Un tempo dovevano essere diversi,
i ritratti dei fratelli: lui in posa
contro uno sfondo prevedibile, solenne
(la torre, il castello, l’ampio arco del cielo);
l’altra stanca, dimessa, presa quasi di sghembo
in una stanza poco nobile, magari
la cucina. Adesso che li guardi, con la torre, il castello,
la cucina ormai deserti da anni, sono foto
di una stessa paura, scatti presi di nascosto
nello stesso momento.
Eliza Macadan, Anestesia delle nevi, La Vita Felice, 2015.
Cronofaga / la chiesa / batte campane / di eternità. Ho trovato bellissimo questo “cronofaga”. Mi ha catturato come una trappola poetica. Ma di altre trappole poetiche sono disseminate le raccolte di Eliza Macadan, in particolare questa sua “Anestesia delle nevi”, uscita nel marzo scorso per la casa editrice milanese La Vita Felice. Trappole come il verso ricorrente a Nord della parola, pronto a catturarci con tanto di assonanza già nella prima lirica: con la frusta nell’aria / spavento / l’aurora / e vado a dormire / a Nord della parola. Il lettore attento (e quello di poesie lo è quasi sempre) lo vede tornare nella lirica a pagina trentadue: geliamo / verso il mattino / a Nord della parola. Poi a pagina quarantuno, spezzato in un enjambement: andrò a Nord / della parola / nella siberia sintattica / il gelo muto. Di nuovo a pagina cinquantaquattro: la mia glaciazione / comincia / a Nord della parola. Infine a pagina sessantuno: i motori del mondo / sono muti / a Nord della parola. Cosa c’è, dunque, a Nord della parola?
La cosa più inusuale è che a generare queste suggestioni verbali sia una poetessa romena bilingue che ha adottato l’italiano come strumento poetico per eccellenza. Sono dunque in lingua originale – e non tradotte – queste sessantadue brevi liriche, ciascuna composta da un minimo di cinque versi a un massimo di ventidue. Il linguaggio è scarno, essenziale anche graficamente: nessuna punteggiatura, rarissime le parole con iniziali maiuscole (Nord, Terra, Natale, Montblanc, Dio), nessun titolo: è sempre il primo verso a dettare l’argomento.
Ma chi è l’artefice di questa scarnificazione poetica? Una premessa storica. Nel 1989 la Romania fu attraversata da una rivoluzione che rovesciò la dittatura comunista di Ceausescu e culminò con la sua fucilazione. Qualcuno tra i meno giovani ricorderà ancora i servizi dei telegiornali con quell’inconsueto sventolio di bandiere bucate nel mezzo. I Romeni, pur di voltare pagina, avevano ritagliato e fatto sparire lo stemma comunista persino dalle loro bandiere. Finiva così un regime che aveva per decenni impoverito il Paese e creato un clima di terrore attraverso la sua polizia segreta, la Securitate. Da questa situazione sociale è uscita una generazione di letterati condizionata, per forza di cose, dal peso della miseria e dell’assenza totale di libertà. Letterati che hanno saputo dare voce al dolore di un popolo in cerca di riscatto. Basta un nome, un grande nome: Herta Müller, premio Nobel nel 2009, trentaseienne all’epoca della caduta di Ceausescu e per anni bersaglio di una vera e propria persecuzione da parte del regime per via della sua attività letteraria.
Eliza Macadan appartiene alla generazione immediatamente successiva, quasi fosse una sorella minore della Müller. Se Herta Müller, scrittrice di lingua tedesca, è originaria del Banato tedesco, all’estremo Ovest della Romania, Eliza Macadan, poetessa di lingua romena prima e italiana poi, proviene dalla zona Moldava, verso il confine Est. Quando la dittatura di Ceausescu viene rovesciata, la Macadan ha appena ventidue anni. Ne ha respirato l’atmosfera opprimente durante l’adolescenza e la giovinezza ma in un certo senso ha potuto completare la propria formazione all’ombra della nuova libertà. Non a caso è stata corrispondente in Italia per alcuni giornali romeni, da cui il suo bilinguismo. Così come nella Müller (e mi riferisco a testi in realtà molto poetici come “Il re s’inchina e uccide” e “Il fiore rosso e il bastone”), è il bilinguismo ad alimentare il suo gusto per la parola in quanto significato e significante, suono, sensazione tattile e visiva, possibilità altra di esprimersi. Quasi il cambiamento delle regole del gioco linguistico mostri nuove verità.
La narrazione poetica di Eliza Macadan procede per immagini lapidarie, per illuminazioni improvvise che durano il tempo di una parola letta. Il respiro è dato soltanto dal verso in sé, spesso composto da due, tre elementi, talvolta da un solo vocabolo che assume un peso straordinario: mi manca la felicità / impietrita / sul viso degli zingari, scrive in una precedente raccolta, “Paradiso riassunto”. Un respiro che ricorda, per certi ritmi, l’ermetismo di alcuni nostri poeti del Novecento.
È una visione sofferta, quella di Eliza Macadan, che oscilla tra il dolore dell’esperienza interiore – appunto tutta ermetica – e la denuncia di un malessere sociale, a volte reale a volte metaforico: dalla povertà della zingara che indovina un amore legalizzato, al passante che mostra le sue zanne di fame, al bambino che piange davanti alla vetrina di dolci, al vecchio che mendica un soldo per un aspirina, ai morti che si contano al tiggì della notte, sino al tema della guerra. O meglio, delle guerre: case folli / di secolo caduto in ginocchio / recinti verdi / sparsi per strada / uomini partiti / nella prima guerra / e morti nella seconda / donne cieche / di tanta attesa / i loro amanti bambini / stanno nei cimiteri / del cielo. Ecco allora il leitmotiv della Storia, dell’Europa in quanto terra patria (la Macadan non nomina mai la Romania), dei sogni di libertà: usciamo dalla storia / quando tocchiamo la libertà (…) questa Terra è più fango / portiamo dallo psichiatra / l’Europa stuprata / mitologicamente.
E poi c’è la scrittura, il poeta con la sua funzione taumaturgica che ormai basta solo a se stesso: se non scrivo / il pianeta implode (…) scrivo racconti / su valuta forte (…) scrivo / per chiedere / perdono / produco artigianalmente / lacrime / ho venduto tutte le mie penne / e tiro fuori dalla matita / parole secche.
Le parole di Eliza Macadan si nutrono di tempo, ne fagocitano il più possibile per restare lì, testimoni di un viaggio verso la fine del mondo. Non per nulla viaggiare verso la fine del mondo è una prerogativa della poesia.
Da qualche tempo gira sul web una lista di compiti delle vacanze di un professore di scienze umane, lista di vita che vanta istruzioni pittoresche come:
Ballate. Senza vergogna. In pista sotto cassa, o in camera vostra. L’estate è una danza, ed è sciocco non farne parte.
Un paio di settimane fa Christian Raimo ha scritto sull’Internazionale un articolo che prende spunto da quella lista per demolire un certo ‘impressionismo didattico’ che l’autore percepisce come un serio pericolo per la scuola Italiana.
Poster-boy di questa deriva sarebbe il professore Keating, quello che invogliava i sui allievi a lanciare il loro ‘barbarico Yawp’ nel film L’Attimo Fuggente di Peter Weir. L’articolo di Raimo critica non solo quel film ma anche altri come Ovosodo di Virzì, di cui cita la scena degli esami. In quella scena, lo ricordiamo, uno storditissimo Gabriellini, interrogato dagli insegnanti di Italiano su Leopardi, replica parlando invece delle sue letture: libri di viaggio, fumetti, saggi, tutti evidentemente lontani anni luce dagli interessi dei professori.
Secondo Raimo questa scena sarebbe un esempio perfetto del soggettivismo didattico che dilaga nelle nostre scuole. Fornire liste di vita, magari libri e fumetti che nulla hanno a che fare con il programma da svolgere, e soprattutto smarcare il lavoro serio sul testo. Insegnanti preparati invece dovrebbero insegnare innanzitutto l’analisi testuale, magari secondo i dettami del New Criticism, che gli sceneggiatori de L’attimo Fuggente avevano preso in giro nella famosa scena dello ‘strappo dei libri’. Quella scena sarebbe diseducativa in quanto spingerebbe a tralasciare l’ermeneutica, vero fondamento dello studio. Citando Raimo:
Per fortuna però la scuola italiana aveva allora e ancora ha al centro della sua didattica l’analisi testuale; e lo studio delle discipline umanistiche – la storia, la filosofia, la storia dell’arte – si basa su diverse forme di ermeneutica. Interpretazione dell’immagine, interpretazione dei dati (…), metodo scientifico.
Chiarita la sua posizione mi chiedo: per quale ragione l’entusiasmo per la lettura dovrebbe andare a scapito del lavoro serio sui testi?
Nella mia esperienza è vero proprio il contrario. Quando studiavo al DITALS, corso di didattica per insegnare Italiano agli stranieri, ci dicevano che l’insegnamento è composto da quattro fasi: motivazione, globalità, analisi, sintesi e riflessione. La prima di queste fasi è appunto la ‘motivazione’. Ovvero, la prima cosa che deve fare un insegnante è motivare lo studente a comunicare. E questo avviene innanzitutto con il desiderio di far compartecipi gli altri di un’emozione.
Ebbene, per lo studio della letteratura è lo stesso. Lo dirò in modo cristallino: non ci può essere studio se prima non si è stati emozionati dalla lettura. Certo, è una condizione necessaria e non sufficiente. Prima l’impressione emotiva, poi la raccolta di dati, poi la riflessione. Però non solo una non va a scapito dall’altra, uno è fondamento dell’altra.
Va detta una cosa, io insegno letteratura in una scuola International Baccalaureat. È una scuola internazionale che nello studio delle materie letterarie ha come modello proprio il New Criticism di cui parla Raimo. Gli esami di letteratura della IB si basano in larga misura sul close reading –un’analisi rigorosa e minuziosa del testo– ovvero il fondamento metodologico del New Criticism.
Esempio: all’esame IB ci si trova davanti a una poesia che non si è mai letta, di cui non si conosce l’autore, e si deve commentarla. Il fatto è che, esaurito il bagaglio di tecnicismi, se lo studente la poesia non la legge con emozione, se non l’ha interiorizzata, come fa a parlarne? E a che serve poi? A fare la conta dei chiasmi?
Scopriamo le carte. Io sarei un epigone di Keating, ovvero uno di quelli che è diventato insegnante anche grazie a quel film. Vi dirò di più, L’Attimo Fuggente è il film che faccio vedere ogni anno, all’inizio del biennio finale della IB. Significa forse che salgo sulla cattedra e prescrivo marcette? In effetti dopo aver visto in classe il film lo faccio a pezzi. “Guardate” dico ai miei ragazzi “che lo studio non sarà tutto così, ci sarà da sgobbare, e sul serio”. Ma: non nego loro che lo studio della letteratura sarà fatto anche di lanci senza paracadute nei libri, di letture voraci e passione. Ovvio che il lavoro non è tutto lì, ovvio che si parlerà di critica, ovvio che si lavorerà sui testi, la IB ce lo richiede.
Però come potrebbero i ragazzi dirmi qualcosa sui libri che leggiamo in classe se prima quelli non li entusiasmano? La scuola dell’obbligo non è l’Università e non può essere solo un laboratorio per specialisti. I ragazzi non hanno scelto di studiare letteratura più di quanto abbiano scelto di alzarsi alle sette tutte le mattine. Non che in quell’obbligo ci sia qualcosa di sbagliato, ma qui sta la difficoltà di un insegnante di liceo rispetto a un professore universitario. Che ogni giorno i suoi allievi avranno sempre la stessa domanda negli occhi. Prof, perché dobbiamo studiare questa roba? E la risposta è sempre diversa ma alla fine è sempre la stessa: perché questa roba parla di te.
Non si nega affatto la critica e il close reading; ma tutto parte da qui, dall’entusiasmo e dall’ emozioneche una poesia e o un romanzo suscitano in noi. L’articolo dell’Internazionale sostiene che una certa tendenza soggettivista rischia di rovinare la scuola Italiana. Bene, posso dire che se la scuola Italiana si sente minacciata da una lista di compiti delle vacanze forse c’è qualcosa che non va? A me pare che nel nostro paese al scuola sia per la maggior parte nelle mani dei tetri agelasti del film Ovosodo, insegnanti che difficilmente mettono in discussione le loro scelte e che mai si sognerebbero rispondere alla domanda negli occhi dei loro studenti: Prof, ma perché?
Attenzione, si sta dando per scontato che la scuola Italiana vada protetta così com’era e com’è. Allora vi chiedo: perché in Italia i dati di lettura sono bassissimi da anni? I dati Istat parlano del 7% della popolazione che legge più di un libro l’anno. Perché si legge così poco? Davvero l’insegnamento della letteratura nelle scuole non c’entra niente? Davvero la scuola così com’è va bene?
