definizioni  quella adottata da P.G.Castex, in Le conte fantastique en France (Paris 1951), «il fantastico si caratterizza per un’intrusione brutale del mistero nella sfera della vita reale».

Nel romanzo fiume di Lorenzo Mazzoni, Quando le chitarre facevano l’amore, (Spartaco Edizioni, 2015) accade esattamente il contrario: il fantastico si caratterizza per un’intrusione brutale della vita reale nella sfera del mistero. La sfera del mistero è la custodia di una chitarra, personaggio che oltre a dare il titolo al libro parla, racconta, evoca alla prima persona quello che è davvero essenziale in questo romanzo, ovvero come sia stato possibile il passaggio dal Finale di gruppo al Finale di un gruppo rispettivamente titoli del penultimo e ultimo capitolo.

La band è The Love’s White Rabbits, gruppo realmente esistito, davvero dotato di repertorio psichedelico, ma a Ferrara e non in un’oscura cittadina americana ma soprattutto senza un manager che sembra in tutto e per tutto, ma solo fisicamente, corrispondere al profilo di uno dei più ricercati e insieme meno noti criminali nazisti, ovvero il segretario di Hitler, Martin Bormann.

 «Lui è totalmente sconosciuto al popolo americano. In verità anche allora il suo volto non era poi così noto. Ci pensi, signor Portaleone. La gente generalmente si ricorda di quel depravato poliomielitico di Goebbels, del viso da ragioniere psicopatico di Himmler e della grossa faccia di Göering, ma chi può dire di conoscere davvero il viso di Martin Bormann?».

«E come è arrivato negli Stati Uniti?» leggiamo poco dopo. Questo più o meno si sa; quello che invece non sapevamo e che per una buona metà del libro scopriremo tra mille colpi di scena e di fucili mitragliatori M16, è che da angoli tra i più reconditi del pianeta, con storie e origini tra le più politicamente diverse e profondamente incorrect, ma soprattutto con moventi che vanno dalla giustizia politica alla vendetta sentimentale, un’ondata di personaggi, uno tsunami praticamente, converge su Anita, luogo in cui la band e l’ex criminale nazista tentano di far partire disordini, caos e anarchia. 

«Martin Weisberg (la nuova identità di Bormann) è stato visto ai convegni di Lake Villa, di Cleveland e San Francisco. Da fonti sicure mi è giunta voce che il nostro ragazzo sia il tramite fra la Mobilitazione nazionale e i gruppi della Liberazione negra».

Il senso della psicorivoluzione in atto ce lo suggerisce del resto la citazione presente nel nome della band protagonista e che tra letteratura e musica, Alice nel paese delle meraviglie e Jefferson Airplane, ritroviamo in una delle più celebri canzoni di questi ultimi.

« One pill makes you larger,
and one pill makes you small
And the ones that mother gives you
don’t do anything at all
Go ask Alice when she’s ten feet tall »

« Una pillola ti rende grande
e una pillola ti rende piccolo
E quelle che ti dà la mamma
in fondo non fanno nulla;
Domandalo ad Alice, quando è alta tre metri »

(White Rabbit, Jefferson Airplane)

 

Le parole seguono, le frasi inseguono Luigi Portaleone, Robert e Peter, José e Ramirez, Paco Ignacio, Cindy Johnson, Lolicia Smith, tutti diretti da una sola persona Martin Bormann, con una sola missione: ucciderlo. Così Lorenzo Mazzoni tesse una “reale” cartografia, vera e propria tela di ragno in cui i punti d’incrocio, Singapore, Guatemala,Tan Son Nhat, Houston, Berlino, Trieste, Los Angeles, New Mexico, convergono su quell’unico e misterioso luogo fondato da un garibaldino innamorato della donna dell’eroe dei due mondi, Anita.

FBI, CIA, Mossad, colpi di stato, rock band, in un sessantotto d’oltreoceano tanto immaginario quanto terribilmente reale, agitano i fili della storia che per quanto intricati non potranno mai competere per durezza e resistenza con le corde di una chitarra modello di Les Paul GoldTop serie 1957/58 e la storia che vorrà raccontarci, suonarci a patto che l’ascoltatore come lettore sia pervaso da tarab, art di farsi commuovere da gioia o da dolore, dall’incanto.

 

150 anni di Alice e oltre: regali e segnalazioni

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L’anniversario di Alice è trascorso da poco, ma continuano ad arrivare contributi e omaggi e quindi non vedo perché interrompere la serie.  I post già pubblicati si possono trovare QUI. Oggi pubblico alcune cose che mi sono state prontamente segnalate o inviate (NDF).

Inizio con le immagini di un piccolo libro pensato da Elena Baila e realizzato da Pulcinoelefante, edizioni minuscole, della misura giusta per una tana di coniglio o per il buco di una serratura da cui si intravede un giardino incantato. 

“..ma serbando curioso modo

nel decifrar l’enigma..”

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Proseguo con le illustrazioni a china e penna bic e l’immaginario inquieto di Cristiano Baricelli e segnalo un articolo a firma Anna Castellari su Nèura, riguardo le opere dell’artista in mostra fino al 15 gennaio alla Galleria libreria dell’Arco, Via dell’Arco 17, Santa Margherita Ligure.

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Sornione
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La colazione

Infine un ricco saggio di Paolo Pecere apparso su Prismo, che esplora Alice e le sue varie mutazioni cinematografiche: da Disney a Tideland di Gilliam, a Miyazaki, Kubrick e Lynch.

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Buon viaggio dietro al vostro coniglio!

Avanzi di natale: la colpevolezza del poeta

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di Andrea Inglese

(Questo dialoghetto si è esaurito prima di concludersi, per stanchezza di fine d’anno. Si può con agio saltare. D’altra parte, voleva esporre un’idea sulla comunicazione in generale, perché pare che tutti quanti quelli che scrivono, scrivono per dire qualcosa, mentre ci sono quelli come i poeti che scrivono per non dire nulla. Però ci sarebbe da osservare che, ad esempio, la parola dei politici di professione, ma anche di quelli semiprofessionisti, spesso assomiglia alla poesia, perché non si sa se davvero si riferisca al mondo, o al nulla, ma anche in televisione spesso sembra…  Ecco mi fermerei qui.)

Gianluigi – Certo che poi, anche voi, voglio dire, con quel vostro atteggiamento…

Io – …

Gianluigi – Tu fai il poeta vero? Ho visto una cosa, non mi ricordo più…

Il tuffatore

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di Jacopo La Forgia

Procul recedant somnia,

Et noctium phantasmata

Cara Alice,

 

oggi è il 7 ottobre e sono seduto in un bar di Venezia. Davanti a me ho il ponte dell’Accademia. L’ultima ora l’ho trascorsa a pensare al prisma che hai tatuato sull’avambraccio. Ricordo molto bene quanto fosse spesso l’inchiostro nero dei contorni. La forma del disegno, invece, non la riesco più a evocare. Ho sforzato la memoria a lungo perché ne ricomponesse l’immagine, ma mi sfugge.

Peccati capitali: una verifica politica

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di Giorgio Mascitelli

L’amara consapevolezza che durante le feste natalizie il peccato di gola mi ha tratto seco mi ha indotto ad avventurarmi in questo giochino un po’ idiota di fare una sorta di borsino di valori dei peccati capitali nella nostra società: chi scende, chi sale e così via. A mia difesa per tanta frivolezza posso solo riecheggiare le parole del Santo Padre: meglio questo che fidarsi delle profezie degli astrologi e degli economisti.

In fondo poi se ci si pensa un attimo, i peccati capitali veicolano un immaginario collettivo anche in società secolarizzate come le nostre e questo non solo perché molte delle categorie religiose continuano a funzionare seppur in forma laica anche oggi. La disapprovazione, poco importa se dovuta alle autorità spirituali o a quelle mediatiche, agisce sempre come un ottimo collante ideologico e come indicazione implicita di quelle che sono le virtù raccomandabili. Ho classificato i vecchi peccati capitali in tre gruppi: gli stazionari, quelli che si sono aggravati e quelli che hanno fatto il grande salto sociale diventando virtù.

Tra i peccati stazionari va indicata la superbia in primo luogo: essa è condannabile e va contro l’imperativo spettacolare della simpatia universale ( quella incarnata da uomini politici che raccontano barzellette o fanno smorfie e gestacci in occasioni di foto ricordo ai vertici internazionali), ma da un certo punto di vista rappresenta anche il legittimo crisma delle persone di successo e pertanto non va stigmatizzata oltre il ragionevole, anche perché può essere sempre giustificata come una forma di sincerità che, come è noto, è un elemento indispensabile per una relazione stabile. In ogni caso il peccato di superbia mantiene una vita carsica perché talvolta riemerge d’improvviso quando torna utile rimproverarlo a quelle voci che acquistano notorietà difendendo cause perse o innominabili: ne è un esempio l’ex ministro delle finanze greco Varoufakis, che la scorsa primavera ha insolentito con la sua insopportabile superbia il povero Dissenbloijm e i pazienti creditori.

Anche l’ira mantiene questa statuto mediano: da un lato la mansuetudine è raccomandabile sia a livello di grandi uomini ( si pensi a Blair che si scusa per la guerra in Iraq dopo solo una dozzina d’anni, ammettendo con umiltà che si poteva fare di meglio e lo si farà, lo si farà) (1) sia a livello di gente comune ( si pensi alle domande sul perdono rivolte dai media ai famigliari di vittime di atti criminali), dall’altro ci sono delle categorie di persone che hanno diritto all’ira e che solo uno sciocco temerario può provocare. Nei rispettivi sottosistemi mediatici sono Putin ed Erdogan ad essere gli iracondi di successo, nel nostro è senz’altro il ministro delle finanze tedesco Schäuble: per tutti costoro l’ira non è un peccato, ma una normale manifestazione della loro superiorità. Ma gli iracondi di successo per eccellenza sono i mercati: la manifestazione della loro ira ha sempre qualcosa in comune con quelle degli dei del mondo antico e come quelle ha motivi imperscrutabili ma fondatissimi. E di recente s’incazzano spessissimo. D’altronde qui la colpa è del Vangelo: non si arrabbiò forse Gesù con i mercanti nel tempio? Nulla di più logico che i mercanti si adirino quando qualcuno d’indesiderato si aggira nel loro tempio che è il mondo.

Tra i peccati che si sono aggravati ci metto subito quello da me commesso, la gola: troppo culto per i corpi perfetti e troppo sospetto per il tempo perso a tavola quando ci si può nutrire efficacemente in piedi e su due piedi per poter sperare in un’assoluzione. La prova più eloquente è che in televisione l’immaginario alimentare è stato sdoganato sotto forma di competizione tra i cuochi e non in quello tradizionale di cuccagna. Le lunghe serate in cui un gruppo di amici si mette intorno a un piatto di pasta non senza la provvidenziale presenza di qualche bottiglia e senza altro scopo che quello improduttivo di stare insieme in allegria restano un peccato mortale.

Anche l’accidia è tra i peccati che si sono aggravati nel corso del tempo e ciò in ragione in primo luogo della sua difficoltà di definizione. In un’epoca che non ama troppo le sottigliezze e in cui si può dire tutto purché in trenta secondi, la natura di questo peccato di per sé è un’aggravante. Poi sia che lo s’intenda come gli sceneggiatori di Seven come il trionfo della droga sia come come il Petrarca come l’incapacità di rinunciare alle cose che ci fanno stare male risulta sospetto per la perdita di tempo che comporta. Se ci aggiungiamo il fatto che forse questo perdere tempo potrebbe avere a che fare con la riflessione su di sé anziché sforzarsi di cambiare la propria vita in una sorta di perenne gara contro se stessi per vedere se si è più bravi degli altri, come ci consiglia un filosofo importante quale Sloterdijk, oppure anziché spenderla nella ricerca di scariche di adrenalina che hanno miglior mercato, si può comprendere quanto l’accidia sia intollerabile per il nostro mondo.

Il peccato più grave di tutti, però, resta l’invidia e questo in ragione di due sue qualità logiche. La prima è che nell’immaginario collettivo è un peccato da cui vanno immuni i principi e i potenti della Terra di ogni tipo e genere, che naturalmente non possono invidiare gli altri essendo loro i migliori; la seconda è che esso ha a che fare con la critica. Qualsiasi critica infatti può essere descritta come frutto d’invidia ( perfino questa mia alla ricezione sociale dei vari peccati potrebbe essere descritta con qualche efficacia retorica come espressione dell’invidia di un goloso nei confronti degli altri peccati capitali) e ciò è estremamente comodo per bloccare a priori qualsiasi discorso critico, tramutando ogni criticato in un biondo Sigfrido e ogni critico in un nano che trama nell’oscurità. Naturalmente non si può essere naif, se si designa ogni critica espressamente come prodotto dell’invidia, è chiaro che si sortisce un effetto comico involontario, ma se con più prudenza ora si parla di ressentiment, ora di cieco furore ideologico ora di odio atavico si ottengono risultati di gran valore, tenendo conto che la statistica dà una mano perchè alcune critiche derivano effettivamente da sentimenti d’invidia.

Veniamo ora ai peccati che ce l’hanno fatta e che sono diventate virtù: lussuria e avarizia. Sulla lussuria c’è poco da dire da desiderio peccaminoso e irrealizzabile è diventata parte integrante del codice performativo attivistico per cui il vero terrore dei nostri tempi non è cadere nel peccato di lussuria ma essere ghettizzati nella temperanza. Bisogna darsi da fare in ogni campo. Il primo ad accorgersi degli albori di questo fenomeno fu Adorno in uno dei suoi minima moralia, mi pare, nel quale nota un po’ sprezzantemente, del resto era verosimilmente un superbo, che qualsiasi impiegata dei suoi tempi poteva vantare un’esperienza sessuale che nel secolo XVIII era riservata a M.me Pompadour e poche altre donne del suo rango. Sarebbe fin troppo facile citare qui la dichiarazione berlusconiana sulla propria giornata tipo costituita da 18 ore di lavoro 3 di sonno e altrettante di sesso, che tra l’altro implica che atti intimi e sonno vengano consumati sul posto di lavoro non essendo riservato alcuno spazio temporale per i trasferimenti. Più interessanti appaiano da un lato la fitta casuistica e il connesso galateo su ogni pratica sessuale resi noti con apprezzabile continuità dal mondo mediatico in uno slancio in cui la volontà di sapere incontra quella di performance, dall’altro lo sviluppo di una biopolitica dell’amore che prevede la traduzione in diritto politico individuale di ogni desiderio: di recente per esempio si è scoperto il diritto alla genitorialità da garantire tramite la liberalizzazione del mercato dei neonati a coppie abbienti a vario titolo sterili.