Non so, a me pare che i Keating Italiani siano così rari che i loro compiti facciano poi notizia sui giornali. La verità è che l’apprendimento è un processo troppo complesso per esporlo tutto in un film di due ore. Chi insegna lo sa, lo studio è fatto anche di lavori ripetitivi che servono a strutturare le capacità logiche del pensiero. Nel film di Weir non ci sono, chiaro. Ma lo scopo del regista sembrava piuttosto quello di centrare il cuore dell’insegnamento della letteratura, che è poi quello dare agli studenti gli strumenti per leggere se stessi.
Questa a me sembra una verità semplice ma non banale. Non è banale perché i mezzi per ottenere tale conoscenza sono molteplici e contraddittori, e possono rivolgersi molto facilmente contro l’insegnante e persino contro lo studente, come dimostra il finale stesso del film. Però L’Attimo Fuggente è esemplare in questo, perché parla della ‘motivazione’ come il cuore pulsante dell’insegnamento delle scienze umane. Un fatto piuttosto banale in didattica delle lingue straniere, ma che a quanto vedo qui fa ancora scalpore. Forse perché prenderlo su serio costringerebbe a rimettere in discussione troppe premesse?
Personalmente credo che prendere Keating alla lettera salendo sui banchi sia un po’ patetico. Al contrario ritengo che il film di Weir nel suo complesso sia ancora oggi una straordinaria fonte di ispirazione. Lo è perché lo studente ideale non è quello ligio che fa bene i temi, bensì chi legge per conto suo, trasversalmente, mai sazio, entusiasmando se stesso e gli altri. Il vero modello de L’Attimo Fuggente non è Keating, sono i suoi studenti.
Chiuderò con una considerazione e una provocazione. Conoscete il titolo originale del film? È Dead Poet Society, dove society starebbe per ‘club’. Nel film è il nome del gruppo di studenti che si riunisce in una grotta e legge poesie fino all’estasi. Bene, la mia considerazione è che come insegnante io mi auguro studenti così, che leggano e facciano poesia in modi non tradizionali, e usino il loro senso critico su tutto lo scibile, purché li appassioni.
Ed ecco la provocazione. A me sembra che la scuola che si sta cercando di proteggere sia proprio una ‘setta di poeti estinti’. Se lo studio della letteratura nella scuola Italiana non cambierà resterà ciò che è sempre stato, un mattone di ‘dati’ che, se non fosse per l’intraprendenza personale di certi insegnanti, non comunicherebbe altro che noia. Col risultato che a estinguersi non saranno i poeti: ma i lettori.
Della guerra civile in Siria i media si occupano sempre meno, le notizie ora escono solo se l’ISIS compie qualche azione particolarmente grave. Anche i programmi di approfondimento, come lo speciale di Piazza Pulita di Formigli dell’8 giugno 2015, si occupano essenzialmente di narrare la nascita del gruppo Stato Islamico, e l’attenzione si concentra su dove e come vengono reclutati i suoi militanti. Che in Siria vi sia ancora una opposizione politica e armata al regime, costituita in parte da siriani che possiamo considerare partigiani, è un dato oscurato dall’informazione.
E proprio per questo, forse, crescono le illazioni e le bufale, sempre più gigantesche, sull’operato dei siriani dell’Esercito Libero Siriano (Els). In Medio Oriente la più infamante delle accuse che si possa rivolgere ad un movimento è la connivenza con lo stato d’Israele, tanto che le leggi più liberticide varate dai regimi arabi si giustificano con l’esigenza di prevenire infiltrazioni israeliane e ogni male accada a Est del Giordano viene attribuito a non meglio identificati “complotti sionisti” con una frequenza tale da aver alimentato una ricca varietà di barzellette sul tema. Questa stessa retorica sembra attraversare il Mediterraneo, dove Israele (affiancato dagli USA) viene spesso citato dai siti antimperialisti come eminenza grigia di tutto quel che succede nel mondo. I siriani si ribellano ad Asad? C’è lo zampino di Israele. C’è un attentato non rivendicato? Forse è stato Israele. C’è un attentato rivendicato da una formazione islamista? E’ finanziata da Israele. Vittorio Arrigoni viene rapito e ucciso da un gruppo di salafiti? Li ha assoldati Israele. E così via.
Ultimamente a rilanciare queste ipotesi prive di fondamento non sono solo militanti antimperialisti a senso unico o antisionisti di maniera. Talvolta, anche agenzie stampa che fanno una meritevole opera di informazione sulle gigantesche violazioni dei diritti umani che compie ogni giorno Israele nel silenzio dei media mondiali cascano nella tentazione di vedere Israele coinvolto in ogni sorta di alleanza sotterranea con i più disparati gruppi armati arabi.
Stiamo parlando di Nena News (NENA), Agenzia Stampa Vicino Oriente, il cui direttore è Michele Giorgio.
Il 30 giugno apprendiamo infatti dalle pagine di Nena News (http://nena-news.it/israele-aiutiamo-i-ribelli-siriani/ ) che ormai sarebbe “ufficiale” l’aiuto fornito da Tel Aviv ai ribelli siriani. L’agenzia è giunta a tale conclusione dalle dichiarazioni del ministro della difesa israeliano Ya’alon, nelle quali si conferma quanto riferito nei quattro rapporti stilati dagli osservatori ONU in missione lungo le alture del Golan (territorio siriano occupato da Israele): è in atto un passaggio di soldati ribelli feriti dalla Siria a Israele, dove vengono curati, e di alcuni equipaggiamenti medici da Israele verso il territorio siriano controllato dalle forze ribelli. Nelle sue dichiarazioni il ministro Ya’alon conferma quanto già reso noto da mediattivisti siriani: Israele baratta la tranquillità dei suoi confini con cure ed equipaggiamenti medici; l’intento di Tel Aviv sarebbe quello di proteggere la comunità drusa (vicina ad Asad) dagli assalti di organizzazioni jihadiste. L’articolo di NENA cita anche l’assalto di drusi israeliani ad una delle ambulanze coinvolte in queste operazioni, ma trascura di dire che la tensione in seno alla comunità drusa è crescente da mesi e che quindi le dichiarazioni del ministro, che in realtà non rivelano alcun segreto, servono sopratutto a sedare gli animi. NENA ha anche ignorato di segnalare le notizie dei primi di luglio sui vari generali ed ex generali che facevano pressione sul primo ministro Netanyahu perché fornisse armi ad Asad per evitarne la caduta: in realtà illustri diplomatici e strateghi militari israeliani, dall’ambasciatore Avi Primor all’ex capo di Stato Maggiore, da quattro anni vedono nel regime di Damasco il “miglior nemico”, ossia una garanzia di stabilità per Israele.
Le dichiarazioni di Ya’alon non sono le prime che NENA ha sfruttato per dar spessore al teorema che svelerebbe una alleanza tra Israele ed i ribelli siriani.
Il 24 aprile 2015, Nena News ha diffuso la notizia secondo cui l’Esercito Libero Siriano avrebbe mandato una missiva all’ex assistente (Mendi Safadi) di un parlamentare israeliano druso del Likud (MK Ayoub Kara) in cui si congratulerebbe per il sessantasettesimo anniversario della fondazione dello stato ebraico, auspicando di poter celebrare il prossimo anniversario nella futura ambasciata israeliana in Siria, che si aprirebbe nel caso cadesse il regime di Asad ( http://nena-news.it/ribelli-moderati-siriani-auguri-israele-per-lindipendenza/ )
È’ interessante notare come NENA, nel suddetto articolo firmato dalla sua redazione, attribuisca il prestigio di rappresentare l’intero Els a tal Musa Ahmad al-Nabhan, nome a tutti sconosciuto prima del 23 aprile. Dopo aver svolto un’accurata ricerca in rete del suo nome in inglese e in arabo, e aver chiesto sue notizie a vari contatti siriani che conoscono da vicino l’operato dell’Els, non abbiamo trovato nulla su Nabhan e, a distanza di due mesi, ad anniversario di Israele festeggiato (non in Siria, e non dall’Els) il nome di Nabhan non è più stato citato in alcuna notizia web o stampa.
Possiamo concludere che con ogni probabilità si è trattato di una bufala. Nella più remota delle ipotesi, Nabhan, ammesso che esista, potrebbe essere lontanamente legato all’Els ma senza alcun ruolo di rappresentanza.
I capi dell’Esercito Libero Siriano sono al momento Idriss “sul campo” e al-Bashir come comandante, ma ci sono proprio in questo periodo movimenti al vertice dell’organizzazione. Non omettiamo di dire che ci sono molti capi locali e molte fazioni di diversa natura, talvolta in opposizione tra loro, all’interno dell’Els, che contiene anche brigate che combattono insieme ai movimenti islamisti di al Nusra e Ahrar al-Sham. Ma pure in tutto questo variegato e contraddittorio universo, non ci risulta in alcun modo che questo Nabhan occupi una qualsiasi posizione di rappresentanza. Di più: non ci risulta nemmeno che l’Els abbia al suo interno un “ufficiale di politica estera”, come scrive NENA, attribuendo quell’incarico a Nabhan. Nulla di questa presunta notizia è verosimile. Del resto: è credibile che una organizzazione come l’Esercito Libero Siriano indirizzi ad un assistente parlamentare israeliano, e non un a un ambasciatore o a un esponente politico di spicco, una comunicazione del genere?
Torniamo a Mendi Safadi, l’attivista druso citato dal Jerusalem Post, poi ripreso da Ma’ariv, ed infine da Nena News. In un articolo di Ha’aretz datato agosto 2012 viene riconosciuto falso ciò che Safadi millantava ossia di essere delegato dalle autorità israeliane a dialogare con i ribelli siriani ( http://www.haaretz.com/blogs/diplomania/deputy-minister-s-aide-holds-talks-with-syria-opposition-presents-himself-as-official-israeli-envoy-1.458772 )
Quindi, cosa resta della “notizia” del Jerusalem Post rilanciata da NENA? Diremmo questo: “Un presunto appartenente all’Esercito Libero Siriano avrebbe scritto una lettera ad un ex assistente parlamentare, noto per millantare rapporti con l’opposizione siriana, in cui si congratulerebbe con Israele per l’avvicinarsi dell’anniversario della sua fondazione”.
Ma nel titolo di NENA la notizia è diventata: “Ribelli moderati siriani: “Auguri Israele per l’indipendenza””
L’articolo di NENA, peraltro, si apre parlando di rapporti che andrebbero a gonfie vele tra le opposizioni siriane e lo stato ebraico e prosegue così: “da quando è iniziata la guerra civile siriana, l’Els ha chiesto il sostegno israeliano per la sua campagna militare contro il regime di Asad, ufficiali ribelli hanno viaggiato in Israele incontrando vertici militari dello stato ebraico e un numero imprecisato di combattenti siriani (secondo alcuni commentatori israeliani stimato in alcune centinaia) è stato curato in Israele. Alcuni membri della Coalizione nazionale siriana (braccio politico dell’Els) hanno più volte proposto la cessione della parte siriana del Golan [secondo la comunità internazionale l’altra è stata annessa illegalmente da Israele nel 1981, ndr] a Tel Aviv nel caso in cui quest’ultima aiutasse in modo consistente l’Esercito siriano libero a sconfiggere le truppe di Asad. I rapporti sempre più stretti e quotidiani tra le forze moderate siriane e gli israeliani sono stati poi rivelati a dicembre in un rapporto dell’Onu presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.
I fatti riportati da NENA sono effettivamente avvenuti ma, nel contesto di questo articolo, acquistano una interpretazione tendenziosa. Vediamo quindi di ricollocarli in un contesto più appropriato.
Gli ufficiali ribelli che avrebbero incontrato vertici militari israeliani sono in realtà alcuni esponenti di Jabhat Al Nusra (JAN) e alcune brigate del FSA della zona di confine di Daraa, le quali avrebbero negoziato una non ingerenza israeliana in cambio di rassicurazioni che JAN ed Els non avrebbero sconfinato. Risulta poi vero che ci siano stati combattenti siriani curati in ospedali israeliani, ma ci risulta che persino il figlio di Ismail Hanye (leader di Hamas a Gaza) sia stato curato in Israele, e come lui anche combattenti libanesi o palestinesi durante i passati conflitti.
Passando ai “membri della Coalizione Nazionale Siriana” che avrebbero proposto la cessione del Golan: in realtà è solo un ex membro e fondatore della Coalizione, Kamal Labwani, espulso dalla stessa da oltre 2 anni. Labwani ha effettivamente proposto un suo “piano di pace regionale” in cui proponeva la cessione di parte del Golan e la normalizzazione dei rapporti con Israele in cambio di un sostegno militare, sopratutto in termini di aviazione, da parte di Israele. Si tratta di una proposta fatta a titolo personale: Labwani non rappresenta nessuno, è stato accusato di alto tradimento ed insulti da qualunque corrente della rivoluzione siriana. Infine, riguardo al famoso rapporto ONU che rivelerebbe rapporti tra i ribelli siriani e l’esercito di occupazione israeliano, si tratta dei rapporti degli osservatori ONU sul confine con il Golan cui facevamo riferimento in merito alle recenti dichiarazioni del ministro della difesa Ya’alon, ossia qualcosa di molto differente da un alleanza o una intesa politica: è quel che avviene nelle aree di confine in ogni guerra. Il comportamento di Israele è l’ennesima testimonianza di come lo stato ebraico stia alla finestra per poi intervenire, limitatamente, quando vede l’opportunità di far prevalere i propri interessi: lo ha fatto quando ha bombardato le spedizioni di armi verso Hizbullah e suggerito il piano per la distruzione delle armi chimiche poi attuato dalla Russia di Putin ( http://lb.shafaqna.com/EN/LB/126868) all’indomani dell’attacco con il gas Sarin su Damasco, evento che aveva messo Obama nell’indesiderata posizione di dover intervenire in Siria per non perdere la faccia davanti all’opinione pubblica.
In sintesi, la notizia sui ribelli moderati siriani che farebbero gli auguri ad Israele per l’anniversario della sua indipendenza (parafrasando quasi alla lettera il titolo di NENA) ha tutti i contorni della più classica bufala. Nena News, sempre attenta a svelare le mistificazioni della propaganda sionista, stavolta ci sembra essere stata vittima di quella propaganda. E, nel caso dei rapporti tra ribelli siriani e Israele, forse sarebbe il caso che NENA rivedesse il suo paradigma interpretativo. Del resto, quando c’è di mezzo la Siria, avvolta da anni nel Mare Magnum della disinformazione, è davvero difficile trovare notizie e analisi che ci permettano di comprenderne l’attuale situazione geopolitica.
Non fatevi ingannare dal buon Murakami: “Uomini senza donne”, il suo ultimo libro pubblicato da Einadi (222 pp., 19 €, trad. it di A. Pastore) è pieno di donne: desiderate, sognate, cedute, tradite, amate fino alla consunzione, ascoltate, invocate, evocate, fraintese, sopravvalutate e infine perdute per sempre.
Uscito nel 2014 in Giappone con il titolo “Onna no Inai Otoko-tachi” (traduzione letterale: uomini che non hanno fidanzate), “Uomini senza donne” è una raccolta di sette storie brevi, scritte a partire dal 2005 – anno in cui è uscita la prima raccolta dell’autore, “I salici ciechi e la donna addormentata” – e pubblicati quasi tutti sul mensile “Bungeishunju”, o apparsi su riviste di tutto il mondo e sul sito del New Yorker (solo un racconto è del tutto inedito).
Questi uomini senza donne in realtà di donne ne hanno avute, e come: ma per qualche accidenti della vita, o per loro incapacità a tenersele strette, hanno finito per perderle. Murakami ribalta così la solita visione della donna rifiutata, che ha riempito la letteratura e il cinema fino alla noia, e racconta la storia dal punto di vista degli uomini, sedotti e abbandonati, melensi e romanticamente disperati come – o forse di più? – le loro controparti femminili di ogni tempo e luogo.
Questo aspetto, l’inevitabile associazione all’omonimo romanzo di Ernest Hemingway (che pare Murakami avesse intenzione di evitare, modificando il titolo della raccolta per le edizioni straniere, ma poi deve aver cambiato idea) e un certo maschilismo di ritorno che affiora in qualche pagina del libro (si legga il racconto “Organo indipendente)”, in un primo momento mettono in allarme da “mattonazzo” (a prescindere dalla limitata mole del volume) il lettore un po’ smaliziato, ma l’autore vien considerato un possibile vincitore del Nobel ogni anno non per caso: è troppo bravo a raccontare delle storie per cadere in stereotipi o lagne da libro Harmony. Così continuando nella lettura ogni allarme si spegne e ci si addentra nell’animo ferito di questi uomini, di ogni estrazione e grado, spesso misteriosi, altre volte squisitamente banali, che hanno perso il centro del loro equilibrio insieme alla donna amata. Che sia morta dopo numerosi tradimenti, o sparita nel nulla all’improvviso, o persino che l’abbiano lasciata andare, a riempire i loro giorni è il rimpianto per ciò che poteva essere, la solitudine insostenibile perché piena di domande senza risposta.
Allo stesso modo il lettore si trova davanti a racconti che non hanno un punto focale: si entra e si esce da queste vite, portandosi dietro lo stesso senso di incompiutezza dei protagonisti. Solo uno dei racconti si apre alla speranza, l’unico che ha peraltro qualche rimando alla dimensione onirica che l’autore ha esplorato in altri suoi testi: trattasi di “Samsa innamorato”, un chiaro omaggio al più famoso racconto di Franz Kafka, in cui la storia viene ribaltata perché l’orrenda scoperta che Gregor fa una mattina all’improvviso è quello di essere stato tramutato in un uomo, e di trovarsi senza il duro carapace che lo proteggeva dal mondo. In questo stato, con solo quello strato sottile e roseo di pelle a fargli da scudo, gli accade di innamorarsi di una donna non propriamente attraente ma che per lui è bellissima: e questo amore diventa anche un modo per conoscere il mondo in cui si ritrova e la sua nuova condizione. Un altro omaggio letterario è nel racconto “Shahrazād”: qui una donna per intrattenere Habara, un uomo recluso non si sa per quale ragione in un appartamento, dopo aver fatto l’amore con lui comincia a raccontargli delle storie e quelle storie diventano per lui più importanti del sesso, sono quasi come delle compensazioni alla libertà che gli è negata. Dopo un’ultima storia lasciata in sospeso, Habara comincia a vivere nell’angoscia di non poterne più ascoltare altre e di non poter conoscere la fine dell’ultima nel caso in cui Shahrazād non tornasse.
Come Murakami fa dire al protagonista del suo ultimo racconto, il più disperato forse, che dà il titolo alla raccolta, per Habara e per tutti gli altri uomini che hanno subito la perdita di una donna è come «perdere quel fantastico vento da Ovest», come «essere derubati per sempre del proprio quattordicesimo anno». E, ancora, «a volte perdere una donna significa perderle tutte». E tutto. Tanto che Murakami racconta un intero universo fatto di suoni e di odori e di colori percepiti diversamente senza la donna amata, vera condizione esistenziale senza rimedio, e pur sfiorando spesso il paradossale, tutta la narrazione rimane possibile, tangibile, come il dolore che l’assenza si porta dietro mentre consuma questi “uomini senza”.
La nostalgia, il rimpianto, l’abbandono, il rapporto tra uomini e donne, l’impercettibile superamento della linea sottile tra realtà e fantastico: ci sono tutti i temi principali di Murakami in questi racconti – e anche il suo essere scrittore internazionale, moderno, pop perfino, con i ripetuti riferimenti musicali, i soliti Beatles, l’amato jazz, le influenze della letteratura statunitense, pur restando uno scrittore profondamente giapponese. E c’è quello stile difficile da individuare in una traduzione, ma che fidandoci della bravura di Antonietta Pastore, è lo stesso di sempre: frasi semplici, parole d’uso comune, spesso ripetute, un linguaggio colloquiale con delle saltuarie colorazioni poetiche, con una precisione quasi maniacale nei dettagli e dialoghi vivaci e momenti anche di ironia.
Non fidatevi, perciò, del titolo del libro: ma abbiate piuttosto fiducia in Murakami e nella sua capacità di raccontare delle storie che difficilmente dimenticherete.
L’incipit di una delle più famose poesie di Ingeborg Bachmann recita La guerra non viene più dichiarata, ma proseguita. L’inaudito è divenuto quotidiano. La poesia si intitola “Tutti i giorni” ed è stata composta nel 1953, all’apice della Guerra Fredda e nello stesso anno in cui fu deciso di condonare alla Germania gran parte del suo debito di guerra. Negli ultimi mesi e soprattutto nelle ultime settimane, seguendo il conflitto tra il governo di Syriza e le istituzioni dei suoi creditori ho spesso pensato a quei versi.
Il fatto di essere non sussiste
esiste l’essere come un fatto
del sentire. Allora io sarà il nucleo
per cui posso essere me stesso,
non il triciclo abbandonato in strada
accanto ai bidoni ustionati.
Mia figlia pedala.
Io è le mutande del ragazzo
al semaforo che vende accendini.
Dopo un giorno di lavoro
brucio i fazzoletti abusivi
e raccolgo parole da uno schermo,
ustionato da tutti i contatti.
L’identità (o trasposizione del poeta)
Sentiva di spostarsi e accadimenti
intercedevano per lui che si spostava,
sospinto dalla piena presenza
di se stesso. Impercettibilmente
ad agire era un moto secondario,
che diventava consistente e si perdeva.
Camminava pienamente.
Si alternava in tutto il movimento
la sensazione vera di non essere
se non se stesso in contatto perenne,
come accade nelle passerelle
agli aeroporti dopo un giorno
in piedi a calpestare i propri passi.
Qui leggibile in formato .pdf La-storia-i-ricordi, lungo estratto da una silloge inedita di Gianluca D’Andrea, che si interroga sul ‘ritorno’ della storia, l’impotenza politica, il mito (e il disagio) dell’identificazione poetica, le illusioni della comunicazione totale, le epoche eroiche della formazione giovanile che si intrecciano ai fantasmi cupi di un’epoca sempre più delineata nella sua ansia dissolutoria. (rm)
Circa vent’anni fa un vecchio esponente democristiano, non mi ricordo più se schierato con Berlusconi o con il centrosinistra, disse che preferiva la Macarena a Bandiera Rossa. Credo che avesse fatto questa affermazione in risposta a una domanda di un giornalista che gli chiedeva di commentare il fatto che il congresso di Rifondazione comunista si era chiuso intonando il vecchio inno. In questa battuta, che esprimeva largamente il senso comune, non si sosteneva soltanto che il consumismo aveva sconfitto il socialismo e ogni altra ideologia politica, ma nell’anteporre ironicamente un motivetto di successo a un canto politico emergeva per così dire un’antropologia implicita e assertiva: di soli consumi vive l’uomo.
Non che naturalmente questa antropologia sia priva di fondamento, anzi essa è autorizzata da un certo sviluppo storico delle società occidentali. Uno dei suoi corollari è che la partecipazione politica del cittadino può e deve essere molto blanda e che qualsiasi forma di cittadinanza attiva, così pericolosamente vicina a quella che una volta si chiamava militanza, sia superflua, nella migliore delle ipotesi. Ovviamente la democrazia fa parte del kit della società dei consumi, ma esse viene intesa come una serie di procedure e di questioni amministrative anche importanti, che tuttavia non avrebbero mai modificato nell’essenziale il tenore e i modi di vita della popolazione. Insomma le condizioni che si erano precariamente realizzate con il boom economico venivano percepite come un assoluto immodificabile, come una sorta di epifania della vera natura umana.
Piaccia o meno, era questa la cultura diffusa in cui è nata l’attuale Unione Europea, quella di Maastricht, degli anni novanta, prima era un’altra cosa per via del contesto internazionale. Visto gli indubbi vantaggi che presenta per il potere una concezione che si rapporta così distrattamente alla dimensione politica, le élite europee lungi dal combatterla l’hanno coltivata, anche perché le idee dominanti sono quasi sempre quelle delle classi dominanti.
Ora, anche se non vivessimo in un’epoca di crisi e di repentini mutamenti, una siffatta mentalità sarebbe stata largamente insufficiente per avviare un autentico processo costituente europeo, immaginiamoci in una situazione come quella attuale. Inoltre questa scarsa propensione alle dimensione politica è stata rafforzata dal grande potere del capitale finanziario privato che è ormai, per usare l’eufemismo oggi in voga, postdemocratico.
In un contesto del genere qualsiasi contrasto che in una società democratica dovrebbe vestire le forme del confronto e, talvolta, perfino del conflitto politico, assume invece vesti diverse, pericolose che di solito attingono a un immaginario in grado di riattivare certe mitologie del passato e quando si riattivano le mitologie, esse poi hanno un funzionamento quasi automatico, macchinico, per dirla con Furio Jesi.
Per prendere il toro per le corna: nell’attuale vicenda greca la narrazione mediatica, ma ispirata da una parte influente dell’èlite europea, è basata sullo stereotipo razzista del greco fannullone e un po’ imbroglione, al quale è stato risposto con un altro stereotipo ossia quello del tedesco nazista, e prima ancora sul mito, solo apparentemente meno pericoloso, che le grandi questioni economiche dipendono in maniera automatica e consequenziale dai comportamenti individuali. Eppure lo scontro in atto sulla Grecia è descrivibile come uno scontro tra una parte politica che a fronte a un rischio di fallimento dello stato ha deciso di tutelare i grandi creditori privati, ivi compresi alcuni greci, e una parte che non accetta che a pagare i costi di questa tutela sia essenzialmente la popolazione. Insomma lo spazio che dovrebbe essere della politica viene occupato dal rancore ancestrale, dal pregiudizio e dal mito.
E’ inutile lamentarsi della diffusione dei populismi, se poi sono le stesse classi dirigenti europee che preferiscono affrontare le proprie battaglie in una veste mitologica, pur di non riattivare processi di politicizzazione nella popolazione: almeno in parte sono esse stesse a fornire il propellente per i movimenti populisti. Altresì è molto pericoloso bollare come populiste tutte le forze che criticano gli attuali assetti europei e internazionali perché ciò rischia di fomentare una cultura autoritaria.