In un certo senso però la trasformazione più spettacolare è stata quella dell’avariza ossia di quella che noi chiamiamo avidità, essendo un tempo chiamata ‘miseria’ la nostra avarizia. Il discorso sportivo, vincono solo le squadre che hanno fame di vittoria, e quello finanziario, che parla encomiasticamente di ‘grandi predatori’ e di ‘spiriti animali del capitalismo’, sono i principali sintomi della metamorfosi virtuosa e travolgente di questo peccato. A questo proposito basta fare una prova: chiunque facesse un’affermazione del genere ‘ oggi uno dei problemi è che c’è in giro troppa gente avida che desidera semplicemente troppo denaro, con il problema di non sapere più che farsene perchè la stessa avidità rende impossibile investirlo’ verrebbe accolto con la costernazione che si riserva agli alienati anche da parte di chi in linea teorica sarebbe d’accordo. Eppure due grandi predatori intelligenti, reazionari non sprovvisti di senso storico che oggi pertanto risultano dei progressisti, come George Soros e Warren Buffet hanno dimostrato di temere questo trionfo dell’avidità come pericoloso per il corso stesso dei loro affari: non è un mistero per nessuno, ad esempio, che sono state le fondazioni di Soros a finanziare l’importante e complessa ricerca di Piketty sul capitale del XXI secolo. Ma l’episodio più sofisticato di questo processo di assunzione in cielo dell’avidità resta l’articolo che l’attrice erotica Valentina Nappi pubblicò un paio di anni fa su Micromega. In questo articolo l’autrice spiegava che la cosa migliore per la sinistra era rinunciare a mettere in discussione il primato delle banche, cosa che ormai fanno solo i fascisti, mentre esse di questi tempi rappresentano il progresso, e occuparsi solo di diritti civili. Era una splendida allegoria in cui la lussuria sdogana l’avidità in nome dei diritti dell’individuo libero ormai dalle arcaiche superstizioni collettivistiche.

(1): anche se personalmente resto un fan di quelle date dalla Chiesa Cattolica a Galileo, che possono essere riassunte così: “scusaci, abbiamo sbagliato oggi, ma all’epoca avevamo ragione noi”.

 

Neve, cane, piede

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Cop_NEVE_CANE1di Claudio Morandini

La gente immagina che la montagna sotto la neve sia il regno del silenzio. Ma neve e ghiaccio sono creature rumorose, sfrontate, beffarde. Tutto scricchiola, sotto il peso della neve, e sono scricchiolii che tolgono il respiro, perché sembrano preludere allo schianto di un crollo. Gli assestamenti delle masse di neve e di ghiaccio rimbombano a lungo, attraversando la terra sotto i piedi e trasmettendosi all’aria. Le grandi valanghe parlano con boati spaventosi, che riempiono di orrore, e con il sibilo feroce dello spostamento d’aria. Ma anche le semplici slavine tuonano e riecheggiano nei valloni, e quel suono oscilla tra le pareti di roccia ben oltre il cedimento.

La riviera dei fiori

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acqua

di Orso Tosco

La pittura è spessa e viscosa. Sembra bitume, forse lo è. Va data in modo uniforme ma di corsa, perché la pioggia è in agguato, e la pittura nera deve impedire che l’acqua filtri nei vecchi muri della casa. Lavora nello stretto, lui. Lavora nello stretto, con i capelli radi appiccicati contro la fronte dal sudore, gli occhi illuminati di sbieco, e non dai lampioni, nemmeno dalla luna che inizia, ma da una luce interna, interna e cattiva, innocua e blanda.

Da un lato ha la grondaia, a cui il porco che l’ha montata non ha imposto la giusta pendenza. Dall’altro lato un muretto, irregolare, di cemento armato. E sopra, sporgente, quel che resta di una vecchia serra: i vetri bianchi, sporchi, rotti, l’intelaiatura arrugginita. È abbandonata da tempo, i garofani costano meno altrove. Resta comunque ingombrante. La spigolosa adolescenza della vita passata di questi luoghi, adolescenza vecchia che non diventa niente e nemmeno muore: ormai pigra come un krapfen.

Osserva il pennello, lui, il pennello carico di pittura che sembra un grumo di strada fresca, e osserva la propria mano, la trova coperta da un guanto da cucina rosa. Guarda sopra. Ha le braccia tagliate. I tagli sono leggeri e sciocchi, figli di potature maldestre. L’unico colore acceso è il sangue rosso delle zanzare tigre spiaccicate sugli avambracci. Lente a causa dell’autunno, sono ormai comode prede da uccidere bestemmiando. Fischiano e volano, poi esplodono oppure sfuggono: partiture su partiture.

A osservare il lavoro di pittura, già l’istante successivo alla fine del lavoro stesso, si capisce subito che è fatto male. Per nulla uniforme. L’acqua stagnerà, filtrerà, causerà danni.

I sorci che vivono nel sottotetto emettono un rumore stridente, come una corda di pianoforte sfregata con unghie lunghe. Il rumore è breve, passa subito. Lui pensa al veleno che dovrebbe piazzare a bordo tegola. Ma anche il pensiero è breve. Passa, passa anche lui.

Altri pensieri arrivano a eseguire le loro figure libere. Pensieri come l’idea che lui non sia bravo a fare nulla. Non bravo con il bitume, non bravo a leggere le bollette del gas, non bravo a vendere soldi e non bravo a salvare soldi, non bravo a scrivere, a saltare.

Buono a nulla e nel nulla.

Questi pensieri ci mettono poco a diventare verità. E le verità sono come un pelo di capra, o di pecora o maiale, che gli cresce attorno al collo mentre si butta tra le canne di bambù per tornare a casa. Si torna a casa con il collo caldo e sporco di verità perché la porta va aperta con un misto di saggezza e disperazione. Bisogna tornare a casa fallendo nell’equilibrio.

Le ceneri di suo padre lo guardano, appollaiate davanti alla finestra che dà sul giardino. Sono rinchiuse dentro una scatola verde che assomiglia a quelle in cui si tengono le carte da gioco. Le ceneri hanno occhi fatti di piccola frutta talmente vecchia da apparire irriconoscibile, forse acini d’uva, forse semi.

Cosa vogliono dirgli? Dicono qualcosa, gli occhi della cenere fresca di suo padre?

Non si sa. Ciònonostante, ogni martedì e giovedì lui sottopone loro delle giocate del lotto, uno o due ambi, un terno, affinché suo padre guardi e, eventualmente, decida. Il sabato invece non gioca. Gli piace far finta di aver dimenticato di giocare. Ama sdraiarsi, il sabato sera, a pensare ai rimpianti, a puzzare.

Ma oggi non è sabato, è un altro giorno.

È stanco, sono mesi che è stanco. Da quando la malattia di suo padre si è incattivita e lui è tornato a vivere con i genitori, è da allora che si sente stanco. È normale, è normale, si dice.

Gli ospedali, i sintomi, la mancanza cronica di miglioramenti, di buone notizie.

Ma questa stanchezza arriva da più lontano, da prima, e questo è meno normale, meno normale, meno normale, ripete a bassa voce, in bagno o sopra qualche albero, oppure seduto in disparte in un bar quasi vuoto. (Quanti uomini, quanti uomini gli hanno detto “Mi dispiace per tuo padre” in questi mesi? E quante volte ha osservato le loro camicie piene di tasche e ha risposto “Grazie”, come dopo un complimento? E quanti uomini hanno taciuto, guardato e taciuto? Non importa.)

Sua madre si aggiusta il cappello di lana che è costretta a indossare quando la cervicale le dà noie. Di solito poco prima che il vento cresca, iniziando sul mare, per poi salire verso di loro, che stanno tra gli alberi e le serre abbandonate.

“Hai chiamato il notaio?” domanda sua madre “Si? E allora, che dice?”

“Che ci sta lavorando.”

L’espressione del volto di sua madre significa che lei sa benissimo che nessuno ha chiamato nessuno, e che nessuno lavora a niente. Sono buono a nulla e per nulla, pensa lui, ma mia madre vuole immaginarmi diverso, migliore.

Lui la bacia sulla fronte come altri pregano, con l’abitudine di una pianta che ricresce.

Il giardino oltre la finestra del soggiorno subisce gli scarti del tramonto. Tutte le ombre grossolane, color barbabietola, e le profondità del rosso cupo fanno sembrare gli aranci e i limoni come ricoperti di ardesia, di ardesia sbiadita. Le foglie mosse degli alberi diventano vaghe, si trasformano in materiale da chiesa spoglia, da chiesa spoglia che all’improvviso offre un bagliore e subito lo rinnega. Invece sua madre esce a camminare col cane. E lui beve, beve vino da tavola dentro una tazza macchiata.

Il fuoco ai fuochisti il mare ai maremoti il cuore ai rincuorati.

Prima, prima di tornare a casa a vivere la malattia e il lutto con sua madre, prima, a lui piaceva bere e bere, bere fino a ubriacarsi, per ore. Per troppe ore, soprattutto. Bere oltre il momento in cui non ha più senso bere. Quello gli piaceva. Adesso, invece, gli piace bere alla pari di certe vecchie signore morenti, che si sentono in colpa per le preoccupazioni causate agli altri, ma che al tempo stesso ne vanno fiere e, nel mentre, bevono di nascosto. Come per correggere un breve raschio in gola, una tosse che non merita commenti.

A lui piace bere poco e male, bere vino da tavola aspro, o rosolio venuto così così. E gli piace bere da solo, di nascosto, buttando immediatamente la bottiglia vuota e lavando subito il bicchiere. Come a dire, non è successo niente, non è passato nessuno, il campanello non ha suonato, la porta non si è spalancata. Quel tipo di bere che, forse, a raccontarlo gli si fa un torto. Come a voler attribuire un tono a certe facce che lui vede in paese, la sera. Facce che un tono ce l’hanno, ce l’hanno: un qualcosa riguardante la lobotomia frontale, una certa signorile demenza, diciamo. Ma che, ecco, già si sente, a spiegarle, si finisce con lo sprecarle.

Perché invece non accettare l’inspiegabile come si accetta lo sguardo di un cinghiale o di un vigile urbano? Perché non dargli da fumare? Accettiamolo, accogliamolo.

Accogliamo la casa vuota e buia, accogliamo la maniera brusca con cui le finestre sporche distorcono il verde delle piante, i movimenti disperati del verde e la sommessa voglia di scomparire delle ombre, accogliamo e vezzeggiamo le tante cose che, anche oggi, lui ha cercato di risolvere e che ha fallito. Accettiamo le tante cose che ha fallito.

Arriva la cena, e con la cena arriva per lui il momento per i buoni propositi. Ogni sera una fine dell’anno, un inizio di scuola, un matrimonio, ogni cena un nuovo, energico contratto con la vita. Invece, poi, lui beve di nascosto, e smentisce tutto. Va a letto e resta a fissare il soffitto rugoso, a buccia d’arancia vecchia, e pensa alle donne con cui è stato a letto. L’immagine di una costola gonfiata e sgonfiata riflessa in uno specchio appoggiato al muro. Una frase sconcia e buffa e confortevole. L’odore sulle dita. L’odore di merda e di detersivo e di broccoli. Le labbra storte. I piedi da lepre. La piega del ginocchio e la voce che ci si spegne dentro.

Tutte cose belle e tristi che lui pensa e ripensa fino a quando si vede nel riflesso della finestra: e allora smette; smette perché si accorge di avere una barba da cronaca nera minore e gli occhi stanchi, stanchi e cattivi. E ha la tentazione di domandarsi: ma è così che divento, questo divento, di già?

Così smette, smette di pensare ai corpi e ai rumori dei corpi e al calore dei corpi e alla loro amorevole e incomprensibile casualità, e legge.

Apre un libro a caso. Legge disordinatamente, saltando pagine e pagine, capitoli interi, alla ricerca di specifici gruppi di parole. Quali gruppi di parole?

Dipende. Certe sere lui sente il bisogno d’immagini riguardanti i settori, le inferiate. Altre volte cerca i risvegli, i nomi di strada, gli stagni. Altre volte ancora i colori, le ostriche, le battutine. Può capitare che senta di aver bisogno di maledizioni, di fiabe, di canzoni. Ma è raro.

Quando ha trovato qualcosa, lo legge e rilegge senza sosta. Allontana il sonno e la voglia di saperne di più, legge e rilegge la stessa frase, la stessa mezza frase, le stesse tre parole in croce fino a quando ritiene di essere stato accettato, per davvero, di aver stipulato con loro, con le parole, un patto, un accordo del tutto indifferente alla storia e al senso.

Allora crolla, dorme immediatamente. Senza sogni. I sogni di un bicchiere dimenticato sono splendidi e alti e la loro maledizione è vuota e si allontana. Lui si sveglia spesso. Perché i bicchieri vuoti non hanno pace e perché sente la casa fare i rumori. E quando si sveglia, lui prende il bastone di legno che tiene vicino al letto e lo stringe come si stringe un cornicione per non cadere. Poi si alza in piedi e ha paura.

Al buio, con la casa che fa i rumori e un bastone in mano, lui ha paura.

Dietro ogni rumore potrebbe esserci un assassino. Ogni rumore è un assassino che non vuole fare rumore. Lui lo sa e ha paura. Avrà il coraggio di uccidere l’assassino? Avrà la forza e l’abilità? E poi: gli piacerà?

Lui teme di si. Ha così paura dei rumori della casa, ha così paura degli intrusi che possono infilarsi dentro quei rumori e sgattaiolare in salotto, al piano di sotto. Ha paura di loro, e ha paura del dolore che su di loro sente di voler sperimentare, perché crede che possa piacergli.

Lo sa. Non è sicuro di avere il coraggio per sperimentarlo. Ma è certo che, se trovasse il coraggio necessario, quel dolore gli piacerebbe. Colpirebbe a bocca chiusa e senza labbra, colpirebbe oltre il respiro, lascerebbe il male al male, aggiungerebbe male al male.

Cammina per la casa buia. Stringe il bastone tra le mani, sente le nocche vivere pienamente. Quando entra nel bagno colpisce l’aria con forza. (È nell’aria che stanno gli assassini, ovunque.)

Il legno del bastone fischia e si zittisce. (È nell’aria che bisogna colpire, colpire e sperare.)

Lui ha le mani che tremano a causa della paura e dei rumori. Il lampione oltre la siepe lo sa e si fa bianco di luce, di una luce più bianca della luna bianca. Lui guarda la siepe e sputa, sputa come una seppia.

È molto bello, lui, adesso. Da solo, nel bagno. È convinto che ci sia un vecchio che lo aspetta nella doccia. È molto bello, lui, quando si volta a controllare, sicuro, certo di trovare un vecchio bonario, in attesa, con una coltello in mano. Ed è certo che se il vecchio ci sarà, se il vecchio avrà avuto la pazienza di aspettarlo, lui non lo colpirà con il bastone; no.

Lui poserà in terra il bastone giallo, sulle piastrelle, e si avvicinerà alla lama, per aiutare il vecchio a farsela entrare nello stomaco, con una lentezza così dolce e ingiusta, con una lentezza spossante e oscena e delicata.

Ma il vecchio non ha avuto pazienza. È andato. Ancora una volta è notte e ancora una volta il bagno è vuoto. Il bastone resta tra le mani, fischia nell’aria, dove bisogna colpire. Ma c’è soltanto aria, gli assassini si nascondono bene, sono bravi, restano rannicchiati dietro i rumori della casa e aspettano.

Lui ritorna a letto. Ha paura di dormire troppo profondamente. Così si palpa lo stomaco e le chiappe, si palpa i coglioni ed è stanco. Fuori, gli altri, ascoltano le voci aspettando il turno per usare la propria, decorano le vetrine, arrotolano le corde, si rifugiano nelle cantine dove poi si baciano, e hanno così ragione, così tanta ragione, ciascuno di loro.

Quanto ancora vi devo? Questo, questo pensa lui. E poi, ancora più sdolcinato e irrimediabile, pensa che dovrebbe piovere carta da regalo, che la stanza dovrebbe riempirsi di ricci di plastica, e che il dolore dovrebbe essere meno arioso.

Lui osserva il profilo del bastone nel buio della stanza, la forma. Ha il naso ghiacciato.
E sono frasi brevi e brutte, queste, mentre i suoi pensieri sono brutti e lunghi.

Una notte-questi sono i suoi pensieri triturati come scarto di carne-una notte io sentirò il vero rumore, il rumore che sto cercando e che si farà riconoscere. Un rumore vivo, che mi sfiderà.

Allora stringerò il mio bastone, e il mio bastone giallo avrà fame. Scenderò le scale quasi senza sollevare i piedi, come se stessi passandomi la lingua sui denti, e arriverò in salotto.

In salotto troverò la luce buia che si vede in mare a occhi aperti, quando l’acqua è divorata dalle alghe e dalla schiuma. E io morderò il muro, spalancando la bocca fino a strapparmi la carne sulle guance, per far parlare gli zigomi. Con grande eleganza. Con l’eleganza di un ballerino a cui siano stati distrutti i muscoli e le ossa e che, pur ritrovandosi soltanto con i tendini, scopra di avere comunque troppo. Ma nessuno, nessuno dei morti rannicchiati al centro del salotto mi noterà. Perché i morti sono sbadati. E perché i morti saranno troppo impegnati a lacerare e scavare.

Cosa scavano i morti, i miei morti? Mi chiederò conoscendo già la risposta.

In cosa affondano le dita? Domanderò soltanto per avere la scusa di sorridere da ogni dente.

E che voglia, che voglia di rimpiangervi tutti e tutte avrò, guardando il mio corpo in terra, steso al centro del salotto, e quanta voglia di avere mancanza di voi avrò, nel vedermi scavato e spolpato dalle mani dei miei morti, dalle loro mani così delicate, quasi di schiuma.

E con quanto amore per voi, con quale splendida, soave qualità d’amore per voi colpirò il mio corpo già sventrato, il mio corpo spalancato, il mio corpo illustrato nelle varie gradazioni del sangue.

Con quanto amore, con quanto amore che serve a niente e che non passa, e che giustifica le notti e sbaglia, e che rassicura, e brucia in silenzio, e non basta, e non passa, con quanto amore purissimo farò scempio di me, rannicchiandomi infine dentro il mio stesso cadavere con la dolcezza di una civetta che ritorna senza essere notata.

IMMAGINE DI CLARISSA BELL

La battaglia al contrario

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nave_guerradi Romano A. Fiocchi

(La battaglia” è il titolo del capitolo numero Sei di un bi-romanzo di trentaquattro capitoli ancora work in progress. Bi-romanzo in quanto si tratta di due romanzi intrecciati dove i capitoli si alternano sino a confluire in un unico finale. Quello descritto non è uno scontro qualsiasi ma la battaglia navale che determinò il trionfo dell’Occidente sull’Oriente. Era il 2 settembre del 31 a.C. Con il mio intervento letterario ne ho fatto una battaglia al contrario, nel senso che ho capovolto storicamente le sorti dell’evento. In fondo è così anche nel mondo reale: basta un nulla per cambiare il corso di una civiltà. r.a.f)

* * *

Mio padre odiava la guerra, disse il giovane marinaio.

La odiavamo insieme, disse Catullo.

Allungò il braccio, l’indice teso verso una striscia scura che affiorava sull’orizzonte. La costa dell’Acarnania. Gli occhi di lattuga di mare erano trasparenti:

Laggiù c’è Azio, – disse.

Era un altro tassello della sua idea monolitica: la battaglia di Azio. L’odore di quella battaglia sul mare si era perso nei secoli ma Catullo sapeva che era lì che il mondo aveva voltato pagina. Era davvero l’unica battaglia che avesse avuto un senso nella storia dell’umanità, per quanto l’umanità e la sua storia potessero averne. Il nonno di suo nonno vi aveva partecipato. Oppure era stato il padre del nonno di suo nonno. Chiunque fosse, il suo avo aveva calcato la terra del promontorio di Azio al seguito delle legioni di Publio Canidio Crasso e vi aveva perso la mano destra, dilaniata da una catapulta e poi amputata. Fu allora che pronunciò la storica frase: “Cazzo, ecco l’occasione per provare la forza dei mancini!” Era un uomo che pensava positivo. Il fantasma dell’eroica mano amputata ossessionò per generazioni la famiglia di Catullo come se la battaglia di Azio si riducesse a quell’unico episodio. Era il fantasma di una mano che prima di essere dilaniata aveva risposto al cenno di Antonio quando aveva dato il via alla battaglia. Le grida di comando si erano propagate di nave in nave e avevano rotto il silenzio che regnava sul mare. I tamburi incominciarono a pulsare come cuori nei ventri degli scafi. Gli scalmi gemettero sotto lo sforzo dei remi che battevano all’unisono la superficie e sollevavano piccole onde di schiuma. La flotta di Antonio e Cleopatra lasciava il golfo di Ambracia. Il nemico l’attendeva al di là del promontorio. E con il nemico, la Storia. Qualche giorno prima, la squadra di Gaio Sosio aveva approfittato della nebbia ed era uscita per valutare la situazione. La sortita improvvisa aveva permesso a Sosio di assalire la squadra di Arrunzio ma il luogotenente di Ottaviano, Marco Vipsanio Agrippa, si era precipitato in suo aiuto e aveva costretto l’aggressore a ripiegare nel golfo. Anche Canidio, con le sue legioni che controllavano l’imbocco del canale e i piedi del promontorio, aveva confermato il blocco navale. La flotta di Ottaviano tagliava i rifornimenti via mare, ben sapendo che via terra sarebbero stati impossibili. Era un gatto davanti alla tana del topo. La battaglia navale divenne inevitabile. Occorreva spazzare l’ingresso del golfo e riprendere il controllo del mare.

Si alzò una leggera brezza. Scendeva dalle coste dalmate e investiva tutta l’Acarnania. Le navi scivolavano via con i loro rostri taglienti. Fendevano le onde sul pelo dell’acqua. L’aria sapeva di morte. Antonio pensava alle vele che aveva caricato a bordo e che molti avevano guardato con sospetto. Nessuno porta con sé le vele per una battaglia, in battaglia si usano i remi. Sapeva che i paurosi lo credevano pronto ad una fuga, i valorosi all’inseguimento delle liburne di Ottaviano molto più leggere delle sue quinqueremi. Ecco perché le vele. L’Antonias, nave ammiraglia di Cleopatra, navigava dietro di lui accompagnata dalle sue sessanta quinqueremi da guerra. Antonio ne distingueva il vessillo che garriva contro il cielo azzurro. Avrebbe preferito un vento da sud, che gli portasse l’odore di Alessandria, l’aroma dei legni bruciati sul Faro, i profumi salmastri del lago Mareotide. Ma Alessandria era lontana. Soprattutto per lui, che cominciava a sentirla come la sua città.

Davanti al golfo apparve lo schieramento delle navi di Ottaviano. Erano quasi tutte triremi e liburne, imbarcazioni che nulla avrebbero potuto contro le possenti quinqueremi della flotta egizio-romana. Antonio sapeva che da parte delle navi di Ottaviano sarebbe stata, più che una battaglia, una scaramuccia continua fatta di incursioni giocate sull’agilità di manovra. Piccole e insistenti ferite che avrebbero potuto dissanguarlo. Doveva aggirare il nemico, bloccarne il movimento con le sue fortezze galleggianti.

La flotta romana era disposta in semicerchio, da meridione verso settentrione. Le squadre dell’ala destra erano comandate da Marco Lurio, al centro Lucio Arrunzio, a sinistra Agrippa. Con Agrippa c’era la nave di Ottaviano. Antonio dispiegò le sue navi di fronte a quelle romane, anche lui in semicerchio. Sosio al comando dell’ala sinistra, di fronte a Lurio, e Lucio Gellio Publicola a destra. Le spalle di Publicola erano coperte dalla quinquereme di Antonio. Al centro, gli antoniani Marco Insteio e Marco Ottavio insidiavano le squadre di Lucio Arrunzio. Le navi di Cleopatra erano anche loro in posizione centrale, nelle retrovie, pronte a forzare il blocco. Gli equipaggi di entrambi gli schieramenti si guardavano in silenzio. I tamburi tacevano. Cigolii di corde e di legni impregnavano l’aria. I rematori riposavano prima dello sforzo supremo. Sembravano tutti cose già morte. E la morte era lì, con la sua enorme falce, in compagnia delle Parche. Tra non molto avrebbe regnato su quelle imbarcazioni. Soltanto allora Antonio si rese conto che stava spingendo la propria gente contro la propria gente. La nuova Roma d’Oriente contro la vecchia Roma d’Occidente. Era una battaglia contro se stesso. Comunque fosse andata, avrebbe perso. La vera vittoria poteva appartenere soltanto a Cleopatra.

Un grido. I tamburi della squadra di Sosio incominciarono a pulsare, le pale dei remi a tuffarsi. Sosio costrinse Lurio a ripiegare stringendo il cerchio. Anche Agrippa, sull’ala opposta, retrocesse sotto la pressione di Publicola. La flotta di Antonio abbracciò la flotta romana in una morsa. La linea delle imbarcazioni si sgranò lasciando scoperto il centro. Fu allora che Cleopatra si introdusse nel cuore della flotta nemica dando inizio alla battaglia. Lo speronamento con i rostri acuminati aveva già fatto le prime vittime nelle squadre di Ottaviano. Alcune triremi affondavano miseramente tra le urla dei rematori rinchiusi nei ventri delle navi e quelle dei legionari che affogavano sotto il peso delle corazze. I rostri delle navi di Ottaviano non riuscivano a fare altrettanto: le quinqueremi di Antonio erano rinforzate con fasci di legname e placche di ferro. Il genio di Agrippa sfoderò allora l’arma segreta: il corvo, enorme rampone d’arrembaggio. Le sue navi affiancavano quelle nemiche e lo lasciavano cadere sul ponte avversario sfasciando i parapetti e conficcando gli uncini nella tolda. Sulla passerella del corvo scorreva gridando un fiume di legionari pronti al combattimento. La battaglia da navale si trasformava in terrestre. Intanto dalle torri di triremi e quinqueremi gli arcieri scatenavano una pioggia di frecce. Il cielo era solcato dai proiettili infuocati scagliati dagli onagri. Uomini squarciati dai dardi delle baliste. Braccia troncate. Carni trafitte. Corpo a corpo cruenti. Sangue che sprizzava. Grida di aiuto e di dolore. I corvi azzannavano le navi nemiche con velocità sorprendente ma la flotta di Antonio stringeva sempre più le sue mascelle proprio sull’ala sinistra, quella di Agrippa. Gli arcieri di Cleopatra offuscavano il cielo di frecce cosparse di pece accesa. Ovunque urla, fumo, incendi. Sempre più limitate nei movimenti dalla morsa egizio-romana, le liburne e le triremi di Ottaviano non riuscivano ad evitare gli speronamenti. Il mare ribolliva di morte. La superficie era ricoperta di rottami, cadaveri, pezzi di legno fumanti. Tutto, nel giro di qualche giorno, sarebbe finito sulle coste dell’Acarnania. Il mare rigetta ciò che non gli appartiene, compreso il dolore. La trireme di Ottaviano, colpita dal rostro di bronzo della nave di Publicola, imbarcava acqua. Ottaviano si trasferì sulla liburna di Agrippa. Ma fu lì che Cleopatra, a bordo dell’Antonias, lo vide. La splendida regina alzò le braccia al cielo e invocò la forza del dio Serapide, più potente di tutti gli dei di Roma perché concentrava in sé la rabbia di Osiride Api Dionisio Zeus Esculapio Plutone. Poi chiamò forte Alessandro, protettore dei Lagidi e di tutti gli abitanti della città da lui fondata. Dal mare emerse lo spirito di un guerriero con la causìa in testa, dietro di lui migliaia di altri spiriti guerrieri che diedero forma alla terribile falange macedone. Un grido di battaglia e le onde si sollevarono sotto una forza impetuosa travolgendo le flotte. Le imbarcazioni di Ottaviano, più leggere, furono scagliate in tutte le direzioni. I corvi piantati da Agrippa nelle quinqueremi avversarie furono strappati alla base, i remi spezzati, affondate le navi in avaria. La tempesta travolse tutti ma le navi delle flotta egizio-romana, grazie alla loro stazza, mantennero il controllo e riuscirono a restare in formazione. Quando la violenza del mare cessò, i legionari di Antonio e le truppe egizie di Cleopatra fecero il resto. Assalite le navi avversarie, ormai disorientate e divise, ne massacrarono gli equipaggi risparmiando soltanto chi giurava fedeltà ad Antonio. Agrippa, avvertita la disfatta, si gettò sulla propria spada. Arrunzio si arrese e fu costretto schierarsi con Antonio. Lurio morì colpito dal dardo di una balista. Il corpo di Ottaviano non fu mai ritrovato.

Intanto a terra, le legioni di Canidio venivano trasbordate dalle squadre di Sosio sull’altra sponda del canale e sbaragliavano le legioni di Tauro, terrorizzate dalla voce della disastrosa sconfitta navale e decimate dalle diserzioni. Tra i vincitori si contarono alcuni morti, qualche ferito e una mano destra dilaniata da una catapulta.

La notizia del trionfo di Antonio e Cleopatra raggiunse Alessandria. Antonio fu proclamato Imperatore. Fu una festa sfrenata sino a notte fonda.