Il ruolo per un europeismo attuale, che non sia un irenistico richiamarsi a valori incomprensibili ai più, è allora nel politicizzare lo spazio europeo proprio nel momento in cui le sicurezze anche consumistiche dell’uomo europeo vacillano, come potrebbe confermare chiunque debba campare con un minijob nella ricca Germania.
E insomma, visto che ho parlato di mito, spero che mi si perdonerà se indulgo alla debolezza di paragonare la situazione attuale a quella di Europa rapita dal toro.
“La vita non cerca veramente il nuovo, il diverso, l’inaspettato. Tende alla somiglianza, cerca ciò che può riconoscere, che ha già visto sentito annusato, cerca il ritorno, cerca uno specchio.”
Cerca un Panorama, probabilmente, come quello di Tommaso Pincio, appena edito da NN Editore.
Panorama è un social network, con regole di accesso e permanenza assai stringenti e precise, che lo fanno assomigliare preoccupantemente al famoso Panopticon, la prigione sempre illuminata ideata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham alla fine del 1700, in cui gli osservati speciali avrebbero finito per diventare essi stessi gli osservatori, e ciascuno, prima di tutto, sorvegliante attentissimo della propria cella.
La costa apuo-versiliese rappresenta da sempre, per i toscani e non solo, una terra tanto frequentata quanto enigmatica. Il romanzo d’inchiesta di Giulio Milani uscito in questi giorni per Laterza, “La terra bianca”, ci fa conoscere una realtà complessa, che parte dalla famigerata esplosione del serbatoio di pesticidi della Farmoplant del 17 luglio 1988 – evento ribattezzato dalla stampa di allora “la Caporetto del turismo” – per arrivare al braccio di ferro sulle cave che ha tenuto banco in questi mesi. Attraverso il racconto dei cavatori, degli anarchici, dei soldati apuani in Russia e dei partigiani, dei lavoratori del polo chimico e degli ambientalisti, Milani affronta in modo inaspettato, unendo ricerca storica, testimonianze e ricordi personali, il tema del conflitto tra ambiente e lavoro, o meglio “tra interessi collettivi e interessi privati”: a Massa Carrara come nel resto d’Italia pare si debba sempre aspettare il disastro per chiudere il discorso, anche se nel libro compare una terza via tra incidente e sabotaggio ambientalista. Così scopriamo che il vero business del marmo non sono i blocchi, la pietra che piaceva a Michelangelo, ma il carbonato di calcio che si ricava dalla polverizzazione delle Alpi Apuane: ogni anno ne scompaiono 9 milioni di tonnellate, producendo più costi sociali che benefici: la provincia è “al 76° posto della classifica nazionale per la qualità della vita, per il tasso di disoccupazione al doppio della media regionale, per il degrado urbano e il dissesto del territorio”. Ma non è questo l’unico tema di un libro che racconta tre generazioni di apuani, dal primo dopoguerra fino a giorni nostri, mettendo in scena saga familiare, epica del lavoro, conflitto generazionale e un disperato amore per la propria terra. Anche questa è Toscana.
Monte Bettogli
Mauro riprese il filo del suo ragionamento non appena ebbe ordinato una grappa. “Comunque”, considerò, bagnandosi il baffo, “dalla fine dell’Ottocento la tecnica dell’esplosivo fu rimpiazzata quasi completamente dal filo elicoidale”. Errichetta volle saperne di più e Mauro le spiegò che il filo elicoidale era un dispositivo per il taglio del marmo costituito da una funetta formata da tre fili di acciaio, avvolti a elica e di lunghezza variabile, che poteva raggiungere i 1.500 metri per i grandi tagli. In un’ora di marcia un filo poteva segare, in media, sessanta metri cubi di pietra: veniva fatto scorrere a una velocità di cinque, sei metri al secondo, e il taglio del blocco era alimentato da una miscela abrasiva di acqua e sabbia silicea.
“Mio nonno Gardenio mi ha raccontato di aver usato il filo elicoidale fin quasi al momento di partire soldato, appena prima della seconda guerra mondiale. Questo dimostra che nelle cave, specie in quelle più piccole, le tecnologie entrarono molto lentamente. Per anni gli strumenti indispensabili del lavoro sono stati forza, coraggio, una buona dose di esperienza e la dinamite”.
“Quelli sì che erano uomini”, ghignò Errichetta sorbendo allegra il suo cordiale.
“Puoi ben dirlo”, s’inorgoglì lui, dando forse a intendere che ne discendeva. “Dopo la varata entravano in scena i riquadratori, per esempio, che a suon di subbia e martello cercavano di dare una forma quadrata al blocco. Era un lavoro difficile, pesante, e quegli uomini dovevano avere una forza e una pazienza fuori dal comune. Mio nonno mi raccontava di aver conosciuto un vecchio che aveva lavorato ai tempi in cui il marmo lo segavano a mano. Ma ci pensate? L’avete mai vista una sega del genere?”.
Lasciai che Errichetta scuotesse la testa.
“Sapete come funzionava? Era una lama d’acciaio senza denti e veniva applicata su un telaio di legno manovrato per aria con le carrucole: due uomini da una parte e due dall’altra. Un lavorone. In un giorno se ne poteva segare quattro dita. Per segare un blocco ci volevano dei mesi! E non erano certo blocchi grandi come quelli che fanno ora, due metri per quattro, alti uno, ma blocchetti che si portavano in collo…”, rise. “E poi c’era il discorso del trasporto, ovviamente. Un capitolo a parte. Una volta riquadrati, infatti, i blocchi dovevano scendere a valle. Il lavoro, anche qua, era tutt’altro che semplice…”. E ci spiegò come, ai tempi di Michelangelo, per portare a valle i blocchi di marmo, c’era soprattutto un modo: farli rotolare giù, senza alcun controllo, sopra un “letto” di detriti. Questo rudimentale metodo di trasporto, che si chiamava “abbrivio”, era talmente pericoloso che verso la fine dell’Ottocento fu vietato per legge. Ma prima di arrivare al trenino a vapore – la “ciabattona”, come l’avrebbero chiamata –, c’era la “lizzatura”: “Sapete tutti, più o meno, come funzionava, un sistema vecchio di duemila anni: consisteva nel mettere i blocchi di marmo sopra una slitta ricavata da tronchi di faggio o di quercia e di farli scorrere verso valle. La ‘lizza’ era formata da diversi blocchi di marmo tenuti insieme da robuste corde di canapa, che servivano anche per far scendere lungo tutto il percorso l’intero carico”.
Alla lizzatura partecipavano in parecchi: era un lavoro di squadra davvero rischioso e Gardenio vi aveva preso parte diverse volte. Davanti a tutti c’era il capolizza, che aveva il compito di controllare che la discesa procedesse per il meglio. Era un compito delicato, e veniva affidato all’operaio più esperto. Era lui che disponeva i “paràti” sul terreno davanti alla lizza, e dava il segnale ai “mollatori” di allentare o stringere i cavi al momento giusto. “I paràti, poi, non erano altro che robusti pali di legno circolari, che venivano aggiunti anteriormente, mano mano che il carico scendeva, consentendogli di scivolare senza incontrare ostacoli. Un’altra figura molto importante nella lizzatura era appunto ‘l’uomo del piro’, chiamato anche ‘il mollatore’, che aveva il compito di mollare lentamente le corde in modo che il carico scendesse senza prendere velocità e fare danni. La lizzatura era una delle fasi più rischiose del lavoro in cava. Se il carico si liberava dalle corde e prendeva velocità, chi stava intorno veniva travolto. E questo, purtroppo, è successo più volte”. E qui Mauro ci spiegò come, a parer suo, il sentimento genuino dell’anarchia, un vero e proprio “distillato apuano”, avesse potuto svilupparsi proprio tra questi sfruttati.
“Nel lavoro in cava”, proseguì, “per esempio in quello del tecchiaiolo, si sperimenta la solitudine dell’individuo davanti alla morte, la sua irriducibile singolarità; ma nello stesso tempo ci si rende conto di come la propria vita sia legata alle mosse degli altri, alle loro manovre e capacità complessive, a una rete di solidarietà e cooperazione, come per esempio avviene nella lizzatura”.
Il lavoro di squadra della lizzatura, in ogni caso, finiva nel momento in cui il carico arrivava al “poggio”, che era il luogo dove i blocchi di marmo venivano liberati dalle corde e caricati sui carri trainati dai buoi. Così il marmo veniva portato a valle e da lì smistato verso varie destinazioni: Gardenio ricordava una miriade di botteghe artigiane, scultori o segherie tra Carrara e la Versilia, tutto un rumoroso indotto che adesso non esiste più, spazzato via tanto dall’impennata della richiesta del carbonato di calcio, ovvero del marmo polverizzato, al posto dei blocchi per l’uso ornamentale, quanto dall’incremento dell’export dei blocchi ornamentali sulla piazza estera, dove gli acquirenti hanno i loro opifici con costi di lavorazione ben più bassi.
“Il mondo che ha conosciuto mio nonno non esiste più. Col passare degli anni, le tecnologie hanno cambiato la cava. L’hanno resa più accessibile e soprattutto meno pericolosa. Meglio precisare: meno pericolosa rispetto a com’era una volta, perché la sicurezza in cava è un ossimoro, e gli incidenti accaduti anche di recente dimostrano che quello del cavatore rimane ancora il mestiere più a rischio”. L’uso degli esplosivi si è fortemente ridotto, e il filo elicoidale è ormai un oggetto da museo. L’avvento del filo diamantato permette di tagliare pezzi di monte a una velocità incredibile: se una volta per fare un taglio ci voleva un mese e mezzo, lo stesso taglio si fa adesso in tre, quattro giorni. “Il filo diamantato non so se l’avete visto, è fatto come una collana di perle: e infatti quei cilindrini che vengono infilzati sul cavo si chiamano ‘perline’, e sono dei piccoli diamanti artificiali, distanziati tra loro da minuscole molle. Unico grave inconveniente di questo metodo di lavoro è che le perline, quando si rompe il filo, partono come proiettili. Per questo gli addetti devono sempre stare a distanza, con la macchina in movimento”.
Quando approdarono in cava le pale meccaniche, gli escavatori sui cingoli e gli altri mezzi per il sollevamento dei marmi, furono messi da parte anche i buoi che ai tempi di Gardenio trasportavano i blocchi di marmo.
“Oggi una pala media solleva senza sforzo blocchi di trenta tonnellate, e in breve tempo, a seconda della perizia del manovratore, li carica sul camion. Anche le figure professionali della cava sono cambiate. Tecchiaioli e lizzatori non esistono quasi più; il capocava un tempo era l’indiscusso uomo di esperienza, che decideva tutto, mentre oggi è affiancato da un ingegnere minerario che ha il compito di dirigere i lavori, e controlla se il ‘piano di coltivazione’ della cava viene eseguito correttamente. Gli operai, inoltre, sono diventati sempre più manovratori di macchine. Oggi, un bravo ruspista che sa sistemare il blocco sul camion equivale a un gruppo di esperti lizzatori di un tempo”.
“In questo modo”, dissi io, “sono riusciti a portar via dalle montagne, negli ultimi vent’anni, l’equivalente di un’era geologica. Puoi apprezzarne l’effetto anche su Google Earth, i forzati della mistificazione lo chiamano ‘white impact’, ‘impatto bianco’. La tv tedesca, invece, una volta è venuta qui per girare un documentario e l’ha definito ‘il più grave disastro ambientale d’Europa’”.
“A me è sempre piaciuta la terminologia tecnica”, intervenne Errichetta, seguendo un suo ragionamento. “I ‘piani di coltivazione’, gli ‘agri marmiferi’, la ‘coltivazione degli agri marmiferi’, neanche parlassimo di pomodori: la tecnica, come sempre, si finge neutra e invece è schierata”.
“Tra le differenze di rilievo c’è anche quella del trattamento economico: oggi, un operatore di cava specializzato ha una paga più che dignitosa. Se piove è protetto dalla fiscalità generale col regime della cassa integrazione per maltempo. Per non parlare del nero che entra in tasca anche a loro. Una volta capitava perfino che i cavatori, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, andassero per boschi a raccogliere castagne o nel campo a coltivare l’orto, e magari con l’aiuto dei familiari rigovernavano le bestie”. E poi c’è il discorso sicurezza. Inesistente. “Il lavoro in cava è molto rischioso ancora oggi a causa degli incidenti. Rispetto al passato esistono ovviamente norme di sicurezza maggiori, che prevedono l’uso di caschetti, calzature antiscivolo, occhiali protettivi, cuffie per le orecchie, senza contare il fatto che è venuto meno il trasporto con la lizza, pericolosissimo a causa del peso dei blocchi ma anche dei pìri, dei paràti e dei cavi, che spesso si rompevano e vibravano nell’aria, colpendo gli addetti intorno. Mio nonno aveva visto morire parecchi compagni nei modi più diversi… Una volta era per la via di lizza, in fondo c’era un ponte per attraversare il fiume e si ruppe il cavo: un morto e due feriti, di cui uno grave che morì più tardi. Un’altra volta l’incidente fu provocato da una varata. Avevano previsto la ‘mina’, come chiamavano l’operazione con la dinamite, per il sabato, e quando fu sparata la mina, il capo prese la corda per calarsi con le funi lungo la tecchia e controllare da vicino gli effetti dell’esplosione ma venne giù una lastra e ‘lo spanciò’. In un’altra occasione, mio nonno mi raccontò di un cavatore che tirava l’argano, ma scappò un ferro e lo trafisse”.