“Nature morte”. Cinque poesie di Yoshioka Minoru

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Yoshioka Minoru

Yoshioka Minoru, Nature morte

 

 

traduzione di Andrea Raos




Natura morta

Dietro la dura superficie del vaso da notte
crescono in splendore
frutti autunnali
mele castagne uva
e tutti alla rinfusa
accatastati
verso il sonno
verso una sola armonia
verso una musica che cresce si raccolgono
tendono al recesso più buio
i loro noccioli scivolano piano di lato
e intorno
aleggia l'ora della prospera decomposizione
adesso davanti ai denti dei morti
stanno immobili come pietre
tutti quei tipi di frutta
che dentro al vaso da notte
sempre più greve
sul rovescio di questa notte apparente
talvolta
paurosamente oscillano

*
 
Natura morta

Dalla rapida notte avviluppati
i pesci dentro cui
posate per un attimo
le ossa
scivolano via dal mare pieno di stelle,
sopra il piatto
in segreto si dissolve
la luce della lampada
che poi si sposta a un altro piatto
dove ereditata la fame di vita
nel fondo di quello
prima l'ombra
poi l'uovo chiama

*
 
Natura morta

In fondo a una bottiglia vuota
legate al turacciolo
le nostre gole
le nostre esili carni
splendide serpi che oscillano con la bilancia
le nostre pupille non reggono il peso dell'oro
da ricordare è il sole
data sempre nuova distanza
i nostri muscoli cardiaci
percorrono l'intero corridoio dell'estate
avvoltolato nei lunghi intestini di un cavallo
e verso il mare di notte tutto meduse
per metà immerse
le nostre teste
generano cose senza luce

*
 
Natura morta

Il sale sporco della cucina
il sesso pendulo di un cane
un chiodo sporgente dal soffitto

mentre un angolo della loro morbida metà inferiore
si riflette in uno specchio scuro
infine
gli arti non ancora formati di un feto
un cavallo sulla spiaggia fantasticato da un pittore
calcoli che non tornano
e altre simili astrazioni
verso un'altra stanza		un'altra dimensione
vengono trasportati

A portare queste cose disparate
a uguali altezza e angolazione
è la meravigliosa astuzia del lavorio della notte
che tuttavia
poiché altrimenti peserebbe troppo
è un uovo soltanto
poggiato sul davanzale

e lì, via dall'oscena confusione della notte
luccicante un uovo si volge a una luna

*

Un mondo

Nel crepuscolo       destati da un richiamo       riscossi       infine alzati       fanno per chiamare       groppi di gialle forme astratte       ovvero un caos di cose a mucchi simili a lumache       da sotto a quelle pieghe ingrandite appaiono       le nostre sembianze       da cui colano liquidi copiosi       i nostri nasi       che rigurgitano vomito per sopravvivere       le nostre gole       poi esposti senza riguardi alla luce invernale       screpolati ogni giorno di più       i nostri denti       sempre spinte in cerca di quel punto buio e remoto       arrotolate le nostre lingue       adesso sprofondano nel mare del disco del tramonto       un mondo di ossa recise dai muscoli       ma, giunte prima       le nostre bocche di colpo enormi eruttano saliva gelata

 

*

Da Seibutsu 静物 [Nature morte], 1949-1955, in Iijima Kōichi 飯島耕一 et al. (a cura di), Yoshioka Minoru zenshishū 吉岡実全詩集 [Poesie complete di Y. M.], Tokyo, Chikuma Shobō 筑摩書房, 1996, p. 57 – 62.

*

Qui alcune informazioni su Yoshioka (in inglese).

 

Yoshioka Minoru

Christmas Carol

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di Daniele Ventre

Dicono che partorì poggiata a una palma in deserto
d’oasi in un mare di sabbia Al-ilāt-Maria sul cammello
nave fra forme di dune –ondeggiante in groppa alle dune
col femminile di Allah –Kâf, Hâ’, Ya’, Aîn, Sâd –da tenerne
sempre all’oscuro i bambini feroci –in un mare di sabbia
dicono –si raccomanda però di tenersi alla guida
delle scritture –tenersi a destra –e cinture allacciate.
Dicono che partorì poggiata a una palma in deserto
d’isola in mezzo al Gran Verde Ilāt –nome d’arte Latona
–Lato-Letò per gli amici –Maria –una madre di Apollo
Lato la madre di Apollo –e la palla in pelle di dèi-
uomini. Dicono poi che Latò –nome d’arte Latona–
si nascondesse anche lei dall’invidia scesa dall’alto:
lei il femminile di Allah –che non si conosce davvero
l’isola in mezzo al Gran Verde o l’oasi chiusa fra dune,
chiusa fra forme di dune –ondeggianti in forme di seni
dal femminile di Allah –per associazione di dee
e associazione di idee. –Ma gli associatori, che teste!
Decapitiamoli un po’. –ma dicono poi che in effetti
è luminoso anche Ilah –tanto più col suo femminile
è luminoso anche Ilah senz’articolo –nome d’arte
Zeus –con affianco il gran verde e Ilāt –nome d’arte Latona
–Lato-Letò per gli amici –Maria per i più sconoscenti:
per i bambini feroci all’oscuro accanto alla grotta:
cuori contenti alla lobby –per scelta: eretismo di dee
per eresia di presepe –che eretici pieni di ardore!
Inceneriamoli un po’, così ci calmiamo le feste
col femminile di Allah. –Ma gli associatori, che teste!
decapitiamoli un po’. –Si faranno un po’ compagnia
con i compagni bruciati sui roghi –e ne abbiamo per tutti
di media-evo –è la media degli evi –e dei figli d’un’Eva
figli d’Ishah –tutti figli di un’Iside (figli di un’Isis?
Squallide le omonimie) nel presepe insieme ai pastori
e ai bombardieri e ai regali e al petrolio e ai datteri e ai giochi
di strategia in un tempo irreale. –E dicono sempre
che ha partorito Maria –in arte Al-Ilāt o Latona
–Lato-Letò per gli amici –Una mamma: certo una Maia:
una mammina col bimbo in grotta –un bambino ruffiano
ladro di vacche e cantante. –E poi era Vergine (Astrea:
giochi d’oroscopo antico –ci credi all’oroscopo? Tutti
ci hanno creduto a suo tempo –si vedono le conseguenze
per i compagni bruciati sui roghi). –E lo dicono sempre
che ha partorito Maria –in arte Al-Ilāt o Latona
–Lato-Letò per gli amici –una terra in preda agli incendi:
Semele in cenere sotto i fulmini –dicono sempre
si nascondesse anche lei dall’invidia scesa dall’alto
quella mammina col bimbo in pancia –un bambino ubriacato
e spacciatore e sciamano –un dio crocifisso nel vino.
Dicono che ha partorito Miryam o Maryam o Maria
stella del mare da amare amara Israele in Egitto:
pure non si era contenti al quia –ci vedemmo soltanto
una Afrodite –e però non dirlo ai bambini feroci:
tutti vicini a presepi e grotte in virtù di eretismi
psichici –quante eresie per associazioni di dee!
Inceneriamole un po’. –Ma gli associatori: che teste!
decapitiamoli un po’. –Si faranno un po’ compagnia
tutti vicini al presepe e alla Kaaba tutti adoranti
Stella-del-mare da amare amara –israeliana in Egitto:
Imma –Eva-due-punto-zero –una vera Ishah col restyling
sotto la grotta vicino all’albero stretta alla palma:
profuga dai bombardieri per Siria e Israele e in Egitto
e si nasconde anche lei da un’invidia scesa dall’alto
–esodi erodi ed eredi e cammelli in groppa alle dune
col femminile di Allah, di Zeus e di Dio. –Ma non dirlo
mai a Famiglia Cristiana –non dirlo ai bambini feroci
figli di un’Isis minore –e di un’Iside –di un’Astrea
Vergine –torna davvero la Vergine –torna Saturno:
torna Virgilio –il profeta casuale –e ci torna anche Dante:
“Vedi com’io mi dilacco? e come è storpiato Maometto?
Per non parlare di Cristo?” –Rimangono tutti col mitra
–tornano tutti con Mitra –anche lui lì in grotta –la madre
Vergine –giochi d’antico oroscopo –lì con il Toro
con l’Asinello del Sud –con la sciarpa azzurra -e comunque
c’entra un San Paolo e la casba con i bombardieri e i regali:
le associazioni di dee –ci tornano tutti col mitra:
i camorristi perfino –ci tornano tutti con Mitra
–tornano tutti con Mitra –anche lui lì in grotta –la madre
Vergine –giochi d’antico oroscopo –lì con il Toro
con l’Asinello del Sud –e il papino che si inginocchia
–nascita doppia che il Sole è bambino dentro il presepe.
Dicono che ha partorito, Miryam o Maryam o Maria
stella del mare da amare amara Israele in Egitto:
una Afrodite –Kâf, Hâ’, Ya’, Aîn, Sâd – Al-Ilāt o Latona:
dicono che partorì poggiata a una palma in deserto
(isola in mezzo al gran verde o un’oasi in un mare di sabbia)
lei –il femminile di Allah –non dirlo ai bambini feroci
tutti vicini a presepi e grotte a giocare col mitra
quanno nascett’o nennillo a Bbettlemme ’mmiez’e pasture,
coi bombardieri e i regali –è già nato il dio della guerra:
ci hanno creduto a suo tempo –si vedono le conseguenze
dicono. –Si raccomanda però di tenersi alla guida
delle scritture –e tenersi a destra –e cinture allacciate
e rispettare le fiamme e i roghi –è già sorto il solstizio
con il maschile di Al-Lāt (Dio e Zeus e Jahwèh per gli amici:
poi come dèi sono quello che sono –e non c’è da capire)
torna la gente con l’oro. –Sorridi a mammina, tu, bimbo:
al femminile di Allah. –Piangi in braccio a Isis, tu, bimbo
fra i bombardieri e i briganti: fra palme i tre re sul cammello
–navi fra forme di dune a ondeggiare in groppa alle dune–
hanno portato i regali: il petrolio e l’incendio e i mitra:
Babbo Natale è arrivato –id est furor –Wotan sorride:
bimbo, sorridi a mammina, Harry Potter: tu dalle stelle
scendi, o signore del cielo, Allah: loro ti amano tutti,
cuori contenti alla lobby –è già nato il dio della guerra.

Do you remember George Best?

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best_webOTW

di

Francesco Forlani

C’è qualcosa d’ipnotico in un gol; liddentro deve esserci per forza qualcosa di simile all’incantesimo di una fiaba, per fare in modo che la ripetizione della scena, dell’azione, il replay, riesca a suscitare la stessa meraviglia provata per la prima volta dallo spettatore. Ecco perché nel periodo natalizio, oltre ai famosi Totò e Peppino trasmessi  a getto continuo o alla Vita è una cosa meravigliosa di Frank Capra, nelle case del Sud si ripassano a memoria i gol di Maradona attraverso canali dedicati o malridotte VHS riposte in un vecchio armadio e tirate fuori, per l’occasione, insieme all’impolverato videoregistratore.

Così il gol diventa doppiamente ipnotico se consumato in Rete, su internet, facendo però ben attenzione a non “farsi rovinare” le feste dalle playlist, tipo i migliori dribbling di tutti i tempi, le migliori punizioni, ecc; il flusso vitale, ininterrotto, deve essere monografico, non necessariamente organizzato in ordine cronologico, al massimo orientato da micro percorsi tematici, tipo assist, pali traverse, dribbling e appunto gol. Come in ogni flusso di coscienza è fondamentale, nella narrazione, prevedere dei salti, flashback, condensazioni, travestimenti, esattamente come accade nei sogni.

Riuscire a raccontare un sogno, gran bella impresa! Lo sappiamo tutti avendo almeno una volta sperimentato la difficoltà a “rendere” se non vera, almeno verosimile l’esperienza allucinatoria appena trascorsa. Eppure Duncan Hamilton, autore di questa biografia romanzata riesce non solo a “renderci” i dati di quella esperienza ma a trasmetterci la stessa energia. Ci sono delle vite che potrebbero indubbiamente raccontarsi da sole e quella di George Best è sicuramente una di queste; sono delle vite per certi versi esemplari, come quelle dei dandy in cui l’opera è la vita, e dove un semplice aneddoto apre una breccia nell’immaginario collettivo. Quello che riesce invece a Duncan Hamilton ed è grazie allo stile e alla passione della sua scrittura (eccellente la traduzione di Francesca Benocci e Roberto Serrai ), è la variazione su uno stesso tema, quello della caduta e ascesa di una popstar, oltre che campione sportivo, capitolo dopo capitolo, passaggio dopo passaggio; variazioni che si reggono attraverso innumerevoli rimandi, musicali, cinematografici, televisivi talmente essenziali che in più di un caso si lascia la pagina scritta per riascoltare i 10cc – I m Not In Love,   o vedere per intero il film più amato da George Best, diretto e interpretato da Albert Finney, Charlie Bubbles.

George Best è stato un’icona Pop a tutti gli effetti con un successo che gli esplode letteralmente tra i piedi in occasione della finale della coppia dei campioni, giocata a Wembley tra il Manchester United e il Benfica.

“Qualcuno gli allungò una copia di «Bola» col titolo in prima pagina stampato in nero e rosso. Lui chiese che glielo traducessero. «Un Beatle chiamato Best distrugge il Benfica» risposero – e il paragone con il gruppo, che aveva già venduto centocinquanta milioni di dischi in tutto il mondo, da quel momento gli rimase addosso per sempre. Diventò il «Quinto Beatle».

Icona che una vita spesa bene, tra macchine, abiti e belle donne contribuì a mantenere a lungo ben oltre i successi sportivi e nonostante il deterioramento fisico e psicologico causato dall’alcol. Il confine tra artista e professionista è superato d’un solo balzo, la parola che accompagna il guado è maudit.

Glass fu anche testimone della stima che circondava Best. In un ristorante di Londra fu avvicinato, in maniera molto cortese, da un uomo con i capelli lunghi e scuri, gli zigomi prominenti e il naso sottile. Fece un profondo inchino a Best e si scusò sinceramente per averlo disturbato durante la cena. «Lei è un vero artista» spiegò l’uomo, come preludio all’inevitabile richiesta di un autografo. Come sempre, Best firmò volentieri. Quando l’uomo se ne fu an- dato Glass gli chiese:

«Lo sai chi era?».
«No» rispose Best, perplesso. «Rudolf Nureyev».

Eppure George Best è stato innanzitutto un grande calciatore, e Duncan Hamilton ce lo fa vedere attraverso descrizioni di vera e pura letteratura come quando racconta il fotogramma che ritrae il campione in mezzo al campo:

george-best-jaguar“La fortuna di Best erano i lineamenti, almeno quanto i piedi. L’obiettivo adorava il suo volto. Ironia della sorte, in una delle foto più intense che gli siano mai state scattate quel volto non si vede. Best è mezzo girato, col numero sette bianco ben in vista sulla schiena. La maglia gli cade larga sui pantaloncini. Ha i calzettoni abbassati. Il braccio destro è alzato in segno di vittoria e per celebrare il proprio successo. Guardare quella foto permette di vedere quello che Best vide quella sera, mezzo secondo dopo aver segnato il gol a Wembley. La curva alla fine del tunnel, la massa informe del pubblico sugli spalti, i numeri bianchi e sfocati del tabellone, in procinto di scattare, le ombre tozze proiettate dai riflettori, le strisce di prato del campo, ognuna che si stringe verso il proprio punto di fuga. Quella foto ritrae il momento più alto nella carriera di Best, anche se allora nessuno avrebbe potuto prevederlo. Adesso, sapendo cosa ne è stato di lui, all’immagine è sotteso il dolore di qualcosa di perduto, e finito da tempo. Best non proverà mai più una gioia simile. Per lui non ci saranno né il secondo né il terzo atto. Nient’altro, nella sua vita, supererà quel momento. Busby non vincerà mai un altro trofeo. Best non vincerà mai un’altra medaglia.”

Gli anni sessanta e settanta  sono un gorgo che separa il vecchio dal nuovo. Bastava confrontare lo stile di vita dei calciatori della generazione immediatamente precedente con quella di George Best o degli olandesi capitanati da Cruyff per coglierne il distacco. Per capire la portata e l’energia di quei movimenti c’è un passaggio nel libro in cui si fa riferimento ai troubles dell’Irlanda del Nord che proprio in quegli anni scavarono un solco tra protestanti e cattolici. George Best era irlandese e protestante, ragione per cui a causa della sua notorietà fu costretto a giocare sotto protezione per via di minacce alla sua vita da parte degli attivisti dell’Ira. Così Duncan Hamilton ci racconta uno strano aneddoto che a mio avviso mostra come in quegli anni accadessero cose in grado di contraddire ogni posizione di campo soprattutto se dettata dalla sola ideologia.

Come scrive Teddy Jamieson in Whose Side Are You On?, uno studio sullo sport e i Troubles: «In Irlanda del Nord potevi essere arancione o verde, ma potevi comunque essere rosso». Paddy Crerand una volta vide il filmato di una sassaiola tra bambini da una parte all’altra di un muro che separava i quartieri cattolici da quelli protestanti. Da entrambi i lati c’era il lampo rosso inconfondibile di una maglia dello United con lo stemma della squadra.

Forse l’immagine finale Schermata 2015-12-23 alle 18.24.32per tutta questa storia andrebbe una volta di più cercata tra le strade dell’immaginazione del fuoriclasse, figlio della working class di Belfast, più che tra le registrazioni in studio delle ultime interviste a un uomo a cui nessun trapianto chirurgico era riuscito a sedare il demone che lo aveva consumato. Vi si rappresenta l’ «otw». Era l’acronimo di Over the wall, al di là del muro, e alludeva a ciò che per lui era «La grande fuga». La sequenza è nel film che abbiamo citato, Charlie Bubbles (L’errore di vivere).

 Bubbles si sveglia, infelice e giù di corda, vuole allontanarsi da tutto e tutti. Tira le tende della camera da letto del remoto cottage dove abita, e vede una mongolfiera senza equipaggio ormeggiata in un campo vicino. La superficie striata della mongolfiera è di un arancio luminoso, simile a una zucca, sembra quasi che quella mattina stiano sorgendo due soli. Senza dire una parola, Bubbles esce di casa e punta con decisione verso la mongolfiera, con un’idea precisa in testa. Monta nella cesta di vimini e comin- cia a sciogliere gli ormeggi e a gettare fuori i sacchi di sabbia che la tengono a terra. La mongolfiera si alza lentamente verso l’azzurro intenso del cielo, e sale verso le nuvole sfilacciate finché non sembra più grande di un puntino. «Pensavo sempre di fuggire così,» disse Best «e andare dove nessuno sarebbe riuscito a trovarmi».

https://www.youtube.com/watch?v=LtPOBK74KCU

Le parole e il cielo. Un ricordo di Julio Monteiro Martins a un anno dalla scomparsa

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di Mia Lecomte

Roma, 20 ottobre 2001

Caro Julio,
ho finito i tuoi racconti, e mi dispiace. Perché? È chiaro che condividiamo la stessa angolazione visuale sulla/e realtà. Ed è anche un po’ strano, viste le molte differenze che ci separano, e non solo geografiche … O forse non lo è. Ma non è soltanto questo che mi è piaciuto nei tuoi libri – sarebbe davvero triste amare solo ciò che ci ricorda noi stessi – ma soprattutto l’incontenibile carnalità che domina l’andamento di tutti i racconti, anche dove si parla di tutt’altro. In principio mi sono sentita un po’ “schiacciata”, seduta sulla mia inadeguata sedia di lettura, ma poi mi sono accorta che in realtà non incombeva nessun peso, potevo muovermi, respirare liberamente, che la massa era in realtà leggera come un minerale poroso. Lo humor, l’allegria – anche se venata, quest’ultima, da una malinconia sempre in agguato – reinventavano l’impasto, lo lanciavano per aria in uno slancio “ascetico” per poi farlo ricadere a terra con tutto l’amore del peccato. E così, rassicurata e felice, mi sono riassestata nella mia forma di lettrice per godermi lo spettacolo inesauribile di una moltitudine di mondi…

Lucca, 20 ottobre 2001

Cara Mia,
sono felice che tu abbia vissuto quelle sensazioni leggendo i miei racconti. Fortunata è la narrativa che riesce a lasciare un segno in soggettività complesse come la tua. Hai ragione quanto all’assenza di peso. Si può muovere, respirare, e tant’altro. Si può tutto. È un’overdose perfettamente sopportabile e godibile. Lo “spettacolo inesauribile di una moltitudine di mondi”, a cui ti riferisci, è la vita stessa, che vale la pena soprattutto quando uno riesce a estrarre intensità e passione dai momenti presenti, dalla successione della “durée”. La mia nozione di vera felicità è questa. Una felicità che vizia, che quasi fa impazzire chi ne gode. Il resto, l’idea piccolo borghese di “felicità”, quella solo concettuale, non è altro, secondo me, che una sorta di vernice kitsch . Hai ragione. La carnalità è un elemento importante nella mia letteratura, infatti. In parte perché sono così, come diceva un’amica regista teatrale, “molto voluttuoso”. In parte perché è così la mia cultura: gli antichi naviganti dicevano che “non esiste peccato al di sotto la linea dell’equatore”. Infatti, per i brasiliani, e soprattutto per i “cariocas” come me, il “peccato” è qualcosa da cercare, e non da sfuggire. Il “peccato” esiste per definire delle cose così buone e piacevoli che le si deve eliminare, o almeno arginare, altrimenti rischiano di occupare lo spazio di tutto il resto nella vita (ed è ottimo quando ci riescono)…

(…)

Parigi, 24 dicembre 2015

Caro Julio,

sono passati quasi quindici anni da quando ci scambiavamo questi primissimi nostri messaggi. Ed è passato un anno esatto dalla tua morte ingiusta – dopo una breve e inesorabile malattia – all’ospedale di Pisa. E proprio oggi ho deciso di ricordarti così: con i messaggi che hanno quotidianamente scandito nel tempo la nostra amicizia; e con un tuo racconto inedito[1], uno dei tanti che mi hai lasciato in eredità, chiedendomi di prendermi cura di loro “perché i nostri libri sono i nostri figli” (sto facendo quello che posso, Julio – e con me Rosanna e Andrea[2] – , ma viviamo in tempi oscuri, in cui la verità della letteratura, la sua luce chiarificatrice, non può essere contemplata).

E il tuo Cielo mi è sembrato quanto mai appropriato.

Perché mi ha riportato alle prime battute della nostra amicizia, quando ho imparato a conoscere la tua leggerezza sensual-metafisica – tanto più brasilianamente coraggiosa dei miei nord – nelle sue molte declinazioni letterarie.

E perché ora ti vedo sempre lì, tra gli stormi-mongolfiera di uccelli e le nuvole cangianti, a sorvolare una terra ridotta a “un’illusione inoffensiva”. Una terra su cui la tua letteratura, le parole che ci hai lasciato, ci invitano a riversare tutta l’estasi del volo, per avvertirla, finalmente, di una nuova consistenza, meno aspra e rigida, “insicura se essere mare”…

CIELO

di Julio Monteiro Martins

“L’Europa offre delle forme precise sotto una luce diffusa. In Brasile, il ruolo per noi tradizionale del cielo e della terra, si inverte. Al di sopra della distesa lattiginosa del mato, le nuvole compongono le più stravaganti costruzioni. Il cielo è la regione delle forme e dei volumi; la terra conserva la mollezza della prima età.”

(Claude Lévi- Strauss, Tristi tropici)

 

Esposto al freddo disarmato dei miei tredici anni, anche se nascosto sotto la coperta di lana, con in mano una torcia elettrica e un libro di Schopenhauer, mentre ascoltavo il respiro profondo di mia nonna immersa nel suo sonno chimico, leggevo intimorito: «La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia… Il godimento è solo un punto di trapasso impercettibile nel lento oscillare del pendolo».

Nella stanza contigua mio nonno Celso, insonne, attraversava la notte, lottando e venendo a patti con la nevralgia del trigemino, un dolore selvaggio e mostruoso che gli bisbigliava inviti al suicidio. Ogni suo urlo rauco e tremante era per me un nuovo punto di esclamazione alle certezze del filosofo tedesco.

La mattina presto, ottuso e indolenzito, indossavo la divisa beige del Dom Bosco, il giaccone blu, e andavo a dormicchiare sul banco della scuola, col quaderno aperto davanti alle palpebre chiuse, finché un professore più severo, il colonello Malebranche dietro i suoi enormi occhiali neri squadrati – non siamo mai riusciti a vedere il suo sguardo crudo – o il Boca Murcha, di francese, il cui passé composé si rovesciava gelatinoso dalla lingua al mento, non mi beccasse e chiamasse per nome e cognome, unico modo di ripescarmi da quell’altra dimensione.

E così trascorrevo i giorni e le notti di un’adolescenza che sembrava piuttosto una pantomima della vecchiaia. Giorni lontani dall’amore materno e ancora senza amori coetanei, e quindi giorni secchi e freddi, di un’attesa ossuta e senza direzione, timoroso che il grigiore del presente si addensasse nel buco nero del futuro.

Questo quando ero inchiodato a terra, mai quando attraversavo i cieli brasiliani insieme a mio zio Ney, nel suo piccolo Beechcraft J35 Bonanza, che quando decollava e mi staccava dal mondo cancellava Schopenhauer e ogni dolore o noia, cambiava lo spazio, rovesciava il mondo e fermava il tempo. Slancio ed estasi in contemporanea, quei voli preparavano l’anima all’affrancarsi del corpo, la completa liberazione dalla paura del non essere, da qualsiasi possibile paura.

Zio Ney, antico pilota della Panair do Brasil, era stato costretto ad andare in pensione molti anni prima del previsto, a causa del fallimento e dell’estinzione della compagnia aerea per la quale lavorava. Aveva avuto una buona liquidazione e così aveva deciso di mettersi in proprio, comprando il Bonanza che imparò a conoscere in ogni suo rumore, umore e tremolio, terzo aereo della sua vita dopo l’apprendistato in un biplano Curtiss Fledgling, il “Frankenstein” del Correio Aéreo Nacional, con il quale aveva fatto qualche migliaia di miglia di volo prima di essere ammesso nella Panair e pilotare un grosso Model 10 Electra. Con il Bonanza tornava alle origini, lasciava il completo e la cravatta per rivestire la vecchia tuta e il piccolo aereo, che affittava ai fazendeiros in visita nella capitale, ai politici locali in pellegrinaggio dai generali o che gli serviva per portare dalle fazendas all’ospedale cittadino qualche impallinato o malato grave benestante. A volte gli chiedevano di portare medicine, whisky e qualche bella ragazza a ore in un villaggio sperduto dove il denaro riusciva ad arrivare per strane vie ma poi ristagnava lì senza sapere bene dove andasse o a cosa servisse.

Viaggiava a bordo del suo Bonanza non più di una o due volte la settimana. Gli altri giorni li passava a fumare la pipa e a guardare le nuvole dalla veranda di casa sua, nei pressi del Campo de Aviação, o a fare la manutenzione dell’aereo. Nelle giornate perfette però veniva col suo furgoncino a prendermi a casa la mattina presto prima che andassi a scuola, o le domeniche un po’ più tardi, sotto lo sguardo apprensivo di mia nonna che in fondo non aveva mai creduto che qualcosa più pesante dell’aria potesse volare, ma non se la sentiva di sottrarmi a quell’assaggio di felicità tra le montagne e le nuvole.

Un minuto dopo il decollo l’universo si era già trasformato. Il sole era dentro i fiumi, e gli aquiloni visti dall’alto erano piccole pennellate di colore sul verde chiaro dei campi o quello più cupo delle foreste.

Le gigantesche palle colorate accanto a noi non erano mongolfiere, ma stormi di uccelli che si spostavano in cielo cambiando spesso direzione: le palle verdi dei pappagalli, quelle rosse e azzurre delle arara, le arancioni dei sabiá o le nere degli anu. Un cielo più affollato della terra stessa, quasi deserta, solo qualche raro bue bianco a pascolare e qualche sporadico camioncino ballonzolante sulle strade sterrate.

Guardando in alto lo spettacolo era immenso. Montagne capovolte di nuvole tondeggianti bianchissime nei bordi e dalla polpa grigia. Intorno agli squarci da dove penetravano i raggi del sole risplendeva una cornice dorata, di un giallo intenso, con sfumature di rosa e di porpora. Più in alto, nuvole lontane, sfilacciate, separavano il mondo dal cosmo, una sorta di grata di vapore che serviva da confine ai nostri voli. In fondo alla pianura l’orizzonte era leggermente curvo, facendo intuire la sfera gigantesca. Lì, terra e cielo sfumavano l’una nell’altro, dietro un lenzuolo di nebbia violacea coronata dai riflessi d’oro.

Zio Ney, un uomo mite e di poche parole, ogni tanto girava la testa per guardarmi e mi sorrideva, complice del mio stupore e soddisfatto della mia meraviglia. Penso che sapesse cosa quei voli significassero per me, il grado di sollievo che mi procuravano dopo le lunghe immersioni nel dolore altrui, attraversando l’adolescenza in apnea senza scorgere l’altra sponda. Volare vicino alle nuvole, tra gli stormi colorati, era anche un messaggio potente: basta alzarsi dal suolo e tutto quello che c’era prima, e ci assediava, scompare come per miracolo, la realtà più opaca si diluisce in un’illusione inoffensiva, e ogni mole incombente è in verità una miniatura, ogni fabbricato un giocattolo.

Quando atterravamo nuovamente sul Campo de Aviação tornavamo a un mondo addomesticato, che per un po’ non ruggiva, miagolava. Camminavo accanto a mio zio e la terra oscillava leggermente sotto i nostri piedi, insicura se essere mare, forse umiliata da quel cielo immenso che non aveva limiti.

Più tardi, naturalmente, anche l’adolescenza passò, e i voli cessarono. Altre terre arrivarono, altre città, e la solitudine di quegli anni è rimase rinchiusa nella memoria, preservata ma innocua, segno di dolore ma non più dolore.

Di zio Ney ho avuto poche notizie negli anni, e del nostro Bonanza nessuna. Una cugina mi scrisse un giorno raccontandomi che era morto a casa, per un attacco di cuore. Per qualche tempo sono rimasto affranto, e in silenzio mi chiedevo se non avesse portato con sé tutto quel cielo, se non avesse chiuso quella porta alle mie spalle.

Poi, guarito dal dolore e dalla noia grazie ai capitoli più interessanti della mia storia, mi sono domandato se zio Ney fosse esistito davvero, se il Bonanza rosso e bianco fosse davvero suo, se avevamo davvero volato insieme un giorno. E allora mi sono ricordato che dietro la casa dei miei nonni c’era una collina, sulla quale nelle giornate di sole salivo fino alla cima per guardare la valle, la casa, l’insulso scenario di quella mia vita, ma soprattutto per guardare il cielo, le nuvole con le loro lunghe frange dorate, gli stormi di uccelli, e ogni tanto, qualche piccolo aereo che, decollando dal campo di volo vicino passava sopra la mia testa, mi pescava lì, solitario, e mi portava via con sé.