Per Mauro vedere i propri compagni di lavoro morire in quel modo, o restare invalidi per sempre, doveva essere un’esperienza drammatica, accettabile solo all’interno del paradigma di una cultura sacrificale.
“Oltre agli incidenti legati al taglio, al trasporto o all’esplosione di mine, c’erano anche danni che si manifestavano più avanti nel tempo, ovvero quelli connessi all’inalazione di polvere di marmo, che contribuiva allo sviluppo di malattie polmonari come la silicosi, o quelli collegati al tremore continuo delle mani e delle braccia, provocato dall’uso dei martelli pneumatici protratto negli anni. Altri tipi di problemi andavano a carico dell’apparato uditivo: i continui rumori, ma soprattutto le forti esplosioni, causavano danni permanenti. Ma erano tutte cose che non venivano neppure calcolate: le preoccupazioni dei lavoratori di allora erano legate alla stretta quotidianità e alla semplice sopravvivenza. Gli uomini lavoravano come bestie e le donne si occupavano della casa e dei bambini. Anch’io mio padre l’ho visto sempre poco, in casa, come lui aveva visto poco mio nonno e mio nonno il suo. La dimensione del lavoro era totalizzante, una divinità sanguinaria che richiedeva sempre nuove vittime. Come soldati in guerra: non erano nient’altro che sacrificabili soldati in guerra, che ogni giorno dovevano soltanto badare a come riportare a casa la pelle”.
[…] Mauro ricordava con piacere i racconti del nonno, soprattutto perché quei racconti erano un tutt’uno col ricordo della sua infanzia in campagna, gli unici ricordi belli che riteneva di avere. Il ricordo di come suo nonno sarebbe partito per la guerra, per esempio. Il racconto cominciava sempre col discorso che in quei giorni, a Massa, sembrava che gli addetti del distretto militare avessero deciso di destinare tutti i soldati di leva nelle truppe di montagna. Lui poteva avere sei, sette anni quando sentì per la prima volta la storia: il treno che avrebbe condotto suo nonno, insieme agli altri soldati di leva, a Cuneo, era un serpente di carrozze sotto il sole acceso della prima domenica di marzo.
Fra meno di cinque mesi Gardenio avrebbe compiuto ventun anni, e la sua destinazione era presso il IV reggimento artiglieria da montagna, comando gruppo Mondovì, della divisione Cuneense. Tutte le volte che negli ultimi tempi gli era capitato di pensare a Cuneo, non aveva saputo tanto bene che cosa pensare. Ai parenti e agli amici che gli domandavano dove si trovava Cuneo e che cosa significasse far parte di un reggimento di alpini, lui non aveva saputo cosa rispondere, perché era nato a Massa e, a Massa, aveva sempre vissuto. Non sapeva che cosa fosse la naja alpina e non sapeva neppure che cosa fosse davvero l’esercito. Del resto, dall’età di quindici anni aveva sempre e soltanto fatto il cavatore e ora, sotto le pensiline della stazione, guardando la marea di familiari e fidanzate che accompagnavano i partenti, gli faceva un certo effetto pensare che alla fine di quel viaggio si sarebbe trovato davanti agli occhi lo splendore di nuove montagne coperte di neve.
[…] La quota da riconquistare era il sommo di un modesto colle, un’onda appena distinguibile dal mare di colline che increspavano quel tratto di steppa ghiacciata, ma l’unica scarificata all’osso dai bombardamenti. Dal colle scendeva il canalone, quasi il colle fosse franato. Gardenio fu mandato di rincalzo ai mitraglieri della 20a compagnia, che entrò in combattimento per prima. Le batterie della 115a compagnia avevano preparato il terreno concentrando il fuoco sulla cima. Il plotone fucilieri si portò sulla sinistra alla base della quota, poi fu il turno del suo. Il suo plotone avanzò come facevano gli altri, come avevano imparato a fare nei campi d’addestramento dietro casa. Una squadra sulla destra, una al centro, l’altra a sinistra. Il capitano stava in testa, al centro. Salivano ad ali alternate: “Avanti la prima!”, gridava il capitano, e la prima squadra faceva dieci metri e si buttava a terra. “Avanti la seconda!”, e la seconda faceva dieci metri e si buttava a terra. Visti dal basso, parevano i movimenti d’una squadra di calcio per arrivare a rete. Ma c’erano due mitragliatrici russe, sulla sommità del colle, con gli scudi pesanti. Loro salivano allo scoperto, e le mitragliatrici incrociavano i tiri e sparavano addosso.
Ogni ora che passava, le razioni di cibo aumentavano, per via dei morti. Per tre giorni e due notti, l’attacco alla quota venne portato sempre dalla stessa direzione, sempre dallo stesso lato. Non vi fu nessuna manovra diversiva, nessun accerchiamento, nessuna tenaglia. Salirono sempre frontalmente, una squadra dopo l’altra, sedici uomini alla volta, e sempre da sinistra a destra. Gli attacchi e i contrattacchi non si contavano più. Squadra per squadra, reparto dopo reparto, di tre compagnie impiegate era rimasta, a sera del secondo giorno, la forza di due sparuti plotoni. La mattina del terzo giorno sbucarono, come da una quinta teatrale, due carri armati tedeschi. Dove s’erano nascosti tutto il resto del tempo e perché non li avevano impiegati prima? Dietro i due carri avanzava, le schiene curve, un plotone d’alpini appiedati. Un plotone dalla forza di una squadra, non più di quindici uomini. Raggiunsero la cima del colle senza che le mitraglie potessero impedirlo, riconquistarono la quota senza sparare un colpo. Poi, più nulla. Il contatto con la linea avversaria si ridusse a brevi scambi di raffiche. Un giorno arrivarono due aerei nemici e mitragliarono. Un altro giorno… Non si sapeva cosa ci fosse davanti, non si sapeva cosa fosse successo alle spalle. Si sentiva, solo, un lontano tambureggiare, come il rumore di un temporale distante, e ficcando gli occhi dentro l’orizzonte, la notte, riuscivi a vedere i fuochi: lì c’era Stalingrado.
[…] La terra bianca che aveva intorno era come un paesaggio di cava rischiarato dalla luna. E pensò che dal lavoro alla guerra non era cambiato nulla, la morte era sempre con lui. E non c’era niente che lo trattenesse, non lo zaino affardellato, non la giubba, non la coperta che si teneva sulla testa, non il fucile, nessuna cosa oltre l’abisso di neve e lo scorcio improvviso del ponte, dritto davanti a lui, che nel chiarore dell’alba si slanciava oltre il nulla. Per la paura sentì i capelli drizzarglisi in testa, ed ebbe la sensazione di poterli contare: a metter giù due passi svelti era troppo, uno era troppo poco, non sapeva più come camminare. Pensò di buttarsi a terra e di staccare le mani dalla coperta, d’infilarle in tasca per mangiare qualcosa. Non c’era luna né stelle, era la neve che, cadendo dalla schiuma del cielo, portava indietro il brillio che rischiarava la notte. Avanzava e teneva d’occhio il tratto di pista che lo separava dal ponte. Ne vedeva i pali di segnalazione, neri, col fascio di paglia legato ognuno alla cima, che simili a un misterioso dispositivo d’aste da pesca semisommerse parevano pronte a scattare, quando la preda fosse risalita, per riempire le reti. A tratti sentiva i piedi che sprofondando sfioravano uno strato più molle, e immaginava qualcosa fuggire con bagliori biancastri; altre volte incespicava sopra un guscio di ghiaccio e le caviglie scartavano come afferrate. Vedeva il ponte che s’avvicinava, e pensava allo strano destino, prima ancora che tragico o beffardo o altro, che lo aveva protetto fin lì. Ed ebbe il vuoto davanti, il ponte sgombro che l’aspettava, e continuò deciso in quella direzione.
Anche senza conoscere la data di nascita di Mariagiorgia Ulbar, che non viene riportata nella terza di copertina, sono certa di non sbagliare attribuendole trent’anni o poco più: e lo faccio con il vago senso di colpa dettatomi dalla mia età, che non è stata capace di assicurare ai giovani come lei più convinte certezze. Perché le poesie qui raccolte esprimono la rassegnazione, l’impotenza, l’impossibilità di progettare un futuro (e non la rabbia, non una più salutare ribellione) di tutta la sua generazione.
Non vorrei dare una lettura sociologica, o solo attenta ai contenuti, dei versi di Mariagiorgia; ma forse è il caso di partire proprio da questa considerazione. La sua scrittura esprime un sofferto, lacerato disorientamento, senz’altro più esistenziale che culturale. Perché i mezzi espressivi ci sono tutti, a iniziare da una tradizione novecentesca – soprattutto mitteleuropea – ben assimilata (da Rilke, con il suo angelo terribile, gli amanti, gli acrobati… fino a Mann), e c’è anche un’evidente sensibilità pittorica (penso ai paesaggi industriali di Sironi, alle marine di Carrà, a qualche incubo magrittiano…) e filmica (Bergman,Truffaut). Troviamo in lei una consapevolezza formale già matura, il dominio di formule retoriche collaudate (anafore, ellissi, sinestesie), l’attenzione descrittiva al paesaggio. Tuttavia, di che paesaggio si tratta?
Marino, soprattutto, o meglio: marittimo. Non spiagge assolate, estati turistiche, tuffi, passeggiate romantiche; ma città costiere (Ancona, Pescara, Livorno, Trieste, Palermo,Venezia…) nei loro porti fumosi, litorali ingombri di rifiuti: raffinerie, piattaforme, lamiere, tubi. “Ciò che lascia fuori la risacca/ gli oggetti strani, dimenticati o rotti/ quello che resta, lo scarto, i pezzi”, “E’ solo acqua ora sopra e sotto/ così non c’è modo di tirare/ su le àncore, sapere/ se è bonaccia o burrasca in queste ore”. “Andrò sul fondo, sulla sabbia/ dove vivono le salme e i relitti”. Se non è marino, il paesaggio diventa campestre, e brullo, desolato, sporco: “Qui mi sporcano la polvere, il catrame/ gli incarti di pasti già mangiati//…la terra, i balsami, le bende”, “Torno dove termina la strada/ dove resta solo il bivio/ dove trovo i calcinacci//…un solco, una crepa”, “asfalti e bar bollenti/ tavoli di plastica rossi e bianco avorio/ con il buco al centro senza ombrello”, “Sotto le rotaie e sotto il fiume/ vivono i topi…”.
Un esterno sempre squallido e minaccioso, da cui bisogna scappare per salvarsi, ma senza sapere dove trovare scampo, in che modo sfuggire a incendi dolosi distruttivi, ricorrenti come incubi, e a scenari di persecuzione bellica: “mettere in un sacchetto il nostro oro/ se dovesse servirci all’improvviso/ per mangiare, lasciare un posto troppo buio,/ salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo/ fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo/ per una indicazione e acqua fredda in cambio”. Il fatto è che Mariagiorgia e la sua generazione, una guerra non l’hanno mai vissuta (“e a noi è mancata una guerra/ mondiale, ti ho detto all’improvviso”): le loro catastrofi, le tragedie e i terremoti sono sempre individuali, mai collettivi, e assumono dimensioni squassanti da cui non ci si può, o non ci si sa, difendere (“noi siamo quelli che non disturbano mai”).
Per questo il j’accuse silenzioso e tanto più doloroso e ricattante verso la generazione matura diventa nei versi pesantissimo, quasi insostenibile: riflettendo però anche un’implorante richiesta di aiuto, come nell’intensa sezione “Mio padre era un re”, in cui l’autrice supplica regole e indicazioni, un appoggio sicuro, un insegnamento severo e illuminante per riuscire a resistere, per non soccombere di fronte all’indifferenza crudele della vita: “Di metodo ho bisogno per passare,/ di metodo, di ordine, così invoco”. Il padre tace, i padri tacciono, e Mariagiorgia Ulbar diventa portavoce di una collettività letteraria giovane, spaesata, intimorita ma solidale e affine anche nella scelta dello stile poetico, intimista, mai urlato, più consapevole di memorie che desideroso di futuro: “I cani andavano felici sulle spiagge,/ io in ultima carrozza/ col futuro alle mie spalle, dove vado/ mentre guardo le rotaie del passato/ che si allontanano.”
L’Atlante delle isole remote di Judith Schalansky (edito da poco nell’edizione tascabile per i tipi di Bompiani, trad. di Francesca Gabelli) è un elegante e smilzo libro per pigri. Per chi ama guardare i paesaggi senza contaminarli con la propria presenza, per chi considera oltraggioso quanto non è contemplazione; un libro per i meditatori di carte geografiche.
Da qualche anno, per una serie di fortunate coincidenze, mi capita di passare i miei inverni su di un’isola minuscola e introversa collegata da un ponticello a un’altra isola, ancora più piccola, dal nome invitante, che ricorda la vita e il vivario delle intelligenze e dei conigli. Per mesi ho visto questa ulteriore isola dalla mia finestra, illuminata dalla differente luce dell’autunno, dell’inverno e della primavera, spesso sovrastata da Venere. Questo Atlante è un libro per me che non ho mai avuto il desiderio di superare quel ponticello, appagandomi di contemplare il dorso della piccola isola proibita, la dolcezza della sua baia che ricorda a chi la guarda il cratere del vulcano che vive sotto quelle stesse acque dove d’estate è quasi impossibile fare il bagno a causa della folla di villeggianti.
L’Atlante delle Cinquanta isole dove sono mai stata e mai andrò, come dice l’autrice nel sottotitolo del volume, è appunto un libro per contemplatori e pensosi solitari. Ed è un vero atlante, con tanto di cartine e indicazioni geografiche, gradi, meridiani e paralleli, ma è soprattutto un atlante culturale perché ogni isola è depositaria di una storia, di una parabola, di una distanza, di una mistificazione. C’è naturalmente Sant’Elena, ultima minuscola dimora dell’imperatore del mondo, dell’isolano cafone, di oscura origine, che volle farsi re di un continente intero, il còrso che passò scapigliato il ponte d’Arcole per poi incoronarsi, dopo una visita dal barbiere, davanti al pontefice e a una aristocrazia da lui creata. E poi c’è l’Isla Robinson Crusoe che, impariamo da questo volume, dista 630 chilometri dalle coste cilene – sì, le distanze vengono indicate in chilometri, anche se sarebbe più opportuno indicarle in miglia marine: questa è forse l’unica pecca del volume, ma un miglio marino corrisponde a 1.852 metri, basta farsi due conti. L’isola dell’inesistente Robinson è in realtà l’isola dove naufragò Alexander Selkirk, il vero marinaio scomparso che visse perduto su questo scoglio di quasi 97 km2, oggi popolato da 633 abitanti, con un atteggiamento ben diverso dal suo fantasma letterario. Se la godette in quell’altrove senza regole e convenzioni; oziò, rispettò la domenica, e scrisse un diario, che secondo l’autrice è naufragato fra le carte della Biblioteca statale di Berlino, ed è oggi introvabile.
E poi ci sono le isole non fatte per l’uomo, come St. Kilda, al largo delle coste scozzesi, dove per secoli i bambini appena nati morirono misteriosamente, senza che mai si sia potuta trovare una spiegazione. E adesso l’isola è disabitata, a differenza di Pitcairin, francobollo britannico di 4,3 km2 sperduto nell’Oceano Pacifico, dove i discendenti degli ammutinati del Bounty per secoli hanno continuato a violentare donne e bambini, rivendicando quei gesti come diritti consuetudinari ereditati dai loro padri. La natura non è buona, e tanto meno l’uomo. Una ulteriore conferma viene dall’isola di Saint Paul, 7 km2 a 3.000 chilometri di distanza dalle Antille; gli inglesi che vi sbarcarono nel 1875 trovarono solo due uomini: il governatore e il suddito, e sepolti nella loro baracca i resti del mulatto, che forse i due avevano divorato senza pietà né cattiveria. Un dramma beckettiano sperduto in quell’orizzonte assolato, nei deserti dell’Oceano Indiano. E poi ancora isole, e ancora storie, orizzonti, domande, utopie polverizzate e aspirazioni struggenti e irrealizzate a cui aggiungere, a matita, l’isola delle isole: Ferdinandea, l’effimera e scontrosa che emerse nel 1831 nel canale di Sicilia, prima di tornare nelle profondità di quelle acque alla fine dell’anno successivo, dando giusto il tempo alle diplomazie francesi, inglesi e borboniche di rivendicarne il possesso.
Alla fine della lettura, sfogliando nuovamente il volume, senza ordine, per vedere le isole, inseguirne con lo sguardo i contorni frastagliati, il succedersi delle alture, l’irregolarità delle baie e la bellezza degli atolli, di quel vuoto di mare con attorno barriere di coralli e madrepore, si sospetta un senso ulteriore e profondo del libro. Ma non nella bellezza della riproduzione topografica che occupa la pagina destra del volume, dell’isola riprodotta al centro di un mare color carta da zucchero, bensì nel minuscolo planisfero che introduce, stavolta sulla pagina di sinistra, in alto, sul bordo destro del foglio, la nuova isola descritta. In quella minuscola riproduzione del mondo, grande quanto una moneta da cinque centesimi, è sempre l’isoletta remota a occupare il centro della scena, sempre circondata dalla mastodontica massa dei continenti, i quali se ne stanno ai bordi, come presenze boriose e incombenti, eppure periferiche e inessenziali. Perché se è vero che negli atlanti che si rispettino le piccole isole sono indicate appena quali note a piè di pagina, cacche di mosca in riguardi separati, riprodotte con scale differenti rispetto alla madrepatria, perché troppo piccole per la scala dei giganti del pianeta; se è vero, insomma, che negli atlanti compiaciuti, compilati con severa precisione da cartografi militari, quelle isole rappresentano l’inessenziale se non l’inutile, qui occupano invece il centro della scena. Sono l’ombelico del mondo, Te pit o te Henua, come gli antichi abitatori di Rapa Nui chiamavano quell’isola che per noi occidentali prende il nome dal giorno in cui fu scoperta: l’isola di Pasqua, che dista dalle coste cilene il doppio della distanza che separa la mia casa napoletana dalla porta di Brandeburgo (ma in questo volume scopriamo che esiste anche un’Isola di Natale, che non è lontana da Java e non è popolata da renne, ma da granchi sessualmente maturi che cercano di raggiungere il mare, mentre eserciti di formiche impazzite tentano di impedirglielo).
Una terra sferica, irregolare, scabrosa come un geoide informe (forse più simile a una pera che a una palla da calcio) possiede infiniti centri, a seconda dei punti di osservazione, e da ciascuno di questi punti di osservazione, remoti e secondari, il mondo cambia, investito da uno sguardo diverso da quello totalizzante dei grandi centri. Leggendo questa raccolta di cinquanta apologhi su altrettanti luoghi irrilevanti, sentiamo che ogni punto smarrito nello spazio è il centro verso cui convergono tutte le storie del mondo; che il nostro passaggio su questo pianeta, anche lui inessenziale, è in bilico nella tensione di un’esistenza strabica e bifocale che ci tiene in ogni momento al centro e in periferia, nell’occhio del ciclone e lontano da tutto. Travolti nel naufragio delle cose e accolti nella tranquillità domestica in cui si può leggere questo strepitoso Atlante. Ci dice, questo libro smilzo di una designer trentenne nata in un paese che le carte non riportano più (la DDR), che non esistono gerarchie geografiche e quindi culturali, che siamo sempre lontani dalla meta e coi piedi alla fine del cammino. Che vicino e distante sono concetti ambigui e problematici: la bussola delle grandi narrazioni è saltata, le ideologie non stringono più l’irregolarità del paesaggio come meridiani e paralleli, ma in questa difficoltà a dire dove siamo resiste una più profonda libertà di quella del secolo che ci ha preceduto: una libertà dell’imprecisione che suggerisce un’etica del disorientamento ma non dello smarrimento. Un’etica che ci porta a scegliere volta per volta, sulla base della bussola incerta della coscienza, cosa fare, quale scelta intraprendere, verso quali lidi andare. Le luci del porto sono effimere e lontane, ingannevoli e fantasmatiche, esiste solo la navigazione e proprio la navigazione, se si hanno il coraggio e l’incoscienza di considerare le cose senza angoscia, potrebbe essere il seme della felicità.
Ho appena finito di leggere Vado a vedere se di là è meglio, di Francesco M. Cataluccio.[1] Per chi ha fatto certi viaggi oltrecortina a una certa età, e ama la letteratura dei paesi slavi, è una lettura non solo piacevole ma direi indispensabile. Nel 1977, poco più che ventenne, Cataluccio se ne andò a studiare filosofia a Varsavia. Era l’inizio di un amore per la Polonia che col tempo ha reso Cataluccio uno dei conoscitori più fini e sensibili in Italia della storia, della cultura e della letteratura di quel paese. Non se n’è servito per una carriera accademica, il che torna a suo merito, ma piuttosto per portare da noi come traduttore e curatore quanto di buono si è scritto e pensato laggiù negli ultimi cento anni.
Sembrano nascere da una giustificata urgenza gli splendidi Racconti Partigiani di Giacomo Verri (Biblioteca dell’Immagine): dalla necessità di ribadire importanza e attualità della Resistenza in questi nostri tempi fluidi, oscurati da perdita di lucidità di giudizio e minacciati da rigurgiti di revisionismo storico. Non venga posta una pietra sopra al periodo partigiano, pare voglia dire questo libro, né vengano appiattiti in una sequela di aridi elenchi di gesta più o meno vittoriose le speranze, gli slanci umani, il pulsare di vita di quegli anni.
Sarebbe sufficiente questo voler onorare la dignità di un passato ancora recente e l’intento dell’autore di consegnarle spazio nel presente e nel tempo a venire a giustificare la lettura di questi brevi e preziosi racconti. Ma qui c’è di più: all’afflato civile si somma in Verri la meraviglia di una cifra stilistica personalissima, che lo conferma “una delle voci più originali del nuovo millennio” per usare le parole di Francesco Permunian nella prefazione al volume.
Come già nel precedente Partigiano Inverno (Nutrimenti), finalista al Premio Calvino 2011, è proprio nella cura del linguaggio che il giovane scrittore piemontese giganteggia: nella scelta della parola precisa con cui ci racconta stavolta otto piccole ma immense storie di partigiani dai nomi di battaglia luminosi: Urlo, Foscolo, Mirto, Manta. Uomini colti non nell’attimo in cui infuria la battaglia, ma nell’istante immediatamente successivo: quello colmo di uno sgomento tutto nuovo, tra l’incapacità di cogliere a pieno quanto è stato e l’impossibilità di comprendere in un unico sguardo ciò che di lì a poco sarà, nella Storia che preme e il cui corso va comunque delineato. Qualcosa di definitivo, in Piemonte dove sono ambientati così come tutta Italia, è accaduto:
“A Borgosesia, c’era un’aria completa e odorosa che non la vedi neppure per la Madonna a maggio: le donne grembiulate mollavano a metà quante faccende avevano, le case si vuotavano, mentre gli uomini ancora col Novantuno, ma come per celia, passavano le maniche di portici ridendo. Io il fucile l’ho posato all’ora di pranzo e poi tutto è finito”.
Passati ormai definitivamente i mesi di “stupende follie e coraggi e triboli e privazioni” cosa ci sarà? E’ una perdita di identità collettiva e del singolo quella che va affrontata: e che impaurisce.
“Paura nasceva in quelli che avrebbero faticato a smettere gli abiti ribelli, in quelli che avrebbero tribulato a tornare in fabbrica o in ufficio o agli studi, perché fare i partigiani, te lo assicuro, significava essere sempre in pari con se stessi, e mai di meno, per l’eccesso di volontà che ci teneva vivi, e mai di più, perché non ce n’era modo. Così in piazza, come ti ho detto, giravano i balli e i canti, i caffè mettevano fuori i tavoli col vino. Tantissimi uomini baciavano tantissime donne. Si urlava, si stringevano le mani e ci si avvolgeva negli abbracci amati e, a chi quel giorno era ancora lontano, si spedivano biglietti di gioia indivisa”.
Cosa seguirà dunque a questa ebbrezza collettiva? Giacomo Verri, che è scrittore serio, non indossa le veste di sociologo a basso prezzo e facile presa popolare: l’analisi del momento storico, meglio ancora, la sua precisa fotografia, c’è, ma rimane volutamente sullo sfondo.
In primo piano il sospeso, la moltitudine del possibile.
Un possibile che in uno scrittore del nitore di Verri passa necessariamente anche per la parola e la scrittura, per il suo ruolo fondamentale ed edificante che fa ribadire a un personaggio:
“…Di nuovo gli si imponevano alla mente i libri che erano gli unici a dire, dopo mille anni, o due o tre, il sangue con cui si sporcarono altri altari, e come, e quanto, e quando. Dunque, rifletteva, le guerre vanno fatte per scrivere dei libri, perché ogni libro porta a nuove posizioni sulla scacchiera dell’esistenza, e a scoprire inedite connessioni nel mondo”.
Eppure sono tutto fuorché libreschi, i partigiani di Verri: sono uomini e donne sanguigni e leali, “attenti, ammirati, fiduciosi nella gloria ventura, accalorati, eccitati, coi sorrisi attorno ai denti stretti, percorsi da forze sotterranee”: uomini capaci di grandi amicizie, e amori, e fede, e anche parole, parole a infiammare gli animi, parole importanti, con una morale propria, vera, lontana dalla facile retorica di propaganda.