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Julio Monteiro Martins è nato a Niteroi, nello stato di Rio de Janeiro, nel 1955, ed è morto a Pisa nel 2014. Ha insegnato scrittura creativa negli Stati Uniti, in Brasile e in Portogallo prima di giungere in Italia, nel 1996, come docente di Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria presso l’Università di Pisa. Ha abitato a Lucca, dove ha diretto il Laboratorio di Narrativa del Master di Scrittura Creativa presso la scuola Sagarana, da lui fondata, con l’omonima rivista, nel 1999. Fellow in Writing presso l’Università di Iowa, negli Stati Uniti, autore molto noto in patria, all’attività letteraria ha affiancato l’impegno politico e sociale: dopo la laurea in Giurisprudenza, nel 1991, è stato avvocato dei diritti umani per il Centro Brasileiro de Defesa dos Direitos da Criança e do Adolescente, per il quale si è occupato dell’incolumità dei meninos de rua. In Brasile, a partire dal 1977, ha pubblicato raccolte di racconti, romanzi e saggi: Torpalium (Ática, 1977), Sabe quem dançou? (Codecrì, 1978), Artérias e Becos (Summus, 1978), Bárbara (Codecrì, 1979), A oeste de nada (Civilização Brasileira, 1981), As forças desarmadas (Anima, 1983), O livro das Diretas (Anima, 1984), Muamba (Anima, 1985) e O espaço imaginário (Anima, 1987). In Italia ha pubblicato: Il percorso dell’idea, petits poèmes en prose (Bandecchi e Vivaldi, 1998), Racconti italiani (Besa, 2000), La passione del vuoto (Besa, 2003), Madrelingua (Besa, 2005), L’amore scritto (Besa, 2007), La grazia di casa mia (Rediviva, 2013), La macchina sognante (postumo. Besa, 2015). Nel 2002 ha partecipato – assieme ad Antonio Tabucchi, Bernardo Bertolucci, Dario Fo, Erri De Luca e Gianno Vattimo – all’opera collettiva Non siamo in vendita – voci contro il regime (a cura di Beppe Sebaste e Stafania Scateni, Arcana Libri/L’Unità).

[1] Il racconto è parte, con gli altri, dell’opera inedita Tetralogia della brevità (2007-2014).

[2] Rosanna Morace e Andrea Sirotti

Brutti, sporchi e cattivi

7

di

Attilio Del Giudice

( Da: “Epistolario povero”)

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opera dell’autore

Addì 24 Dicembre 1966

Cara madre io sto bene come spero di voi. A Darmstadt fa molto freddo e la mattina che è notte sull’impalcatura le mani si fanno di ghiaccio. La paga ce la danno domani che è Natale e ci danno pure una fetta di torta che fanno qua e un pezzo di cioccolata. Nicola Cardone, che è il capogruppo nel mio capannone per fare un omaggio ai padroni dopo la messa che si fa stesso nel capannone canta una canzone napoletana. Io ci ho consigliato quella che cantavi pure tu quando ero piccolo cioè Vierno che friddo into a stu core che a me mi veniva da piangere però Cardone vuole cantare fatt fa fatt fà fatt fotografà. Ti mando 18 mila lire per Ninuccio che ci compri il cappotto e le scarpe, che però deve studiare ce lo devi dire se no fa la fine mia che si deve faticare assai assai pure se c’è il vento di tramontana che sopra i pontili dell’impalcatura si sente brutto e nessuno parla per non fare entrare l’aria gelata nei polmoni. Cara madre, ho conosciuto una ragazza di qua che dice che se mi lavo bene sono bello. Però non sono sicuro che ha detto questo perché parla il tedesco che io non tanto. Però pure che non l’ha detto io domani che è Natale mi faccio il bagno col sapone tedesco che addora di cannella.

Un abbraccio a tutti voi e auguri per il Santo Natale dal Vostro figlio Rafele Aversano di Carmela Monaco e fu Ciro Aversano

 

Contropiano dalle cucine. Vite precarie

0

femmes

di Deborah Ardili

segue da qui

Seguendo le traiettorie contemporanee che esplicitamente si richiamano all’esperienza iniziata quarant’anni fa, è facile arrivare alla conclusione che la questione della «cura» rappresenti l’eredità viva del patrimonio di idee che le femministe del salario rubricavano, per le ragioni sopra indicate, alla voce più ruvida di «lavoro domestico». Smorzata la carica antagonista degli anni Settanta e caduta la richiesta di salario senza contropartita, intorno alla «cura» si annodano oggi fili di ragionamento portati a sottolineare il «doppio carattere» del lavoro riproduttivo, individuandovi potenzialità di autovalorizzazione alternative alla logica di mercato. Anziché seguire questa linea, ed entrare nel merito delle analisi e proposte che vi si associano, vorrei tentare una deviazione. La prima tappa del percorso che propongo prevede un salto di vent’anni rispetto al periodo considerato finora e porta ad Amherst, Massachussets. È qui che, nel dicembre del 1996, nel corso di un colloquio sponsorizzato dalla rivista Rethinking Marxism, un’«esponente tardiva della seconda ondata» pronuncia un discorso dato alle stampe, l’anno successivo, con il titolo di Merely Cultural [Butler 1997].

«Meramente culturali»: il titolo dell’intervento riproduceva — citandolo ironicamente ― il capo d’accusa fatto pendere dalla sinistra ortodossa (si suppone ben rappresentata nella sala della conferenza) su movimenti che, nel frattempo, avevano visto ampliarsi lo spettro dei soggetti impegnati nella politica sessuale fino a includervi, oltre alle femministe, lesbiche, gay, transgender e intersessuali. Gli effetti di ingiustizia sociale riferibili all’incidenza del privilegio eterosessuale, evidentemente, non bastavano a indurre gli ortodossi a rivedere il pregiudizio portato a identificare nella new gender politics l’arma di distrazione di massa capace di distogliere l’attenzione dalle condizioni materiali di vita dei gruppi subalterni. Il pregiudizio in questione, come si è visto, aveva una storia alle spalle a cui poter attingere per aggiornare il proprio repertorio argomentativo. La teoria chiamata a sorreggerlo si basava, a propria volta, sul ricorso a una distinzione tra struttura economica e sovrastruttura ideologica talmente rigida da non poter far altro che alimentare i processi di scomposizione imputati al settarismo dei nuovi attori sociali.

A prendere la parola per chiedere ai puristi della lotta di classe se avessero mai seriamente esaminato le ragioni storiche che hanno determinato la nascita dei movimenti sociali così duramente criticati era — chiaramente è di lei che sto parlando — Judith Butler. Al suo attivo si contavano, in quel momento, i saggi che hanno gettato le basi della concezione performativa del genere come componente attiva della teoria queer e, a questi complanare, una partecipazione al dibattito femminista motivata dalla necessità di problematizzare la presunta evidenza ontologica della categoria «donna» in un contesto di critica alla politica della rappresentanza. La partita si giocava contemporaneamente, in questo modo, su due tavoli: da una parte, contro una frazione della sinistra ancora incapace di accorgersi che la regolazione sociale del sesso è sistematicamente legata al modo di produzione che fa funzionare l’economia politica. Dall’altra, contro aree del femminismo pervase da assunti eteronormativi portati non solo a istituire nuove forme di esclusione e gerarchizzazione, ma a precludersi completamente la comprensione del significato sociale della new gender politics.

Mi sembra importante soffermarsi su questo contributo, tardivamente tradotto in italiano, almeno per due ragioni. La prima: è significativo che una filosofa nota per aver mutuato una parte consistente della propria strumentazione concettuale dal post-strutturalismo francese, e spesso accusata di aver disertato il campo della materialità corporea precisamente per effetto di quell’apporto teorico, attinga in maniera tanto vistosa alla lezione femminista dei decenni precedenti per replicare ai fustigatori del «meramente culturale». È in effetti questo lo scritto che, in maniera più esplicita di altri, sembra dar compiutamente ragione dell’intenzione programmatica affidata alla prefazione di Gender Trouble:

Questioni di genere è stato anche un lavoro di traduzione culturale. Ho applicato la teoria strutturalista alle teorie statunitensi relative al genere e alle implicazioni politiche del femminismo. Se, in alcune versioni, il post-strutturalismo sembra essere un formalismo, lontano da questioni relative al contesto sociale e da finalità politiche, non così è stato per le recenti rielaborazioni nordamericane. In effetti quello che mi stava a cuore non era «applicare» il post-strutturalismo al femminismo, ma sottoporre quelle teorie a una specifica rielaborazione femminista [Butler 1990: VII].

Difficile non accorgersi, avendo Merely Cultural sotto gli occhi, che la «specificità femminista» di questo lavoro di traduzione va riferita allo sforzo di collocarlo al livello strategico della riproduzione sociale. Chiedersi per quale motivo «un movimento impegnato a criticare e a trasformare i modi in cui la sessualità è regolata socialmente non debba essere considerato centrale per il funzionamento dell’economia politica» e, contestualmente, ribadire che la produzione del genere deve essere intesa come parte del modo di produzione dell’umanità stessa secondo le norme che riproducono la famiglia eterosessuale, equivale a intercettare un aspetto importante del discorso che ho provato a ricostruire nei paragrafi precedenti. Significa assegnare un fondamento materiale alla genealogia che indaga la posta politica in gioco quando vengono designate come origine e causa quelle categorie identitarie che in realtà sono effetti di istituzioni, pratiche, discorsi. È in questo modo che la filosofa può ricordare tanto ai fustigatori del «meramente culturale» quanto ai cultori del «puramente identitario» che le lotte per trasformare il campo sociale della sessualità acquistano importanza economico-politica non soltanto perché possono essere direttamente collegate alla questione dello sfruttamento e del lavoro non pagato, ma anche perché non si lasciano nemmeno decifrare senza includere nella comprensione della sfera economica tanto la riproduzione di merci quanto la riproduzione sociale di persone. Ne discende che la marginalizzazione o il disciplinamento di sessualità non conformi rispetto alla norma egemone non possono essere trattate soltanto come questioni di mancanza di riconoscimento culturale, affrontabili tramite un risarcimento simbolico. Il fatto ― sottolinea Butler — è che la mancanza di riconoscimento culturale non può essere concepita, nemmeno analiticamente, senza tener conto dei suoi effetti di oppressione materiale.

Si potrà certo obiettare che non sono poi moltissimi, nell’opera di Judith Butler, i luoghi espressamente dedicati alla questione del lavoro riproduttivo gratuito. Eppure non è possibile minimizzare il rilievo teorico e politico di questi passaggi. Un’osservazione importante si trova per esempio in Che fine ha fatto lo Stato-nazione?, nel contesto di un ragionamento che prende polemicamente di mira la sopracitata Hannah Arendt per avere avvallato una nozione di politica pregiudicata, a giudizio di Butler, dall’oblio della sfera economica riproduttiva. Con quali conseguenze?

Questi umani spettrali privati di peso ontologico ― che non superano la prova di intelligibilità sociale richiesta per un riconoscimento minimo ― includono coloro che per età, gender, razza, nazionalità e status non solo sono squalificati per la cittadinanza ma sono attivamente “qualificati” per essere senza-stato. Quest’ultima nozione può ben essere significante, dal momento che coloro che sono senza-stato non sono semplicemente spogliati di status; è stato accordato loro uno status e sono preparati per il proprio spossessamento e dislocamento; diventano senza-stato proprio perché soddisfano certe categorie normative. In quanto tali, costoro vengono prodotti come senza-stato nello stesso momento in cui vengono gettati a mare dalle modalità giuridiche dell’appartenenza. Questo è un modo per capire come sia possibile essere senza-stato all’interno dello stato, come appare chiaro per coloro che vengono incarcerati, resi schiavi o che risiedono e lavorano illegalmente. In maniere differenti sono contenuti, significativamente, all’interno della polis come il suo esterno interiorizzato. La descrizione di Arendt ne La condizione umana lascia senza critica questa particolare economia in cui il pubblico (e la sfera propria della politica) dipende essenzialmente dal non-politico o, piuttosto, da ciò che è esplicitamente depoliticizzato; suggerisce che solo attraverso il ricorso a un’altra struttura di potere noi possiamo sperare di descrivere l’ingiustizia economica e gli spossessamenti dai quali dipende il sistema ufficiale della politica, che riproduce di continuo come parte dei suoi sforzi di autodefinizione nazionale [Butler, Spivak 2007: 38-39].

Non è difficile riconoscere nei «senza stato» di Judith Butler un’eco dei «senza potere» e dei «senza salario» di cui parlavano negli anni Settanta le femministe. Tanto più che sono proprio considerazioni come queste — e vengo alla seconda ragione per cui è importante tener conto delle precisazioni contenute in Merely Cultural — che hanno permesso alla femminista statunitense di collegare in maniera originale la questione di genere a quella, più ampia, della vita precaria e indegna di lutto, trattenuta nella penombra della vita pubblica e ai margini dell’intelligibilità sociale. «Il motivo per cui qualcuno non sarà pianto o è già stato giudicato indegno di lutto» scrive Butler «sta nel fatto che non esiste una struttura di supporto per quella vita. Questo implica che essa, secondo gli schemi dominanti di valore, è svalutata e non considerata degna di sostegno e protezione» [Butler 2012: 21-22]. Muove da qui l’esigenza butleriana di ripensare il politico a partire dalle condizioni precontrattuali, mai espressamente stipulate, della relazione sociale: che cosa c’è dietro la svalorizzazione e la distribuzione differenziale della precarietà? Quali operazioni consentono di cancellare il retroscena della politica e quali invece consentono di convertirlo nel suo oggetto esplicito? Che cosa espone allo sfruttamento la condizione di vulnerabilità e di dipendenza da cui è impossibile evadere una volta per tutte? Come controllare i fattori sociali che consentono di condurre una vita che possa essere vissuta? Sono queste le domande poste con maggiore urgenza dalla filosofa statunitense [Butler 2004b; 2009; 2013]. Dopo quarant’anni, per le femministe forse è arrivato il momento di ripensarci: tenendo a mente di avere una storia alle spalle.

vendemmia

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1973a Il personale è politico, Quaderni di Lotta Femminista n. 2, Musolini, Torino.

1973b Femminismo e lotta di classe, «Sottosopra», n. 1, pp. 18-20, <www.bibliotecadigitaledelledonne.it>.

1974 Bozza di discussione emersa dalla riunione delle sedi di Modena, Milano e Ferrara, 29 giugno, Archivio del Femminismo, Fondazione Elvira Badaracco, busta 8, fasc. 5.

Lumley, S.

1994 States of Emergency. Cultures of Revolt in Italy from 1968 to 1978, Verso, London; trad. it. Dal ’68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi italiana, Giunti, Firenze 1998.

Melucci, A.

1991 L’invenzione del presente. Movimenti sociali nelle società complesse, il Mulino, Bologna.

Miranda, V.

2011 Cooking, Caring, and Volunteering: Unpaid Work Around the World, «OECD Social, Employment and Migration Papers», 116, consultabile al sito <http://dx.doi.org/10.1787/5kghrjm8s142-en>.

Movimento Femminista Romano

1973 Incontro a Napoli con le compagne di Lotta Femminista sul tema: Salario per il lavoro domestico. Intervento del Movimento Femminista Romano, in Donnità. Cronache del movimento femminista romano, Centro di documentazione del movimento femminista romano, Roma 1976.

Negri, Antonio

1971 Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, relazione presentata al terza conferenza nazionale di organizzazione di Potere Operaio, in Id., I libri del rogo, DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 19-65.

Perrotta, A.

1999 Tra Nuova Sinistra e autocoscienza. Milano: 1972-1974, in Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea, a cura di A. M. Crispino, Unione Donne Italiane, Circolo “La Goccia”, Roma 1999, pp. 89-106.

Petricola, E.

2005 Parole da cercare. Alcune riflessioni sul rapporto tra femminismo e movimenti politici degli anni Settanta, in Il femminismo italiano degli anni Settanta, a cura di T. Bertilotti e A.Scattigno, Viella, Roma, pp. 199-224.

Rich, A.

1979 On Lies, Secrets, and Silence. Selected Prose 1966-1978, W.W. Norton & Company, New York-London.

Rivolta Femminile

1970 Manifesto di Rivolta Femminile, in C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, et al./Edizioni, Milano 2010, pp. 5-11.

Rossi-Doria, A.

2005 Ipotesi per una storia che verrà, in Il femminismo italiano degli anni Settanta, a cura di T. Bertilotti e A. Scattigno, Viella, Roma 2005, pp. 1-23.

Russell, D. H. ; Van de Ven, n.

1976 Crimes Against Women: Proceedings of the International Tribunal, Frog in The Well, Palo Alto.

Toupin, L.

2014 Le salaire au travail ménager. Chronique d’une lutte féministe internationale (1972-1977), Les Éditions du rémue-ménage, Montréal.

Viale, G.; De Luna, G.; Fossati, F.; De Luca, E.

2006 Come finì Lotta Continua, «Micromega», 8, pp. 73-88.

Zanetti, A. M.

1998 Una ferma utopia sta per fiorire. Le ragazze di ieri: idee e vicende del movimento femminista nel Veneto degli anni Settanta, Marsilio, Venezia.

Zanuso, L.

1987 Gli studi sulla doppia presenza: dal conflitto alla norma, in M. C. Marcuzzo, A. Rossi-Doria, La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, pp. 41-58.

Zumaglino, P.

1996 Femminismi a Torino, Franco Angeli, Milano.

La legge del buio

1

di Francesca Canobbio

I PARTE

La legge del buio non è dettata da notte alcuna.
Il riposo non è paura degli occhi,
ma spesso la vista è così vasta che il buio vince la notte.
Ecco che l’eco di una o più voci, un ritornello che ritorna
richiama alla memoria quel tanto di nero che ebbero le pupille
sganciate dagli occhi, senza colore, o, se si vuole
temporale d’iride, tutte le iridi non fanno una pupilla
quando il riflesso è solo nel vetro di un quadro,
sia esso l’universo di un pavone come un poeta
che stacca una piuma a favore dello sguardo animale
che soprassiede ogni cosa che siamo
ed il primitivo nero si fa percossa agli sguardi
e non posso dirmi cieca
se leggo fra le righe del tempo
ciò che sono stata, ciò che sono,
quando arriva ciò che sarò
nella tempesta delle statue che portano i copioni
a svolgersi come deve svolgersi un copione
anche dietro ai cori più alti, non sarà che commedia
una cosa ridicola, sempre più imbarazzante per quanto semplice
nel proprio orrore perpetuandosi.
Dite a colui che mi ha scritta che ogni verso si ripiega
e torna.
Dite che le lettere non trovano più spazio nel foglio:
è caduto l’inchiostro sulla parola “Amore”.
Non c’è copista che mi legga intera
sin da quando sono venuta alla Luce
ci sono bozze e brogliacci da recitare a braccio
ed ecco che io perdo la tua mano.
Li ho visti sulle scale a bestemmiare su tornei
di lancia, a tirarmi i dadi dell’esistere,
fino a moltiplicarmi i punti sui dadi affinché non avessi pace.
Le finestre parlano chiaro.
Le finestre parlano scuro.
Se mi ritiro per un giorno di dadi forse non cadrà nessun punto.
Se la macchia sul foglio ha consumato ogni favola, non ha cancellato la leggenda.

***

II PARTE

Ci sono occhi che riparano occhi.
Buchi neri come di pupilla che attraversano ogni superficie
senza copiare felicità, versano la moneta degli occhi
come vogliono le mosche agli astanti
per lasciarti solo nel vitreo
dell’occhio di bue
se la luce è ancora amica
di qualche proscenio
se hai ancora la tua parte di buio da colorare
con un cono da parentesi teatrale,
prima che ogni buca parli
la lingua di ogni buca
sgretolando i fossi dalle croci trapiantate nelle corde
della memoria, nel sovrasuolo parlante che odi nelle feste dei morti
che sono i nostri secondi e terzi nomi
che sono i nostri secondini a noi antecessori
stretti nei palmi non più i visi, ma le voci
nella balera che sovrasta la camera
ed ancora non puoi salire
a nessuno scatto è data l’apertura di una porta
sulle terrazze di coloro che furono i vicini.
Ma chi di scala perisce di scala ferisce
innalzando il tuo essere all’epopea dei superstiti
vai sganciando gli occhi da Euridice
ad ogni quasi notte della tua vita.
E’ la legge del buio
specchiarsi negli spettri di ciò che non siamo
abitare tutta la galleria di un museo
senza conoscerne il pittore.
Solo il nero fra le mani
fra mille soli neri fra le pagine
con la medesima successione di numeri irrevocabili
voto d’altri tempi
per il miracolo della vita
ad ogni immagine e somiglianza
d’occhio e croce

***

III PARTE

Sagoma di un soggetto smarrito nei ritagli di un teatro
maschera che non maschera
l’opera della platea
di cui ogni viso è il tuo viso nell’arena della battaglia
dove sgorgano furenti le urla e di baccano invidioso,
si perde la vista nell’occhio del ciclone, ad ogni palco
che rifugge la grazia di un sonno ombroso,
quando Domino domina la scena e l’occhio è tutto
tutto ciò che si può tradurre in originale ed in origine
poi cosa non è
se non buio
sin dal principio,
cuore nero trafitto di pallidi strali di sole
ricadente nel letto di Notte
narcisistico amante di etoile
stella cadente dal primo respiro
autodesiderante
che l’emisfero su cui poggia
ricolmi un secondo emisfero
piedistallo o colonna
di un nuovo Mondo
nato da un buio capovolto
in Pace.
Prestami la pace, come la luna si presta al buio
e come essa nasconde ogni stella diurna
riposami il respiro quando esso finirà
di consumarmi la vita.

***

IV PARTE

Come ringraziare la legge del buio se il buio mi legge?
Diremo che al buio io sono una presenza, un fantasma.
Il buio è più luminoso della luce del sole,
per quanto siano sole tutte le presenze che distano più dal
Sole che dal Buio.
E’ questione di statistica.
Siamo i figli del buio e ci brillano gli occhi, al Pensiero.
Nel buio il pensiero è fantasia, inesauribile.
Nella fantasia il buio si colora di ricami di originale fantasia.
Nei miei occhi brillano le stelle che cadranno al buio.
Il buio mi legge quando sto per cadere.
Basterebbe una spinta e giù,
perderei ogni luce che abita i miei occhi scavati nel grembo buio
di ogni madre,
che mi precede nel buio e che nel buio trova rifugio.
Chi fotografa il buio una volta
lo porta nel cuore per sempre.
Il buio mi morde, ma il buio mi dona.
Mi dona alla luce che non mi morde come il buio,
ma che mi scava una porta per rifugio.
Siamo i profughi del buio, alla luce, e combattiamo la nostra guerra
da illuminati, se conosciamo la legge del morso del buio.
Ho un capo buio addosso, quando mi parla l’Amore
Ho una corona di stelle sul capo del buio quando sono Amore.
Se spengo la luce sono certa di ritornare alla luce,
attraverso il buio.
Attraverso buio.
Sono di buio se tu mi leggi la notte in pieno giorno
ed io mi accendo di fuoco vivo per cibarci,
Mangiastelle, occhi grandi,
pupille.

Vir y One

2

di Eugenio Lucrezi

 

Te, qui pontifex es, do al tuo Signore. Vado dai tuoi vicari, y sin embargo… non mi trattengo dal dirti la mia cosa. In principio era il verbo, è stato scritto a inizio del gran book; e dunque, pater sancte, il Grande One è una Grande Parola, una sequenza di segnali, di simboli, che decodificata, e tradotta di poi, è già miracolo en la palabra detta e nell’aminoacido, e presto, poi, per successive aggregazioni di semplici unità, nell’inrearsi in entità più vaste chiamate frasi, dette proteine, poemi, speechs and tales, cuerpos y membra.

22 dicembre 2015: silvia tripodi al teatroinscatola, blitzvorlesungen / gammm

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2006—2016

BLITZVORLESUNGEN PER I PRIMI DIECI (e i prossimi cento) ANNI DI

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BLITZVORLESUNGEN letture lampo  _  in un numero imprecisato di date

PRIMA DATA :

martedì 22 dicembre, h. 21:00

Teatroinscatola
Roma, Lungotevere degli Artigiani 12-14 (qui)

Silvia Tripodi

presenta l’ebook

L’architettura è piena di problemi ed è anche gratuita

(cfr. qui)

Con la partecipazione di

Luca Venitucci

Allmenn e le dalie

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Martin_Suter

di Gianni Biondillo

Martin Suter, Allmenn e le dalie, Sellerio, 2015, 215 pagine, traduzione di Emanuela Cervini

Credere che in un albergo ci si stia lo stretto tempo necessario significa non conoscere lo Schlosshotel, grande albergo svizzero un po’ in decadenza, dove, oltre ai fruitori di passaggio, è normale designare la propria residenza e viverci anche per molti e molti anni. Fra i clienti affezionatissimi c’è anche Dalia Gutbauer, una quasi centenaria arcigna ereditiera di una fortuna immensa che in gioventù ha vissuto nel jet set internazionale e che negli ultimi decenni del secolo scorso ha deciso di ritirarsi a vita privata. In un albergo, giustappunto, dove vive in una suite del quarto piano col suo seguito di servitù e assistenti personali.

E proprio nel suo appartamento scompare un dipinto di Fantin-Latour, una natura morta ritraente un vaso di Dalie, dipinto che vale una fortuna immensa e che la milionaria vuole ritrovare non per il suo valore materiale, ma per quello affettivo. Le fu donato in onore al suo nome, mezzo secolo addietro, da un ladro spasimante.

A cercarlo ci penserà Johann Friedrich von Allmen, esperto in ritrovamenti di opere d’arte. Lavoro che Almenn s’è in un certo senso inventato per evitare di lavorare per davvero. Mestiere che riesce a fare persino bene, grazie all’aiuto di due improbabili assistenti, il guatemalteco Carlos e la colombiana Maria, entrambi clandestini in terra elvetica.

Allmenn e le dalie, di Martin Suter, è una specie di delitto a scatola chiusa sui generis, manchevole delle morbosità e della violenza dei romanzi di genere di questi anni. Suter, anzi, insiste nei dialoghi a ripristinare una lingua elegante, quasi retrò. Il motore autentico del romanzo però non è la semplice descrizione di un mondo altolocato. È la dimostrazione che siamo tutti schiavi, più che del denaro, di chi il denaro lo possiede. Possedendoci.

(pubblicato su Cooperazione, numero 13 del 24 marzo 2015)