E’ un’epopea umanissima, quella che Giacomo Verri narra, e del fondato timore di un suo parziale oblio o misconoscimento: meraviglioso e straziante, tra gli altri, il racconto “Parlo di Boezio”, dell’incontro con chi fu “partigiano di tante battaglie, ferito in quattro scontri. Anche alla coscia, una volta, quando diede sangue a mestoli sulla neve candida e alta come barili e si fasciò con un pezzo di tela di paracadute. Un male da strappare Dio dalle nuvole coi denti.” Che lo fece bestemmiare “tenacemente tra gli sputi di una saliva schifosa che sapeva di letto d’ospedale e di zinco”. Ce l’aveva fatta, poi, Boezio. Ma fatta a fare cosa? E a quale scopo?
Il narratore lo ritrova negli anni Novanta in fila alla posta, il vecchio eroe, tra una indifferenza che raggela: l’impiegata, come chiunque lo circonda – gli altri utenti frettolosi, perfino la famiglia stessa – gli negano qualunque identità, non riconoscendone splendori passati, né un nuovo ruolo nel mondo. Quasi fosse un peso, il detentore di un lingua ormai morta, di nostalgie di scarsa comprensibilità.
E invece Boezio è figura paradigmatica: se come per gli altri ormai ex-eroi “la storia per lui andava dal quarantatré al quarantacinque. Il resto era una postilla”, è nel riscatto fiero dell’uscita dall’ufficio postale al finale del racconto che ne rivediamo il partigiano che era stato e che sempre sarà, riconoscendone grandezza e valore: “Salutò, anche se non conosceva nessuno, sventolando la mano in alto, dando le spalle a tutti quanti”.
La scrittura di Giacomo Verri non ha mai un cedimento e trova anche negli altri racconti giusta misura nel contrapporre in rapporto dialettico la gioventù di passione, “del sudore, della paura, della rabbia”, di raffiche di fucile seguite da silenzio “completo, perfetto, come se avessero appena finito di crearlo” e un presente fatto di poveri corpi:
“Ora Enrico osserva il nonno, e poi il bicchiere smorto e drappeggiato di salive dov’era l’acqua che il vecchio ha appena tracannato. Ancora di più si sente le mani sporche, di una sozzura appiccicosa e stratificata, sporco su sporco, che sa anche di infetto e di stagnante, sì, il nonno sta stagnando lì, la sua vita è tutta nel rettangolo del materasso, inchiodata tra un pannolone e le piaghe da decubito che gli mangiano la pelle gialla. Poi guarda il quaderno, Enrico, e non ha dubbi: è in quella stanza solo per sentire ciò che esce dalle righe ben fatte degli appunti partigiani del vecchio”.
Un vecchio che continua ad illuminarsi nel parlare del “comandante Urlo, campione dei garibaldini”, colui che in un codice di comportamento non scritto ed esemplare, di rispetto del singolo fino all’ultimo sottoposto, “di ogni uomo della brigata ricordava il numero di scarpa, anche il nome della mamma, del papà e della morosa”.
Verri, infine, esce dai rigorosi, tradizionali margini della letteratura sul periodo partigiano, perché la storia resistenziale, a ben vedere, passa anche per protagonisti involontari, solo apparentemente marginali. E ci consegna tra gli altri il delicato e singolare racconto di Sebastiano, protagonista novenne di “Vene sottili e petali di rosa”, destinato a una iniziazione alla vita cruda e indimenticabile.
C’è molto Fenoglio, in questa raccolta, per ammissione stessa dell’autore, che ha deciso di chiuderla perciò con un’intervista impossibile proprio al suo “nume tutelare”: un colloquio che chiude perfettamente il cerchio, non facendosi facile divertissement fine a se stesso, che comprende invece piccole pagine illuminanti su quello che è, in fondo, il significato vero di questo libro: “cogliere, oggi, la memoria spoglia e confidenziale della Resistenza”.
Attraversi rapidamente il viale alberato che costeggia il Castello, stai andando in Centro, nella piccola parte resuscitata, sfili Porta Castello e parcheggi l’auto su Via Castello. Se non fosse per l’intensità d’azzurro del cielo di questi giorni che attira i tuoi occhi, forse, non ci avresti fatto neanche caso per la fretta che hai di solito quando esci, e da quanto tempo sono lì affissi quei cosi, è la prima domanda che ti poni.
150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. Quindi: cominciamo! (NDF)
di Corrado Premuda
Non sapevo ancora leggere ma riconoscevo i libri dal dorso. Per dire la verità riuscivo a leggere lentamente alcune parole, come tutti i bambini che hanno imparato da poco, ma preferivo di gran lunga ascoltare le storie che mi venivano lette, guardando le pagine per gustare le immagini, i titoli in grassetto e l’avventuroso sfogliare della carta. Il libro di “Alice” era facilissimo da individuare nello scaffale: aveva un dorso più grosso degli altri (perché conteneva anche “Attraverso lo specchio”) e in copertina campeggiava la testa di un enorme leone che, felinamente infastidito, scrutava una leggiadra Alice in primo piano che portava un vassoio.
Ogni volta mi domandavo cosa c’entrasse un leone nella storia. Ma di quella domanda mi dimenticavo presto quando mio padre selezionava un punto del libro e cominciava a leggere. A lui “Alice” piaceva molto. Probabilmente erano i tanti piani di lettura ad affascinarlo e il nonsense della narrazione; ma di certo subiva il fascino della costruzione matematica del testo, dei riferimenti all’antimateria e alle teorie della fisica, delle possibili conseguenze dell’inversione temporale. Essendo una storia lunga e complessa, non me l’ha mai letta tutta: di volta in volta sceglieva un pezzo, ispirato da un personaggio, dal titolo di un capitolo, o dall’illustrazione che per prima colpiva la mia attenzione.
Seratinava e patti e pipistrani sfarfagliando succhievano i tresetti, sbufulavano tutti i baffigiani, e stralunavan druci fra vottetti. «Guardati, figlio mio, dal Giabbervocco, che t’azzanna e t’artiglia atrocemente! …»
Questo è il punto del libro che amavamo maggiormente. È nel primo capitolo della seconda parte: nella Casa dello Specchio tutto funziona al contrario, anche la poesia che Alice sbircia nel libro è scritta con le lettere poste in modo speculare.
Nell’adattamento italiano di Alessandra Schiaffonati (autrice della traduzione integrale del testo di Carroll per le Edizioni Accademia, 1976), i neologismi sincratici di questa celebre poesia sono evocativi e spiritosi e io li trovavo, da bambino, proprio avvincenti. «Cosa vuol dire seratinava?», domandavo a mio padre. «Cosa sono i pipistrani e i baffigiani?» Lui rispondeva con calma, mescolando le informazioni che aveva letto nel romanzo con delle deduzioni logiche: «Seratinava significa che stava scendendo la sera. I pipistrani sono dei pipistrelli strani, i patti assomigliano ai tassi, mentre i baffigiani sono uccelli molto magri, col becco all’incontrario e grandi baffi. Sfarfagliare vuol dire volteggiare come una farfalla e sbufulare invece è sbuffare ululando…»
La parola che in assoluto piaceva di più a mio padre era Giabbervocco (il mitico Jabberwock nell’originale). Carroll, quando lo fa descrivere ad Alice alla presenza del saccente Humpty Dumpty, ne parla come di “una specie di drago al giulebbe con l’aggiunta di un po’ di mucca maschio”. Quel mostro ridicolo, che nel corso della poesia viene vinto e ucciso, colpiva a tal punto la fantasia di mio padre che, complice la sua autoironia, “Giabbervocco” era il soprannome che si era scelto. Parlare di sé come di un drago sfortunato lo divertiva molto, e per me lui era diventato, a quei tempi, il Giabbervocco.
In genere ricordo che gli adulti tendevano a correggere le mie storpiature nell’uso della lingua. Anche mio padre lo faceva ma ogni tanto assecondava la mia voglia di inventare parole. Lui era l’unico che mi leggesse “Alice” e si perdesse insieme a me nei meandri insidiosi e affascinanti di quel mondo assurdo governato da regole illogiche o buffe e da personaggi che nella maggior parte dei casi non hanno, agli occhi degli adulti, molte caratteristiche edificanti.
Io amavo farmi condurre da lui tra le spiazzanti filastrocche. Le porte dietro cui si muove Alice e che varca, dopo aver tentato di curiosare dal buco della serratura cambiando nel frattempo la sua taglia e diventando minuscola e gigante, erano come le porte con doppie maniglie – una ad altezza di adulto e una ad altezza di bimbo – della mia scuola materna alle quali mi accostavo sempre con trepidazione se ero da solo, sperando e temendo che dall’altra parte si aprisse un altro mondo.
Storpiare i nomi, o inventarne di nuovi, era diventato uno dei miei giochi preferiti. Le storie che inventavo, e che qualche anno dopo avrei cominciato a scrivere sotto forma di temi non sempre apprezzati dalla maestra, erano popolati da pentole e suppellettili di cucina che si animano e preparano il pranzo da sole, o da lumache combina-guai e pigri vermi con bombetta e sigaretta impegnati in avventure da giardino.
A causa del Giabbervocco e di quel promettente “Seratinava…” è l’aspetto linguistico in “Alice” quello che preferisco. Lei pone un sacco di domande ai diversi personaggi che incontra: quasi mai le risposte soddisfano davvero la protagonista, e il lettore. E allora a quelle domande Alice dà una sua interpretazione, e così fa il lettore. Che grande libertà, per un bambino, inciampare in un libro così e trovare un adulto che lo accompagna nel suo salto nel buco. “Alice” è un testo che va letto ad alta voce, magari coinvolgendo generazioni diverse, perché, nella condivisione, i giochi logici e verbali e le innumerevoli sorprese della lingua svelano con ironia le assurdità e le incoerenze della vita adulta. Questa scoperta avviene proprio grazie alla protagonista, dotata di quella capacità, tipica dei bambini, di osservare la realtà con perfetto candore.
La “budesprussione” è un male leggero, un’indisposizione, mentre la “slozia” è una forma di pigrizia cronica, la voglia di non fare niente. Ecco due neologismi inventati da mio padre per minimizzare i miei capricci infantili; qualche anno fa ho deliberatamente rubato queste due parole, e tutto il bagaglio di implicazioni personali che comportano per me, per inserirle in un romanzo (dal titolo eloquente: “Prematurità”). La lettura di “Alice” è una palestra per la creatività, diventando compagni di gioco della protagonista è inevitabile farsi prendere dall’entusiasmo di donare un nuovo nome alle cose: chi è che azzecca il termine più calzante? Non ha importanza, tanto come nella corsa di comitiva, non c’è un solo vincitore: vincono tutti. Di recente ho tradotto dal francese un romanzo surreale e fantastico scritto dall’artista Leonor Fini, Murmur. Fiaba per bambini pelosi, e per trasformare in italiano alcuni giochi di parole e rendere al meglio certi nomi inventati sono ricorso a quel laboratorio costante di scrittura creativa che sono le avventure di Alice con il prezioso carico di immagini identiche e diverse della realtà.
Forse per sdebitarmi del regalo ricevuto da mio padre quando ero piccolo, ho cominciato a regalargli, in occasione delle classiche feste del calendario, edizioni insolite e originali del libro di Lewis Carroll. L’ultima versione in ordine di tempo è illustrata da Tove Jansson, la mamma di Mumin, altra grande passione che mio padre è riuscito, senza fatica, a trasmettermi. Mio padre, il Giabbervocco.
(ma anche a Pippo D.B. e a Francesco D.B., con un grande augurio)
Naturalmente ben scrivere non vuol dire scrivere bene, e anzi equivale piuttosto (può equivalere, nei fatti finisce per equivalere, molti esempi dimostrano che nei fatti equivale) a scrivere male, o anche molto male. Parlo beninteso dell’italiano, lingua che lascia libertà infinitamente più grandi di tante altre, meno normalizzata e meno normativa, meno letterariamente irrigimentata, ma anche ben più corrotta da un autoctono conformismo, e provo a spiegarmi utilizzando la mia esperienza personale.
Terra [notoriamente] di confine. Il lotto sul confine di tre comuni contigui. La struttura sul confine del lotto. Residuale. A ridosso di due noci floridi. Necessari a fare schermo alle impurità.
Una zattera triangolare nel vuoto scabro. La zattera di Saramago: dov’è la frontiera? chiede. Intorno due strade si intersecano sotto gli occhi di un’aquila di gesso montata sui piantoni di un cancello. Una generale sensazione di straniamento rende ogni angolo di questo mondo residuale.
Si arriva superando un cavalcavia. Dalla sommità i tetti bassi delle case si distendono come gramigna in un campo di stoppie. Il piazzale porta i segni dell’asfalto tagliato e rappezzato. Le macchine lasciano una scia di terra secca.
Ma se immetti qualcosa che rompa la continuità. Come una forma di Boccioni. La continuità dello spazio. Un punto che metta alla prova la realtà. Una perturbazione come una nube nera nel cerchio dell’orizzonte. Se fai questo, stai fondando un piccolo lembo di diversità. Le geometrie ruotano. Come in cammino
E nella controra di una giornata assolata quattro ragazze passeggiano e poi siedono sulle panchine alla base del totem. Una si distende e guarda in cielo. Con un che di perplesso nello sguardo. Un vecchio in bicicletta rallenta e poi si ferma. Il colore del giorno diventa indaco e di colpo cede la propria indolente saturazione al buio. Allora irrompe la luce della scatola bianca in cima. Due giovani si preparano per la corsa allungando i muscoli sulle stesse panchine. Il cielo si schiera per la battaglia. I lampioni brillano come occasionali stelle artificiali. Un cane fulvo entra nel recinto e si accuccia a ridosso della parete di cemento. Hanno già rubato i faretti. Ma l’uomo li ha rimessi.
I confini (questi confini) sono idoli svuotati. Una indistinta continua sequenza dello stesso racconto. Ma servono. A te servono. A farti stare dall’altra parte.
Non credo che cambi qualcosa. Una piccola cosa così. Ma forse un seme. Nel territorio. O in un te ostinato. O nel tuo ridotto intorno di persone e cose. Non importa dove. È tutto quello che può fare una piccola insignificante cosa. Ma solo questo e non sai se può bastare.
maggio 2015
Le fotografie sono di Luigi Spina che da anni fotografa le mie cose. Ormai non c’è bisogno neanche di raccontare intenzionalità e aspettative. Ma con Luigi e Serenella condividiamo la stessa temperie dell’appartenenza ai luoghi.
2. bene comune
La scala condominiale. Che nella cultura di questa terra egoista non è di nessuno. Certamente non è mia. Può andare affanculo. Come i marciapiedi. Le strade. Gli androni. Le aiuole. Ogni cosa che è al di là della soglia di casa. Ho seguito una bottiglia di plastica calpestata e gettata davanti all’ingresso del mio vicino. È stata lì per giorni. L’ho tolta io.
Luigi e Serenella hanno messo i guanti. Incartato. Scorticato la vernice. Mi dice Luigi che non si toccava da sessanta anni. Poi hanno tolto la ruggine. Con il trapano. La carta abrasiva. Il bisturi, nei punti difficili. Poi hanno lavato e spennellato con il ferox e l’antiruggine. Infine hanno pittato. Si sono distesi sui gradini. Hanno lavorato accovacciati. O in piedi. Con il mal di schiena. Mettono alla prova la realtà.
La luce entra dai finestroni. Un occhio spalancato dalla città al dentro. Proietta ombre sui muri impastati di fuliggine. Striati dalle acque che hanno scorso da anni oltre la soglia. Adagiate come i fili piangentidel salice. Sui lacerti di intonaco mai rifinito. Sui buchi e le crepe. Sui rigonfiamenti. E le screpolature. Si accende dove le riggiole hanno conservato un’antica lucentezza. Indugia sugli spessori delle murature. Scardina le sue ombre. È la luce giusta. Non enfatica. Non ha niente da celebrare. Livida. Scultorea. È la luce del teatro di Eduardo. Delle scale di Ferdinando Sanfelice. Ma ogni cosa sparisce. Ogni superflua cosa della mente. Questa luce mascolina investe l’anima. Denuda gli stati dell’emozione. Gli umori. E basta. Restano i movimenti concentrati delle mani. Gli sguardi assorti. Il silenzio delle parole non dette. Niente più. Il barattolo di vernice. Il cavo elettrico. Il punteruolo. Sarà una piccolissima insignificante nascosta molecola di mondo restituita. Ma mondo, che altro se no?
È un lavoro.
aprile 2015
Occorre trattare con le istituzioni per modificare i luoghi. Tutta l’area è residuale. E non è chiara la proprietà tra Comune e Acquedotto. Ci stiamo provando.
3. Disegni
Al bene comune non posso offrire che un disegno.
Ma il disegno di architettura ha un che di speciale. È una credibile prefigurazione di realtà modificata. E vive. Appena disvelato sul foglio già esiste. Oltre la sponda del fiume dove scorre la sequenza di un’altra possibilità di vita. I pensieri degli uomini atterrano lì nella trama delle cose che avresti potuto fare. In quel preciso istante se avessi svoltato dall’altra parte. O se avessi detto o non detto quella parola. E seduto nell’angolo del proprio quasi-nulla[unica condizione di silenzio da dove puoi traguardare l’oltre] stai lì a guardare il canzoniere di una vita. E ti sembra vera. Più vera di questa in cui sei immerso.
Una finzione così è tanto distante dal mondo reale da poter vivere di una propria autonoma realtà. È narrazione. Nessuno sceglie gli argomenti. Ma ognuno è scelto da essi. Sono i demoni. Tutto ciò che stride con la realtà. Tanto da volerne rifondare un pezzo. Rimontando gli stessi pezzi nella prospettiva di una ricomposizione.
Qui la realtà stridente è un atlante di trame interrotte. Nel concreto, luoghi bisognosi di cura. Ma un posto è un’altra cosa dopo che è passato nel disegno. Non puoi tornare indietro e ignorare la vocazione alla trasformazione. La sottotraccia dell’idea che lo ha attraversato. I materiali. I colori. I profumi. La promessa del riscatto.
Posso dire così. Che se c’è un’anima in ogni schifoso lembo di luogo puoi disvelarla. Ci puoi mettere un’ora o una vita ma alla fine ce la fai. Ma ne puoi restare prigioniero. Nel senso che ti accontenti e non vai oltre. Perché ci stai bene a tu per tu con l’altra storia che ti scorre davanti. Puoi persino scoprire che vuoi farti imprigionare.
«Una fosforescenza che corre», secondo Jean Cocteau, un autore dotato di uno stile «grasso e morbido, con qualcosa di monacale», per Jean Paulhan; ma anche «uno con l’aria di un clown, o di un prete spretato», nelle parole di Henry Miller.
Charles-Albert Cingria nacque a Ginevra nel 1883 da genitori le cui origini si snodavano attraverso vari paesi: «Io non sono svizzero – diceva -, sono di Costantinopoli, cioè italo-franco-levantino»; il padre era un «falso turco», la madre franco-polacca, la famiglia proveniva dalla Ragusa dalmata, repubblica filiale di Venezia.
Umbratile e libertino, nottambulo e mistico, iconoclasta e vagabondo, Cingria, sempre catalogato fra gli inclassables della letteratura francofona, è un autore semisconosciuto in Italia; l’unica sua opera tradotta in italiano è Gocciole alpine, edita da Tararà nel 2003 a cura di Cristina Costantini e considerata da Cocteau un capolavoro.
La Grande Ourse è un racconto lungo pubblicato per la prima volta da Gallimard nel 2000.
Poiché il manoscritto non è mai stato ritrovato, è impossibile stabilirne la data esatta, tuttavia si suppone che Cingria lo abbia scritto tra il 1927 e il 1929, per affinità con altri suoi lavori quali Les Autobiographies de Brunon Pomposo e il già citato Pendeloques alpestres, datati rispettivamente 1928 e 1929. L’edizione Gallimard si basa sul dattiloscritto che si trova presso la Fondation Bodmer di Cologny, vicino Ginevra.
Si tratta di una eccentrica composizione di frammenti, ricordi, pensieri e memorie di viaggio: dalla Costantinopoli d’infanzia alla Berna che festeggia il centenario di Beethoven, da Lucerna a Saigon, tra apparizioni di fantasmi, considerazioni filosofiche sull’autenticità e tabelle disegnate in cui sfoggia la sua precisione nella contabilità di una società che gestisce risciò, il narratore finisce, dopo sei anni di flânerie, col trovare la fede in un santuario del Cristo Re.
Attraverso quella che è stata definita una fiction démantibulée, cioè squinternata, fatta di digressioni e immagini di sogni, Cingria tenta di trascendere il quotidiano ed elevare l’ordinario a metafisico; come ha osservato Fabrice Gabriel, l’autore «trasforma la realtà in ciò che dovrebbe essere: un libro di metamorfosi».
Propongo qui di seguito la traduzione delle prime pagine.
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L’Orsa maggiore
« Tutto il cembalo ma piano »1
– Beethoven
Quel grosso violino color pulce non è perfettamente al centro. È voluto: è una legge astronomica.
L’eccesso del nostro sordo lirismo è a due battenti. Sono l’Imperatore su una semplice sedia, in abito da città. Il Papa passa dalle prese al Concilio.
Tutti gli scanni sono soltanto semplici sgabelli o semplici banchi rivestiti.
La corte è piena di giovani che scalpitano – rinforzano le lance -, il cuore denso come il firmamento d’estate.
Il selciato è ordinario, già come quello della strada che ci sarà.
Un cardinale di tufo parla in greco a un busto. Il naso di un busto cade. Dei pavoni battono i minuti.
Andiamo!
Dopo aver cercato a lungo, nei miei primissimi anni, quale potesse essere il tempio dell’autenticità occidentale, non ero riuscito a capire che una lira non è quel gesso dai contorni di polvere che sporge da una statua e che i discepoli dei pittori imitano nel tratto pensando che un giorno, forse, andranno in Italia.
Avevo ingerito ogni falsa disciplina – discipline del visivo – e subìto una spinta alla durezza. Facevo dell’ironia stupida e, io che sono tutt’altro, mi abbandonavo a tutte le malvagità dello spirito. Soltanto dopo – non racconterò di quegli inutili viaggi al sole in cui mi anemizzai il cervello – capii che bisognava chiudere gli occhi e aprirli soltanto dopo aver dato ascolto alla mia bontà originale.
Una lira non ha altra forma prima di quella che ci manifesta; non vuole altro cielo prima di quello che crea; è come il nostro vestito dal colore sobrio, che ci piace perché è utile, ma soprattutto perché è decoroso. Un violino è attuale e decoroso. Ha un passato ma è antiarcheologico – questo è importante – perché, dietro un aspetto sobrio, non è un’evoluzione ma un essere e, come dire, una presenza reale. Lo amiamo allora come un pittore quando desidera dipingere (quando non può far altro che dipingere). Quel legno che suona, e su cui la pittura è utile, è insuperabilmente scelto e ben scavato, e trascina gli dèi senza che ci sia bisogno che questi ultimi abbiano dei nomi; subito, dovunque, quando l’archetto nuota; e allora quanto ci si conosce meglio, non è vero, fratelli miei: non tutti (non i malvagi), ma voi che avete questi posti.
La tartaruga, che noia a pensarci! E anche quella favola di Mercurio e di una caverna e di Giove e i suoi buoi. Lì c’è davvero di che morire, e bisogna vivere. Ma il violino è così senza pensarci: una presenza dall’aspetto sobrio. Apollo viaggia in incognito. Una mano è in contatto col fuoco centrale e tutto il delirio delle stelle. Sotto (che importa questa redingote da pazzo) c’è un cuore torrenziale.
Voglio soltanto una cravatta bianca e una bombetta, e camminare a piccoli passi senza preoccuparmi di niente. Sono un signore. Voglio passare il più inosservato possibile. E soprattutto non voglio che si dica di me che ho del brio, né che mi paragonino a chi ha o non ha brio (me ne frego del brio). Piuttosto: essere perfettamente decoroso; dire scusi quando si sale sul tram; essere serio; ridere soltanto in rarissime occasioni; articolare sempre soltanto cose intere; non dire nulla d’inesatto; essere morale e molto fermo. Tacere? No, perché se è sistematico, diventa, in compagnia di gente senza ritegno, una grossissima impertinenza. Al contrario, parlare, ma con misura e un certo distacco se si ha a che fare con degli avversari o delle signore.
Ero stato fotografato con un’aria tremenda, e pensavo che fosse il mio destino: questo a tre anni (avevo un collaretto e un cagnolino, e una lunga carabina a due canne; il fotografo mi aveva sistemato col tutto su una poltrona e uno sfondo) e, allora, a pensarci, e anche perché ero circondato da altri bambini viziati e dispettosi e perché mi prendevano in giro o lo credevo io, ero diventato selvaggio.
A volte avevo talmente voglia di fare pipì che non riuscivo ad accendere una candela. Mentre l’accendevo, la spegnevo.
Questo per il mio quinto, sesto, settimo anno.
Una volta avevo ingoiato un chiodo. « Un chiodo come?… » Mi avevano mostrato delle minuscole punte. « No, un chiodo così ». Li avevo trascinati tutti verso un armadio dove c’erano quei chiodi di ferro che servono ad appendere gli abiti. Era uno di quelli che avevo ingoiato e poteva anche fare nove centimetri. Era successo mentre ci giocavo, come fanno tutti i bambini che mettono in bocca tutto quello che trovano; ed era partito d’un colpo, senza che me ne accorgessi, per una debolezza abominevolmente complice dell’ugola, e l’avevo poi sentito scendere. Avevo pure aspettato tre ore prima di parlarne. E così dopo, quando l’avevano ritrovato – aveva fatto un piccolo rumore secco nel vaso – il dottore che era un po’ scroccone e che era a tavola proprio quel giorno si era fatto delle grandi risate. « Un chiodo così! Porca miseria! Ma lo sapete che solo in tre casi su mille non ci si perfora l’intestino!… Ecco un ragazzo destinato a grandi cose. »