Giovanna Marmo, Oltre i titoli di coda, Aragno 2015

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di Paola Nasti

Cosa si cela/rivela oltre le palpebre? oltre la cortina chiusa/aperta dell’occhio? questa domanda potrebbe essere una delle chiavi d’accesso per questa raccolta di poesia. L’occhio, del resto, era già parte costitutiva, fin dal titolo, di un precedente libro di Giovanna Marmo. La recente silloge, edita da Aragno, porta il nome di Oltre i titoli di coda. E’ una raccolta costituita da tre sezioni molto differenti, ad un primo sguardo; ma molto coese; quasi una narrazione. Paradossalmente, proprio dove più forte è la spinta che dissolve il tessuto narrativo e lo frammenta in lacerti di immagine – spesso, in questo caso, sanguinolenti – è più forte l’avvertimento di un respiro che tiene insieme le parti, quasi come un organismo. Forse non vivente.
Al di là delle palpebre è la prima sezione. Parla di due cose: forze elementari e spettri. Cosa connette un terrificante spettro con la nuvola, il sole, il cielo, l’oceano? la visione, la visione soprattutto dei bambini e dei selvaggi. Un modo di essere al mondo popolato dalle angosce più profonde ed ancestrali. Dove l’occhio è perfetto, ma la mente disarticola la visione, la infetta di schemi sbagliati (non ti do colpa, occhio,/ di questo difetto della mente). Lo sguardo di primitivi e bambini è uno sguardo in-fans, che non parla, che non può dire; ed è per questo sopraffatto dal terrore. Lo stesso terrore dell’animale. Le prime poesie della raccolta quasi disegnano un paesaggio preistorico, in cui passeggia l’animale/bambino/poeta, con gli occhi sbarrati. Cosa terrorizza il protagonista preistorico/in-fantile? sono le forze, gli elementi naturali primordiali: sole, nuvola, stella… con la loro misteriosa capacità di deviare dal loro rassicurante corso, dall’orbita prestabilita; di rendere vana ogni intenzione ed ogni certezza (Allora le stelle scivolano / verso l’alto. In direzione diversa // da quella dove/ davvero vado). Ma forze elementari sono anche le parti del corpo. I pezzi, del corpo, bisognerebbe dire. L’intero dell’organismo si frammenta in elementi che hanno perso il respiro del tutto, che agonizzano, singolarmente presi: occhio; mano destra; mano sinistra; bocca. La danza macabra delle parti senza più il tutto, la danza orfana di ogni armonia, spettrale, anatomica, costituisce essa stessa una delle forze elementali di cui il protagonista è al cospetto, terrificato. Il corpo, in alcune opere della più recente produzione italiana, o è una forza annichilita dalla schizofrenia che lo tagliuzza nelle sue parti – come in questi versi della Marmo; o è l’essere tutto-pensiero, macigno che non lascia filtrare spiraglio di luce, senza parti, senza respiro tra membro e membro, come nella raccolta, che di poco anticipa questa della Marmo, di un altro bravo poeta contemporaneo, Biagio Cepollaro. In entrambi i casi – tutto intero, plumbeo; o spezzato in frammenti – il corpo “resta”, immobile come le pietre sospese nei cieli densi di Magritte. Queste poesie di Giovanna Marmo sono terrificanti: Guardo verso l’alto. Un mostro/ trascina nuvole, / tutto il giorno. Sono poesie del terror-panico, onniavvolgente. Il terrore è la medusa – come nella poesia che chiude la raccolta – che paralizza e rende ciechi. Ed ecco il tema dell’occhio. La poesia della Marmo è una poesia della cecità, della visione che scappa, sfugge nella distorsione e nella rifrazione: Remo. nell’oceano ciò che giace immerso/appare sempre spezzato. Oppure – ma è la stessa cosa – di una visione che si nasconde, terrificata, sotto la cortina delle palpebre. Il mondo comincia oltre la cortina dello sguardo, che permane bloccato, ben chiuso nel corpo. Il mondo è vicinissimo eppure irraggiungibile: Al di là delle palpebre/ Vediamo. Ma ogni angolo/sfugge ai sensi.
Scomparendo dallo schermo, la sezione intermedia, riprende questo tema dello sguardo bloccato dal terrore, dello sguardo intransitivo; e lo porta ad una intensità parossistica. Lo fa utilizzando una metafora potente, quella cinematografica. Meglio sarebbe dire: filmica, nel senso anche letterale – riguardante il film, la pellicola; il supporto trasparente, e quasi immateriale, su cui l’immagine lascia il segno. O almeno dovrebbe. Perché anche qui il verso costantemente rimanda ad una impotenza, ad una incapacità di lasciare/serbare traccia, che caratterizza ogni vissuto, individuale o collettivo. La pellicola e le lamine staccate sono le massime consistenze possibili per la figura che cerca appiglio – nella memoria, nella visione. E pellicole e lamine sono taglienti. Come taglienti sono le effigi che tentano di passare oltre e raggiungere l’occhio che vorrebbe guardarle. Lo scenario della memoria muove, tra le quinte del ricordo originario e di quello ultimo, figure sospese ad una corda, funeree come impiccati (sullo schermo si proiettano solo memorie/ la prima e l’ultima immagine coincidono// una lamina impiccata su vuoto gira su di sé…) . La memoria è allora caratterizzata dalla perdita – dal fallimento – della sua tendenza al custodire. Il palcoscenico su cui volteggiano i fotogrammi del ricordo, le pellicole sospese, è pieno di botole e di tranelli. L’assito teatrale riceve lo sprofondo delle parole/corpo. E questa rappresentazione, caratterizzata dall’impossibilità di trattenere, dal precipitare, costituisce, appunto, La curva dell’oblio. Il film che si proietta è un film rotto; la pellicola di celluloide trasparente continua a sbattere, sciolta da ogni aggancio, ad ogni giro del proiettore. Viene da pensare alla pellicola usata in alcune opere dal grande maestro Carlo Alfano: in alcune tele – ma anche in pergamene acquarellate – gli inserti di pellicola costituiscono una soglia entro cui si avventano/escono figure umane, come a costituire un altrove momentaneo, sospeso, determinato solo dal passaggio – e quindi resistente, l’immagine, ad ogni suggestione metafisica, ad ogni tentazione ontologizzante di definire un altrove/sostanza. Il tema, in Alfano come in Giovanna Marmo, è quello della scomparsa/epifania, del transito in zone diverse dello spazio/tempo, nell’inusitato che si apre ad ogni passo. E l’ombra trans-corre i limiti, i confini, tra due territori egualmente ignoti e inesplorabili. Un entrare/uscire dal nero e del nero – la trasparenza della celluloide di cui la pellicola è costituita mima l’inconsistenza della vita che vi è impressa in singoli fotogrammi. Scompare dallo schermo l’esistenza incorporata sulla soglia, che distingue – senza distinguere – l’essere vivi dall’essere morti. Si accede con un segno di benvenuto a questa proiezione di un corpo denudato, composto unicamente di luce. Il corpo dell’immagine, che si incide nella pellicola e lì sa consistere molto meglio del corpo che si mostra stampato sul supporto di carne-muscoli-ossa. Benvenuti/arrivederci (Scomparendo dallo schermo): il campanello del giorno e quello della notte, le due parentesi entro il cui arco si svolge la giornata della protagonista di Giorni felici.
Dicevamo, all’inizio, della paradossale, complessiva, narratività di questo testo poetico, attraverso lo snodo delle sue tre sezioni. Nella prima, dunque, la nascita terrificante nel mondo elementale; e il conseguente, subitaneo ritrarsi oltre la cortina della palpebra. Nella seconda un proiettarsi fuori, ma vivendo una vita puramente immaginale, come in una pellicola, come in un film. Il cinema, dicevamo, come metafora. In particolare: il cinema muto – vero paradigma dell’immagine insonora, della parola senza voce. Il sentimento, ma oscuro, di una vita che scorre senza appartenerci e senza che noi possiamo appartenerle. Un film che scorre da un passato immemorabile – ogni fotogramma con una bruciatura al centro che rende indecifrabile la successione, lo scorrimento del senso, del ricordo di ere primordiali – di quando la voce era sostituita da un fascio luminoso che si alzava dal basso, come dalla buca del suggeritore, per bisbigliare senza suono e senza accorgimenti di significato; di quando la parola, sovrascritta, era estranea all’immagine, certo più estranea della musica e della luce. Il film muto metafora di un’afonia molto più radicale (Senza corde vocali). Il montaggio degli istanti di una vita che avviene fuori scena – Fuori, nel mondo, il montaggio…, e senza corde vocali. Ma cosa ci sarà “fuori campo” (…ciò che conta/ è già avvenuto fuori campo), nel luogo esterno del montaggio? il mondo oltre la superficie blindata delle palpebre, come sarà? si costituisce, in questi versi, un altrove metafisico che sembra uscito da un film, appunto – la mente corre alla “zona” di Stalker, con la sua muta e impenetrabile opacità, quintessenza di ogni rappresentazione aniconica. E poi ci sono gli incontri. L’incontro può avvenire solo in un punto virtuale, posto in un orizzonte sconfinato (Prigionieri in due riprese distinte…. erano le comparse di un film… girato in due piani sequenza paralleli) – è il punto in cui si incontrano i piani paralleli, il punto sfocato, la “zona” che si apre nel non-luogo-e nel non-tempo del film finito. Solo oltre la fine, oltre i titoli di coda, c’è contatto. Forse.
Nelle ultime poesie della sezione lo scenario diventa, se possibile, più cupo. I versi sono agglomerati di orrore puro: fiale tappate con il cotone; qualcuno che viene assassinato; lo sparo; la macchia del sangue; il corpo che viene ritrovato; gli elicotteri che sinistramente ronzano sulla scena. Si pensa all’orrore maestoso dell’impresa di morte, alla cattura di Bin Laden, per esempio. La vittima/killer che si copre di peli (sono ricoperta di peli bagnati e alghe/ umide, odoro di animale imbalsamato) – si pensa a certe opere di Nitsch, alle sue garze sporche di sangue. Chi è il killer? chi la vittima? il teatro interiore, il palcoscenico dell’assassinio quotidiano, come nel funereo teatro della Bachmann di Malina. I testi finali della seconda parte assumono toni landolfiani – le pagine di Cancroregina sembrano evocate in una improvvisa fantasmagoria spaziale, apocalittica. Il finale, l’oltre i titoli di coda, assume la caratteristica di un occhio rapito nella contemplazione di un unico fotogramma, senza più attese vane di sviluppi, di storie. Finalmente non succede più nulla – oltre la fine, oltre i titoli di coda. Cosa è cambiato? c’è stato forse il varcare di una soglia, di un confine tra il prima e il poi, tra la memoria afasica dell’origine, immemore di significati; e questo nuovo orizzonte, in cui, da qualche parte, in uno spazio sconfinato e nero, un cuore batte? è l’approdo, questa contemplazione del buio spaziale, in cui il vuoto amplifica il silenzio che era prima del film senza voce? è l’approdo ad un luogo ulteriore; o è solo un’altra trasformazione dell’occhio che non vede? dello sguardo retroverso dietro la palpebra serrata? la domanda è atroce: è un ricordo o cicatrice visiva (Una cicatrice visiva). Gli invidiosi del Purgatorio dantesco: con le palpebre cucite da filo di ferro. Preclusa ogni possibilità di sguardo, di distinzione.
E in finale, quasi inatteso, l’appello, che recupera la voce del grido infantile, quello delle origini: Vorrei che mi guardaste (Lampada fatta di aria). La disperazione del bambino che chiede, da un nuovo luogo, questa volta la casa desolata dell’infanzia (sezione terza, Case riflesse ) – che con la mano afferra il volto della madre per rivolgerlo verso di sé. Vorrei che mi guardaste. Nei testi dell’ultima sezione la stessa ospitalità, la casa, si fa nemica (i titoli suonano ora: casa senza vita; casa in prestito; casa ombra….). La casa non è fatta per accogliere, ma per svuotarsi. E’ immersa nell’acqua, gelida e limacciosa, come in un incubo, è prigioniera del ghiaccio e le transizioni nelle sue stanze provocano la morte. Il movimento nella casa è anzi il procedere di un morto su un tapis-roulant: il movimento è solo fittizio, una illusione di spostamento, morte che però non provoca caduta, come giustamente, beneficamente accade negli uccelli colpiti in volo. Lo scenario del viaggio astrale, che chiudeva la seconda parte, si trasforma, nella fine della terza, in un nuovo habitat dell’orrore, in uno sprofondo marino, nell’oblò che esclude chi guarda dal “mondo” – ciò che adesso si configura oltre e fuori la muraglia delle palpebre serrate è un altro tipo di buio/silenzio. Il “mondo” adesso si situa in alto, a pelo d’acqua, e infinitamente distante. Il buio/silenzio acquatico comporta una diversa maniera di sparizione – un nuovo mood di esistenza, una nuova soglia tra l’essere e il niente (La cabina sommersa ). Il grido infantile diventa, nelle ultime poesie, l’invocazione di una spettrale Regina delle Nevi (Bisogno di sopravvivere: devo sopravvivere / a questo eccesso di vicinanza, / al calore del mondo). L’ultimo testo, Una medusa, che chiude l’intera raccolta, rantola: baciatemi presto/ sto lottando contro il crepuscolo. / Posso resistere fino a quando la luce nella casa/ di fronte si accende. Non c’è tempo,/ baciatemi. L’infanzia si ripropone, nelle ultime scene, ritrovando quasi l’eco di una favola. E l’angoscia del bambino, della principessa agghiacciata, non perde neanche per un momento la sua funerea forza di trasfigurazione: “Voglio la notte senza suono, pressione, /ossigeno. Nello spazio privo di luce/ ogni cosa si muove senza incontrarsi. / Non sono io, è l’universo/ intero a essere abbandonato.// All’alba i serpenti escono dalla foresta/ per scaldarsi con il primo sole” (Emisfero muto).

Poesie per farsi coraggio e per ricordarsi che non si è un esubero nel mercato mondiale

1

Giuliano Scabia, Bobo Rondelli, Manuela Dago, Cesare Basile, Mariangela Gualtieri, Francesca Matteoni, Alberto Prunetti, Massimo Giangrande, Elisa Biagini, Marco Simonelli, Compagnia Archivio Zeta, Compagnia Teatro Patalò, Fabio Franzin, Pino Marino, Peppe Voltarelli, Emilio Rentocchini, Umberto Maria Giardini, Oscar De Summa, Claudio Carboni, Carlo Maver, Vanni Santoni, Alessandro Raveggi sono i primi poeti,scrittori, attori, musicisti, cantautori che hanno accettato il nostro invito ad incontrare gli operai e gli abitanti dell’Alta Valle del Reno in questo momento di grande crisi.

La situazione:

L’Alta Valle del Reno, realtà montana nella provincia di Bologna che comprende vari comuni, sta vivendo un periodo di gravissima difficoltà: dopo la chiusura del punto nascita dell’ospedale di Porretta Terme, la chiusura del Tribunale, continue difficoltà di collegamento lungo la tratta ferroviaria Porretta-Bologna, la crisi delle Terme –comparto essenziale per la vita non solo economica e sociale ma anche identitaria della zona – arrivano preoccupanti notizie dalle fabbriche locali come Metalcastello e la storica Demm. A queste notizie si aggiunge l’annuncio, risalente a fine novembre, di Philips Saeco di Gaggio Montano,  ditta specializzata nella produzione di macchine da caffè, di oltre 240 esuberi. Esuberi che significano 243 vite, 243 lavoratori della Saeco, acquisita da Philips nel 2009, spaventati dalla prospettiva di un futuro incerto e oscuro. Purtroppo nonostante le intercessioni del Governo, la multinazionale non ha riveduto le proprie posizioni,confermando gli esuberi e non ha neppure manifestato l’intenzione di presentare un piano di rilancio di un prodotto italiano che dà lavoro a tutta la comunità. A Gaggio Montano i dipendenti sono in presidio permanente; una mobilitazione che va avanti dallo scorso 26 novembre con il sostegno dei sindaci della montagna, i cittadini della zona.

SassiScritti, associazione apartitica affiliata ad Arci, non  può  e non vuole  rimanere in silenzio, il nostro lavoro inizia in queste valli, si nutre della bellezza ruvida dei borghi e della dignità dei suoi abitanti.

E occupandoci ormai da anni di portare i linguaggi dell’arte in luoghi “ai margini”, ci è sembrato importante ribadire il valore della poesia e dell’arte soprattutto in momenti d’emergenza, in cui idee nichilistiche sembrano oscurare i progetti.

Crediamo in una repubblica ideale fondata sulle parole, una lingua  che possa  ridare forza alla coscienza pubblica, a un linguaggio che non resta inerte ma che  rilancia sempre di nuovo il senso dello stare insieme.

 

Quello che proponiamo:

Abbiamo chiesto a tutte le realtà artistiche interessate di creare un cartellone di appuntamenti che siano da sostegno al presidio attualmente organizzato dai lavoratori e dal sindacato davanti alla Philips Saeco (stabilimento loc. Torretta). Un sostegno non solo simbolico a tutte queste realtà in crisi ma anche  morale e concreto. Una vicinanza a coloro che stanno vivendo un momento di difficoltà, un momento fatto di freddo, preoccupazione, senso di smarrimento. Poesie per farsi coraggio in  questi giorni  sfiancati dal pessimismo e dalla solitudine.

A queste sensazioni e a questi pensieri, che tutti i lavoratori della cultura purtroppo conoscono bene, l’arte può dare risposte forti. La musica, la letteratura, il teatro, la poesia, possono diventare non solo spazio di confronto e momento di conforto ai lavoratori, ma anche e soprattutto amplificatore a livello locale e sovralocale di unione e di forza, di pacifica ma determinata voglia di avere risposte che siano rispettose dei diritti e della dignità delle persone.

Intendiamo dunque dare vita a un calendario mutevole e vivo di incontri insieme a tutti coloro che lo desiderino, semplicemente coordinando le forze in modo da non disperderle, dando un aiuto logistico e soprattutto di comunicazione – qualcosa che è parte del nostro lavoro quotidiano e che mettiamo a disposizione della nostra valle con entusiasmo e voglia di vicinanza.

Ad ora tante sono state le adesioni, totalmente gratuite, che dimostrano la grande generosità degli artisti che hanno “risposto sì” al nostro invito.

Iniziamo Domenica 20 dicembre alle 21 con un piccolo live acustico del cantautore Pino Marino che si terrà davanti al presidio di Gaggio Montano (Bo), loc. Torretta.

In allegato il calendario dei primi appuntamenti, un programma sempre in movimento di piccoli incontri, letture, live, che prevederà anche la realizzazione di una maratona artistica (in data ancora da definire) ideata dall’associazione. Un calendario “in emergenza” vicino a un comunità che non si vuole arrendere.

 

Info:

Per seguire le nostre iniziative vi invitiamo a seguire l’hastag #poesieperfarsicoraggio;

adesioni e comunicazioni saranno lette e vagliate scrivendo a  sassiscritti@gmail.com

Il calendario aggiornato su sassiscritti.wordpress.com e su fb:SassiScritti – L’importanza di essere piccoli

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GRAZIE!

Associazione SassiScritti

Daria Balducelli: 349 3690407/ Azzurra D’Agostino :349 5311807